Capitolo 2
Il tempo
16 dicembre 1937
Nulla era
rimasto com’era. Questo
faceva più male di ogni cosa. Erano spariti i quadri e gli
immensi arazzi,
l’inquietante ritratto sopra al camino e il grande orologio a
pendolo. Solo il
pianoforte di Lucille era al posto di sempre, ombra minacciosa che la
fissava dall’angolo.
Edith, per un momento, sperò che il fantasma della donna si
materializzasse
davanti a lei. Si sforzò di evocare nella sua mente
l’immagine austera ed
elegante della cognata, avvolta negli abiti stretti e sontuosi che
aveva
sfoggiato con orgoglio e tristezza. Vestiti di un altro secolo, di un
tempo
perduto.
Si accese una
sigaretta e alzò la
testa verso il soffitto da cui una volta colavano assieme il cielo
freddo e la
pioggia, la neve e le foglie portate fin lì dalla brughiera,
per poi abbassare
gli occhi miopi sul parquet restaurato che nascondeva il segreto di
quell’argilla rossa che continuava a traboccare inclemente.
L’ossessione di
Thomas, il sogno perduto per cui aveva sacrificato ogni momento della
sua
giornata, cui aveva immolato il cuore e la testa, la ragione e
l’onore. Chiuse
le palpebre, si massaggiò con due dita guantate le tempie.
Si rivide come la
giovane sposa innamorata che era stata, tornò in quella casa
recuperando
l’immagine di quando cadeva a pezzi e tutto era marcio: le
mura, il pavimento,
le assi crollate del soffitto. Thomas.
Ricordava il punto d’azzurro dei suoi occhi, la piega del suo
sorriso laterale,
il profilo elegante e affilato, ma la voce, quella, era svanita. Un
suono
perduto e irrecuperabile, perché il timbro di coloro che
abbiamo perso è ciò
che sfugge più rapidamente dalla nostra memoria. A meno che.
“C’è
un fonografo qui, dei dischi di
cera?”
Una domanda
fatta con un tono
disinteressato volto a mascherare l’ansia che,
improvvisamente, le serrava la
pancia. Il giocattolo di un’ereditiera sola e annoiata,
avvelenata in quella
stessa casa decenni prima, avrebbe potuto, di nuovo, salvarla,
restituendole il
suono perduto della voce del suo amore lontano, eternamente giovane e
disperato
(1). Era invecchiata, Edith Cushing. Il tempo degli amanti era finito,
scivolato via insieme alla Grande Depressione che si era portata con
sé Alan. Morto
lontano da lei, nel letto di un’altra che le assomigliava fin
troppo, sposata
per raddrizzare una vita altrimenti storta e sprecata. Un altro dei
suoi
fantasmi che non sarebbe venuto a tormentarla, punendola con
un’eterna assenza.
“Non
c’è più niente, signora Cushing.
I precedenti proprietari si sono disfatti di tutto, ogni
cosa.”
L’inserviente
le aveva risposto in
maniera stupita e, allo stesso tempo, scocciata. Nessuno ha voglia di
ascoltare
le follie di una vecchia eccentrica e sola. Il tempo dei successi
letterari e
delle foto era svanito insieme alla sua bellezza. Il mondo attorno a
lei si
incupiva, caricandosi ogni giorno di ombre sempre più scure,
e la gente non
voleva più leggere di vampiri, mostri e fantasmi. Era in
cerca di altro perché
doveva ancora esorcizzare la Grande Guerra e il crollo della borsa che
aveva
inghiottito anche parte dei suoi risparmi. E, come molti scrittori,
Edith aveva
una sola storia da raccontare, la sua.
Poteva cambiare
la città,
l’ambientazione, il periodo storico, i tratti del volto, i
nomi: non importava.
Era e sarebbe rimasta per sempre vittima del fascino della vicenda che
le aveva
macchiato le mani di sangue e d’inchiostro, schiava in eterno
degli occhi
azzurri e tristi del baronetto inglese che l’aveva sedotta e
amata in un
intrico inscindibile di passione e interesse. I professori di
letteratura che
tenevano ancora lezioni intere su di lei, solevano ricordarle, in
lunghe e
tediose missive, che i grandi autori non hanno molti temi su cui
scrivere. C’è
chi racconta il dramma della periferia urbana, chi si concentra sui
traumi
della guerra, chi sulle differenze sociali: ma in fondo è
sempre la stessa
storia a essere scritta. A quelle lettere, Edith non rispondeva mai.
16 dicembre 1946
I fantasmi
esistevano. Questo, Edith
l’aveva sempre saputo. Erano come insetti intrappolati
nell’ambra, eventi
destinati a ripetersi ora e per sempre, perennemente in preda alle
emozioni
che, in morte, si erano impresse su di loro (2). Come le immagini color
seppia
sulla lastra di un dagherrotipo, le fotografie sulla pellicola di un
rullino.
Anche Thomas era un fantasma. Morto per salvare lei, espiando
l’inganno bieco con
cui aveva tentato di intrappolarla. Ma non le appariva più,
anzi; non le era
mai apparso.
Lucille no. Lei
suonava al mattino
svegliandola dal suo sonno leggero e inappagante, ombra nera che si
stagliava
nella luce fioca dell’alba. Sua cognata morta gestiva ancora
Allerdale Hall; il
suo viso pallido e severo la accompagnava dall’alba al
tramonto sfoggiando una
neutralità devastante. Il colpo che l’aveva uccisa
non pareva aver lasciato
traccia alcuna sulla sua ombra altera, e sembrava, anzi, che il fatto
di
ritrovarsi nella stessa casa con la sua assassina non le suscitasse
nient’altro
che indifferenza. (3)
All’inizio,
Edith aveva parlato,
gridato, pianto, accusato. Armata di tutto il suo coraggio, le aveva
detto di
farsi avanti ancora una volta. Non aveva avuto paura di lei
quand’era una
ragazzina spaurita e non l’avrebbe avuta adesso, che era una
donna adulta e
smaliziata. Lucille Sharpe l’aveva fissata accennando
nient’altro che un
pallido sorriso. Edith aveva lasciato Crimson Peak in fretta per
tornare negli
Stati Uniti. Che Allerdale Hall rimanesse preda dei fantasmi che
l’avevano
sempre abitata. (4)
Lucille
sorrideva ancora, quando
Edith varcò di nuovo la soglia dell’antica dimora
degli Sharpe. Il suo era un
sorriso mesto, consapevole, carico di una neutralità
agghiacciante. Le sembrò
che avesse l’espressione di chi osservasse semplicemente
qualcosa di già
vissuto e visto e così, in effetti, era: aveva
già attraversato la soglia di
Crimson Peak due volte, di cui una tra le braccia del suo amore
perduto. Thomas. Viso recuperato
con l’inchiostro
e la penna, cercato in altri amori che del primo non erano che
l’eco storpiata.
Ragazzi spiantati e volitivi, talvolta poveri e intelligenti o
ambiziosi e
vanesi che l’avevano amata per il suo nome e i suoi soldi,
come aveva fatto lui, per poi
tradirla con fidanzate e
altre amanti tenute nascoste, di nuovo.
Nomi che negli anni si erano confusi uno con l’altro nella
mente di Edith, fino
a svanire insieme alla giovinezza. Amore pagato e comprato per cui si
era meritata
il biasimo dei suoi detrattori, ma che non aveva rinnegato mai
perché se un
uomo importante poteva consolarsi con una ragazza più
giovane poteva farlo
anche lei. Discorsi, questi, che aveva pronunciato senza essere
contraddetta
solo nei circoli di artisti che frequentava al tempo, tra pittori
affamati di
gloria, pennivendoli e scrittori che cercavano l’ispirazione
dentro una
bottiglia di whisky. Uomini dabbene come Alan avrebbero detto che
ragionava
come una puttana.
I fantasmi
esistono, questo Edith
l’aveva sempre saputo. Era tornata a Crimson Peak con il viso
segnato dall’età
e dalla stanchezza e la schiena curva, ma il suo cuore era rimasto
quello della
ragazza che voleva diventare una scrittrice, e le sue dita indolenzite
dall’artrosi battevano ancora rapide sulla Remington che
usava per scrivere,
ancora una volta, la storia della sua vita con un colori sempre
diversi. Lucille
l’aspettava a mani giunte sulla soglia di Allerdale Hall,
severa e compita
com’era sempre stata. In cosa era intrappolata, Lucille?
Perché non l’aveva
terrorizzata e avversata, limitandosi, invece, a divenire una presenza
muta e
costante delle sue solitarie giornate? (5)
Si era detta
che, forse, stava
diventando pazza; il suo cervello abituato a elaborare trame doveva
essersi
inceppato, replicando immagini del passato e proiettandole davanti
ricordi
antichi. Un vento freddo spazzava la brughiera desolata e triste,
scompigliando
alcune delle sue ciocche bianche. Si avvicinò allo spettro
di Lucille ricordandosi
che l’aveva uccisa con un colpo di pala e si decise a
porgerle la domanda
essenziale, quella che da quando aveva ricomprato Allerdale Hall le
premeva
sulla gola e aveva mancato di farle quand’era scappata.
“Dov’è
Thomas?”
A Buffalo, da
giovane, Edith si era
convinta che la propria grafia tondeggiante tradisse il suo essere
donna. Per
nascondere le ipotetiche tracce della sua mano gentile, aveva chiesto
di poter
ribattere a macchina il suo romanzo nell’ufficio del padre:
Thomas era entrato
all’ennesimo capoverso e, scorgendola, si era tolto il
cappello. (6)
Cosa
l’aveva affascinata, quel
pomeriggio lontano? La bellezza triste del suo sguardo,
l’accento inglese, i
modi di fare eleganti e raffinati? L’immagine del baronetto
non era che
l’impronta sbiadita di un ricordo sfocato, di cui riusciva
ancora a ricostruire
i dettagli, ma senza vederli davvero. C’era stato un tempo in
cui una
fotografia del marito perduto era custodita in un medaglione che
portava sempre
al collo: un giorno aveva perso il gioiello, e a Crimson Peak non era
rimasta
nessuna immagine di Thomas.
Non era stato
quando si era tolto il
cappello con un gesto fluido del braccio, che l’inglese aveva
fatto breccia nel
suo cuore, ma quando aveva preso tra le dita le pagine sfuse del suo
romanzo e
le aveva lette con avidità e attenzione. Puntandole addosso
i suoi occhi chiari
e intensi, le aveva posto una domanda secca, decisa. “Lo
avete scritto voi?”
“Lucille,
dov’è Thomas?” Lo chiese –
ripeté per l’ennesima volta – al
fantasma dal viso di porcellana e dal sorriso
enigmatico che sostava poco oltre la soglia dello studio e quella
rimase a
fissarla muta, immobile. Eppure, stringendo le palpebre nascoste oltre
le
lenti, Edith vide lo spettro della cognata fissare un punto preciso
accanto a
lei; seguendo quello sguardo che la morte non aveva reso meno feroce,
incontrò
le bozze di un romanzo che forse non avrebbe mai finito. La domanda
rimase
sulle sue labbra un tempo dolci, ora severe e piegate verso il basso. Sei qui, amore mio? In ogni pagina, riga e
ombra?
Le dita ormai
artritiche di Edith
sfiorarono la carta scritta fittamente. Lucille si limitava a tenerle
quella
sua compagnia malsana priva di parole: come quand’era ancora
viva, la rabbia e
la follia si celavano dietro un tè servito con impeccabile
grazia, una carezza
sbrigativa e leggera. Forse anche lo spettro della donna travestita da
dama
dell’Ottocento soffriva per l’assenza di Thomas.
Allerdale Hall era invecchiata
di nuovo e stava iniziando a scricchiolare sotto il peso della neve e
la forza
del vento del Cumberland, tanto che Edith aveva cominciato a pensare
che
l’enorme casa stesse tornando lentamente a essere quella cosa
viva che
respirava e pulsava e grondava sangue come se non fosse una costruzione
fatta
di mattoni, legno e pietra, ma un essere vivente con un cuore e un
cervello. E
le andava bene così. Distolse lo sguardo dalla figura severa
di quel ricordo
che ancora scivolava tra le mura del palazzo e fissò un
punto oltre alla
finestra.
“Oh
Lucille, lo stai aspettando anche
tu, non è vero?”
16 dicembre 1957
Quando il vento,
da nord, soffiava
impietoso sulla valle desolata su cui sorgeva, immota eppure viva,
Allerdale
Hall, un rumore sinistro echeggiava per l’ampia dimora.
Così era stato, quando
solo la luce fioca e traballante delle candele illuminava quelle vaste
sale, e
così era persino ora, che finestre spesse fermavano
l’aria gelida e la luce
elettrica illuminava ogni cosa.
“Signora
Cushing possiamo
cominciare?”
Edith strinse
gli occhi, provando a
mettere a fuoco, oltre il velo di nebbia che le offuscava la vista, la
giornalista
americana venuta ad intervistarla. Daisy McHorn. Capelli castano
chiaro, occhi celeste
pallido grandi e rotondi cerchiati da una riga diritta di eyeliner che
per
Edith non era che una macchia sfocata. Gettò uno sguardo
fugace al pianoforte
oltre la ragazza e poi un poco più in alto, tanto che
l’infreddolita Daisy si
voltò pensando che fosse improvvisamente entrata una
cameriera.
“Signora
Cushing,” incespicò la
ragazza, “cosa pensa dell’idea che possa essere
realizzato un film su Crimson Peak?”
Edith Cushing
giocherellerò con un
lembo del plaid che le copriva le gambe. La sua fortuna si era
dissipata, era
sparita dietro vizi e passioni, si era esaurita in quella casa che
respirava a
ogni soffio di vento accartocciandosi e dilatandosi, era gocciolata via
insieme
alla salute sempre più instabile che i medici di Londra e
New York non erano in
grado di ripristinare. Né era giusto che lo facessero, del
resto. Lei non era
che l’ombra avvizzita di ciò che era stata;
un’anima appassionata e una mente
vivace rinchiuse dentro il corpo malandato di una vecchia strega
avvizzita,
costretta per sempre a confrontarsi con la bellezza eburnea e senza
tempo della
sua unica e vera rivale: Lucille. (7)
Forse consisteva
in questo, il motivo
della presenza della cognata folle al suo fianco. Lady Sharpe era
rimasta
intrappolata nella sfida mortale che le aveva viste una contro
l’altra e doveva
tormentarla ricordandole ogni giorno quanto stesse diventando debole e
folle.
Rispose alla giornalista che era felice di sapere che Crimson Peak
sarebbe
diventato un film; che con la casa di produzione avevano concordato un
adattamento di suo gradimento, che il regista aveva una visione che lei
adorava
e gli attori che avrebbero interpretato i protagonisti della storia
erano delle
stelle, dei divi che lei apprezzava.
Tutte menzogne.
Aveva ceduto i
diritti per necessità, dopo che Hollywood le aveva fatto una
corte serrata per
anni. Stritolata dai debiti, si era ritrovata di fronte alla
necessità di
snaturare – violentare – la sua opera mettendola in
mano a un gruppo di squali, che
ironia, vogliosi solo di
spremere la sua storia per renderla la favoletta oscura e morbosa con
cui
turbare ragazzine e casalinghe (8). Crimson
Peak sarebbe stato offeso, stracciato, vilipeso, cambiato per
permettere ai
produttori di incassare dollari su dollari e a lei di essere seppellita
in
maniera degna. Forse, in verità, la cosa che realmente la
infastidiva non era
che il suo più grande successo fosse messo su pellicola, ma
che Thomas venisse
rappresentato e si fissasse nell’immaginario collettivo con
il viso abbronzato
di un altro. Di uno il cui spirito non vibrava di orgoglio e desiderio,
gentilezza e terrore, follia e abnegazione.
In piedi di
fronte a lei, a Buffalo,
una disperata sera lontana nel tempo Thomas l’aveva guardata
e, a denti
stretti, aveva detto che lei non sapeva niente dell’amore. E
aveva ragione.
Continua…
L’angolo
di Shilyss
Caro Lettore,
Devo ringraziarti per
essere giunto in una sezione poco animata di Efp e aver letto questa
storia.
Contro ogni mia aspettativa, ho ricevuto diversi consensi per questa
idea. Voglio
ringraziare chi ha preferito/ricordato/seguito e commentato,
nonché chiesto sui
social di proseguire a scrivere. Grazie e… fatemi sapere
cosa pensate di questa
svolta e nutrite la Fatina ^^
Vuoi più
Shilyss nella
tua vita?
Ogni settimana ti
domandi quale storia aggiornerò interrogando i tarocchi, i
fondi del caffè o le
Rune? Vorresti sapere con precisione il momento in cui posto?
Ti piacerebbe
conoscere
anteprime e curiosità, sapere quali altre trame sto
elaborando e come immagino
il mio mondo con foto eccetera, ma non vuoi interagire su questa
piattaforma?
Ebbene, forse ho un
presente per te. Shilyss approda sui social. Vinci la timidezza e
seguimi in
questo magico mondo delirante ricco di avventure! Potrai
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1 Come ricorderete,
ad
Allerdale Hall c’erano dei dischi di cera contenenti delle
registrazioni di Thomas
e di una delle sue ex mogli. I dischi di cera sono gli antenati dei
vinili, in
soldoni.
2 Questa battuta
è un
calco preso dal film.
3 Come ricorderete,
alla
fine del film Edith uccide Lucille per salvarsi la vita.
4 La casa di Crimson
Peak è abitata da numerosi fantasmi, come ammette anche
Thomas Sharpe nel film.
5 Eh sì,
la Remington
non fa solo piastre per capelli! Un tempo produceva anche macchine da
scrivere.
6 Edith, come
ricorderete, sta rievocando un evento del film.
7 Chi ha visto il
film
ricorderà la natura particolare che
legava Thomas e Lucille. Qui c’è un vago accenno.
8 In un’intervista
il
regista Guillermo Del Toro dichiarò che il nome Sharpe fu
scelto per l’assonanza
con la parola shark, in inglese
“squalo.”