Anime & Manga > Captain Tsubasa
Segui la storia  |       
Autore: SusanTheGentle    04/08/2018    12 recensioni
Ricordo il periodo delle medie…
Nella mia scuola c’era un ragazzo che non parlava quasi con nessuno. Era diverso da tutti i miei compagni, privo di quell’aria anonima tipica degli studenti della Toho, la carnagione un po’ più scura di un comune giapponese, come se avesse passato tutta la vita sotto il sole. E, come il sole, brillava di luce propria. Fu per questo che attirò la mia attenzione.
Lui spiccava prepotente tra la folla, simile a un felino dentro un recinto di pecore tutte maledettamente uguali.
Genere: Romantico, Sportivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Danny Mellow/Takeshi Sawada, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Kojiro Hyuga/Mark, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

2. Di una ragazza e il suo sogno



L'arrivo nella nuova scuola era stato molto meno traumatico di quanto Kira Brighton avesse pensato. Non aveva mai amato particolarmente andarci, ma non era tanto lo studio a disturbarla, quanto la difficoltà a relazionarsi con i suoi coetanei.
In una società dove uscire dagli schemi significava minare l'armonia della comunità, Kira era sempre stata considerata un po' troppo diversa, e per questo suscitava il disagio altrui.
I problemi erano iniziati sin dall'asilo, aumentando mano a mano fino agli ultimi due anni di scuola primaria. La quinta e la sesta elementare (1) avevano suscitato in lei un'avversione tale da portarla quasi a desiderare di continuare gli studi a casa. Se fosse vissuta negli Stati Uniti avrebbe potuto facilmente ottenere il consenso dei suoi genitori – sapeva che era una pratica piuttosto in voga laggiù - ma Kira era giapponese, e sua madre non avrebbe mai speso soldi per un insegnante privato quando poteva benissimo andare a scuola con le sue gambe. La mamma avrebbe detto che era solo un capriccio e lei una sciocca.
Malgrado tutto, Kira non lo avrebbe fatto davvero. Quest'idea era stata, appunto, solo un'idea. Per contro, la mamma non poteva capire il disagio creatosi con i compagni, perché la mamma sembrava una giapponese a tutti gli effetti. Lei no.
Kira aveva sempre pensato che i suoi tratti fossero strani. Il suo viso non presentava linee dolci e tonde, era un po' troppo allungato per essere davvero bello e le gambe avevano qualche centimetro in eccesso. La ragazza giapponese perfetta era piccolina, fine, una bambolina. Lei si guardava e desiderava non essere sempre la più alta della classe; voleva una carnagione lattea come la mamma, il viso dalle guance morbide e tonde come quelle di una ragazzina dolce e carina, con tutte le caratteristiche del caso. Nel suo paese, per essere graziosa e giusta, non era previsto essere brave nello sport quanto e più dei maschi o parlare troppo senza curarsi dell'opinione altrui, come le veniva immancabilmente ricordato dagli insegnanti.
Forse, ora che era una signorina e si apprestava a iniziare la scuola media, avrebbe dovuto correggere i suoi atteggiamenti, diventare più silenziosa e posata. Ma a cosa sarebbe servito? Cambiare dentro non l'avrebbe fatta cambiare anche fuori.
Oltre ai tratti particolari del suo viso, la cosa che saltava subito all'occhio e sembrava creare disturbo agli altri, erano i suoi capelli: castani invece di neri come quelli di mamma, o come quelli delle compagne che la prendevano in giro chiamandola gaijin. Straniera. (2)
Spesso le era stato chiesto se li tingeva. La risposta era ovvia: certo che no!, anche perché non era permesso dal regolamento scolastico. La direttrice della scuola elementare l'aveva tartassata a riguardo. Non venendone a capo aveva chiamato sua madre, per provare che la bambina dicesse la verità nell'affermare che erano sempre stati così.
Ma il vero problema di Kira erano gli occhi...
Lei sognava occhi scuri e profondi invece del colore glaciale che la natura le aveva donato: occhi azzurri chiari, leggermente allungati ma non a mandorla. Ed essi, unitamente al resto, la faceva somigliare davvero a una gaijin.
Ma che colpa aveva lei se qualche lontano avo doveva aver pensato di intercorrere una relazione con qualche bella forestiera? Una volta aveva persino preso in considerazione di telefonare a tutti i suoi parenti per ricreare l'albero genealogico della famiglia, così da venirne a capo. Ma no, troppo caos, troppo lungo e noioso, e poi i parenti di mamma nemmeno vivevano a Tokyo, eccetto la nonna.
Kira si era sempre piaciuta molto da piccola, pensava alle sue diversità come a qualcosa di bello e unico. Ultimamente, però, diventava sempre più difficile accettarsi e farsi accettare.
Io non voglio essere diversa, si diceva. Eppure certe volte voleva. Rifletteva di continuo su quella contraddizione e ne era combattuta.
D'altro canto, il suo aspetto diventava un problema solo quando aveva a che fare con gente troppo stupida per capire l'impossibilità di scegliere come nascere, perché il DNA fa quello che vuole.
La verità era che non aveva preso nulla dalla mamma, lei somigliava a suo padre. Anche lui aveva i capelli castani, seppur di una tonalità molto più scura dei suoi. E Kira somigliava a papà anche per carattere e caparbietà, come non mancava mai di ricordarle la mamma nei momenti in cui aveva qualcosa da rimproverarle.
I suoi genitori erano l'uno l'opposto dell'altra. Spesse volte, Kira si era chiesta come una persona 'forte' come papà avesse potuto sposare una cinica dittatrice come sua madre.
Kira amava in egual misura i suoi genitori, ma con la mamma aveva da tempo un rapporto conflittuale. Il motivo andava a ricongiungersi alla passione sfrenata che la ragazzina nutriva per il pattinaggio artistico, altamente contestato dalla genitrice.
Risa Brighton era la classica donna - e madre - amante delle regole e dell'impeccabilità. Desiderava essere una moglie perfetta, avere uno coniuge perfetto, una casa sempre in ordine, e una figlia obbediente che seguisse le orme dei genitori, laureandosi e trovando un lavoro sicuro per divenire un'adulta seria e responsabile.
Kei Brighton non era spesso a casa per via del suo lavoro presso un giacimento petrolifero in medio oriente, con il quale era impegnato molti mesi all'anno. Risa gestiva un salone di bellezza per una catena di cosmetici e anche lei, quanto a impegni, non scherzava. Kira si ritrovava spesso sola a casa. Quand'era piccola c'era stata la nonna ad occuparsi di lei; ora che iniziava a crescere riusciva a gestirsi anche da sola, cucinandosi i pasti e facendo qualche lavoretto domestico.
Kira ammirava suo padre e adorava i suoi racconti sui paesi esotici che visitava, ma non voleva finire a lavorare all'estero come ingegnere, né aspirava a diventare abile nell'indovinare i colori giusti di fondotinta e ombretti per tutti i tipi di pelle.
Lei voleva diventare una campionessa di pattinaggio artistico.
Era stato così dall'età di cinque anni. Aveva iniziato a quattro con la danza classica su volere della madre, mentre suo padre le regalava un paio di pattini a rotelle definendoli più adatti a lei. Successivamente era passata alle lame da ghiaccio.
Dal primo momento in cui aveva messo piede su una pista di pattinaggio, assaporando la sensazione di scivolare su quella superficie liscia e fredda, non aveva più voluto smettere. Quello sport le era entrato dentro ed era la cosa che più la rendeva felice.
Li per lì, la signora Brighton aveva lasciato che la figlia si iscrivesse a un corso di pattinaggio, credendo fosse una passione momentanea. I bambini si stancano in fretta, aveva pensato. Ma si era sbagliata, e di grosso, anche.
Per sua madre lo sport e i club scolastici erano una perdita di tempo. Invece, Kira si era appassionata e impegnata così tanto che all'età di nove anni aveva sostenuto la sua prima gara nelle regionali giovanili. Nessun risultato eclatante, tuttavia ne era stata così entusiasta da voler tentare ancora.
Sfortunatamente, il corso di pattinaggio non le dava ulteriori possibilità di avanzare come avrebbe voluto. Frequentarlo una volta o due a settimana non era abbastanza, non avrebbe mai progredito a livello agonistico seguitando ad allenarsi in quel modo. Ciò di cui necessitava era un percorso che l'avrebbe portata a migliorare sempre più, aprendole le porte delle competizioni più importanti.
Per questa ragione, tra tutte le scuole medie a cui avrebbe potuto iscriversi, Kira ne aveva scelta una che le permettesse di continuare a praticare quella disciplina sportiva a livelli più alti.
Quella scuola era la Toho.
Tra i suoi club sportivi - che spiccavano per importanza e grado quasi professionistico, tanto da permettersi di iscrivere gli studenti ai vari campionati nazionali - ve n'era uno di pattinaggio artistico di tutto rispetto.
Senza dir nulla a nessuno, Kira aveva studiato come una forsennata per sostenere l'esame di ammissione alla Toho, con un ottimo risultato di quasi cento su cento.
Laddove ci si metteva...
«Quando pensavi di dirci che hai tentato l’esame d’ammissione per una scuola del genere?»
I suoi genitori si erano arrabbiati nel momento in cui si era presentata davanti a loro con la lettera di iscrizione. Scavalcandoli, Kira sapeva di aver fatto male, non avendo tenuto conto dei loro consigli e del loro volere. Ma si era preparata a quell'eventualità, oltre che alle rimostranze di mamma.
«Perché vuoi frequentare questo istituto?»
«Mamma?»
«Sono rimasta piacevolmente stupita del risultato del tuo esame, questo non lo nego» aveva detto Risa Brighton. «Non sei mai stata una gran studiosa, Kira, e saprai certamente che la Toho è un istituto di altissimo livello»
«Con questo non stiamo insinuando che non sarai in grado di star dietro al loro programma di studi» aveva subito aggiunto il signor Brighton, «anzi, siamo molto contenti che tu abbia deciso di impegnarti così tanto; è una delle scuole migliori della città»
«È vero, la Toho School è ottima. Però, dicci la verità» aveva ripreso Risa. «Perché ci vuoi andare?»
Kira aveva stretto i pungi sotto il tavolo al quale stavano cenando. «Perché mi piace quella scuola ed è anche vicina a casa» aveva risposto, ma senza guardarli negli occhi. Al che sua madre aveva intuito che mentiva.
«Kira...»
«Scusa mamma, scusa davvero. Ma se ti avessi detto il vero motivo per cui voglio andare alla Toho non mi ci avresti mandata».
Risa rimase attenta su quel 'ti avessi detto'. Ti...vale a dire tu. A te, ovvero non a papà.
Kei Brighton aveva smesso di mangiare e aveva guardato sua figlia con un sorriso. L'arrabbiatura era sparita.
«Rispondi alla mamma, Kira. Perché vuoi andare in quella scuola?»
«Voi volete che io studi e che mi laurei, ma una scuola vale l'altra, purché lo faccia, no? Così ho pensato che avrei potuto farlo in una buona scuola vicino a casa invece che andare in qualche istituto fuori città»
«E poi...?»
«E...e poi...» Kira aveva riabbassato lo sguardo sulle proprie mani, per poi rialzarlo risoluta. «E poi l'ho scelta perché la Toho ha un team di pattinaggio artistico!»
Kira aveva sostenuto le sue ragioni con forza, sotto il sorriso di papà e lo sguardo severo di mamma.
«Per me va bene, però avresti dovuto dircelo» aveva detto Kei Brighton dopo un attimo.
«Mi sembra una decisione alquanto avventata, nonché un po’ sciocca, dare l’esame per una scuola soltanto perché vuoi far parte di un team sportivo» aveva invece ribattuto sua moglie.
Kira era balzata dalla sedia. «Una studentessa della Toho ha vinto la medaglia d'argento ai campionati nazionali di pattinaggio su ghiaccio, mamma! Una ragazza poco più grande di me! Inoltre, se farò parte del club della scuola non dovrete più accompagnarmi al palazzetto tutte le settimane»
«Lascerai il vecchio team? Non mi sembra un atteggiamento onesto»
«Ho già parlato con l'allenatrice. Era dispiaciuta ma le ho spiegato le mie ragioni e quando ho nominato la Toho si è congratulata della scelta. Dice che da lì sono usciti molti atleti famosi»
«Questo è vero» aveva detto Kei alla moglie. «La Toho è una delle scuole sportive più rinomate delle cinque isole»
La signora Brighton aveva arricciato le labbra in una smorfia di disapprovazione.
«Risa, perché vuoi che nostra figlia rinunci allo sport? È ottimo per i ragazzi della sua età, aiuta a stringere nuove amicizie»
«Non ho affatto detto di volere che rinunci allo sport. Sto solo pensando che lo sport debba venire in secondo piano. Ciò su cui devi concentrarti, Kira, è lo studio, non un hobby»
«Pattinare non è un hobby per me!» aveva ribattuto Kira con enfasi. «Io voglio diventare una campionessa!»
«Non hai ancora tredici anni, non puoi ancora sapere cosa farai nella vita. Inoltre, penso che un istituto con un programma di studio così impegnativo non sia conciliabile con lo sport»
«Una cosa non esclude l’altra. Tantissimi ragazzi studiano sodo e praticano allo stesso tempo qualche sport»
«Sì, però tu sai che non potrai concentrarti solo ed esclusivamente sul pattinaggio»
«Certo, lo so. Te l’ho detto, l’ho fatto anche per far felice te. Studierò, avrò i voti che ti aspetti io abbia, non ti deluderò. La Toho include anche corsi universitari, per cui inizierò le medie e potrò conseguire tranquillamente il diploma e anche la laurea, se è davvero questo che vuoi. Ma tu cerca di capire quello che voglio io, mamma, ti prego».
Kira sapeva che mamma parlava con le migliori intenzioni, ma avevano due concezioni troppo diverse su quale fosse questo meglio. Papà era diverso, papà l'appoggiava e non la rimproverava troppo.
Al termine della cena, la signora Brighton aveva riletto la lettera d'ammissione della Toho School per l'ennesima volta. Non poteva credere davvero che la sua bambina avesse preso una decisione così importante senza consultarla, solo per inseguire un obiettivo incerto. Purtroppo, Kira aveva ragione: se le avesse avanzato una richiesta simile, lei non avrebbe approvato.
«Voglio che tu rifletta sulla scelta che hai fatto».
Ma ormai, Risa non poteva più aver voce in capitolo. A esame sostenuto, Kira non poteva tirarsi indietro.
L'argomento Toho non era più stato toccato per tutto il corso delle vacanze primaverili. Marzo era passato e i ciliegi avevano trasformato i loro boccioli rosa in magnifici fiori. Quello era il periodo dell'anno che Kira amava di più.
Infine, giunse il giorno del debutto alla scuola media...

La sera prima, la signora Brighton entrò in camera di sua figlia sedendo sul bordo del letto. Kira, già pronta per dormire, l'aveva osservata con curiosità.
«Hai preparato tutto per domani?»
« Tutto pronto » rispose la ragazzina, lanciando un'occhiata alla divisa nuova fiammante appesa alla porta, ancora dentro il cellophane della sartoria, così come gliel'avevano consegnata. L'aveva provata solo una volta per poi lasciarla lì in bella vista, dove poteva osservarla ogni volta che voleva. La scuola media – quella scuola media in particolare – rappresentava l'inizio di qualcosa di nuovo. O almeno così sperava. Era andata a prendere tutto l'occorrente con papà prima che lui partisse per il nuovo viaggio di lavoro: una divisa alla marinaretta composta da una giacchetta nera e una gonna a pieghe appena sopra il ginocchio di uguale colore, un fiocco legato sotto il colletto, calzettoni bianchi e scarpe in vernice nere con cinturino. Seria ed essenziale, come quelle di tutti gli istituti privati.
«Ho preso una cosa per te» ricominciò la mamma, senza girarci troppo intorno. Era una donna a cui non piaceva tergiversare. Mostrò a Kira una scatoletta di plastica bianca. «Le ho comprate oggi dopo il lavoro, ho pensato potessero esserti utili. Ovviamente non sei costretta ad usarle».
Con gesto deciso, la signora Risa mise la scatoletta nelle mani aperte di Kira. Lei l'aprì subito senza domandare, ritrovandosi a fissare un paio di lenti a contatto nere.
Lenti a contatto? Sul serio?
«Credo ti risolveranno un bel po' di problemi. Così non si ripeteranno gli episodi degli scorsi anni. Ti va l'idea?»
Kira non sapeva se le andava. No, non le andava per niente, però, alla luce di quanto la mamma aveva detto... Non voleva ricominciare tutto daccapo: le domande, le spiegazioni, le occhiate stranite, le battutine sussurrate...
«Non so metterle» rispose, porgendo di nuovo la scatola alla mamma.
«Ti insegnerò io. Sono lenti usa e getta, dovrai buttarle dopo un giorno. Domani te ne prenderò delle altre. Le ragazze del canale sette le usano spesso ultimamente, sembra che diventerà una moda tra le giovani».
Kira annuì in silenzio, fissando la scatoletta di plastica con risentimento. Le lacrimarono gli occhi quando mamma le mostrò subito come indossarle.
Ma non erano lacrime di bruciore o fastidio, bensì di rabbia.
Perché doveva portare le lenti a contatto? Perché doveva coprire il colore naturale dei suoi occhi? Perché non era nata con gli occhi scuri?
«Dovrai tenerle con cura e stare attenta che non vengano via. Certo, sarebbe molto più facile se non facessi sport»
«Non si leveranno, starò attentissima» assicurò Kira.
«So di avertelo già ripetuto un milione di volte, ma dalle medie il bagaglio di studio aumenterà e sai che è mio desiderio che ti concentri su quello. Non voglio distrazioni, né vederti stressata per sciocchezze come il dover giustificare come sei fatta. Sei d'accordo?»
Madre e figlia si guardarono a lungo in silenzio. Non erano mai state brave a comunicare a parole.
«Grazie, mamma» disse infine Kira, riponendo le lenti con cura nel cassetto del comodino.
La signora Brighton fece per uscire dalla stanza, indugiando ancora un momento sulla soglia. «A proposito...domattina, prima di andare, dovrò mostrarti un'altra cosa»
«Cosa?»
«Ho detto domani. Buonanotte».
Kira dormì bene nonostante l'agitazione, d'altra parte non mangiò nulla percolazione. Le sembrava di avere un sasso nello stomaco e non riuscì ad ingoiare una briciola. Prese la cartella, controllò ancora una volta di avere tutto e seguì la mamma fuori di casa... bloccandosi improvvisamente.
Sul vialetto faceva bella mostra di sé una bicicletta bianca con il suo grazioso cestino di vimini.
«Ma questa...?»
Risa armeggiò distrattamente con la borsetta. «Bé, cosa c'è? Sono settimane che dici di volere una bicicletta nuova per andare a scuola. E poi non avevo ancora avuto modo di farti un regalo per il bel voto all'esame d'ammissione»
Kira impazzì di gioia, saltando al collo della madre. Le stava dicendo che se l'era meritata?
«Grazie, mamma! È bellissima!»
Aveva desiderato una bici per non costringere sempre mamma ad accompagnarla, tanto più che adesso la scuola sarebbe stata solo a qualche isolato da casa. Una bella pedalata ogni mattino non poteva che farle bene oltre a concederle un allenamento extra. A una pattinatrice era utile rinforzare gambe e braccia.
«Posso usarla subito? Ti prego!»
«No, Kira. Per oggi avevamo concordato che ti avrei accompagnata alla cerimonia, quindi prenderemo la mia auto, così potrò andare al lavoro con quella»
«Ma non la usi quasi mai per andare al lavoro»
«Ho deciso così e così faremo. Non permetterò che mia figlia arrivi nella sua nuova scuola in bicicletta, il primo giorno. E poi come dovrei seguirti io? A piedi? Non scherziamo. Su, sali in macchina o arriveremo tardi. La tua bici la potrai usare da domani»
Kira fece un sospiro e obbedì, dando un'ultima occhiata al suo nuovo mezzo di trasporto mentre si accomodava sul sedile anteriore dell'auto.
A domani, mio gioiellino...
L'euforia per quel regalo mitigò l'ansia per ciò che l'aspettava.
La Toho era enorme, come minimo il doppio della sua vecchia scuola. Kira ricordava la sensazione soffocante dell'ultimo anno delle elementari: ogni volta che entrava in classe le si chiudeva la gola, le mancava il respiro. Per contro, anche se ora si trovava in un cortile pieno zeppo di persone tra studenti, professori e genitori, non c'era nessun nodo alla gola a impedirle di respirare.
Sta tranquilla. Non sei più una bambina, sei una studentessa delle medie. Quelle stupide ragazze non sono più qui a prenderti in giro.
Al termine del discorso del preside, Kira si fece scattare qualche foto da spedire a papà, che non aveva potuto assistere alla cerimonia.
«Io vado, sono già in ritardo per il lavoro» le disse poi la mamma, scrutandola attentamente. «Le lenti ti danno fastidio?»
«No, è tutto a posto»
«Bene. Fa la brava»
«Sì mamma, non preoccuparti».
La signora Brighton non baciò la figlia, la strinse solo in un breve abbraccio. Poi, impettita ed elegante come sempre, attraversò il cortile diretta all'auto.
Kira rimase immobile a guardare lei, e poi i ragazzi lì vicino. Tutti salutavano con sorrisi i propri genitori, i quali restituivano con frasi d'incoraggiamento e pacche sulle spalle. Li invidiava un po'. Avrebbe voluto che anche la mamma fosse meno rigida. Ma era sempre sua madre e le voleva un gran bene; aveva persino escogitato quell'espediente delle lenti per risparmiarle domande imbarazzanti e fastidiose. Pregò con tutta sé stessa che il trucco funzionasse non solo quel giorno, ma nel tempo. Sarebbe stato mentire, e se fosse stato per lei le avrebbe gettate via; ma mentire era l'unica cosa che le rimaneva se voleva essere guardata, per una volta, come una ragazza qualunque.
La seconda campanella suonò nel momento in cui varcò la soglia dell'aula. Era finita nella sezione A. Davanti alla piccola folla che componeva la sua classe fece un profondo respiro ed entrò, individuando subito un posto a sedere nell'ultima fila. Notò che tutti sembravano un po' nervosi e questo la rincuorò. Sarebbe stata imbarazzata quanto loro e non avrebbe dovuto nasconderlo.
E se non piaccio a nessuno?
Invece, a qualcuno sembrò piacere, e la simpatia fu subito reciproca.
«Posso sedermi vicino a te?» le chiese una ragazzina con i capelli sulle spalle e leggermente mossi.
Kira sfoderò un sorriso. «Certo!»
La sua compagna di banco sembrava piuttosto timida, perciò Kira ruppe il ghiaccio per prima.
«Piacere, io sono Kira Brighton. E tu?»
«Mi chiamo Jem Edogawa. Piacere mio»
Presentarsi non era stato per nulla difficile, nemmeno quando il professore chiese ad ognuno di fare una breve descrizione di sé davanti alla classe.
All'ora di pranzo, lei e Jem mangiarono vicine, chiacchierando del più e del meno. Cosa più importante, l'altra non aveva ancora domandato il motivo del colore più chiaro dei suoi capelli – nessuno lo aveva fatto.
«Hai già deciso a quale club iscriverti?» chiese Jem. «Ce ne sono parecchi»
«Sì, io farò pattinaggio artistico» rispose Kira con sicurezza.
«Hai le idee chiare»
«Lo pratico da quando andavo in prima elementare»
«Accidenti, che costanza. E sei brava?»
«Beh... sì» Kira arrossì. Non voleva apparire troppo presuntuosa ma era la verità.
Jem parve non curarsene. «Anche a me piacerebbe praticare qualche sport, però non so... Può darsi che verrò con te a dare un'occhiata a quello di pattinaggio»
«Mi piacerebbe se ci iscrivessimo allo stesso club»
Jem annuì. «Sarà divertente»
Kira era speranzosa: che avesse già trovato un'amica?
Quando finalmente suonò la campanella annunciante l'inizio delle attività pomeridiane, balzò come una molla fuori dalla classe.
Jem era molto nervosa, continuava a borbottare e chiedersi se stava facendo la cosa giusta.
«Dopotutto non so pattinare tanto bene...»
«Sta tranquilla. Respira a fondo, così...». Kira chiuse gli occhi ed espirò lungamente, rilasciando il fiato a bocca semi aperta. «Fai entrare aria nei polmoni, ti aiuterà a rilassarti»
Jem si morse un labbro. «Tu sei calmissima» Era una constatazione.
Kira rise e scosse il capo. «No, non è vero. Però so quello che sto per fare, so che lo voglio e che ne sono capace. Questo mi da fiducia in me stessa»
«Io non sono molto sicura di me». Jem si fissò i piedi, abbattuta.
Kira la prese per un braccio, spiccando una corsa verso l'entrata del palazzetto del ghiaccio. «Coraggio, andrà benissimo, te lo dico io!».
Il palazzetto era diviso in due sezioni: da una parte il club di pattinaggio, dall'altra quello di hockey.
Dato che per tenere attiva la pista era necessaria una temperatura inferiore a quella esterna, bisognava indossare delle tenute adatte. Vennero consegnati ad ognuno un paio di pantaloni della tuta neri e una maglia bianca a maniche lunghe con il simbolo della scuola. Sarebbero divenuti la loro divisa da pattinaggio. Ragazzi e ragazze si divisero nei due spogliatoi per cambiarsi, tornando successivamente a bordo pista, dove li aspettavano i loro futuri coach e i senpai già appartenenti al club.
Kira notò che oltre a una buona dose di ragazze vi era anche un nutrito gruppo di maschi.
« Tutti qui, per favore. Silenzio!». Uno dei due allenatori batté le mani e richiamò l'ordine. «Dò il benvenuto a tutti voi. Sono il signor Hiro Kanagawa, e lei è la signorina Sachiko Fukushima. Saremo i vostri coach in questo club che, ci teniamo a precisare, non sarà un semplice circolo scolastico in cui divertirsi. Qui alla Toho School prendiamo molto sul serio le discipline extrascolastiche, soprattutto quelle sportive. In questa prima giornata valuteremo le vostre capacità, in modo da determinare il vostro livello attuale». Kanagawa passò la parola alla sua collega.
«Il nostro club non esclude nessuno. Siamo lieti di insegnare questa disciplina a ragazzi volenterosi come voi. Però, è anche vero che da qualche anno abbiamo costituito un team vero e proprio, che prevede la partecipazione alle varie competizioni annuali. Saremo felici se alcuni di voi riusciranno a raggiungere un livello tale da unirsi a questo team. Siete le giovani promesse del pattinaggio artistico giapponese, uno sport che nel nostro paese non ha ancora raggiunto i massimi livelli. Impegnatevi a fondo e non abbiate paura di sbagliare. Ricordate che tutti i grandi sono partiti dall'ultimo gradino per arrivare in cima alla scala»
Con queste parole, i nuovi allievi si sentirono rincuorati, sorridendosi tra loto e scambiandosi occhiate incoraggianti.
«Molto bene» riprese Kanagawa, «indossate i pattini ed entrate in pista. Faremo un paio di esercizi di prova».
Kira fece il primo passo sul ghiaccio e le sembrò di avere le ali ai piedi. Era il suo elemento, anche se lei amava la primavera.
Uno alla volta eseguirono le richieste dei coach, partendo dalla postura esatta per passare agli esercizi di fondamento; sequenze di passi consistenti in una serie di girate, trottole e salti semplici, esecuzioni basilari che tutti avrebbero dovuto saper eseguire. Troppo presto, però, si scoprì che molti dei ragazzi accorsi non avevano la minima idea di cosa dovevano fare.
Kanagawa fu costretto a dividere il gruppo in due, spostando i più esperti a lavorare con la collega. I senpai stavano a bordo pista ad osservare i nuovi aspiranti pattinatori.
Kira finì nel secondo gruppo, quello dei più esperti, mentre la sua amica Jem nel primo.
«Brighton... Kira Brighton, fermati» la richiamò a un tratto la signorina Fukushima.
Kira frenò a metà del suo esercizio, voltandosi subito verso l'insegnate.
«Mi scusi, ho fatto qualcosa di sbagliato?» Non le sembrava, però...
La signorina Fukushima disse agli altri di continuare, avvicinandosi a Kira con un sorriso rassicurante. «Non era sbagliato, andava più che bene. Ho notato che compi la rotazione dei salti in senso orario e atterri sulla gamba sinistra. Sei mancina»
«Ehm...sì». Era un problema?
«E ho notato anche che hai una buona tecnica e padronanza degli esercizi. Dimmi, da quanto tempo pratichi questo sport?»
«Da quasi sette anni»
La signorina Fukushima rimase stupita. «Capisco... Hai già preso parte a qualche competizione?»
«Ho partecipato alle regionali giovanili. Mi sono piazzata diciassettesima. Non è un gran risultato» ammise Kira, non senza una leggera vergogna. Per quanto si considerasse esperta, non aveva mai vinto nulla.
«Sei molto giovane, la tecnica si apprende con gli anni e l'esperienza»
La signorina la osservò a lungo e attentamente. Quella ragazzina era la migliore del gruppo presentatosi quel giorno. Pattinava con leggerezza e sicurezza, aveva un perfetto equilibrio e controllo del proprio corpo, sapeva come spostarlo, come muoverlo in base ad ogni esercizio eseguito sin d'ora. La padronanza di sé era fondamentale in quello sport, ma c'era più di questo. Sembrava nata per muoversi come una pattinatrice.
«Sai farli i salti puntati?» domandò l'allenatrice, curiosa di testare le sue capacità.
«Sì»
«Puoi farmi un doppio toe-loop?»
«V-va bene». Era il salto più facile tra tutti, l'aveva imparato in fretta.
Senza indugio, Kira prese la rincorsa dal punto in cui si trovava, pattinando prima in avanti sulla gamba destra, poi all'indietro spostando il peso sulla sinistra; puntò i denti della lama del pattino sul ghiaccio, si diede la spinta e saltò. Braccia strette all' altezza del busto per assestare l'equilibrio dell'asse del proprio corpo, due giri in aria su se stessa e atterraggio sul piede sinistro, scivolando indietro spalancando le braccia come le ali di un uccello.
Kira si fermò, chiedendosi se l'allenatrice fosse soddisfatta della sua esecuzione. La signorina Fukushima non aveva smesso di sorriderle.
«Hai un potenziale, Brighton. Cercheremo di sfruttarlo, sei d'accordo?»
«Sì, certo!». Il cuore le batté forte per la contentezza.
«Continua così. Puoi soltanto migliorare».
Kira rimase immobile per qualche secondo, assaporando il significato di quelle parole. Era cosciente di essere solo all'inizio, delle difficoltà che avrebbe incontrato. Per essere un'atleta non solo per passione, ma soprattutto per capacità, non bastava avere un paio di pattini ai piedi ed eseguire i passi giusti. Ci voleva tanta costanza, tanto tempo e tanta fatica per padroneggiare la perfezione. Lei era equipaggiata con basi solide che aveva potenziato non solo durante le due ore settimanali del vecchio corso, ma anche individualmente. Sapeva di aver sempre avuto la giusta conformazione fisica e le doti innate per fare quello che faceva.
Dannazione, al diavolo la modestia: era brava e l'avrebbe dimostrato a tutti.

 

Il signor Sugimoto, famoso per i suoi oden in tutto il quartiere, si costrinse a chiudere il chiosco per un pomeriggio intero tanti petali c'erano nell'aria. Non voleva rischiare di offrire ai suoi clienti un piatto condito con salsa di soia e petali di ciliegio in omaggio offerti dalla casa.
Mark passava ogni mattino a salutarlo prima della scuola. Amico di vecchia data della famiglia Lenders, Sugimoto aveva conosciuto suo padre da ragazzo, a scuola; le strade si erano divise per poi tornare ad incrociarsi di nuovo quand'erano stati adulti.
Il signor Sugimoto era stato un aiuto prezioso per la famiglia Lenders dopo che John era morto. Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere, economicamente e non, senza che gli si chiedesse nulla. La madre di Mark diceva sempre che non avrebbe mai potuto ripagarlo come avrebbe voluto, Ma Sugimoto non aveva voluto indietro un soldo, era la classica persona di cuore che dava senza ricevere e senza pentirsi mai.
Per non smentirsi, una mattina diede a Mark un sacchetto di carta marrone colmo di petali di ciliegio.
«Dalli a tua madre, così potrà fare una buona marmellata, di quelle sue»
«La ringrazio, glieli darò dopo la scuola»
«Tua madre è la più bava del mondo a fare marmellate»
Era una verità di quelle inutili da affermare, ma Mark annuì ugualmente.
«Allora, ragazzo, come ti vanno le cose nella nuova scuola? Sono già due settimane, ormai» chiese Sugimoto, arrotolando la tenda del chiosco.
«Vanno bene. Mi sto ambientando nella nuova squadra»
«Ah, certo, certo, la tua squadra!» esclamò Sugimoto con fierezza, quasi ci giocasse lui.
A dirla tutta, Mark non la sentiva ancora propriamente sua, ma era pur vero che era stato eletto capitano all'unanimità e i suoi nuovi compagni erano ragazzi a posto.
«Mi raccomando, impegnati al massimo, Mark. Questo è il primo passo verso una grande carriera!»
«Lo spero davvero. Però, al momento, preferisco camminare un passo dietro l'altro»
Sugimoto annuì più volte. «È giusto. Hai detto una cosa molto saggia. Ma pensa anche a divertirti, eh, non solo a studiare e giocare a calcio. Sai cosa voglio dire, vero?»
No, in realtà non lo sapeva. Per Mark era il calcio il suo divertimento. Quanto allo studio, non c'erano problemi finora.
«Dimmi una cosa». Il signor Sugimoto gli mise un braccio intorno alle spalle con fare cospiratorio. «Con le ragazze come sei messo? Hm?»
«Con le...?» Ma sul serio?
«Su, figliolo, a me puoi dirlo»
«Ehm...Ora devo andare, se no perdo il treno»
Sugimoto scoppiò in una risata. « Ho capito, non vuoi rispondere. Non fa niente, vedrai che ci sarà l'occasione anche per quello. Buona scuola, e salutami la mamma!»
«Senz'altro». Mark si allontanò di fretta, prima che a Sugimoto venisse un'altra brillate domanda in mente.
Ragazze? Veramente era convinto che lui pensasse alle ragazze?
Primo, non ci pensava. Secondo, non ne aveva bisogno. Terzo, se le ragazze erano tutte come le sue compagne di classe, meglio soli che mal accompagnati.
La sua testa era concentrata sullo sport, era sempre stato così e non aveva alcuna intenzione di cambiare atteggiamento in proposito.
Mark aveva sempre pensato che fosse Ed il più adatto a trovarsi una ragazza tra di loro. In generale, Warner non era granché prolisso con la gente, ma dalla sua aveva cordialità e una nutrita dose di buonsenso. Sapeva quando parlare e quando tacere - aveva le sue uscite, ma si trattava per lo più di impulsività pronunciate in circostanze dove la collera prendeva il sopravvento - al contrario di Mark, che con la gente proprio non ci parlava e, in quanto ad autocontrollo, necessitava di un corso accelerato.
Anche Danny avrebbe avuto delle possibilità se non fosse stato così insicuro col gentil sesso.
Ma Mark no. Le ragazze non gli si avvicinavano pur se alcune avrebbero potuto trovarlo bello. Non che ci facesse caso... Più spesso lo definivano troppo rozzo e insolente per catalogarlo tra i maschi interessanti. Non che la cosa gli desse fastidio, anzi, più stavano lontane meglio era. Se pensava a Patty, non invidiava Holly: isterica, chiassosa, appiccicosa. In una parola: fastidiosa. A onor del vero non la conosceva poi molto bene, ma da quel poco che aveva visto di lei, questa era stata l'impressione suscitatagli dal capo della tifoseria della New Team.
E a proposito di New Team... era venuto il momento di pensare al campionato nazionale. Mancavano quattro mesi, ma per esperienza Mark sapeva che l'estate sarebbe arrivata in un baleno, affacciandosi a una simbolica finestra per avvertire che era ora di una nuova sfida.
La soddisfazione all'idea che Hutton si trovasse impreparato alla nuova squadra, alle sue nuove tecniche, gli mandò un scarica di adrenalina in corpo. Salì le scale della metropolitana palleggiando con le ginocchia, senza mai far cadere la palla. Qualcuno si girò ammirato a guardarlo, altri protestarono per la poca considerazione dei giovani d'oggi.
«E' pericoloso giocare in mezzo alla strada!» gli gridò un impiegato impettito agitando la valigetta.
Mark gli rispose con un veloce «Mi scusi», continuando dritto per la sua strada. 
Colpì la palla di testa, la stoppò di petto e la portò sui piedi, iniziando la solita corsa del mattino lungo il viale alberato che portava a scuola. I petali danzavano allegri, alcuni fiori cominciavano a lasciare il posto alle foglie verdi. Aprile andava verso la sua fine. Mancava poco meno di un mese all'inizio delle partite eliminatorie di distretto.
«Questa volta ti batterò, Oliver!»
Con la strada deserta davanti a sé, Mark spedì il pallone dritto verso il muro di una grande casa dall'altro lato della strada, accanto alla curva. La forza del tiro costrinse la palla a una specie di gioco solitario al rimbalzo, da una parete all'altra del viale, poi di nuovo verso la curva. Prima di perderla d'occhio, Mark balzò in avanti, la gamba destra tesa per calciare nuovamente, con tutta l'intenzione di spedire la sfera alta nel cielo. E proprio nel momento in cui il pallone iniziava la sua ascesa verso l'azzurro, dalla curva della strada spuntò una bicicletta. Mark - testa all'indietro, occhi diretti al cielo, la gamba destra ancora tesa in avanti - la vide solo quando la ragazzina che guidava urlò: «Togliti di lì!»
«Ma che…!» Mark sgranò gli occhi dallo spavento.
«Spostati, spostati!»
Mark cercò rapidamente di appiattirsi contro la parete, augurandosi di non essere travolto dalla bici. La ragazzina riuscì a schivarlo all'ultimo secondo, peccato non si potesse dire lo stesso sul tempismo con cui frenò. Mark la vide perdere il controllo della bici e finire dritta dritta giù dal pendio erboso che portava verso il fiume, sempre più veloce, sempre più veloce, finché sparì alla sua vista.
SPLASH!
«Oh, porca...!» Mark si rimise in piedi, correndo appresso alla sconosciuta.
La ragazzina se ne stava semi sdraiata in mezzo all'erba della discesa a massaggiarsi il fondoschiena. Aveva ginocchia e gomiti sbucciati, il contenuto della cartella sparso per il prato... insomma, un disastro!
Per lo meno non era finita dentro il fiume, pensò Mark, al contrario della sua bicicletta...povero rottame giacente immobile tra le acque placide, il cui unico segno di vita era una sgangherata ruota anteriore che girava su sé stessa.
«Ehi, tu! Tutto bene?»
La ragazza alzò il viso in sua direzione. Esitò un istante prima di rispondergli, tastandosi il corpo qua e là. Mark notò in quel momento che indossava la divisa femminile della Toho School.
Lei non sembrava ascoltarlo, stava invece guardandosi introno con frenesia. Quando infine realizzò l'accaduto, schizzò in piedi ed emise un gemito disperato.
«No che non va bene! Oh, che disastro!» esclamò, mettendosi letteralmente le mani nei capelli. «La mia bella bicicletta nuova!»
«Mi sa che ti tocca comprarne un’altra» commentò Mark, facendo qualche passo in avanti per recuperare il pallone da calcio, finalmente tornato sulla terra.
Ancora, lei lo ascoltava a metà. Come in una specie di trance, la ragazza si incamminò con passo leggermente zoppicante verso la riva del fiume, continuando a parlare da sola.
«Non ci posso credere! Ce l’ho da appena due settimane!» borbottò. «E adesso cosa faccio? Mamma mi ammazzerà!»
La ragazza tolse scarpe e calze ed entrò in acqua. Con una mano sollevò di un poco la gonna della divisa per non bagnarla, mentre con l'altra tentava di raddrizzare il mezzo.
Guardandola, Mark pensò che non era tutta a posto. Una persona normale si preoccuperebbe prima della propria incolumità, lei invece pensava alla bicicletta. D’accordo, era una bella bici, si vedeva che era nuova fiammante, col suo grazioso cestino sul avanti, lo smalto lucido – beh, non più tanto lucido ora che stava nel fiume, ma comunque…
«Senti, guarda che stai sanguinando» provò di nuovo, e stavolta ottenne la sua attenzione.
La ragazza studiò per la prima volta con attenzione il proprio stato. «Non è niente di grave. Piuttosto, aiutami a tirarla fuori dall'acqua. Non ce la faccio da sola»
Mark lasciò il pallone e la cartella sulla riva. Imitandola levò scarpe e calze, arrotolando i pantaloni sui polpacci. In quel punto, l'acqua arrivava appena sotto le ginocchia. Era una gran seccatura a dirla tutta, però non poteva lasciarla lì.
«Certo che hai fatto proprio un bel volo»
Lei gli regalò uno sguardo furioso. «E’ tutta colpa tua!»
«Veramente hai fatto tutto da sola»
«Se non fossi sbucato dal nulla non sarei caduta»
«Sei tu che mi hai tagliato la strada, ragazzina!». L’atteggiamento di Mark cambiò come un cielo in tempesta. Lui l'aiutava e lei lo aggrediva. Bel ringraziamento, davvero. «Non ti hanno insegnato a rispettare i segnali stradali?»
«E a te non hanno insegnato a non giocare per strada? » ribatté lei sul piede di guerra. «Tutto questo è successo per evitare che ti tranciassi una gamba! Se non avessi avuto quello stupido pallone… »
«Stupido pallone?» Questo era troppo.
«Sì! Stupido! Non guardavi neppure dove mettevi i piedi, guardavi solo la palla!»
«E tu guardavi per aria! Ti ho vista, sai?»
«Casomai guardavi per aria tu! Io guardavo il tuo stupido pallone arrivare da non so dove!»
L'aveva detto ancora! L'aveva detto!
Se ci fosse stato Holly le avrebbe spiegato che il pallone era un amico, lei non avrebbe assolutamente dovuto insultarlo dandogli dello stupi...
Che cavolo dici, Lenders!
Che discorsi partoriva la sua testa?! Si metteva a ragionare come Hutton, adesso? Mai!
«Stammi a sentire, piccola ingrata: tu e la tua bicicletta siete stupide, tanto per cominciare! E sai che ti dico? Avrei anche potuto aiutarti ma, dal momento che mi stai insultando, la tua bici te la riporti sulla strada da sola!»
Mark abbandonò l'atteggiamento cordiale. Le voltò le spalle e a gran passi tornò sulla riva, si rimise le calze, le scarpe, riprese cartella, pallone e s’inerpicò per la discesa.
«Ehi! Torna indietro!» gridò lei da lontano.
«Te lo puoi scordare!».




*** *** *** *** ***

Note:

1. Le elementari in Giappone durano sei anni (dai 6 ai 12). Le medie tre (dai 13 ai 15 anni), tre anche le superiori (dai 16 ai 18). L'università dura in media quattro anni.

2. "Gaijin" significa letteralmente “persona esterna” (al Giappone). Usato anche in termine dispregiativo per indicare gli stranieri. Prende un significato più duro rispetto al termine ufficiale “gaikokujin”, che significa “persona di una terra esterna (al Giappone)”.

*** *** *** *** ***

 - Spazio Autrice -

Perdonate se ci ho messo molto per pubblicare il secondo capitolo, ma in quanto volontaria presso una colonia felina sono stata impegnatissima con i piccoli pelosi appena nati *^*
Ma veniamo a subito a noi, ho diverse cose da dire...
Non ho parlato molto di Mark in questo capitolo, perché era doveroso introdurre come si deve la protagonista femminile della storia. Io non so quante di voi non sopportino Maki Akamine ma...ecco, io non la reggo proprio, per cui ho sentito la necessità di inventare Kira. Chiedo scusa a chi invece piace Maki, ma io proprio...mmmbheeee, no. Addio e arrivederci.
Come vi è sembrata invece Kira? Tengo molto al parere dei lettori, perciò fatemi sapere che impressione vi ha fatto. Ho scelto di farle praticare il pattinaggio su ghiaccio perché lo amo, amo guardare le competizioni ma non pretendo di essere un'esperta. Cercherò di scendere nei dettagli di questo sport come meglio posso e senza essere tediosa, perché spiegare per filo e per segno come si esegue un solo salto o un passo del pattinaggio è veramente difficile. Se tra di voi c'è qualcuno più esperto di me, si faccia vivo!

Per quanto riguarda i canoni di bellezza giapponesi, di cui ho letto in vari articoli, sono molto diversi dai nostri. Se in occidente una ragazza alta, con le gambe lunghe e formosa è considerata il top, per i giapponesi la vera bellezza femminile è avere un corpo piccolo e delicato, pelle chiara e modi di fare gentili, timidi e affabili. Una ragazza che esce da questi canoni non sarà apprezzata per la sua diversità, al contrario! Per la cultura giapponese, se un giapponese -attenzione, non un occidentale, ma uno di loro - esce dalla canonicità, è generalmente escluso. Come ho scritto nel capitolo, l'essere sopra le righe disturba quel che noi chiameremmo 'quieto vivere', la normalità, e in Giappone l'armonia tra i membri della società è tutto. Ovviamente ci sarà anche chi apprezzerà la diversità o addirittura non ci fa nemmeno caso, soprattutto oggigiorno. Comunque calcolate che la mia fanfiction sarebbe ambientata più o meno tra gli anni ottanta e novanta, e i comportamenti dei ragazzi, quanto lo stile di vita e le abitudini, erano molto diversi.
Kira non l'ho immaginata esattamente statuaria (la disegnerò), però ha diversi problemi con il suo aspetto. Ho voluto renderla 'diversa' per alcuni motivi che capirete più avanti.

Un'ultima cosa, poi vi lascio. Mi sono resa conto di non aver detto cosa significa il titolo di questa storia XD (il tontismo acuto). Sperando di averlo tradotto correttamente, “Haru no toki” vuol dire “Il tempo della primavera”, o “il momento della primavera”. Il perché ho scelto questo titolo lo lascio per la prossima volta, ho già scritto troppo!

Se volete lasciare un commento, mi farebbe piacere ^^
Vado a sognare il mare, lunedì parto! Holydays!!!

Ringrazio tutte voi che avete iniziato a leggere questa storia. Alla prossima!

Susan♥

   
 
Leggi le 12 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Captain Tsubasa / Vai alla pagina dell'autore: SusanTheGentle