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Autore: shilyss    18/09/2018    8 recensioni
Ecco a voi una raccolta di shot legate alla fanfiction "Tutte le tue bugie." Nonostante alcuni riferimenti alla long fic, potete leggere i vari capitoli anche considerandoli come testi scollegati rispetto alla storia madre.
Dal capitolo 1: Se Loki fosse stato meno sarcastico, se nei suoi occhi chiari Odino avesse visto l’ombra di un sincero pentimento, le cose sarebbero potute andare diversamente. Ma Lingua d’Argento era stato sprezzante e tronfio e si era presentato ammantato di tutta la sua feroce eleganza di fronte al padre adottivo che non lo aveva chiamato figlio, ma prigioniero. Un altro imperdonabile errore dovuto non alla mancanza di discernimento di Odino, ma all’amara constatazione di come Loki, il suo brillante figlio, non fosse poi così acuto come pensava e sembrava.
Dal cap. 4: Solo che Loki era un furfante travestito da principe, un cantastorie come nemmeno nelle piazze più oscure della città se ne trovava uno uguale.
Non tutto è come appare, quando di mezzo c'è il dio dell'inganno in persona.
Capitoli 3-9: Barbare usanze;
Cap. 10 - Forse era scritto nel destino.
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Lime, Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La tela degli inganni'
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Castelli di carta

 

 

La Sublime impallidì. Sentì uno strano formicolio al braccio e, quando si risolse ad abbassare lo sguardo, le mancò la voce per gridare. La sua mano si era fusa con il pugnale che, a sua volta, aveva cambiato forma, tramutandosi in altro – un insieme di carne e ossa informe e molle. Osservò con orrore il moncherino che sembrava un fiore marcito, accompagnata dalle grida inarticolate della guardia superstite; anche l’uomo stava subendo la stessa, tremenda sorte.

Loki, invece, ammirava soddisfatto il risultato della sua stregoneria. “Trucchi, inganni, illusioni? Credevi davvero che il mio seiðr si limitasse a questo?”

Mentre la Sublime boccheggiava fissando l’arto scempiato, Sigyn ne approfittò per fuggire al sicuro, tra le braccia dell’Ase. Gli si strinse contro nascondendo il viso nella corazza intrecciata: la commozione stava vincendola. Aveva avuto paura di perdere la vita o che potesse capitare qualcosa al bambino, al maschio che avrebbe dato a Loki, al fratellino che presto avrebbe mostrato a Sonje, la sua bellissima bambina dai boccoli neri. L’ingannatore le sfiorò la nuca esposta in un gesto consolatorio rapido e troppo breve, e Sigyn non poté fare a meno di pensare che lo aveva appena visto evocare un incantesimo orrendo e sembrava crogiolarsi nel dolore inflitto. Si aggrappò con le unghie alla pelle della corazza, respirò il suo odore intenso e virile, di guerriero. Quanti racconti che per protagonista avevano suo marito si era ritrovata ad ascoltare, negli anni? Aveva forse dimenticato il ghigno ammiccante che il narratore di turno sfoggiava quando parlava di Loki e delle sue magie? Alcune erano illusioni più o meno divertenti, trasformazioni sceniche e stupefacenti, ma altre erano maledizioni orrende, oscure, letali. Torture, in taluni casi, e lei aveva appena assistito a una di queste. Fatta ai danni di una donna folle e crudele e di un esaltato che certo non si era fatto alcuno scrupolo, nello sfruttare le disgraziate lì rinchiuse tappando loro la bocca dopo essersi slacciato i pantaloni. Allora perché era turbata, da cosa?

 

“Non posso lasciarla andare via,” spiegò la sacerdotessa inghiottendo il dolore, “non posso, davvero. Attendevo da tempo che venisse qui la principessa incinta del figlio di un re straniero. Lo dice la profezia. Ti scatenerò contro ogni guardia, Loki Laufeyson.”

Il dio degli inganni non s’impressionò affatto, anzi. Roteò gli occhi al cielo perché detestava i vaticini, non li aveva mai tollerati. Era vissuto col peso della Voluspa addosso, accarezzando l’ombra di una distruzione che Frigga gli suggeriva essere un rinnovamento e proprio da lui si sarebbe generata, quindi non aveva alcuna voglia di stare a sentire le cazzate di quella donna. Era in questi particolari frangenti che la somiglianza con Thor si faceva più manifesta. Nel modo spiccio con cui certe questioni gravi venivano gestite con un’imprecazione e un’alzata di spalle. Spinse Sigyn verso l’uscita del corridoio, ignorando bellamente l’oscura allusione della Sublime, ma quella lo apostrofò inchiodandolo dov’era.

“C’è una creatura che dorme sotto le fondamenta del Tempio. Per cosa sei venuto fin qui, Loki di Asgard? Per il capriccio della tua mogliettina o per porre fine a un’aberrazione? Non vuoi liberare le altre recluse?”

Era livida in volto e si teneva con il braccio sano quello, ormai inutilizzabile, fuso con l’arma e marcito. L’Ase scoccò un’occhiata gelida a Sigyn e alla sacerdotessa. “Per il capriccio della mia mogliettina. Me ne frego di quello che ci sta nelle fogne di questo posto,” tagliò corto, e s’incamminò nuovamente verso l’uscita.

“Avevi detto che avresti raso al suolo questa cloaca!” Sigyn lo prese per il braccio, costringendolo a voltarsi. Doveva dare un senso all’orrore che aveva visto e subìto negli ultimi giorni, pulire la propria coscienza dal senso di colpa che da anni l’attanagliava per essere scampata dalla prigionia nel Tempio, salvare le donne dalle occhiaie profonde e lo sguardo vuoto che vagavano, come fossero già morte, dentro le mura livide di quella prigione, giustificare i modi da guerriero di Loki, persino. Che era venuto per salvare lei, non le altre. Il figlio di Laufey non era un eroe nel senso stretto del termine; non avrebbe sacrificato la propria vita per un ideale né per un’ipotetica massa senza volto con cui non aveva alcun legame e questo Sigyn lo sapeva bene, ma pure decise di impuntarsi perché Loki possedeva alcuni tratti dell’eroe. Era oscuro, tetro, capriccioso, ma anche fiero, audace, indomabile.

L’Ase sgranò gli occhi, colpito dalla totale mancanza di discernimento di sua moglie.

“Lo avevi promesso.”

 

Sigyn era giovane, troppo. Il taglio corto con cui era stata mortificata la sua bellezza (1) la faceva apparire ancora più simile alla ragazzina che ancora era, quella con le trecce che lo guardava di sottecchi mentre lui studiava in biblioteca. Alle volte, quando la vedeva giocare con Sonje, aveva l’impressione dolorosa di avere di fronte due sorelle, e non una madre con una figlia. L’insolenza del suo sguardo liquido e grigio lo colpì come spesso era accaduto ai banchetti di Njord, ma stavolta non gli strappò un ghigno divertito. La fissò con glaciale severità perché avevano una bambina e nel suo ventre cresceva un’altra vita e Loki non era generoso e altruista, non era Thor. Non gli interessavano le donne spaurite e indifese, ridotte in schiavitù, rinchiuse in quella fortezza spacciata per Tempio. Un leggero terremoto gli fece intuire che le parole della Sublime riguardo alle fondamenta dell’edificio erano vere, almeno in parte. Qualcosa di oscuro gli si agitò dentro, un piacere sottile gli fece tendere i muscoli, increspare le labbra in un ghigno. “E tu credi alle mie parole?”

Lei alzò il mento fiera. “Credo nel tuo valore, dio degli inganni.”

Che mossa sleale, scorretta. Degna della moglie del Fabbricante di Bugie in persona (2). Desiderò baciarla, ma non c’era tempo. Alzò il braccio, invece. Lo levò in alto e mormorò un incantesimo o forse due – bisbigli di parole quasi impercettibili – che, però, ebbero il potere di scuotere fin nelle fondamenta il Tempio. Ho evocato rune da quando ci siamo visti, aveva detto, e non mentiva.

 

 

Il cielo era arancione e Sonje si era di nuovo imbronciata. Abbracciò sconsolata l’animale di pezza grande quasi quanto lei e pensò che, anche quella notte, sarebbe stata messa a letto da sua zia Freya. Cercò con lo sguardo Thor e lo vide avvicinarsi guardingo alle pesanti porte di quel castello nero dove dicevano che ci fossero i suoi genitori. Aggrottò la fronte e a malapena riuscì a inghiottire un singhiozzo, al pensiero che la sua mamma e il suo papà fossero lì dentro. Le mancavano in maniera totale, assoluta, disperata. Il solo pensiero di non averli accanto le faceva salire le lacrime agli occhi. Ma lei era una bimba metà Ase e Jotunn e non poteva mettersi a piangere come una mocciosa qualsiasi; affogando i singhiozzi nel morbido tessuto dell’animale, non riuscì a far altro che credere ciecamente a ciò che le aveva assicurato lo zio Thor fino a pochi minuti prima. Il suo papà e la sua mamma stavano vivendo insieme un’avventura bellissima di cui le avrebbero raccontato ogni dettaglio quella sera stessa quando – meraviglia! – avrebbero dormito tutti insieme in una delle tende che già campeggiavano in mezzo al prato che lambiva il castello. Dall’altro dei suoi quattro anni, Sonje non aveva potuto che credergli, perché zio Thor con lei era sempre sincero e buono e gentile. Suo padre non aveva, del resto, sconfitto più e più volte il mostro che si nascondeva nell’armadio? Non l’aveva consolata – e recuperata – quando si era persa nella Fucina dei Nani? Non aveva mai visto sua madre così arrabbiata con lei come quel giorno. In mezzo a quella foresta di spade, lance e strani oggetti mai visti né conosciuti, il suo fantastico papà era riuscito a scovarla e le aveva proposto un gioco per uscire da quel groviglio luccicante e freddo in cui era finita senza accorgersene e volerlo davvero, per poi prenderla in braccio e avvolgerla nel suo mantello giusto una manciata di istanti prima che la magnifica capanna d’acciaio si disgregasse in un milione di pezzi. Un giorno, Sonje avrebbe ricordato in maniera diversa quell’episodio. Con un brivido si sarebbe resa conto di certi dettagli cui, da bambina, non aveva fatto caso. Il tono di voce troppo calmo di suo padre, ad esempio, che contrastava con i lineamenti del viso tirati e con i muscoli tesi, il gesto rapido con cui l’aveva attirata a sé non appena aveva potuto, il balzo che aveva fatto stringendosela contro per evitare che una delle lame la sfiorasse. Si era salvata per fortuna e per magia, ma questa è un’altra storia.

 

Il Tempio tremò violentemente, sussultando e crepandosi all’improvviso. Il boato fu tremendo. Un’onda d’urto che sconquassò la terra e il cielo proveniente direttamente dal centro della costruzione nera e solitaria. Il segnale di Loki. Sonje gridò stringendo a sé il gatto di pezza, spaventata dal rumore improvviso. Alla prima, violenta esplosione, iniziarono a sommarsene altre più o meno intense e ugualmente terrificanti. Una delle torri del solenne edificio collassò e cadde in un tripudio di detriti, grida e morte. Attorno alla bambina, i nobili Vanir iniziarono ad agitarsi e a urlare invocando le Norne. Sonje fu raggiunta da Freya, che la prese in braccio e corse verso il Re degli Asi. In mezzo al frastuono, il dio del tuono stringeva Mjollnir con l’accenno di un sorriso sulle labbra. Quanto amava mettersi in mostra, suo fratello! Si voltò e, vedendo le due, abbassò il martello.

 “Vedi piccolina? È stato il tuo papà a creare questo caos,” spiegò accarezzando i ricci neri della nipote.

Prima che Sonje potesse ribattere, Freya apostrofò Thor inclinando leggermente il capo. “Che sta facendo?”

Il biondo Ase alzò le spalle. “Fa iniziare lo spettacolo,” ribatté compiaciuto, “e ci invita a seguirlo.”

Thor aveva ragione, perché il portone del Tempio iniziò a disgregarsi, come se il metallo di cui era fatto fosse stato corroso dall’interno o mangiato, liquefacendosi sotto gli occhi esterrefatti della corte di Vanheim tutta e di Njord, di Freyr, di Freya. Sonje, dalla sua posizione privilegiata in braccio alla zia, osservò la grandiosa forza del seiðr di suo padre senza comprenderla davvero. L’estasiava il metallo che cadeva in pezzi e si arricciava su se stesso, prendendo la stessa consistenza di certe zuppe dense che la sua mamma si sforzava di farle mangiare, ma non capì perché quello spettacolo ispirasse il terrore in chi la circondava. Era spaventata dalle grida e dalla polvere che il crollo della torre aveva provocato, dall’ansia che Freya le trasmetteva involontariamente stringendola a sé, ma l’immagine del seiðr che mangiava il metallo le si stampò in mente in maniera nitida e indelebile e fu qualcosa di grandioso. Sarebbe rimasto per sempre uno dei primissimi ricordi della sua infanzia e un giorno, molti anni dopo, avrebbe raccontato la meraviglia che quella visione tremenda le aveva lasciato addosso. Vali avrebbe ascoltato dubbioso, annuendo senza riuscire a immaginare, ma anche questa è un’altra storia.

Quello che Sonje dimenticò subito e ovviamente non comprese, sebbene vi assistette, furono le parole perentorie di Njord. Si avvicinò a Thor, che stava già varcando l’arco ormai vuoto che segnava l’ingresso del Tempio, dicendogli seccamente che non avrebbe tollerato che gli Asi liberassero da soli i Vanir.

“I miei nobili ti accompagneranno, Re degli Asi. Devono vedere. Tuo fratello l’ha chiesto. E ha bisogno del suo esercito.” 

Il dio del tuono scrutò l’anziano alleato soffermandosi sui suoi occhi ardenti, sulle labbra piegate in una smorfia orgogliosa eppure tragica.

“Nessuno dica,” proseguì l’altero sovrano ad alta voce, “che i Vanir non obbediscono agli ordini e non seguono il loro generale in battaglia.”

Thor non poteva conoscere nei dettagli le vicissitudini politiche di Vanheim perché Lingua d’Argento era, riguardo ai suoi affari, mortalmente laconico e avaro di notizie. Sapeva vagamente che Sigyn si batteva da anni per far chiudere il Tempio, che qualche famiglia ancora si opponeva alla tradizione e immaginava che, ormai, buona parte delle incombenze del regno passassero direttamente nelle mani di Loki. Fu preso da un moto d’orgoglio, sentendo le parole del vecchio re. Riconobbe l’eco della soddisfazione che l’arrogante Njord aveva sfoggiato quando Loki lo aveva accompagnato ad Asgard per ridefinire alcuni dettagli dei loro accordi internazionali e, ancora prima, il giorno lontanissimo in cui Odino era stato costretto a firmare una pace. Suo fratello aveva finalmente il ruolo di comando che gli spettava, e la sua voce arrochita e incantata non serviva solo per irretire e confondere, ma per guidare un popolo intero (3).

“Allora aiuterò i tuoi vassalli a ritrovare il loro comandante,” sorrise. Fu così che varcò l’entrata ormai priva di difese del Tempio. Oltre le mura nere, continuavano a ergersi le grida straziate delle sacerdotesse e delle guardie in cerca di un riparo, cui si mescolavano anche quelle delle donne lì rinchiuse. I numerosi crolli avevano spinto alcuni membri della milizia privata della Sublime a fuggire verso l’uscita, e così stavano facendo anche le altre religiose. I tortuosi cunicoli dell’edificio rendevano più lenta e difficile la fuga. Ma le prigioniere? Qualche viso smunto iniziò ad apparire di fronte alla nobiltà di Vanheim armata di tutto punto e al re degli Asi: figure scalze, denutrite, con i capelli tagliati corti che incespicavano mentre si trascinavano dietro bambini piagnucolanti con il moccio al naso. Erano le fortunate che si trovavano nelle cucine e nell’orto, non troppo distanti dalle esplosioni; alcune di loro erano gravide, segno inequivocabile che la squallida diceria riguardante la milizia del Tempio era vera, altre mostravano evidenti segni di percosse. Lo sgomento collettivo, quando varcarono la soglia nel disordine generale, fu enorme. Nella confusione del momento, il dio del tuono non notò affatto che tra i nobili spinti da Njord a varcare la soglia distrutta c’era anche Theoric. Del resto, la furia dell’eroe benigno lo aveva investito in pieno: ordinava, sorreggeva, bloccava. Aiutato da Freyr, che si occupò assieme ad altri di fermare e interrogare i miliziani e le sacerdotesse, prestò qualche primissimo soccorso alle smunte derelitte in fuga e poi si lanciò, seguito da un manipolo ben armato, oltre le mura del Tempio.

 

Loki Laufeyson sfoggiava spesso la maschera del salvatore di popoli. Regale e sicuro di sé, provava sempre un sottile piacere nel ricordare alla gente le sue imprese brillanti, la natura spesso subdola, ma senz’altro efficace, delle sue trovate perfide. Assieme a Thor, aveva rovesciato regni e sconfitto popoli interi, liberato ostaggi e messo a ferro e fuoco quartieri generali, città, palazzi: perché stavolta, con il Tempio, avrebbe dovuto essere diverso? Perché lei non sapeva neanche tenere in mano un pugnale, per le Norne.

Il piano dell’Ase aveva subìto un brusco cambio di rotta, ma non per questo tutto doveva essere gettato alle ortiche. Dio dell’inganno, lo chiamavano. Nessuno ricordava più il giorno in cui Odino, a fior di labbra, aveva dato quel nome pesante e tremendo al figlio adottivo; c’è chi dice che avvenne quando Loki, ancora ragazzino, riuscì a sventare una congiura degli Elfi Neri volta a uccidere Padre Tutto in persona, chi sosteneva che il piccolo principino meritò quel nome per aver convinto un drago a cedere agli Asi il suo tesoro. Una notte d’inverno, Sigyn lo aveva abbracciato e, mentre avvinghiava le gambe sottili contro quelle del guerriero per scaldarsi, gli aveva chiesto proprio quello: da dove venisse l’appellativo che lo contraddistingueva. Loki aveva preso a carezzarle distrattamente la schiena nuda e i bei capelli d’oro, ma non le aveva risposto.

La verità è che Lingua d’Argento aveva preso il suo nome dopo aver deglutito e sfiorato con dita incerte la morte. Privo di ogni difesa, aveva fissato gli occhi bianchi del suo nemico e si era deciso a raccontargli una storia, sciorinando un indovinello che nascondeva al suo interno un inganno. Un sudore gelido aveva preso a scorrergli sulla spina dorsale, e mentre la bestia si confondeva appresso ai suoi ragionamenti, Loki era diventato il dio delle beffe e degli inganni. Di quella notte lontana, il figlio di Laufey e di Odino non conservava che un pugnale dalla lama ritorta con l’elsa finemente intarsiata; un pegno sottratto da un tesoro maledetto (4).

La gola della Sublime era esposta, pulsante. “Devo solo premere più forte,” le ricordò l’Ase con voce cupa, tetra, stringendo quell’arma che teneva con sé ormai da una vita.

Il viso della donna si piegò in una smorfia di compiaciuto dolore. Gettò uno sguardo oltre la spalla di Loki fissando Sigyn. Attorno a loro, l’ennesima scossa seguita da grida sottolineava con sempre più forza il potere dell’Ase. “Allora fallo, Loki, avanti. Non temo la morte che mi darai. Se ti lasciassi andare, me ne toccherebbe una senz’altro peggiore. Quella che avrai tu.”

La risposta fiera non piacque particolarmente al dio dell’inganno. “Non mi servi, Sublime Stronza,” le soffiò contro. Lasciò che l’acciaio si tingesse di rosso, che affondasse nella carne. La sacerdotessa boccheggiò e cadde scossa da un tremito, fissandolo con i suoi occhi ormai velati.

Loki non le rivolse che un’occhiata breve e veloce, poi si rivolse a Sigyn, che fissava agghiacciata la scena. Aveva detestato quella donna con tutte le sue forze dal primo momento in cui aveva incrociato il suo sguardo, ma vederla spirare in maniera tanto repentina fu sconvolgente. Davanti a lei, Loki aveva già ucciso, ma si era trattato di soldati, uomini armati pronti ad attaccarlo. A sorprenderla non era stato il gesto in sé, ma la rapidità con cui il dio degli inganni aveva deciso che la Sublime dovesse essere morire: una valutazione breve che nemmeno le parole sibilline e oscure dell’altra aveva potuto scalfire.

 

L’ingannatore si passò il dorso della mano sulla fronte per pulirsi da uno schizzo di sangue che gli macchiava la pelle, le labbra arricciate in una smorfia di disappunto. Le scoccò un’occhiata rapida e severa, una di quelle che era solito lanciarle quand’era ancora una ragazzina e faceva qualcosa di sbagliato, e poi la prese per mano e, semplicemente, se la tirò dietro in quel reticolo di cunicoli dove lui si orientava senza alcuno sforzo. Merito del seiðr che gli scivolava nelle vene assieme al sangue e del potere che sprigionava pronunciando le rune. Si incunearono nuovamente dentro i sentieri di pietra del Tempio, scendendo verso il cuore pulsante di quella costruzione fuori dal tempo e dagli schemi: chi l’aveva eretta? Quale popolazione era stata così folle da tirare su un castello fortificato che dentro era nient’altro che un labirinto dove rinchiudere le povere donne che avevano violato, per scelta o perché costrette, la rigidissima morale di Vanheim? Nei suoi due giorni scarsi di permanenza, la principessa aveva avuto modo di vedere solo pochissime sale: la cella dove l’avevano spogliata per poi tagliarle i capelli, il refettorio, il lugubre dormitorio, la sala dei telai. Tutto il resto era un insieme immenso di svolte e scale e angoli ciechi di cui non aveva contezza. L’Ase la guidò senza interrompere il loro contatto: una presa ferma e decisa che le punse il cuore. Riconobbe la forza di quella stretta e la sentì, la amò con un’intensità schiacciante. Si sentì al sicuro. Si fermarono di nuovo di fronte alla sala dov’erano i telai. La porta era stata lasciata aperta dalle guardie in fuga, ma alcune donne erano rimaste a terra, sconvolte dalle esplosioni. Le aiutarono a sollevarsi, scuotendole dal torpore che l’esplosione e la successiva fuga avevano causato. Quelle li guardarono con i loro occhi da animali spauriti e li seguirono piangendo. Sigyn deglutì. Se Loki non l’avesse liberata, anche lei si sarebbe trasformata in una creatura rassegnata e mesta? Non ebbe tempo di domandarselo. Alcune guardie più zelanti delle altre, o forse solo più disperate, si lanciarono contro lei e Loki. Alle loro spalle, il clangore delle armi li avvertì che ogni via di fuga era appena stata tagliata.

Vedere Loki Laufeyson combattere era sempre uno spettacolo terribile e affascinante. C’era qualcosa di feroce e bellissimo, nella sua scelta di utilizzare, anziché una spada a due mani o una lancia, dei semplici pugnali. Armi del genere erano buone per tagliare la gola e necessitavano di avvicinarsi al proprio avversario fino a sentirne il respiro, il battito del cuore. Non erano di foggia nanica, quelli che ora faceva roteare rapidamente tra le dita svelte; li aveva sottratti alle guardie della Sublime che ormai giaceva riversa in un lago di sangue. Cinque contro uno non è un buon rapporto, nemmeno se si è un Ase, ma Loki non era semplicemente un guerriero addestrato ad Asgard: era un capo, un comandante, un principe. La sua non era una lotta, ma una danza. Una coreografia letale e precisa che non lasciava scampo alle sue vittime.  Si lanciò contro il soldato più vicino, armato di una grossa spada, e scartò abilmente il fendente già lanciato nella sua direzione per avvicinarsi fin troppo all’uomo e colpirlo due volte, al petto e al cuore; e mentre quello boccheggiava agonizzando, Loki si era già lanciato sul secondo mirando alla gola, che recise con un colpo pulito, preciso, essenziale: violento. Ecco cosa c’era, in lui. Una furia feroce e implacabile, unita a una velocità spiazzante che disorientava l’avversario. Si fece scudo col corpo ormai inerte della guardia giusto il tempo necessario per sfruttare una leva favorevole e gettarsi sugli altri due miliziani rimasti. Sigyn fissò la scena in apnea, con la stessa ansia con cui, anni prima, aveva osservato quello che sarebbe stato suo marito combattere in un’arena allestita per l’occasione (5). Non aveva paura di morire né di essere colpito, Loki: questo era il punto. Afferrò la guardia per la spalla, la disarmò con un colpo schivando la sua lama, la costrinse a roteare su se stessa in un gesto che alla principessa di Vanheim ricordò una delle piroette che l’Ase le faceva fare quando la guidava durante un ballo e, quando ebbe la gola dell’avversario a portata di mano, ci passò sopra l’acciaio del pugnale. L’ultimo miliziano della Sublime tentò di scappare, ma Loki ghignò fissandolo con quei suoi occhi dalla trasparenza verdastra, color dell’acqua, e lo raggiunse con un balzo, lo afferrò per i capelli e gli piantò l’arma nella schiena e infierì, spingendo.

“Avanti, presto!” afferrò di nuovo Sigyn e si affacciò a una delle strette finestrelle protette da grate. Giù, nella corte interna del Tempio, si affollavano insieme le recluse e le sacerdotesse, le guardie della Sublime e quelle di Vanheim. L’ingannatore vide suo fratello e assottigliò le palpebre, ma non disse nulla.

Imboccarono le scale, e fu alla fine della rampa che incontrarono il tonante e gli altri. Le prigioniere sciamavano ancora nell’ampio atrio, incespicando nei loro stessi passi, mentre alcune sacerdotesse tentavano di gridare ordini ormai privi di senso e invocavano il nome della Sublime lanciando maledizioni e scongiuri. I soldati che erano entrati al seguito di Thor erano stati addestrati da Loki, ma avevano avuto poche occasioni per dimostrare il loro valore; l’ultima guerra si era tenuta quattro anni prima (6). Si guardavano attorno nervose, cercando di evacuare il Tempio e, allo stesso tempo, fare bella figura di fronte al loro generale che, da solo, era riuscito a violare una fortezza ritenuta impenetrabile.

“Controllate il secondo piano e l’ala est del primo,” ordinò l’ingannatore. “Io scendo nei sotterranei e tu,” disse riferendosi a Sigyn, “fammi un favore: esci fuori di qui con Thor senza voltarti indietro.”

“Vuoi divertirti da solo?” Sigyn aveva pronunciato la frase per sdrammatizzare, ma era ben conscia dell’allusione che la Sublime aveva fatto prima di morire. Per tutta risposta, l’Ase ghignò e lanciò uno sguardo d’intesa al fratello, perché lei aveva colto nel segno, ma questo non avrebbe certo cambiato la sua decisione. Sentiva sotto le suole degli stivali la terra fremere non per la serie di rune pronunciate, ma per quella cosa nascosta sotto il pavimento che doveva andare a stanare. Si allontanò verso le scale buie che conducevano dabbasso, accompagnato dalle urla e dalle imprecazioni delle sacerdotesse rimaste.

 

I nobili Vanir osservavano la scena che gli si parava davanti in un misto di sdegno, sgomento, stupore, incredulità e ammirazione, persino. I più affezionati sostenitori di Njord guardavano con malcelata soddisfazione l’atrio del Tempio che si svuotava: era la fine di un’epoca buia e di una tradizione che ormai si stava percependo sempre più come ingiusta. Loki, inoltre, aveva la stoffa del re e del conquistatore, del capo. La sua lingua spesso tacciata d’essere bugiarda non lo era stata quando aveva promesso che si sarebbe occupato di Sigyn. Lei era lì, pallida e vestita di stracci, offesa dal taglio corto che le era stato inflitto, ma viva.

 

 

Lei era lì e l’aveva scampata ancora una volta grazie a quel bastardo figlio d’uno Jotunn. Il pensiero attraversò Theoric come un lampo, insinuandoglisi nella testa. La sua famiglia, strenua sostenitrice del Tempio, aveva appena perso l’appoggio dei pochissimi clan che, fino a quel momento, avevano professato la necessità di tenere in piedi l’istituzione religiosa (7). Non occorreva essere un abile stratega come quel maledetto di Loki, per capirlo: bastava osservare le labbra arricciate in una smorfia di disappunto che gli alleati e gli amici con cui erano soliti banchettare lui e suo padre sfoggiavano fissando i bambini, troppi, che sostavano incerti nell’atrio del Tempio. Forse il dio dell’inganno aveva ragione quando, sorridendo quel tanto che bastava per mostrare i denti bianchi, sosteneva che i Vanir erano un popolo di bigotti (8). Loki. Un guerriero alto, ben fatto, slanciato, dotato di un fascino tale da conquistare non solo Sigyn, ma anche Njord e la Corte tutta. Eppure, senza di lei, l’Ase sarebbe rimasto il consigliere all’ombra di Njord, lo straniero da guardare con un filo di sospetto e a cui non credere mai fino in fondo. Non certo un comandante e futuro re. Il dio degli inganni godeva di fama e prestigio perché Sigyn aveva aperto le gambe, sì. Dalla sua posizione defilata, l’uomo vide Thor procedere verso i piani superiori del Tempio in cerca di altre persone da tirare fuori, Loki sparire in un cunicolo sulla destra. C’era chi, come i figli di Odino, spiccava ovunque si trovasse e chi, invece, rimaneva nell’ombra, confondendosi con il grigio delle pareti. Theoric non era certo che i due Asi lo avessero notato. L’ingannatore certamente no, era troppo impegnato a muovere le fila del suo sontuoso spettacolo, e gli occhi del re degli Asi si erano posati troppo frettolosamente su di lui perché potessero riconoscerlo. Nel tramestio generale, Sigyn gli sfilò davanti.

 

Bastò strattonarla per un braccio e tapparle la bocca. Lo poté fare perché era nei pressi di una porta che conduceva alle cucine, o forse alle stalle e, nella confusione, nessuno notò la scena. Lei scalciò, graffiò, si divincolò, ma era rimasta la ragazza sottile e minuta di sempre e fu facile, dopotutto, trascinarla in quella che era, effettivamente, la cucina del Tempio.

“Tu non uscirai viva da qui,” le promise all’orecchio. “Penseranno a un tragico incidente.”

 

Il primo pensiero di Sigyn fu per l’erede di Loki che non aveva più di qualche settimana di vita e per Sonje e i suoi morbidissimi ricci neri. Poi venne suo marito che, nei sotterranei sotto di lei, affrontava chissà quale pericolo e la credeva ormai in salvo. Fu spinta contro uno stipite e si ritrovò schiacciata tra la porta e Theoric. Era agitato più di lei: Sigyn lo dedusse dall’odore acre che emanava, dal fiato cattivo, dai gesti nervosi, dalle gocce di sudore che gli imperlavano il labbro superiore e la fronte. Era nervoso perché aveva poco tempo e non sapeva che cosa doveva fare, e come. Anche questo spaventò Sigyn. L’idea che l’avrebbe fatta soffrire inutilmente. Theoric le disse che nessuno l’avrebbe sentita gridare e che sarebbe morta in quella stanza: la giusta fine di una puttana come lei, che si faceva sbattere da un Ase, uno straniero.

“Mi hai tradito,” le ricordò all’orecchio. La afferrò per i fianchi e Sigyn fu scossa da un brivido di repulsione e di odio. “Non ti interessiamo noi Vanir, vero principessa? Preferisci gli Asi. Gli Jotunn, anzi. Eppure…”

Supplicarlo di lasciarla andare in nome della vita che le cresceva dentro sarebbe stato inutile, anzi, controproducente. L’ex fidanzato non aveva dimostrato alcuna pietà quando lei era rimasta incinta di Sonje e certo non si sarebbe smentito quel giorno. Cos’avrebbe fatto Loki, al suo posto? Theoric era meno alto e forte del dio degli inganni, ma era pur sempre un uomo dalla stazza robusta; annullò la distanza che c’era tra loro e Sigyn avvertì il ventre abbondante di lui che spingeva contro il suo corpo, la bocca dell’uomo che premeva sulle sue labbra tentando di aprirsi un varco. Si divincolò, ma non ottenne altro risultato che rafforzare la presa del Vanir su di lei. Chiuse gli occhi tentando di affogare la repulsione per il contatto indesiderato, e le vennero in mente le battute e i racconti cui l’Ase si abbandonava alle volte, dopo un banchetto. Cosa avrebbe fatto, al posto suo? La voce del dio degli inganni, ironica e beffarda come sempre, le risuonò nella testa. Ne approfitterei. Fu per questo che morse con tutta la forza.

 

Theoric gridò premendosi la bocca e si allontanò non prima di averle dato un manrovescio che la fece cadere a terra. Per un istante, Sigyn non vide nulla, la vista annebbiata dal colpo; poi arrancò, si mise in ginocchio, incespicò e infine si rimise in piedi in mezzo alle vettovaglie e ai detriti causati dall’esplosione e tentò di correre, scappare, allontanarsi dalla cucina. Dietro di lei, Theoric aveva preso un mattone o forse un coltello; con il cuore in gola, si accorse che l’atrio era deserto e l’uscita troppo lontana. Sarebbe stata raggiunta prima di poter uscire definitivamente dal Tempio. Ricordò vagamente quella diceria lontana su come l’assetto delle stanze, all’interno dell’edificio, sembrasse mutare, e scelse di infilarsi in quello che le pareva essere proprio il buio cunicolo sulla destra che conduceva nei sotterranei dov’era sparito Loki. Vi si gettò. Theoric le andò dietro.

 

Continua…

 

 

L’angolo di Shilyss

Cari Lettori che siete arrivati fin qua,

Ecco finalmente il nuovo capitolo di questa raccolta! Voglio ringraziare tutti coloro che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa storia ♥. Grazie davvero, ogni riga è per voi ♥

Vi informo che ho revisionato il capitolo 1 di questa raccolta.

La Fatina dell’Ispirazione promette che non passeranno i secoli prima di un nuovo aggiornamento e vi ricorda che per info, date, scemenze, curiosità e domande c’è la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/

Ricordo che Jotunheim e Vanheim così come sono intese e descritte, con questo ordinamento sociale, politico e culturale sono una mia idea, così come il personaggio di Sonje: vi pregherei di non utilizzarle o, se proprio vi sentite ispirati, di inserire un disclaimer apposito in cui dichiarate i credits . Anche il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia personale interpretazione/reinterpretazione.

Passando alle note tecniche, fatemi sapere se il rating arancione è congruo agli eventi narrati oppure no. In caso, provvederò a modificarlo. Questo è stato un capitolo difficile, non ve lo nego, soprattutto nella sua parte finale. Volevo che ci fossero una serie di cose senza, per questo, scadere nel banale o nel gratuito.

1 Come ricorderete nello scorso capitolo.

2 Appellativo che viene dato da Loki nell’Edda. Chissà perché.

3 Per ulteriori dettagli, leggete la mia fanfiction “Tutte le tue bugie.”

4 Sono eventi completamente inventati da me, quindi giù le mani!

5 Come raccontato in “Tutte le tue bugie.”

6 In occasione della nascita di Sonje.

7 Come nel capitolo 3 di questa raccolta.

8 Questi elementi, così come i Vanir intesi in questa maniera, sono un’idea mia.

 

Un caro saluto e grazie per aver letto fin qui! A martedì :)

Shilyss

   
 
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