Castelli di carta
La Sublime
impallidì. Sentì uno
strano formicolio al braccio e, quando si risolse ad abbassare lo
sguardo, le
mancò la voce per gridare. La sua mano si era fusa con il
pugnale che, a sua
volta, aveva cambiato forma, tramutandosi in altro – un
insieme di carne e ossa
informe e molle. Osservò con orrore il moncherino che
sembrava un fiore marcito,
accompagnata dalle grida inarticolate della guardia superstite; anche
l’uomo
stava subendo la stessa, tremenda sorte.
Loki, invece,
ammirava soddisfatto il
risultato della sua stregoneria. “Trucchi, inganni,
illusioni? Credevi davvero che
il mio seiðr si limitasse a questo?”
Mentre la
Sublime boccheggiava fissando
l’arto scempiato, Sigyn ne approfittò per fuggire
al sicuro, tra le braccia
dell’Ase. Gli si strinse contro nascondendo il viso nella
corazza intrecciata:
la commozione stava vincendola. Aveva avuto paura di perdere la vita o
che
potesse capitare qualcosa al bambino, al maschio che avrebbe dato a
Loki, al
fratellino che presto avrebbe mostrato a Sonje, la sua bellissima
bambina dai
boccoli neri. L’ingannatore le sfiorò la nuca
esposta in un gesto consolatorio
rapido e troppo breve, e Sigyn non poté fare a meno di
pensare che lo aveva
appena visto evocare un incantesimo orrendo e sembrava crogiolarsi nel
dolore
inflitto. Si aggrappò con le unghie alla pelle della
corazza, respirò il suo
odore intenso e virile, di guerriero. Quanti racconti che per
protagonista avevano
suo marito si era ritrovata ad ascoltare, negli anni? Aveva forse
dimenticato
il ghigno ammiccante che il narratore di turno sfoggiava quando parlava
di Loki
e delle sue magie? Alcune erano illusioni più o meno
divertenti, trasformazioni
sceniche e stupefacenti, ma altre erano maledizioni orrende, oscure,
letali.
Torture, in taluni casi, e lei aveva appena assistito a una di queste.
Fatta ai
danni di una donna folle e crudele e di un esaltato che certo non si
era fatto
alcuno scrupolo, nello sfruttare le disgraziate lì rinchiuse
tappando loro la
bocca dopo essersi slacciato i pantaloni. Allora perché era
turbata, da cosa?
“Non
posso lasciarla andare via,”
spiegò la sacerdotessa inghiottendo il dolore,
“non posso, davvero. Attendevo
da tempo che venisse qui la principessa incinta del figlio di un re
straniero.
Lo dice la profezia. Ti scatenerò contro ogni guardia, Loki
Laufeyson.”
Il dio degli
inganni non s’impressionò
affatto, anzi. Roteò gli occhi al cielo perché
detestava i vaticini, non li
aveva mai tollerati. Era vissuto col peso della Voluspa addosso,
accarezzando
l’ombra di una distruzione che Frigga gli suggeriva essere un
rinnovamento e
proprio da lui si sarebbe generata, quindi non aveva alcuna voglia di
stare a
sentire le cazzate di quella donna. Era in questi particolari frangenti
che la
somiglianza con Thor si faceva più manifesta. Nel modo
spiccio con cui certe
questioni gravi venivano gestite con un’imprecazione e
un’alzata di spalle.
Spinse Sigyn verso l’uscita del corridoio, ignorando
bellamente l’oscura allusione
della Sublime, ma quella lo apostrofò inchiodandolo
dov’era.
“C’è
una creatura che dorme sotto le
fondamenta del Tempio. Per cosa sei venuto fin qui, Loki di Asgard? Per
il
capriccio della tua mogliettina o per porre fine a
un’aberrazione? Non vuoi
liberare le altre recluse?”
Era livida in
volto e si teneva con
il braccio sano quello, ormai inutilizzabile, fuso con l’arma
e marcito. L’Ase
scoccò un’occhiata gelida a Sigyn e alla
sacerdotessa. “Per il capriccio della
mia mogliettina. Me ne frego di quello che ci sta nelle fogne di questo
posto,”
tagliò corto, e s’incamminò nuovamente
verso l’uscita.
“Avevi
detto che avresti raso al
suolo questa cloaca!” Sigyn lo prese per il braccio,
costringendolo a voltarsi.
Doveva dare un senso all’orrore che aveva visto e
subìto negli ultimi giorni,
pulire la propria coscienza dal senso di colpa che da anni
l’attanagliava per
essere scampata dalla prigionia nel Tempio, salvare le donne dalle
occhiaie
profonde e lo sguardo vuoto che vagavano, come fossero già
morte, dentro le
mura livide di quella prigione, giustificare i modi da guerriero di
Loki,
persino. Che era venuto per salvare lei, non le altre. Il figlio di
Laufey non
era un eroe nel senso stretto del termine; non avrebbe sacrificato la
propria
vita per un ideale né per un’ipotetica massa senza
volto con cui non aveva
alcun legame e questo Sigyn lo sapeva bene, ma pure decise di
impuntarsi perché
Loki possedeva alcuni tratti
dell’eroe. Era oscuro, tetro, capriccioso, ma anche fiero,
audace, indomabile.
L’Ase
sgranò gli occhi, colpito dalla
totale mancanza di discernimento di sua moglie.
“Lo
avevi promesso.”
Sigyn era
giovane, troppo. Il taglio
corto con cui era stata mortificata la sua bellezza (1) la faceva
apparire
ancora più simile alla ragazzina che ancora era, quella con
le trecce che lo
guardava di sottecchi mentre lui studiava in biblioteca. Alle volte,
quando la
vedeva giocare con Sonje, aveva l’impressione dolorosa di
avere di fronte due
sorelle, e non una madre con una figlia. L’insolenza del suo
sguardo liquido e
grigio lo colpì come spesso era accaduto ai banchetti di
Njord, ma stavolta non
gli strappò un ghigno divertito. La fissò con
glaciale severità perché avevano
una bambina e nel suo ventre cresceva un’altra vita e Loki
non era generoso e
altruista, non era Thor. Non gli interessavano le donne spaurite e
indifese,
ridotte in schiavitù, rinchiuse in quella fortezza spacciata
per Tempio. Un leggero
terremoto gli fece intuire che le parole della Sublime riguardo alle
fondamenta
dell’edificio erano vere, almeno in parte. Qualcosa di oscuro
gli si agitò
dentro, un piacere sottile gli fece tendere i muscoli, increspare le
labbra in
un ghigno. “E tu credi alle mie parole?”
Lei
alzò il mento fiera. “Credo nel
tuo valore, dio degli inganni.”
Che mossa
sleale, scorretta. Degna
della moglie del Fabbricante di Bugie in persona (2).
Desiderò baciarla, ma non
c’era tempo. Alzò il braccio, invece. Lo
levò in alto e mormorò un incantesimo
o forse due – bisbigli di parole quasi impercettibili
– che, però, ebbero il
potere di scuotere fin nelle fondamenta il Tempio. Ho
evocato rune da quando ci siamo visti, aveva detto, e non
mentiva.
Il cielo era
arancione e Sonje si era
di nuovo imbronciata. Abbracciò sconsolata
l’animale di pezza grande quasi
quanto lei e pensò che, anche quella notte, sarebbe stata
messa a letto da sua
zia Freya. Cercò con lo sguardo Thor e lo vide avvicinarsi
guardingo alle
pesanti porte di quel castello nero dove dicevano che ci fossero i suoi
genitori. Aggrottò la fronte e a malapena riuscì
a inghiottire un singhiozzo,
al pensiero che la sua mamma e il suo papà fossero
lì dentro. Le mancavano in
maniera totale, assoluta, disperata. Il solo pensiero di non averli
accanto le
faceva salire le lacrime agli occhi. Ma lei era una bimba
metà Ase e Jotunn e non
poteva mettersi a
piangere come una mocciosa qualsiasi; affogando i singhiozzi
nel
morbido tessuto dell’animale, non riuscì a far
altro che credere ciecamente a ciò
che le aveva assicurato lo zio Thor fino a pochi minuti prima. Il suo
papà e la
sua mamma stavano vivendo insieme un’avventura bellissima di
cui le avrebbero
raccontato ogni dettaglio quella sera stessa quando –
meraviglia! – avrebbero
dormito tutti insieme in una delle tende che già
campeggiavano in mezzo al
prato che lambiva il castello. Dall’altro dei suoi quattro
anni, Sonje non
aveva potuto che credergli, perché zio Thor con lei era
sempre sincero e buono
e gentile. Suo padre non aveva, del resto, sconfitto più e
più volte il mostro
che si nascondeva nell’armadio? Non l’aveva
consolata – e recuperata – quando
si era persa nella Fucina dei Nani? Non aveva mai visto sua madre
così
arrabbiata con lei come quel giorno. In mezzo a quella foresta di
spade, lance
e strani oggetti mai visti né conosciuti, il suo fantastico
papà era riuscito a
scovarla e le aveva proposto un gioco per uscire da quel groviglio
luccicante e
freddo in cui era finita senza accorgersene e volerlo davvero, per poi
prenderla in braccio e avvolgerla nel suo mantello giusto una manciata
di
istanti prima che la magnifica capanna d’acciaio si
disgregasse in un milione
di pezzi. Un giorno, Sonje avrebbe ricordato in maniera diversa
quell’episodio.
Con un brivido si sarebbe resa conto di certi dettagli cui, da bambina,
non
aveva fatto caso. Il tono di voce troppo calmo di suo padre, ad
esempio, che
contrastava con i lineamenti del viso tirati e con i muscoli tesi, il
gesto
rapido con cui l’aveva attirata a sé non appena
aveva potuto, il balzo che aveva
fatto stringendosela contro per evitare che una delle lame la
sfiorasse. Si era
salvata per fortuna e per magia, ma questa è
un’altra storia.
Il Tempio
tremò violentemente,
sussultando e crepandosi all’improvviso. Il boato fu
tremendo. Un’onda d’urto
che sconquassò la terra e il cielo proveniente direttamente
dal centro della
costruzione nera e solitaria. Il segnale
di Loki. Sonje gridò stringendo a sé il
gatto di pezza, spaventata dal
rumore improvviso. Alla prima, violenta esplosione, iniziarono a
sommarsene
altre più o meno intense e ugualmente terrificanti. Una
delle torri del solenne
edificio collassò e cadde in un tripudio di detriti, grida e
morte. Attorno alla
bambina, i nobili Vanir iniziarono ad agitarsi e a urlare invocando le
Norne. Sonje
fu raggiunta da Freya, che la prese in braccio e corse verso il Re
degli Asi. In
mezzo al frastuono, il dio del tuono stringeva Mjollnir con
l’accenno di un
sorriso sulle labbra. Quanto amava mettersi in mostra, suo fratello! Si
voltò
e, vedendo le due, abbassò il martello.
“Vedi
piccolina? È stato il tuo papà a creare
questo caos,” spiegò accarezzando i ricci neri
della nipote.
Prima che Sonje
potesse ribattere,
Freya apostrofò Thor inclinando leggermente il capo.
“Che sta facendo?”
Il biondo Ase
alzò le spalle. “Fa
iniziare lo spettacolo,” ribatté compiaciuto,
“e ci invita a seguirlo.”
Thor aveva
ragione, perché il portone
del Tempio iniziò a disgregarsi, come se il metallo di cui
era fatto fosse
stato corroso dall’interno o mangiato, liquefacendosi sotto
gli occhi
esterrefatti della corte di Vanheim tutta e di Njord, di Freyr, di
Freya.
Sonje, dalla sua posizione privilegiata in braccio alla zia,
osservò la
grandiosa forza del seiðr di suo padre senza comprenderla
davvero. L’estasiava
il metallo che cadeva in pezzi e si arricciava su se stesso, prendendo
la
stessa consistenza di certe zuppe dense che la sua mamma si sforzava di
farle
mangiare, ma non capì perché quello spettacolo
ispirasse il terrore in chi la
circondava. Era spaventata dalle grida e dalla polvere che il crollo
della
torre aveva provocato, dall’ansia che Freya le trasmetteva
involontariamente
stringendola a sé, ma l’immagine del seiðr
che mangiava il metallo le si stampò
in mente in maniera nitida e indelebile e fu qualcosa di grandioso.
Sarebbe
rimasto per sempre uno dei primissimi ricordi della sua infanzia e un
giorno,
molti anni dopo, avrebbe raccontato la meraviglia che quella visione
tremenda
le aveva lasciato addosso. Vali avrebbe ascoltato dubbioso, annuendo
senza
riuscire a immaginare, ma anche questa è un’altra
storia.
Quello che Sonje
dimenticò subito e ovviamente
non comprese, sebbene vi assistette, furono le parole perentorie di
Njord. Si
avvicinò a Thor, che stava già varcando
l’arco ormai vuoto che segnava
l’ingresso del Tempio, dicendogli seccamente che non avrebbe
tollerato che gli
Asi liberassero da soli i Vanir.
“I
miei nobili ti accompagneranno, Re
degli Asi. Devono vedere. Tuo fratello l’ha chiesto. E ha
bisogno del suo esercito.”
Il dio del tuono
scrutò l’anziano
alleato soffermandosi sui suoi occhi ardenti, sulle labbra piegate in
una
smorfia orgogliosa eppure tragica.
“Nessuno
dica,” proseguì l’altero
sovrano ad alta voce, “che i Vanir non obbediscono agli
ordini e non seguono il
loro generale in battaglia.”
Thor non poteva
conoscere nei
dettagli le vicissitudini politiche di Vanheim perché Lingua
d’Argento era,
riguardo ai suoi affari, mortalmente laconico e avaro di notizie.
Sapeva
vagamente che Sigyn si batteva da anni per far chiudere il Tempio, che
qualche
famiglia ancora si opponeva alla tradizione e immaginava che, ormai,
buona
parte delle incombenze del regno passassero direttamente nelle mani di
Loki. Fu
preso da un moto d’orgoglio, sentendo le parole del vecchio
re. Riconobbe l’eco
della soddisfazione che l’arrogante Njord aveva sfoggiato
quando Loki lo aveva
accompagnato ad Asgard per ridefinire alcuni dettagli dei loro accordi
internazionali e, ancora prima, il giorno lontanissimo in cui Odino era
stato
costretto a firmare una pace. Suo fratello aveva finalmente il ruolo di
comando
che gli spettava, e la sua voce arrochita e incantata non serviva solo
per
irretire e confondere, ma per guidare un popolo intero (3).
“Allora
aiuterò i tuoi vassalli a
ritrovare il loro comandante,” sorrise. Fu così
che varcò l’entrata ormai priva
di difese del Tempio. Oltre le mura nere, continuavano a ergersi le
grida
straziate delle sacerdotesse e delle guardie in cerca di un riparo, cui
si
mescolavano anche quelle delle donne lì rinchiuse. I
numerosi crolli avevano
spinto alcuni membri della milizia privata della Sublime a fuggire
verso
l’uscita, e così stavano facendo anche le altre
religiose. I tortuosi cunicoli
dell’edificio rendevano più lenta e difficile la
fuga. Ma le prigioniere?
Qualche viso smunto iniziò ad apparire di fronte alla
nobiltà di Vanheim armata
di tutto punto e al re degli Asi: figure scalze, denutrite, con i
capelli
tagliati corti che incespicavano mentre si trascinavano dietro bambini
piagnucolanti con il moccio al naso. Erano le fortunate che si
trovavano nelle
cucine e nell’orto, non troppo distanti dalle esplosioni;
alcune di loro erano
gravide, segno inequivocabile che la squallida diceria riguardante la
milizia
del Tempio era vera, altre mostravano evidenti segni di percosse. Lo
sgomento
collettivo, quando varcarono la soglia nel disordine generale, fu
enorme. Nella
confusione del momento, il dio del tuono non notò affatto
che tra i nobili
spinti da Njord a varcare la soglia distrutta c’era anche
Theoric. Del resto, la
furia dell’eroe benigno lo aveva investito in pieno:
ordinava, sorreggeva,
bloccava. Aiutato da Freyr, che si occupò assieme ad altri
di fermare e
interrogare i miliziani e le sacerdotesse, prestò qualche
primissimo soccorso
alle smunte derelitte in fuga e poi si lanciò, seguito da un
manipolo ben armato,
oltre le mura del Tempio.
Loki Laufeyson
sfoggiava spesso la
maschera del salvatore di popoli. Regale e sicuro di sé,
provava sempre un
sottile piacere nel ricordare alla gente le sue imprese brillanti, la
natura spesso
subdola, ma senz’altro efficace, delle sue trovate perfide.
Assieme a Thor,
aveva rovesciato regni e sconfitto popoli interi, liberato ostaggi e
messo a
ferro e fuoco quartieri generali, città, palazzi:
perché stavolta, con il
Tempio, avrebbe dovuto essere diverso? Perché lei
non sapeva neanche tenere in mano un pugnale, per le Norne.
Il piano
dell’Ase aveva subìto un
brusco cambio di rotta, ma non per questo tutto doveva essere gettato
alle
ortiche. Dio dell’inganno, lo chiamavano. Nessuno ricordava
più il giorno in
cui Odino, a fior di labbra, aveva dato quel nome pesante e tremendo al
figlio
adottivo; c’è chi dice che avvenne quando Loki,
ancora ragazzino, riuscì a
sventare una congiura degli Elfi Neri volta a uccidere Padre Tutto in
persona,
chi sosteneva che il piccolo principino meritò quel nome per
aver convinto un
drago a cedere agli Asi il suo tesoro. Una notte d’inverno,
Sigyn lo aveva
abbracciato e, mentre avvinghiava le gambe sottili contro quelle del
guerriero
per scaldarsi, gli aveva chiesto proprio quello: da dove venisse
l’appellativo
che lo contraddistingueva. Loki aveva preso a carezzarle distrattamente
la
schiena nuda e i bei capelli d’oro, ma non le aveva risposto.
La
verità è che Lingua d’Argento aveva
preso il suo nome dopo aver deglutito e sfiorato con dita incerte la
morte.
Privo di ogni difesa, aveva fissato gli occhi bianchi del suo nemico e
si era
deciso a raccontargli una storia, sciorinando un indovinello che
nascondeva al
suo interno un inganno. Un sudore gelido aveva preso a scorrergli sulla
spina
dorsale, e mentre la bestia si confondeva appresso ai suoi
ragionamenti, Loki
era diventato il dio delle beffe e degli inganni. Di quella notte
lontana, il
figlio di Laufey e di Odino non conservava che un pugnale dalla lama
ritorta
con l’elsa finemente intarsiata; un pegno sottratto da un
tesoro maledetto (4).
La gola della
Sublime era esposta,
pulsante. “Devo solo premere più forte,”
le ricordò l’Ase con voce cupa, tetra,
stringendo quell’arma che teneva con sé ormai da
una vita.
Il viso della
donna si piegò in una
smorfia di compiaciuto dolore. Gettò uno sguardo oltre la
spalla di Loki
fissando Sigyn. Attorno a loro, l’ennesima scossa seguita da
grida sottolineava
con sempre più forza il potere dell’Ase.
“Allora fallo, Loki, avanti. Non temo
la morte che mi darai. Se ti lasciassi andare, me ne toccherebbe una
senz’altro
peggiore. Quella che avrai tu.”
La risposta
fiera non piacque
particolarmente al dio dell’inganno. “Non mi servi,
Sublime Stronza,” le soffiò
contro. Lasciò che l’acciaio si tingesse di rosso,
che affondasse nella carne.
La sacerdotessa boccheggiò e cadde scossa da un tremito,
fissandolo con i suoi
occhi ormai velati.
Loki non le
rivolse che un’occhiata
breve e veloce, poi si rivolse a Sigyn, che fissava agghiacciata la
scena.
Aveva detestato quella donna con tutte le sue forze dal primo momento
in cui
aveva incrociato il suo sguardo, ma vederla spirare in maniera tanto
repentina
fu sconvolgente. Davanti a lei, Loki aveva già ucciso, ma si
era trattato di
soldati, uomini armati pronti ad attaccarlo. A sorprenderla non era
stato il
gesto in sé, ma la rapidità con cui il dio degli
inganni aveva deciso che la
Sublime dovesse essere morire: una valutazione breve che nemmeno le
parole
sibilline e oscure dell’altra aveva potuto scalfire.
L’ingannatore
si passò il dorso della
mano sulla fronte per pulirsi da uno schizzo di sangue che gli
macchiava la
pelle, le labbra arricciate in una smorfia di disappunto. Le
scoccò un’occhiata
rapida e severa, una di quelle che era solito lanciarle
quand’era ancora una
ragazzina e faceva qualcosa di sbagliato, e poi la prese per mano e,
semplicemente, se la tirò dietro in quel reticolo di
cunicoli dove lui si
orientava senza alcuno sforzo. Merito del seiðr che gli
scivolava nelle vene
assieme al sangue e del potere che sprigionava pronunciando le rune. Si
incunearono nuovamente dentro i sentieri di pietra del Tempio,
scendendo verso
il cuore pulsante di quella costruzione fuori dal tempo e dagli schemi:
chi
l’aveva eretta? Quale popolazione era stata così
folle da tirare su un castello
fortificato che dentro era nient’altro che un labirinto dove
rinchiudere le
povere donne che avevano violato, per scelta o perché
costrette, la rigidissima
morale di Vanheim? Nei suoi due giorni scarsi di permanenza, la
principessa
aveva avuto modo di vedere solo pochissime sale: la cella dove
l’avevano
spogliata per poi tagliarle i capelli, il refettorio, il lugubre
dormitorio, la
sala dei telai. Tutto il resto era un insieme immenso di svolte e scale
e
angoli ciechi di cui non aveva contezza. L’Ase la
guidò senza interrompere il
loro contatto: una presa ferma e decisa che le punse il cuore.
Riconobbe la
forza di quella stretta e la sentì, la amò con
un’intensità schiacciante. Si
sentì al sicuro. Si
fermarono di
nuovo di fronte alla sala dov’erano i telai. La porta era
stata lasciata aperta
dalle guardie in fuga, ma alcune donne erano rimaste a terra, sconvolte
dalle
esplosioni. Le aiutarono a sollevarsi, scuotendole dal torpore che
l’esplosione
e la successiva fuga avevano causato. Quelle li guardarono con i loro
occhi da
animali spauriti e li seguirono piangendo. Sigyn deglutì. Se
Loki non l’avesse
liberata, anche lei si sarebbe trasformata in una creatura rassegnata e
mesta?
Non ebbe tempo di domandarselo. Alcune guardie più zelanti
delle altre, o forse
solo più disperate, si lanciarono contro lei e Loki. Alle
loro spalle, il
clangore delle armi li avvertì che ogni via di fuga era
appena stata tagliata.
Vedere Loki
Laufeyson combattere era
sempre uno spettacolo terribile e affascinante. C’era
qualcosa di feroce e
bellissimo, nella sua scelta di utilizzare, anziché una
spada a due mani o una
lancia, dei semplici pugnali. Armi del genere erano buone per tagliare
la gola
e necessitavano di avvicinarsi al proprio avversario fino a sentirne il
respiro, il battito del cuore. Non erano di foggia nanica, quelli che
ora
faceva roteare rapidamente tra le dita svelte; li aveva sottratti alle
guardie
della Sublime che ormai giaceva riversa in un lago di sangue. Cinque
contro uno
non è un buon rapporto, nemmeno se si è un Ase,
ma Loki non era semplicemente
un guerriero addestrato ad Asgard: era un capo, un comandante, un principe. La sua non era una lotta, ma
una danza. Una coreografia letale e precisa che non lasciava scampo
alle sue
vittime. Si
lanciò contro il soldato più
vicino, armato di una grossa spada, e scartò abilmente il
fendente già lanciato
nella sua direzione per avvicinarsi fin troppo all’uomo e
colpirlo due volte,
al petto e al cuore; e mentre quello boccheggiava agonizzando, Loki si
era già
lanciato sul secondo mirando alla gola, che recise con un colpo pulito,
preciso, essenziale: violento. Ecco cosa c’era, in lui. Una
furia feroce e
implacabile, unita a una velocità spiazzante che
disorientava l’avversario. Si
fece scudo col corpo ormai inerte della guardia giusto il tempo
necessario per
sfruttare una leva favorevole e gettarsi sugli altri due miliziani
rimasti.
Sigyn fissò la scena in apnea, con la stessa ansia con cui,
anni prima, aveva
osservato quello che sarebbe stato suo marito combattere in
un’arena allestita
per l’occasione (5). Non aveva paura di morire né
di essere colpito, Loki:
questo era il punto. Afferrò la guardia per la spalla, la
disarmò con un colpo schivando
la sua lama, la costrinse a roteare su se stessa in un gesto che alla
principessa di Vanheim ricordò una delle piroette che
l’Ase le faceva fare
quando la guidava durante un ballo e, quando ebbe la gola
dell’avversario a portata
di mano, ci passò sopra l’acciaio del pugnale.
L’ultimo miliziano della Sublime
tentò di scappare, ma Loki ghignò fissandolo con
quei suoi occhi dalla
trasparenza verdastra, color dell’acqua, e lo raggiunse con
un balzo, lo
afferrò per i capelli e gli piantò
l’arma nella schiena e infierì, spingendo.
“Avanti,
presto!” afferrò di nuovo
Sigyn e si affacciò a una delle strette finestrelle protette
da grate. Giù,
nella corte interna del Tempio, si affollavano insieme le recluse e le
sacerdotesse, le guardie della Sublime e quelle di Vanheim.
L’ingannatore vide
suo fratello e assottigliò le palpebre, ma non disse nulla.
Imboccarono le
scale, e fu alla fine
della rampa che incontrarono il tonante e gli altri. Le prigioniere
sciamavano
ancora nell’ampio atrio, incespicando nei loro stessi passi,
mentre alcune
sacerdotesse tentavano di gridare ordini ormai privi di senso e
invocavano il
nome della Sublime lanciando maledizioni e scongiuri. I soldati che
erano
entrati al seguito di Thor erano stati addestrati da Loki, ma avevano
avuto poche
occasioni per dimostrare il loro valore; l’ultima guerra si
era tenuta quattro
anni prima (6). Si guardavano attorno nervose, cercando di evacuare il
Tempio
e, allo stesso tempo, fare bella figura di fronte al loro generale che,
da
solo, era riuscito a violare una fortezza ritenuta impenetrabile.
“Controllate
il secondo piano e l’ala
est del primo,” ordinò l’ingannatore.
“Io scendo nei sotterranei e tu,” disse
riferendosi a Sigyn, “fammi un favore: esci fuori di qui con
Thor senza
voltarti indietro.”
“Vuoi
divertirti da solo?” Sigyn aveva
pronunciato la frase per sdrammatizzare, ma era ben conscia
dell’allusione che
la Sublime aveva fatto prima di morire. Per tutta risposta,
l’Ase ghignò e
lanciò uno sguardo d’intesa al fratello,
perché lei aveva colto nel segno, ma
questo non avrebbe certo cambiato la sua decisione. Sentiva sotto le
suole
degli stivali la terra fremere non per la serie di rune pronunciate, ma
per
quella cosa nascosta sotto il pavimento che doveva andare a stanare. Si
allontanò verso le scale buie che conducevano dabbasso,
accompagnato dalle urla
e dalle imprecazioni delle sacerdotesse rimaste.
I nobili Vanir
osservavano la scena
che gli si parava davanti in un misto di sdegno, sgomento, stupore,
incredulità
e ammirazione, persino. I più affezionati sostenitori di
Njord guardavano con
malcelata soddisfazione l’atrio del Tempio che si svuotava:
era la fine di un’epoca
buia e di una tradizione che ormai si stava percependo sempre
più come
ingiusta. Loki, inoltre, aveva la stoffa del re e del conquistatore,
del capo. La
sua lingua spesso tacciata d’essere bugiarda non lo era stata
quando aveva
promesso che si sarebbe occupato di Sigyn. Lei era lì,
pallida e vestita di
stracci, offesa dal taglio corto che le era stato inflitto, ma viva.
Lei
era lì e
l’aveva
scampata ancora una volta grazie a quel bastardo figlio d’uno
Jotunn. Il pensiero
attraversò Theoric come un lampo, insinuandoglisi nella
testa. La sua famiglia,
strenua sostenitrice del Tempio, aveva appena perso
l’appoggio dei pochissimi
clan che, fino a quel momento, avevano professato la
necessità di tenere in
piedi l’istituzione religiosa (7). Non occorreva essere un
abile stratega come
quel maledetto di Loki, per capirlo: bastava osservare le labbra
arricciate in
una smorfia di disappunto che gli alleati e gli amici con cui erano
soliti
banchettare lui e suo padre sfoggiavano fissando i bambini, troppi, che
sostavano incerti nell’atrio del Tempio. Forse il dio
dell’inganno aveva ragione
quando, sorridendo quel tanto che bastava per mostrare i denti bianchi,
sosteneva che i Vanir erano un popolo di bigotti (8). Loki. Un
guerriero alto,
ben fatto, slanciato, dotato di un fascino tale da conquistare non solo
Sigyn,
ma anche Njord e la Corte tutta. Eppure, senza di lei, l’Ase
sarebbe rimasto il
consigliere all’ombra di Njord, lo straniero da guardare con
un filo di
sospetto e a cui non credere mai fino in fondo. Non certo un comandante
e
futuro re. Il dio degli inganni godeva di fama e prestigio
perché Sigyn aveva
aperto le gambe, sì. Dalla sua posizione defilata,
l’uomo vide Thor procedere
verso i piani superiori del Tempio in cerca di altre persone da tirare
fuori,
Loki sparire in un cunicolo sulla destra. C’era chi, come i
figli di Odino, spiccava
ovunque si trovasse e chi, invece, rimaneva nell’ombra,
confondendosi con il
grigio delle pareti. Theoric non era certo che i due Asi lo avessero
notato. L’ingannatore
certamente no, era troppo impegnato a muovere le fila del suo sontuoso
spettacolo,
e gli occhi del re degli Asi si erano posati troppo frettolosamente su
di lui perché
potessero riconoscerlo. Nel tramestio generale, Sigyn gli
sfilò davanti.
Bastò
strattonarla per un braccio e
tapparle la bocca. Lo poté fare perché era nei
pressi di una porta che
conduceva alle cucine, o forse alle stalle e, nella confusione, nessuno
notò la
scena. Lei scalciò, graffiò, si
divincolò, ma era rimasta la ragazza sottile e
minuta di sempre e fu facile, dopotutto, trascinarla in quella che era,
effettivamente, la cucina del Tempio.
“Tu
non uscirai viva da qui,” le promise
all’orecchio. “Penseranno a un tragico
incidente.”
Il primo
pensiero di Sigyn fu per l’erede
di Loki che non aveva più di qualche settimana di vita e per
Sonje e i suoi
morbidissimi ricci neri. Poi venne suo marito che, nei sotterranei
sotto di lei,
affrontava chissà quale pericolo e la credeva ormai in
salvo. Fu spinta contro uno
stipite e si ritrovò schiacciata tra la porta e Theoric. Era
agitato più di
lei: Sigyn lo dedusse dall’odore acre che emanava, dal fiato
cattivo, dai gesti
nervosi, dalle gocce di sudore che gli imperlavano il labbro superiore
e la
fronte. Era nervoso perché aveva poco tempo e non sapeva che
cosa doveva fare,
e come. Anche questo spaventò Sigyn. L’idea che
l’avrebbe fatta soffrire
inutilmente. Theoric le disse che nessuno l’avrebbe sentita
gridare e che
sarebbe morta in quella stanza: la giusta fine di una puttana come lei,
che si
faceva sbattere da un Ase, uno straniero.
“Mi
hai tradito,” le ricordò all’orecchio.
La afferrò per i fianchi e Sigyn fu scossa da un brivido di
repulsione e di
odio. “Non ti interessiamo noi Vanir, vero principessa?
Preferisci gli Asi. Gli
Jotunn, anzi. Eppure…”
Supplicarlo di
lasciarla andare in
nome della vita che le cresceva dentro sarebbe stato inutile, anzi,
controproducente.
L’ex fidanzato non aveva dimostrato alcuna pietà
quando lei era rimasta incinta
di Sonje e certo non si sarebbe smentito quel giorno.
Cos’avrebbe fatto Loki,
al suo posto? Theoric era meno alto e forte del dio degli inganni, ma
era pur
sempre un uomo dalla stazza robusta; annullò la distanza che
c’era tra loro e
Sigyn avvertì il ventre abbondante di lui che spingeva
contro il suo corpo, la
bocca dell’uomo che premeva sulle sue labbra tentando di
aprirsi un varco. Si
divincolò, ma non ottenne altro risultato che rafforzare la
presa del Vanir su
di lei. Chiuse gli occhi tentando di affogare la repulsione per il
contatto
indesiderato, e le vennero in mente le battute e i racconti cui
l’Ase si
abbandonava alle volte, dopo un banchetto. Cosa avrebbe fatto, al posto
suo? La
voce del dio degli inganni, ironica e beffarda come sempre, le
risuonò nella
testa. Ne approfitterei. Fu per
questo che morse con tutta la forza.
Theoric
gridò premendosi la bocca e
si allontanò non prima di averle dato un manrovescio che la
fece cadere a
terra. Per un istante, Sigyn non vide nulla, la vista annebbiata dal
colpo; poi
arrancò, si mise in ginocchio, incespicò e infine
si rimise in piedi in mezzo
alle vettovaglie e ai detriti causati dall’esplosione e
tentò di correre,
scappare, allontanarsi dalla cucina. Dietro di lei, Theoric aveva preso
un
mattone o forse un coltello; con il cuore in gola, si accorse che
l’atrio era
deserto e l’uscita troppo lontana. Sarebbe stata raggiunta
prima di poter
uscire definitivamente dal Tempio. Ricordò vagamente quella
diceria lontana su
come l’assetto delle stanze, all’interno
dell’edificio, sembrasse mutare, e
scelse di infilarsi in quello che le pareva essere proprio il buio
cunicolo
sulla destra che conduceva nei sotterranei dov’era sparito
Loki. Vi si gettò.
Theoric le andò dietro.
Continua…
L’angolo di Shilyss
Cari Lettori che
siete
arrivati fin qua,
Ecco finalmente
il nuovo
capitolo di questa raccolta! Voglio ringraziare tutti coloro che hanno
recensito, preferito, ricordato e seguito questa storia ♥.
Grazie davvero, ogni
riga è per voi ♥
Vi informo che
ho
revisionato il capitolo 1 di questa raccolta.
La Fatina
dell’Ispirazione promette che non passeranno i secoli prima
di un nuovo
aggiornamento e vi ricorda che per info, date, scemenze,
curiosità e domande c’è
la mia pagina facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
Ricordo che Jotunheim
e Vanheim così come sono intese e descritte, con questo ordinamento sociale, politico e
culturale sono una mia idea, così
come il personaggio di Sonje:
vi pregherei di non utilizzarle o, se proprio vi sentite ispirati, di
inserire
un disclaimer apposito in cui dichiarate i credits
♥. Anche
il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate alla voce
“Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale interpretazione/reinterpretazione.
Passando alle
note tecniche, fatemi
sapere se il rating arancione è
congruo
agli eventi narrati oppure no. In caso, provvederò a
modificarlo. Questo è stato
un capitolo difficile, non ve lo nego, soprattutto nella sua parte finale.
Volevo che
ci fossero una serie di cose senza, per questo, scadere nel banale o
nel
gratuito.
1 Come
ricorderete nello scorso
capitolo.
2 Appellativo
che viene dato da Loki
nell’Edda. Chissà perché.
3 Per ulteriori
dettagli, leggete la
mia fanfiction “Tutte le tue bugie.”
4 Sono eventi
completamente inventati
da me, quindi giù le mani!
5 Come
raccontato in “Tutte le tue
bugie.”
6 In occasione
della nascita di
Sonje.
7 Come nel
capitolo 3 di questa
raccolta.
8 Questi
elementi, così come i Vanir
intesi in questa maniera, sono un’idea mia.
Un caro saluto e
grazie per aver
letto fin qui! A martedì :)
Shilyss