僕は孤独さ – No Signal
☼
Parte settima: Il caso
Re.
«Hai avuto modo di parlare con Eto, di recente?»
Lo
stato meditativo nel quale si era rinchiusa in seguito agli allenamenti col
maestro andò in pezzi al solo suono della voce di quest’ultimo. Il cinese si
era espresso nel suo idiota natio, cosa che in fin dei conti non era poi così
tanto straordinaria o rara, ma avveniva per lo più quando non erano soli e
dovevano per forza nascondere i loro pensieri agli altri.
Peccato
che in quel momento, sul tetto della sede della diciannovesima, immersi nel
persistente profumo delle rose che Kenta curava ogni
giorno, ci fossero solo loro due.
La
mora aprì gli occhi dorati per piantarli in quelli rossi dell’albino, strusciando
le mani sulle ginocchia, improvvisamente a disagio. Qualcosa non andava e
temeva di aver fatto qualcosa di sbagliato. «No, Laoshi. Non parliamo dal giorno in cui mi
hanno dimessa dall’ospedale, dopo l’intervento. Quando faccio rapporto sulle
attività di Haise Sasaki
non ha mai niente da commentare.»
«Capisco.»
Tatara
si mise a sedere di fronte a lei, lentamente. Non c’era traccia di rimprovero nella sua voce, né di
rabbia. Persino nei suoi movimenti, lenti ed eleganti come l’acqua che scivola
sulle rocce di un torrente, non vi erano segni che preannunciassero una lavata
di capo o peggio, una punizione. Aiko se ne sarebbe
accorta, altrimenti. Ormai sapeva leggere l’albino come un libro aperto. Non
fece nulla se non prendere posto con lei, appoggiarsi le mani sulle ginocchia
ed espirare, svuotando i polmoni. I suoi occhi si chiusero e si concedette
anche lui un po’ di meditazione.
Lei
non parlò subito. Osservò per un secondo la linea di netto contrasto fra la
maschera rossa viva e la pelle di alabastro, prima dell’ombra della barba,
lucida, poi lo imito, chinando il capo e chiudendo le palpebre.
Rimasero
così per minuti infiniti, ma lei non riuscì più a ritrovare la concentrazione
di prima. Sentiva tutto amplificato attorno a lei, da quando le era stata impiantata
la kagune. Gli odori dei fiori e delle erbe che si
mischiavano fra loro, il suono del traffico di Tokyo sotto di loro, i movimenti
dei membri di Aogiri che vivevano nello stabile, nei
piani inferiori. Il profumo forte eppure piacevole del ghoul
seduto di fronte a lei. Ogni persona ora aveva un odore unico, che spesso le
arrivava alle narici prima ancora di incontrarla.
E
poi c’era la questione rimasta in sospeso, in
bilico.
«Ti chiedo perdono, Laoshi»,
inizio con cautela. Attese di vederlo ricambiare lo sguardo, prima di
riprendere a parlare con lui, in cinese. «Sei
preoccupato?»
«Shì de.» La risposta la lasciò del tutto
spiazzata. Si era aspettata una negazione, magari di essere arguita sul fatto
che quelle non erano questioni che la riguardavano. Invece per la prima volta
in oltre tre anni, il suo aguzzino stava ammettendo che temeva qualcosa. Aiko lo trovò
inconcepibile. Sentì il pavimento mancare sotto al cuscino su cui sedeva. Se
lui aveva paura di qualcosa, allora, erano perduti. «Il mio però è solo un sospetto. Non ho prove a sostegno della mia
teoria e fino ad allora tu dovrai solo limitarti a continuare a fare ciò che
hai sempre fatto.»
«Shì de, Laoshi.»
Con le mani tremanti, si appoggiò al lastricato della veranda, chinandosi
totalmente di fronte a lui. «Perdonami,
ma sono debole e ti imploro per la conoscenza. Dimmi ciò che ti preoccupa e
cercherò di porre rimedio.»
«Tirati su, mèi-mèi.»
Attese di vederla sedersi sui talloni, tenendosi poggiata sulle ginocchia, poi
sospirò piano. «Non capisco più chi sono
i nostri alleati e chi i nostri nemici. Questo limita di molto il mio giudizio
sulle situazioni di pericolo per l’organizzazione. Il problema però è ben
diverso: temo che questo sia quello che Eto vuole.»
«Eto vuole confonderti?»
«Lo trovi assurdo?»
A
primo impatto sì, Aiko lo trovò assurdo. Era abituata
a vedere in Eto e Tatara un unico organico,
nonostante sapesse chi dei due avesse più peso in Aogiri.
Non di facciata, certo, ma nella pratica nessuno era insostituibile eccetto la
fondatrice stessa. Eppure, ogni qualvolta pensava all’Albero, non poteva non
immaginare che i tre rami principali fossero loro due e Noro.
Da esso poi si articolavano tutti gli altri, da quelli più spessi alle foglione
e i germogli. Eto però non era il ramo, né il tronco.
Era le radici, che nascoste nel terreno si intrecciano senza essere viste.
«Cosa facciamo?», domandò, tenendo gli occhi sbarrati su un bocciolo di rosa.
L’albino
le prese il mento fra il pollice e l’indice, costringendola a uscire dal quello
stallo per concentrasi sulle sue parole. «Niente.
Le lasceremo fare ciò che ritiene giusto e noi faremo la nostra parte. Ora vai
o i tuoi colleghi si accorgeranno che manchi da ore.»
Aiko non si mosse di un centimetro.
«Credi che trami con….
Con il re?»
Fu
Tatara ad alzarsi per primo. La guardò solamente e lei comprese che sì, poteva
essere solo così. Loro non valevano abbastanza per sapere tutto, infondo.
Eppure un senso di amarezza la colse. Non per se stessa. In un certo senso,
provò dispiacere per il suo aguzzino.
Senza
Tatara come facciata, non sarebbe esistito più Aogiri.
Eto era troppo presa dalle sue
faccende, troppo distratta e incostante.
«Vai. Ti chiamerò io quando avrò bisogno. Fai
un favore a te stessa, però: stai molto attenta non solo a non essere scoperta
dai tuoi colleghi, ma anche a non scoprire più di quanto dovresti sapere.»
Di
nuovo, la lasciò sola con un enigma che lei non sapeva decifrare.
Interpretò
però che doveva smettere di curarsi delle scelte di Eto
e continuare a fare ciò che le veniva richiesto senza far domande, come aveva
sempre fatto.
E
come sempre, interpretò male.
Capitolo
trentasette
«Io
non ce la faccio più! Lasciatemi morire qui!»
Masa si appoggiò con le mani alle
ginocchia, lasciandosi sfuggire un lieve mugolio di dolore quando toccò la
carne viva lasciata in mostra dalle escoriazioni che si era fatta durante
‘l’allenamento’. Era certa che il primo a capitolare sarebbe stato Furuta, ma questi manteneva una certa stoicità
nonostante l’espressione devastata. Naoki, d’altro
canto, sembrava sul punto di piangere.
«Non
abbiamo ancora finito», sottolineò l’ovvio Arima,
sistemandosi gli occhiali sugli occhi e scansando la frangetta bianca sudata
dalla fronte. Lui, che portava più o meno il triplo della legna che aveva sulla
schiena Ikari, sembrava solo leggermente affaticato.
Leggermente.
Gli
altri membri della squadra, ghoul e mezzi ghoul compresi, erano al limite. Aiko
era certa di avere salito e sceso l’alta scalinata per arrivare al tempio di Kagutsuchi almeno settanta volte. Come minimo. Furuta si era addirittura messo a contare i gradini a un
certo punto. Erano trecento sette.
Rassegnata,
la mora fu la prima a riprendere la salita, portando le mani sulle bretelle del
canestro pieno di legna da ardere, per alleviare un po’ la frizione sulle
spalle lasciate scoperte della canottiera bianca. Take, in silenzio, la seguì,
come fecero anche Sasaki e poi con fatica, Furuta. Arima, invece, non mosse
un passo, fino a che anche Naoki non fu pronto a
proseguire quell’allenamento suis generis.
La
neo squadra di punta della S3 si era formata da appena cinque giorni, ma Arima non aveva dato ai nuovi arrivati nessuno spazio di
adattamento. A sentire Nimura, le strade erano due:
potevano arrendersi all’incredibile mole di lavoro fisico e mentale oppure
lasciare perdere e chiedere il trasferimento. A detta sua, Arima
non avrebbe avuto pietà.
E
non l’aveva avuta. Aveva preteso di vederli ogni giorno in ufficio a lavorare
sul caso del Re col Sekigan, spaccandosi la schiena
nelle ricerche dei suoi adepti più famosi. Aiko aveva
deciso di concentrarsi su Labbra Cucite – ovvero
su se stessa- ma era stato lo Shinigami Bianco a
esigere un cambio di rotta. Del leader della diciannovesima si sapeva troppo
poco, andava presa Hakatori. Masa
si era quindi data da fare. Aveva interrogato ghoul
all’interno della Cochlea, in particolare la giovane Fueguchi, scartabellato ogni documento che aveva trovato in
archivio sulla Piccola Bin e organizzato appostamenti che però non si erano mai
realizzati. Tutto il lavoro era andato
sprecato nel momento in cui Arima li aveva portati
tutti a un’ora e mezzo di auto da Tokyo. Certo, Hinohara
era un paesino di montagna delizioso e il tempio in cui erano ospiti era bello.
Però
il loro addestramento non aveva alcun senso.
Arima non li stava preparando a
lottare.
Li
aveva messi sotto gli ordini diretti del guardiano del tempio, il signor Higashi, e del suo giovane e aitante figliolo, Hori. Erano arrivati in mattinata e avevano spaccato un
quantitativo di legna sufficiente per mantenere caldo il tempio e tutti i suoi
ambienti per l’inverno. A pranzo avevano consumato velocemente un bento ricco, ma troppo misero per il dispendio di energie
che li aspettava per il dopo pasto: portare tutta la legna spaccata fino alla
capanna in cui sarebbe rimasta fino al momento dell’utilizzo.
Aiko iniziava a non sentire più i
muscoli delle gambe, tanto che era caduta almeno una decina di volta,
picchiando le ginocchia sui duri gradini di pietra fino a farle sanguinare. La
rigenerazione faticava a tenere il passo con qui ritmi serrati. Lei e Sasaki dovevano, poi, pagare il peso della loro forza
superiore a quella dei colleghi. Ogni giro che faceva Naoki
carico di legna, loro dovevano farne almeno tre e con il triplo del peso.
Arima sosteneva che se ci riusciva
lui, loro dovevano fare di meglio.
Haise, seppur stanco, non era né
sorpreso né tanto meno votato a fallire. Masa
semplicemente non capiva. Era entrata in quella squadra convinta di poter avere
una formazione tattica superiore, non per venire sfruttata da un vecchio pazzo
e dal pigro figlio. Si era anche azzardata a dirlo ad Arima,
dimenticando il consiglio d’oro di Koori Ui: mai e poi mai contraddirlo. Aveva litigato con lui tre
ore di seguito, mentre continuavano però quell’ingrato lavoro.
Litigato
poi era un termine eccessivo. Lei aveva litigato. Lui le aveva solo dato modo
di arrabbiarsi sempre di più.
Ci
aveva messo tre ore, ma aveva capito cosa intendeva Hirako
quando sosteneva che Arima era veramente molesto. A
quel punto si era zittita, conscia che lo Shinigami
l’aveva presa in giro tutto il tempo, iniziando a impegnarsi per fare quattro
giri consecutivi invece di tre.
Arrivò
in cima alle scale per prima, fermandosi un secondo sotto al Torii rosso vivo
per riprendere fiato, poi avanzò verso il santuario ausiliario, di fronte al
quali i due Higashi stavano sistemando il frutto del
loro duro lavoro in pile precise.
«Grazie,
Aiko-chan», le disse divertito Hori
quando lei scaricò il canestro senza troppe cerimonie, mollandolo un attimo a
terra per sfare la treccia che portava sul capo. Troppe ciocche erano sfuggite
e le davano fastidio, incollandosi al collo pallido e sudato. Si mise a
rifarla. «Il sole inizia a tramontare. Siete a buon punto.»
Lei
sbuffò, spostandosi per far spazio a Hirako e Sasaki, «Mancheranno sì e no due o tre carichi a testa.»
Haise sospirò, abbassando le spalle.
«Preferisco comunque portare la legna, rispetto a quello che dovremo fare
domani prima di tornare a Tokyo.»
Aiko, che aveva intuito che doveva
esserci la fregatura quando Arima aveva detto che si
sarebbero anche fermati per la notte, assottigliò di poco gli occhi. «Cosa
dobbiamo fare domani?»
«Portare
sacchi di riso.»
«Mi
state prendendo per il culo?!»
Nimura scaricò a sua volta la legna,
mantenendo il suo solito sorriso positivo. «Se siamo fortunati, prima di
partire, potremo anche iniziare ad allenarci per il Festival dello Sp-»
«Non
azzardarti», gli sussurrò Hirako, guardando fuori dal
capanno. Arima non era ancora arrivato, segno che Ikari era come minimo a metà scalinata. «Se nomini il
Festival dello Sport ad Arima inizierà a impazzire
già da ora.»
«Mancano
ancora più di tre settimane, no?», si informò Aiko,
ringraziando Hori quando le passò una bottiglia di
acqua. Lei prese un sorso abbondante, prima di passarla a Sasaki.
«Dobbiamo fare una staffetta. Che diavoleria potrà mai inventarsi Arima, per battere questa tortura delle scale?»
Hirako prese a sua volta la
bottiglia, guardandola truce. «Non lo vuoi sapere.»
«Si
è fissato su come bisogna passarsi il testimone», le rispose Furuta, ottenendo un’altra occhiataccia. «Secondo lui c’è
un modo ben preciso per farlo risparmiando 0.4 decimi di secondo.»
«Ha
in squadra me e Haise, chi se ne frega se tu o Naoki perdete quattro decimi?»
Nimura scrollò le spalle,
insofferente. «Che posso dirti. È molto competitivo. Soprattutto da quando Akira lo ha battuto quattro anni fa.»
«L’anno
in cui lui era in squadra con lei», gli fece notare Aiko,
indicando con il pollice Sasaki, che ridacchiò piano,
divertito, prima di andare a grattarsi il mento. «Senza contare che abbiamo
perso. Insomma, chi può battere i Quinx?»
«Ecco.» Hirako alzò il suo
canestro, pronto a ripartire per avvicinarsi alla conclusione di quella assurda
giornata. «Questa è una cosa che mai e poi mai devi fargli notare.»
«O
ci ammazza a furia di farci allenare», aggiunse Sasaki.
Furuta rise, apertamente, mentre
usciva dal capanno insieme alla mora. «O quello ci fa correre attorno a Tokyo
fino a che non ci mettiamo solo due ore!»
☼
«…
e quando abbiamo finito con le legna, Arima ha
dimostrato a tutti che si ricordava perfettamente del Festival dello Sport e ci
ha costretti a fare dieci giri di corsa attorno al recinto del tempio.»
Dall’altra
parte della cornetta sentì delle bacchette cadere su di un piatto e una
imprecazione mal trattenuta dalla persona a cui aveva appena finito di
raccontare la sua distruttiva giornata. – Tu
comunque sembri energica per aver fatto tutta questa attività fisica.-
Aiko prese un tiro dalla sigaretta,
mettendosi seduta più comodamente sul secondo gradino della tanto odiata
scalinata, fuori dal torii, così da non fumare nei
confini sacri. Avevano già dissacrato quel luogo di culto con ogni tipo di
parolaccia nell’arco delle ultime quattordici ore, non voleva aggiungere altri
insulti alle divinità. Non che fosse credente, ma la sua famiglia lo era e le
aveva insegnato a portare un certo rispetto in determinate situazioni. Se
fossero stati meno concentrati sulla forma e più sulla sostanza, forse non
sarebbero finiti così, a non rivolgersi nemmeno la parola. «Non sono energica.
Sono morta dentro, quindi tanto vale prenderla con filosofia. Puzzo come non ho
mai puzzato in tutta la mia vita e sto finendo le sigarette, ma mi rifiuto di
scendere queste maledette scale per arrivare in paese. So che non riuscirei a
tornare su, dopo.»
-Quanto sei
tragica. Come se non ti fossi mai allenata prima.-
«Non
per quattordici ore di fila, Cookie. Questo non è un addestramento, è un
tentato omicidio premeditato.»
Il
ragazzo non si impressionò nemmeno un po’. –Allora sei fortunata a vivere in un paese che prevede la pena di morte in
questi casi. Denuncia il tuo capo.-
Aiko sbuffò sonoramente, terminando
la sigaretta e spegnendola contro il gradino, prima di appoggiarla dentro un
fazzolettino. Se Arima avesse trovato anche solo un
mozzicone l’avrebbe costretta a spazzare ogni singolo gradino, a detta di Take.
«Potrei farlo visto che mi ha dato un ordine davvero stupido, prima.»
-Ovvero?-
«Scoprire
la vostra formazione della staffetta. Siete i nostri principali avversari
quindi vuole un file aggiornato con ogni vostra debolezza per fare una
strategia.»
Silenzio.
–Il
classe speciale sa che il Festival dello Sport è stato una idea del direttore Yoshitoki Washuu per farci
socializzare al meglio fra di noi? Questa dovrebbe essere una giornata atta a
creare più spirito di cameratismo fra compagni di squadra e non per eliminare i
colleghi.-
«Ad
Arima non frega niente, ci tiene molto a vincere. È
una sua perversione a quanto pare.» Un
sassolino le colpì la schiena. Aiko si voltò e vide Nimura farle segno di avvicinarsi, senza aprire bocca, per
non disturbare la quiete del tempio. «Ora devo andare. Però confido che mi aiuterai
a fare rapporto sulla tua stessa squadra.»
-L’alluce valgo
di Saiko vale come punto debole?-
«Quello
forse no, ma il suo seno sì. Come fa a correre così attrezzata?» Aiko si alzò in piedi, stirando la schiena. Nonostante la
rigenerazione sentiva come se il suo corpo fosse sul punto di collassare su se
stesso. Ripetutamente. «Ci sentiamo domani mattina, Cookie. Buon lavoro.»
-Buon riposo.-
Riagganciò
la chiamata, sbrigandosi a raggiungere il collega che le sorrise
maliziosamente. «Era il fidanzatino, Aiko-chan?», le
chiese, suonando come una vecchia zia impicciona, mentre le tirava piano la
guancia.
Lei
lo lasciò fare, mentre entravano nella piccola struttura nella quale si
consumavano i pasti. Erano già tutti seduti al tavolo e la moglie del custode
stava appoggiando di fronte a loro piatti ricolmi di prelibatezze. Almeno non
si potevano lamentare dell’ospitalità. C’era cibo sufficiente per un esercito.
«Non essere molesto, Nimura», lo riprese bonariamente
Arima, mentre Aiko si
sedeva sulla panca accanto a lui. «Se siete ancora così tanto svegli da
scherzare fra di voi, allora possiamo esercitarci un po’ con le quinque dopo cena.»
Tutti
sbiancarono, muti. Il solo a esternare il suo dolore fu Naoki,
che a stento riusciva a tenere il capo alzato. «Sto per fare harakiri con la
spada sacra.»
«Scherzo,
scherzo», ribatté asettico lo Shinigami, mentre
persino Sasaki si portava una mano alla fronte,
sollevato. Non sembrava affatto uno scherzo e ad ogni modo nessuno sembrava
divertito. «Siete liberi fino a domani mattina. Colazione alle sette. Sotto al torii alle otto meno un quarto, quando arriverà il camion
con i sacchi di riso.»
«Che
gioia», rispose Hirako, privo di qualsiasi sentimento
nella voce.
«Sembra
una partita a chi fa più schifo a fare il sarcastico», disse Aiko, indicandoli con le bacchette. Fu la sola a
interessarsi alla conversazione, visto che Furuta e Ikari si stavano già rimpinzando. Sasaki
rimase immobile per un paio di minuti di fronte al piatto pieno di quello che
sembrava carpaccio di manzo.
Ma
non era manzo.
Cedette
in fretta ai morsi della fame e alla sua pancia che ululava per venire
riempita, prendendo le bacchette fra le dita guantate
di rosso. «Grazie per il pasto», sussurrò a mezza bocca, mentre Arima gli riempiva un bicchiere di acqua.
A
nessuno importava che stesse per mangiare della carne presumibilmente umana. Aizawa gli aveva preparato un frigo portatile prima di
partire e Haise si era organizzato alla bene meglio
per far passare la sua cena come qualcosa di comune. Avrebbe preferito andare
nel bosco a nutrirsi, ma avrebbe mancato di rispetto a coloro che li
ospitavano.
Nemmeno
a loro sembrava interessare che un ghoul sedesse alla
loro tavola. Avevano fatto di tutto per non metterlo a disagio, ignorando il topic della carne e concentrando la conversazione sulle
festività che organizzavano annualmente al tempio. Parlarono solo loro, perché
la squadra Arima era momentaneamente composta da
persone di base taciturne e da morti viventi.
A
pasto ultimato, anche Aiko accusò tutta la stanchezza
accumulata durante la giornata. Mentre la digestione iniziava a fare il suo
corso e lei si ritrovava a fare il bagno da sola – il vantaggio di essere la
sola ragazza della squadra era quello di potersene rimanere sbragata in una vasca piena di acqua
bollente tutta per sé- rischiò di addormentarsi appoggiata con le braccia al
bordo.
I
ragazzi, che si stavano lavando dall’altra parte di un muro di mattoni crudi,
parlarono poco per non dire niente.
Quando
trovò le forze per uscire e indossare i vestiti coi quali avrebbe dormito, Aiko scoprì che Naoki era già a
dormire da venti minuti. Arima e Sasaki
non erano ancora usciti dalla vasca e Nimura si stava
apprestando a leggere l’ultima uscita di Shonen Jump prima di coricarsi a sua volta.
«Io
faccio una passeggiata», sussurrò a Furuta, che annuì
sfilandosi un auricolare da cui proveniva quella che sembrava terribilmente
musica latino americana. Anche se avesse urlato, comunque, Ikari
non si sarebbe svegliato. Sembrava morto. Non aveva nemmeno fatto troppe
allusioni sul lato b di Hori, dimostrando quanto
grave fosse la situazione.
«Come
una passeggiata? Non hai camminato abbastanza?», si informò il moro, ottenendo
come risposta la visione del pacchetto di sigarette. «Che abitudine poco
salutare», le disse seriamente dispiaciuto per lei, prima di ritornare ad
ascoltare Rapresent Cuba mentre leggeva One
Piece.
Uscì
dal padiglione nel quale avrebbero dormito tutti assieme, curandosi di chiudere
per bene la porta scorrevole alle sue spalle. La piazza era completamente
sgombra di fronte a lei e il tempio principale, che si ergeva al centro esatto
di fronte al toori, era illuminato dalla luce delle
lanterne ad olio. Aiko lanciò uno sguardo all’altare,
prima di muovere qualche passo. Non verso il lastricato però.
Girò
sui tacchi e, tenendo il cellulare in mano, accese la modalità torcia. Trovò il
sentiero che cercava dietro al santuario ausiliario e iniziò a camminare,
proseguendo persino quando incontrò il limite del recinto sacro. Scavalcò
quella piccola staccionata, notando che il suolo distinto dal calpestio
continuava nel bosco. Non doveva essere la sola ad aver deciso di avventurarsi in quel luogo negli ultimi
tempi. Il bosco bloccò i raggi di luna, gettandola in un buio profondo. I sensi
acuiti dal kakuo iniziarono a giocarle scherzi
strani. Si sentì seguita a un certo punto, così si fermò. L’occhio sinistro si
tinse di nero, e cercò di capire se fosse solo un effetto psicologico che il
bosco claustrofobico le proiettava nella mente o se fosse vero.
Quando
Take le apparve davanti, scansando una frasca, si diede della stupida.
«Cosa
stai facendo?», le domandò, guardando la kagune che
nemmeno si era accorta di avere estratto.
«Stavo
per farti fare la fine di Urie Kuki ad Aokigahara», gli rispose stizzita. «Per caso è una moda
quella di seguire le persone nei boschi senza dire nulla per farsi
riconoscere?»
Hirako fece spallucce. «Ti ho visto
allontanarti e ho pensato di impedirti di farti del male. O, a dire il vero, di
fare del male a qualcun altro.»
L’occhio
tornò identico al suo gemello e la giovane lo trapassò con le iridi dorate,
riprendendo per la sua strada. Nemmeno a dirlo, lui la seguì. «Vai a dormire,
Take. Sei stanco.»
«Non
sono così stanco.»
«Stai
trascinando i piedi.»
«Posso
resistere un’altra mezzoretta.»
Era
inutile. Era come sbattere ripetutamente il capo contro il muro o cercare di
convincere Arima a cambiare idea su qualcosa. In
effetti, erano davvero simili quei due. Aiko si
chiese come fosse Take prima di incontrarlo, se fosse sempre stato un testardo
o se lo Shinigami lo avesse plagiato.
«Cosa
stiamo cercando?», si informò l’agente, tenendo le mani nelle tasche della tuta
da ginnastica nera del bureau.
Masa sorrise affabile, guardandolo
di sottecchi. Le si era affiancato, sfruttando anche il suo telefono così da
avere due torce. «Una cosa che ho letto su internet.»
«Se
cerchi il tempo della Kitsune è di là», le fece
sapere, indicando fuori dal sentiero. Lei si fermò, guardandolo male. «Scusa,
ma veniamo qui molto spesso e ogni tanto ci fermiamo per giorni. Per
disintossicarmi da Arima faccio lunghe passeggiate
serali anche io.»
Voleva
davvero trovare quel tempio abbandonato, così con un sospiro rassegnato, la
mora gli fece cenno. «Fai strada.»
Lui,
che si era abituato da anni al tono scocciato che usava la ragazza quando gli
si rivolgeva, si limitò ad eseguire, precedendola.
Calò
il silenzio fra loro e Masa si sentì subito a
disagio. Come sempre, una volta combinato il danno, se ne rese conto. Aveva
risposto male al suo superiore, si era comportata come una stronza di nuovo.
Take non aveva fatto niente di male, se non proporsi di accompagnarla, per non
lasciarla sola. Lo faceva sempre, erano anni che si prendeva cura di lei. Non
riusciva però a scusarsi, perché lei quelle attenzioni non le voleva. Non
voleva esser trattata con gentilezza, perché non lo meritava. Eppure il senso
di colpa si acuì così, testarda, preferì muovere un gesto verso di lui
piuttosto che chiedergli scusa. Allungò una mano, prendendo il bordo della
maglietta bianca che indossava e stringendolo fra le dita.
Lui
non reagì, mantenendosi pacatamente chiuso nel silenzio.
Per
fortuna non camminarono ancora molto.
«Questo
luogo è meraviglioso.»
Fu
tutto ciò che Aiko si sentì di dire di fronte al
tempio. La struttura un tempio sacra era rimasta abbandonata per molto tempo,
lo si intuiva dalle condizioni di trascuratezza che avvolgevano non solo gli
ambienti interni, ma anche il cortile esterno. Un pavimento di foglie cadute si
stendeva a tappeto sotto i loro piedi, oltre la statua della volpe, fino ai
gradini di legno del santuario modesto.
«Inari», sussurrò Aiko,
passando le dita sui kanji che rappresentavano il
nome della divinità, scolpiti sul basamento della statua.
«Come
il mio cane», aggiunse Take, facendola sorridere divertita, mentre il disagio
tra loro si dissipava come sempre con naturalezza. «Quando era cucciola
sembrava una piccola volpe», continuò il rosso, mentre si avvicinavano alla
struttura.
«Mi
ricordo quando l’hai presa. Era microscopica.»
Si
ricordava benissimo della prima volta in cui Hirako aveva mostrato al lavoro la foto del suo Shiba Inu. Nessuno era riuscito
più a riprendere a lavorare, quella mattina.
«Come
mai ti sei interessata a questo piccolo tempio abbandonato?»
Aiko si sedette sui gradini,
spegnendo la torcia e alzando il viso. In quello spiazzo privo di vegetazione,
la luna illuminava la pavimentazione erbosa. Le cicale ormai non cantavano
quasi più, ma il brusio di fondo della foresta che prima l’aveva tanto
oppressa, in quel momento la fece sentire protetta. Al sicuro.
«Mi
è sempre piaciuto cercare gli yokai nei boschi. Lo facevo sempre quando ero piccola e
andavano a trovare i parenti a Kyoto.»
Take
non parve stupito. «E pensare che hanno inventato gli spiriti delle montagne e
delle foreste per spaventarli, i bambini.»
«Le
kitsune mi
hanno sempre affascinato», proseguì lei, appoggiandosi con il gomito al
ginocchio. «Possono assumere la forma di donne bellissime, diventare invisibili
e hanno poteri divinatori. In un certo senso, sono delle maschere di loro
stesse, indossano sempre identità che non gli appartengono.»
Hirako, seduto accanto a lei, le
impedì di accendersi l’ultima sigaretta rimasta. Fu però abbastanza gentile da
rimetterla nel pacchetto, portandoselo in tasca. «Era un territorio sacro
questo.»
Lei
lo guardò assottigliando gli occhi. «Era.»
«Comunque
non fumare ora, è fastidioso», la zittì, ottenendo come ricompensa una
linguaccia. Non che potesse scoraggiarlo in qualche modo. Non le restituì
comunque il pacchetto. «Tu sei un po’ come la kitsune.»
Lei
iniziò a giocherellare con l’accendino, abbozzando un sorrisetto. La fiamma le
illuminò il viso e lui notò una certa melanconia in quelle iridi. «Perché ho le
code?»
«Perché
indossi sempre una maschera.»
E
lei non rispose.
Era
stanca di cercare scuse.
☼
Quando
era arrivata nel fatiscente palazzo che avrebbe ospitato la riunione dei capi
di Aogiri, Aiko si sentiva
ancora amareggiata dalla conversazione che aveva avuto prima di uscire con
Urie. Aveva usato la stessa scusa di sempre, per potersi allontanare per l’ora
di cena, ovvero che sarebbe passata a casa di sua madre. A quel punto però lui
le aveva riservato un’occhiata strana, prima di dirle esattamente quello che
stava pensando.
«Quando
ti hanno ricoverata dopo lo scontro con Tatara, lei non è mai venuta a
trovarti.»
Hsiao aveva continuato ad
apparecchiare la tavola insieme a Saiko, piegando uno
dei tovaglioli di carta color pistacchio senza nemmeno alzare lo sguardo.
Eppure Aiko si era fatta così paranoica da voltarsi
verso di lei invece di rispondere al compagno. La scusa che aveva buttato
fuori, una potenziale avversione di sua madre verso gli ospedali, era uscita un
po’ stentata e quando si era allontanata salutandoli, aveva sentito quel muro
di menzogne dietro a cui si nascondeva crepare ancora di più.
Non
avrebbe retto ancora molto, lo sapeva.
Quando
aveva visto Kenta aspettarla fuori dalla caffetteria
in cui passavano la mattina da quando nessuno dei Quinx
aveva più voglia di andare al :re, non avevano nemmeno avuto bisogno di
parlare. Aveva controllato la sim card nel bagno delle donne durante una pausa
in ufficio e aveva trovato orario e luogo per la riunione a cui non sarebbe
potuta mancare.
«Cosa
è successo?», aveva chiesto ad Ayato, sedendosi
accanto a lui a terra, con la schiena contro il muro.
Il
ragazzo l’aveva guardata con la coda degli occhi, alzando le spalle come per
dirle che non lo sapeva e poco gliene importava. Continuò a rigirarsi fra le
mani un rametto, facendo passare qualche minuto prima di aprire la bocca. «Era
un po’ che non ti facevi vedere in giro.»
«Non
sai niente di cosa mi hanno chiesto di fare ora?»
«Sì,
dai la caccia a noi.» Masa non gli rispose, ma lui
non ne aveva bisogno. «Tsubasa mi ha detto della
promozione. Congratulazioni. Lavori con i pezzi grossi ora.»
«Parla
piano», sussurrò fra i denti, controllando che la maschera fosse ben ritta sul
viso a nasconderla. «Se ti sentissero-»
«Chi
se ne frega, questa stupida associazione di pazzi visionari sta andando in
rovina. Ora ti ci metti anche tu cercando di catturare Hakatori.»
Aiko decise di non rispondergli. Ayato sembrava avere una sorta di calamita per i litigi e
lei non voleva mettersi in mezzo. Preferì concentrarsi su altro. «Perché non
c’è Seidou?», chiese stranita, mentre Naki e gli Smoking Bianchi entravano nello stanzone,
completando il quadro.
Kirishima si voltò a guardarla, prima di
alzarsi in piedi. «Non sono la sua fottuta balia. Non so perché non c’è.»
Si
allontanò a passi veloci, lasciandola sola a rimuginare su quello strano
comportamento. Anche quando Tomoe le si mise accanto,
salutandola con rispetto e chiamandola senpai come se non
la infastidisse il fatto che Aiko le stava dando la
caccia, Masa non riuscì a smettere di pensare che Rabbit potesse sapere qualcosa che a lei sfuggiva.
Tatara
attirò la loro attenzione, ponendo così fine a ogni elucubrazione.
«Le
recenti sconfitte che abbiamo subito non possono essere attribuite solamente a
un perfezionamento nelle comunicazioni all’interno della ccg,
ma a un deterioramento delle nostre.»
Tutti
i presenti nella stanza rimasero in religioso silenzio, quasi come se dovessero
condividere una colpa comune. Aiko, invece, si
sentiva come se quelle parole mirassero solo a ferire lei. Incassò il capo fra
le spalle, mentre anche Eto si univa a loro, entrando
dalla porta con dei piccoli balzi calibrati, si appoggiò al muro dietro a
Tatara, sorridendo all’investigatrice quando questa le lanciò una fugace
occhiata.
L’albino,
che aveva solo iniziato, parve non curarsi affatto della presenza della Bambina
con le Bende. «Abbiamo ormai definitivamente perso il controllo della
tredicesima e di tutte le zone attigue. La squadra di Suzuya
Juuzou è impossibile da sconfiggere e noi non
possiamo permetterci di dispiegare grandi numeri ora. Manca poco al nostro
ultimo, definitivo attacco.»
«Definitivo?», ripeté a voce alta Naki,
con tono ottuso.
Tatara
lo guardò con sufficienza oltre il bordo alto della maschera. «Precisamente»,
gli rispose, prima di esplorare lo stanzone ad ampie falcate per portarsi fra
loro. «Ci sarà uno scontro aperto, nel quale non importerà molto di chi vincerà
o chi perderà. Importerà solo ciò che noi divulgheremo.»
«Ovvero?»,
si inserì Ayato, con scetticismo.
Il
suo Laoshi parve quasi offeso da quella mancanza di
fede. «Zhēnxiàng»
La verità.
Masa strinse di più le ginocchia al
petto, sopraffatta da così tanti pensieri da rischiare di venir schiacciata da
un momento all’altro. C’erano tantissime verità delle quali dovevano discutere,
in effetti. Quale fosse la più importante per Eto, in
quel momento, era un mistero per lei.
«Manca
ancora tempo prima di questo, però. Dobbiamo serrare i nostri ranghi e evitare
che si verifichino ulteriore falle nel nostro sistema.» Tatara diede loro le
spalle, unendo le mani dietro la schiena, col capo chino e la fronte corrugata.
Aiko sapeva che stava per dire qualcosa che non
voleva dire. Faceva sempre quell’espressione quando Eto
gli dava ordine che non comprendeva o che non appoggiava. Poi però, come
sempre, proseguì come se nulla l’avesse turbato. «C’è qualcuno fra noi che
dovrà rispondere di accuse molto pesanti, stasera.»
Quando
i suoi occhi color rubini si scontrarono con l’oro delle iridi di Aiko, lei sentì il cuore mancarle di un battito. La bocca
sotto le bende di Eto si torse in un ghigno,
distorcendo le linee bianche che la mascheravano agli occhi dei presenti. Il
Gufo si aggrappò con i suoi artigli alla manica del cappotto immacolato
dell’albino. «Ora è il momento di giustificarti a tutti noi, Aiko-chan.»
Quella
era la prima volta che Eto le rivolgeva apertamente
la parola di fronte a tutti gli altri boss di Aogiri.
Era anche la prima volta che usava il suo nome per intero.
La
prima volta che la spogliava della sua copertura.
«Alzati»,
le ordinò perentorio Tatara, senza nemmeno sforzarsi di parlarle in cinese.
L’avrebbe umiliata in modo che tutti potessero capirli? Masa
non aveva comunque modo di rifiutarsi, né di tirarsi indietro. Quando si alzò
in piedi, con le ginocchia a tremarle appena sotto alla mantella chiara, lui
non le riservò alcun garbo. «Levati la maschera.»
Una
folle paura le attanagliò il cuore, mentre meccanicamente portava la mancina
dietro al capo, allentando la fibbia che teneva ferma la mascherina di cuoio.
Se la sfilò e con essa caddero anche le bende, mentre un leggero brusio si
diffondeva per la stanza.
Miza tirò indietro il capo, come un
serpente pronto a mordere, mentre Naki la guardava
senza capire. «Nonnina, a te non sembra quella colomba che era su tutti i
telegiornali?»
«Perché
è lei», rispose Tre Lame, mentre Kenta cercava lo
sguardo di Aiko, finalmente consapevole del motivo
per il quale c’erano stati così tanti segreti fra le loro file. Aiko però non la
ricambiò, poiché teneva le iridi sgranate sul pavimento, incapace di muoversi o
anche solo di parlare.
Stava
per morire? Sì, doveva essere così. Non avrebbe avuto alcuna utilità ora che la
sua copertura era saltata.
«Sei
famosa, Aiko-chan», cantilenò Eto,
andandole incontro e prendendole le mani, trascinandola così di fronte a tutti.
Saltellò sul posto, giuliva, prima di appoggiarle una mano sulla guancia,
raccogliendo sulla punta dell’indice la lacrima che stava scorrendole verso il
mento. Se la portò alla bocca, leccandola via dal dito, prima di fare un
piccolo giro su se stessa. Era la quarta essenza della gioia in quel momento.
«Sono molto, molto felice che finalmente tu possa guardare i tuoi alleati in
volto. Da pari.»
Le
parole della ragazza bassa la confusero. Si stava aspettando di venir trattata
alla stregua di un animale da macello, così come Tatara le aveva detto quel
giorno. Avrebbe rimpianto di non essere stata fatta a pezzi dall’inizio, così
le si era rivolto prima di andarsene e lasciarla sola su quel marciapiede. E
lei lo aveva atteso, quel momento. Però ciò che aveva appena detto Eto non aveva alcun senso.
Metà
delle parole di Yoshimura non ce l’avevano. Ma in
quel momento tutto arrivava ad Aiko velocizzato,
difficile da cogliere.
«Non
capisco…»
«Come
non capisci? Come puoi non capire quanto intelligente sei stata!» C’era un tono
dolce in quella frase che sembrava così tanto una presa in giro. «Furbetta»,
proseguì infatti Eto, «Farti assumere da Arima ti ha resa del tutto inutile come spia. Come possiamo
tenere un infiltrato in quella squadra? Verresti scoperta in quattro e
quattr’otto!»
«C-c’è Sasaki lì», provò a dire la
morettina, mentre cercava appoggio da Tatara. Ottenne solo uno sguardo apatico
in risposta. Freddo e gelido. «Credevo che ti avrebbe fatto piacere avermi di
nuovo a lavorare su di lui. Dopo quello che è successo al Lunar
Eclipse-»
«Esattamente
dopo quello che è successo quella notte, tutto il lavoro su Haise
Sasaki si è fatto inutile e noioso», la interruppe il
Gufo, sventolandole una mano sotto al naso. «Ora che ti sei esposta così tanto,
non ha più senso continuare così.» Le prese le mani, sporgendosi in avanti per
baciarle la guancia. «Sorridi, Aiko. Ora puoi unirti
a noi definitivamente.»
Le
labbra di Eto erano fredde.
Ma
mai come le sue parole.
«Definitivamente?»
«Esatto!
Niente più coperture, sotterfugi e menzogne. Niente più doppia vita! Ora puoi
unirti alla causa e seguirla fino al compimento del nostro destino. Non sei
felice di questo?»
Per
un attimo, Aiko si sentì mancare la terra sotto ai
piedi. Non sarebbe più tornata indietro, da quel momento.
Non
avrebbe più lavorato con Naoki, Nimura
e Haise. Non avrebbe più ricevuto strigliate apatiche
da Arima, né si sarebbe più potuta confidare con Koori.
Non
aveva nemmeno chiesto scusa a Take.
Non
aveva detto addio a Urie.
E
i Quinx…. Erano la prima, vera, solida famiglia che
avesse mai avuto. Erano la sua casa.
La
potenza con la quale realizzò a cosa era arrivata, cosa avevano portato anni e
anni di doppiogiochismo, la fecero barcollare. Non rispose a Eto, limitandosi a guardarla attraverso gli occhi patinati
dalle lacrime. Il suo viso si era fatto più pallido e sembrava sul punto di
sentirsi male.
Anche
volendolo, non sarebbe riuscita ad articolare un discorso.
Eto lo sapeva, lo sapeva
benissimo. Così bene che la baciò nuovamente, sull’altra guancia.
«Ah,
Giuda. Non mi hai venduto per trenta denari, certo. Però lo faresti per amore,
non è vero?» Con un sospiro esageratamente drammatico, le lasciò le mani. Andò
a sedersi su una scatola di legno, lasciandosi cadere su di essa con un certo
rammarico negli occhi.
Ora
sì che poteva sentirla, Aiko. La Morte. Le stava
spostando i capelli per poterle sussurrare all’orecchio quanto si fosse fottuta
da sola, con le sue mani.
Aveva
la voce di Eto.
«Sono
mesi che lo so. Che ami il tuo capo…. Beh non quello
di ora. Non Arima Kishou,
il mio primo agente preferito. E nemmeno Haise Sasaki, il secondo nella mia lista. No. Io parlo del tuo
vero capo, la sola persona al mondo per la quale arriveresti a tutto, presto o
tardi. Anche tradire noi.» Si appoggiò con le mani ai bordi dondolando il
piede. «Come si chiama, Signor Tatara? Urie Kuki?»
L’albino
non aprì bocca. Distolse lo sguardo con disprezzo dalla sua allieva, come se
non la considerasse nemmeno più tale. Aiko deglutì,
cercando la forza. «Eto…»
«Risparmiami
le scuse, Ai-Ai. Non devi dire proprio niente. Quello
a cui ti ho appena sottoposta era un test e tu non lo hai passato. Mi
dispiace.»
Mentre
il Gufo alzava un braccio, Masa sentì qualcosa
spezzarsi dentro di lei. Si buttò in ginocchio, prostrandosi completamente ai
suoi piedi e unendo le mani di fronte al viso. «Ti prego Eto,
perdonami! So di non essere stata furba e di aver fatto il mio interesse, ma
non uccidermi!»
La
voce le uscì acuta e stridula, ma non riuscì a dire molto altro.
Aveva
aspettato quel momento per tutti quegli anni, eppure non era pronta a morire
così. Si sentiva tradita, improvvisamente, come se non l’avessero avvertita
adeguatamente. Come se potesse esistere un modo per prepararsi alla morte.
Singhiozzò,
tremando come una foglia sotto un battente vento autunnale, aggrappandosi alle
caviglie magre dell’altra, tirando le bende e inclinando di più il capo. «Ti supplico…. Non voglio morire.»
Yoshimura riabbassò il braccio, non più
divertita. Il suo sguardo era diventato improvvisamente grave. «Ucciderti?
Perché dovrei farlo? Non ti punirei così facendo. Dovrei uccidere questo Urie,
insieme a tutta la sua squadra. Dovrei uccidere Take Hirako,
i suoi nonni e il suo cane. Dovrei costringerti a guardare morire ogni singola
persona che hai tradito, a cui ai mentito, che hai manipolato. Però non ho voglia.
Mi hai annoiata e io, di te, non ne voglio più sapere.»
Aiko non si mosse, continuando a
singhiozzare. Ayato fu il primo a lasciare la stanza,
trovando la scena troppo patetica per poter essere incoraggiata ulteriormente.
Il resto dei testimoni manteneva il religioso silenzio, così netto da aver
fatto dimenticare a Masa che avevano un pubblico.
«Non
hai ancora capito?», la incalzò Eto. «Sei diventata
inutile, un peso morto. Non possiamo comunicare con te da dentro la squadra di Arima, sarebbe troppo rischioso. Però ucciderti non mi
darebbe nessun vantaggio, ma anzi, attirerebbe lo sguardo dello Shinigami su di noi se il suo secondo sparisse. Quindi scacco matto al re, Aiko.
Sei riuscita a trovare la scappatoia perfetta e ora sei libera.» Fece una
pausa, mentre una scintilla irata le faceva risplendere le iridi smeraldine.
«Vattene
ora e non fare più ritorno.»
Tatara
la raccolse dal pavimento come se fosse un ammasso di stracci, tenendola per il
braccio e facendola sfilare per la stanza, fra gli altri luogotenenti raccolti
in un silenzio chi sdegnato e chi risentito, scortandola oltre la porta e per
le scale.
Dire
che Aiko era totalmente sotto shock sarebbe stato un
eufemismo. Cadde di nuovo in ginocchio, priva di energie, quando lui la lasciò
andare. Fece per lasciarla lì, ma lei lo fermò, aggrappandosi alla sua giacca.
«Laoshi…»
«Io
non sono più il tuo maestro. Hai sentito Eto. Sei
libera.»
«Io
non capisco. Cosa ho sbagliato?»
L’albino
si chinò alla sua altezza. Improvvisamente la patina di alterità che lo
contraddistingueva cadde, lasciando spazio a uno dei suoi rari momenti di pura
umanità. Le appoggiò una mano sul capo, mentre lei riprendeva a piangere,
disperata. «Sei la prima persona che può andarsene di qui senza finire in una
valigetta o essere divorata da un altro ghoul.
Dovresti essere grata dell’opportunità.»
«Dopo
quattro anni io non so più vivere! Non potete usarmi così e poi dirmi che sono
libera! Tutto quello che so, tutto quello che ho fatto, mi hanno privata della
mia anima e mi impediranno di vivere una vita normale per sempre! Laoshi…. Io non
lo so più cosa è la libertà!»
Tatara
se la levò di dosso, guardandola negli occhi. Abbassò anche la maschera, così
che potesse sentirlo per bene.
«La
libertà è decidere cosa farai per te stessa da ora in poi. Vedi di non sprecare
la tua vita mai più.»
Si
alzò in piedi, mentre lei rimaneva immobile, atterrita, a stringere fra le dita
la polvere.
«Questo
è un addio, vero?»
«Sì
è un addio. Non tornare.» Tatara si fermò sulla porta, ma non si voltò per rispondere.
«La prossima volta che ci vedremo ti converrà essere più forte di me e
uccidermi. Non sarai così fortunata da finire di nuovo in ospedale.»
Rimasta
sola, in quel vecchio androne, quando anche i passi smisero di infestare lo
stabile, Aiko realizzò per quegli ultimi cinque anni
aveva permesso ad Aogiri di usarla in ogni modo.
Aveva
dato tutto a Eto.
E
lei l’aveva levato la possibilità di scegliere e agire. L’aveva anche tenuta
lontana da Seidou.
Lui
non l’avrebbe mai perdonata se non fosse tornata.
☼
Urie
scaricò il corpo addormentato di Aizawa sul letto
senza alcuna delicatezza. Si sistemò la giacca del completo, guardando il
medico completamente sbronzo e riverso in modo scomposto sul materasso con
disappunto negli occhi serpentini. Non si prese la briga di coprirlo, né di
rimettergli gli arti in un assetto anatomico decente. Lo lasciò lì così,
uscendo dalla stanza che puzzava in modo insopportabile di chiuso e alcool.
Per
la seconda volta in una settimana si era visto costretto ad andare a pescare Ivak al solito pub, ubriaco come una spugna. Ed era solo
mercoledì. Sospirò pesantemente, lasciando così trasparire tutto il suo
rincrescimento, senza davvero aprire bocca. Si aspettò una battuta sagace o
quanto meno uno sguardo dalla persona che stava sistemando alla meno peggio la
sala, ma essa non si voltò nemmeno a guardarlo.
Questo
gli diede la possibilità di spiarla per qualche istante. Aiko
sembrava stanca, pallida. Non riusciva a capire come fosse possibile per un
mezzo ghoul, ma aveva addirittura le occhiaie. Aveva
passato la notte fuori e poi, come se niente fosse, era tornata per la
colazione. Non sarebbe parso strano, Masa aveva
l’abitudine di passare la notte dalla madre, ma in quel preciso momento non
sembrava nemmeno lei. Kuki si lamentava continuamente
del fatto che non riusciva a farla stare zitta.
Il
silenzio in quel salotto, però, era così denso da ferirgli i timpani.
«Stanca?
Turno difficile?», le chiese avvicinandosi e prendendo un paio di bottiglie di
birra vuote, che lasciò scivolare nella busta dell’immondizia che la ragazza
teneva in mano.
Lei
gli dedicò un sorriso pallido, che di autentico non aveva nulla. Tornò a
radunare i tovagliolini usati, ficcandoli poi di prepotenza nella busta per
contenere tutta l’immondizia che infestava quell’ambiente relativamente
ristretto. «Sono un paio di giorni che lavoro troppo e dormo male. Sono
sottotono.»
Urie
calcolò che l’aveva trovata più spenta dopo quell’addestramento fuori Tokyo, al
tempio. Però sembrava più giù di morale che stanca. «Tra poco finirai
sotto-terra se continui così», le fece presente, iniziando a preoccuparsi
seriamente quando lei non lo riprese per il pessimo gioco di parole ma anzi,
abbozzò una mezza risata. La aiutò a sgomberare il divano da tutte le schifezze
e i vestiti sporchi, prima di passare al tavolino. Le concedette qualche
minuto, giusto il tempo di rendere di nuovo abitabile l’appartamento, prima di
sedersi, facendole cenno di fare lo stesso.
La
sua espressione trasmetteva un solo messaggio: ‘dobbiamo parlare’.
«Spara»,
gli disse la mora, lasciandosi cadere sui cuscini del divano, con le mani sulle
cosce. Sembrava così stanca da essere pronta a tutto, anche a una potenziale
lavata di capo. Non solo. A Urie trasmise tristezza e smarrimento il modo in
cui evitava di guardarlo negli occhi.
«Credo
che sia tu quella che deve parlare a me, Aiko.»
Lei
abbassò il capo ancora di più, prendendosi una mano con l’altra e lasciando che
i capelli potessero scivolarle sul viso. Per nascondersi. Il solo vantaggio
della lunghezza di quelle ciocche corvine. Per un istante, si domandò se anche
il non averli tagliati avesse influenzato il giudizio di Eto.
Forse credeva di non averla più sotto controllo.
Era
così?
Era
diventata così ingestibile?
Non
era una mente machiavellica. Non lo era mai stata. Sapeva recitare la parte
dell’astuta, ma non lo era davvero. Aveva accettato di entrare nella SIII solo
perché non aveva scuse per rifiutarsi. Perché non aveva avuto il coraggio di
dire di no ad Arima come non lo aveva mai avuto con Eto. Temeva le persone più forti di lei? Probabile.
Semplicemente, con le spalle al muro, la vita le aveva insegnato ad assecondare
le situazioni.
In
quel momento avrebbe dovuto fare lo stesso.
Soprattutto
quando, senza inflessioni opprimenti nella voce, Urie la incalzò nuovamente.
«Qualsiasi
cosa tu abbia fatto, possiamo rimediare. Io posso rimediare. Però tu devi
permettermelo.»
Kuki si tolse i guanti, lasciandoli
sul tavolo e portando le sua mani grandi su quelle più sottili, dalle dita
lunghe della mora. Gliele prese, scaldandole.
«Ti
prego Aiko, parla con me.»
Da dove
cominciare? Si
chiese quanto sbagliato sarebbe stato, alla fin fine, dirgli tutto. Lei lo
amava come non era mai riuscita ad amare nessuno. Non riusciva a credere che
lui potesse ricambiare quel sentimento, perché lei stessa si spaventata per
quanto intenso fosse. Urie era tutto quello che voleva e che aveva sempre
voluto, senza saperlo. Si era interessata a lui perché era il figlio dell’uomo
che l’aveva salvata e aveva scoperto una persona invece completamente diversa
da quella che aveva immaginato in un primo momento.
Urie
era un ragazzo giovane e onesto, anche se lo nascondeva dietro a una maschera
di menefreghismo e freddezza. Era sempre stato solo, aveva sofferto ogni colpo
basso che la vita gli aveva inferto, ma si era innalzato oltre quella coltre di
dolore e si era fatto da sé.
Urie
era anche incredibilmente altruista e Aiko lo aveva
visto mettere sempre la squadra davanti a sé. Avrebbe fatto tutto per loro. Se
gli avesse rivelato ciò che aveva fatto, non l’avrebbe tollerato perché lei
aveva operato per la donna che aveva contribuito a renderlo orfano, ma
nonostante tutto sentiva che non l’avrebbe lasciata sola. ‘ Non perderemo più
uno di noi’, indipendentemente dalle colpe. L’avrebbe forse lasciata, ma in
qualche modo l’avrebbe protetta.
Questo
perché, infine, Urie era coraggioso. Era leale al sistema, ma capace di
adoperare il suo senso critico per comprendere cosa fosse giusto e cosa sbagliato.
Non aveva paura di fare ciò che era bene fare.
Era
cambiato moltissimo negli ultimi mesi e del ragazzino scorbutico che non voleva
affetti non era rimasto nulla.
Era
una persona migliore, matura. Diversa, ma infondo era come se fosse solo
sbocciato.
Aiko non era niente di tutto ciò.
Era una bugiarda, incapace di vedere a un futuro in cui lei stessa sarebbe
stata artefice del suo destino e codarda.
Per
questo motivo strinse le mani dell’altro di rimando, alzando gli occhi per
guardarlo. Ma decisa che si sarebbe portata nella tomba tutto ciò che aveva
fatto. Razionalmente, lo credeva così buono da perdonarla, col tempo, ma non
poteva permettersi di rischiare di perderlo.
L’avrebbe
definitiva uccisa.
Non
poteva.
E
se lui non l’avesse lasciata, Eto l’avrebbe ucciso.
Perché
se Masa avesse parlato avrebbe rovinato Aogiri, ma poi la vendetta del Gufo sarebbe stata troppo da
fronteggiare. Nessuno l’aveva mai fermata, nemmeno lo Shinigami
Bianco. La collera di Eto l’avrebbe distrutta, se non
si fosse prima distrutta la propria reputazione da sola.
Così,
preferì prendere la strada che meglio le riusciva.
Evitò
il discorso.
«Io
non sono…. Non merito di lavorare per Arima. Loro sono tutti così organizzati, così leali. Io
sono solo una perdente, Kuki. Risolvo i casi perché
ho degli agganci nella malavita e so dove cercare. Non sono intelligente come
tutti pensano. So solo aggirare i problemi. »
Lui
non si scompose. Abbassò di poco il capo per mettersi alla sua altezza, visto
che lei si era ritorta su se stessa. «Credevi che non lo sapessi?», le chiese,
senza volerla sfottere, ma comunque con naturalezza. «Il modo in cui hai
risolto il nostro primo caso, l’Embalmer, è ingiustificabile sul piano logico. So che tu hai
qualche aggancio dall’inizio. Però non importa, perché molto investigatori
usano gli informatori per-»
«No,
non capisci.» Aiko si morse il labbro. «Il caso di Nagachika era una copertura. Io cercavo altro.»
«Va
bene», Urie cercò di farla calmare, tirandola più diritta e tenendole le mani,
mentre ruotava col busto verso di lei, sedendosi con una gamba a penzoloni sul
divano. Sentiva che stavano, finalmente, scendendo più in profondità. «Cosa
stavi cercando?»
«Takizawa Seidou.»
Bugia.
«Perché
lo cercavi?»
Aiko sfilò la mano mancina,
portando via un paio di lacrime dalle sue guance.
«Perché
gli voglio bene.»
Verità.
Il
ragazzo deglutì, sentendo la bocca farsi molto secca. «Ti sei fatta coinvolgere
in qualche attività…. Illecita mentre lo cercavi?»
Non indagò la natura della loro conoscenza perché non era quella la sede.
C’erano cose molto più importanti che andavano portate alla luce.
«Sì.»
Chiuse
gli occhi, Kuki, sentendo che tutto quello che aveva
temuto ogni volta che lei inventava una scusa per allontanarsi dallo chateau si stava
concretizzando. «Va tutto bene», le fece sapere, prendendole una spalla che le
tremava a causa dei singhiozzi. «Ora ti farò la domanda più importante di tutte
e mi dovrai dire la verità, ok?»
Lei
non smise di tremare, se possibile si sentì ancora più chiusa in una morsa.
Lui,
invece, rilassò il viso. «Lo sa qualcuno?»
Gli
occhi di Masa si sgranarono all’inverosimile. Stava…. Insabbiando tutto?
«Qualcuno?»
«Lo
hai mai detto a qualcuno, nella CCG? Come per esempio Itou?
O il classe speciale Ui?» Quando Masa
scosse il capo, Urie annuì di nuovo. «Perfetto. Non dirlo a nessuno e cessa
immediatamente ogni contatto con il tuo informatore. Se vuoi trovare Takizawa, lo farò io. Tu, però, smetti immediatamente di
indagare.»
Sarebbe
stato divertente far sapere a Urie che erano stati i suoi informatori a
interrompere ogni contatto con lei, ma Aiko non lo
fece. Sentì come se un gigantesco macigno le fosse appena stato levato dal
petto, perché il ragazzo che le sedeva accanto sembrava convinto di quella
versione. Una mezza verità. Lei aveva confessato di avere fatto cose non
legali, ma lui non aveva indagato la gravità della situazione perché infondo
nemmeno lui voleva sapere. La sua priorità era sapere se fosse o meno invischiata
in qualcosa e adesso aveva le risposte.
Peccato
che Masa fosse praticamente certa che lui non aveva
davvero compreso l’estensione del suo coinvolgimento. Lui glielo confermò con
la domanda successiva. Attese di averla calmata un po’ e quando Aiko smise di singhiozzare, lui passò al livello
successivo. «Va preso l’informatore, però. Con lui libero, non possiamo dormire
molto tranquilli.»
Quello
sì che era un bel problema.
Chi
poteva utilizzare? Sicuramente non Tsubasa perché
quello là avrebbe cantato come un usignolo. Di umani, poi, conosceva solo lui.
Le
serviva qualcuno che le avrebbe coperto le spalle volente o nolente, o che
semplicemente non avrebbe mai collaborato con gli investigatori. Per un attimo
pensò che sarebbe stato geniale usare Kenta, ma poi
Urie lo avrebbe preso.
No.
Serviva qualcuno di più invisibile, meno collaborativo e sicuramente meno
semplice da catturare vivo.
Qualcuno
che sarebbe morto piuttosto di collaborare con la CCG.
«Senza
Faccia. Il mio informatore è Senza Faccia.»
Era
la copertura ‘quasi’ perfetta. Quanto meno la più comoda. Nessuno sapeva
davvero dove trovarlo, nonostante tutto, eccetto Haise
Sasaki. Lei credeva sinceramente però che quella
conversazione sarebbe rimasta fra loro e basta e Sasaki,
ad ogni modo, non si sarebbe messo a perseguire un vecchio amico. Poi, Uta portava il raggio di azione di Urie lontano da Aogiri.
«Lui
ti ha dato le informazioni?»
Nella
mente di Urie, tutto aveva perfettamente senso. Senza Faccia era sempre stato
un acerrimo rivale della squadra Hirako, oltre che
una delle punte di diamante dei Clown. Poteva arrivare a conoscere più o meno tutto in città se lo stesso Donato
Porpora, chiuso da quasi un ventennio nella Cochlea,
era sempre aggiornato.
«Sì.»
«Tu
in cambio cosa gli hai dato?»
Quella
era una domanda molto difficile a cui rispondere. Infatti non lo fece subito.
Tolse la mano da quella del compagno, scostando i capelli dal viso e cercando
di ragionare velocemente.
Lui
ovviamente voleva una qualche verità e non le voleva concedere il tempo di
inventarsi una scusa. «Aiko, tu cosa gli hai dato in
cambio?»
«Informazioni
su degli agenti.» Lo disse di getto, cercando un modo per non rivelarsi lei la
spia. Se si parlava dei Clown, non doveva essere nemmeno presa in
considerazione come ipotesi. Non facevano mai operazioni contro di loro perché
non sapevano nemmeno cosa stessero organizzando o dove si trovassero. «Senza
Faccia voleva solo sapere chi lavorava su di lui o sulle loro attività.»
«Come
lo Psiche?»
«Soprattutto
lo Psiche.»
Non
sembrò molto convinto, ma decise di darle il beneficio del dubbio. Doveva
risolvere un problema alla volta. «Sai come potresti interrompere i contatti
con lui definitivamente?»
Per
risposta, dalla tasca dei pantaloni, lei prese la simcard
con cui comunicava sempre con Tatara, opportunamente formattata da ogni
informazione possibile. Gliela appoggiò sul palmo della mano, certa che non
sarebbe stata utile a niente, ma almeno le avrebbe fornito un alibi per il
momento.
«Siamo
pari, ora. Il caso Nagachika ha portato alla luce
delle informazioni su una sua conoscenza e da allora non gli chiedo più
favori.»
«Se
siete pari perché sei così nervosa?», chiese Urie, mentre le prendeva
l’accendino dalla tasca anteriore dei jeans. Sciolse quella sim card di fronte
ai loro occhi, mandando in fumo la sola, effettiva prova del coinvolgimento di Aiko con Aogiri.
«Perché
Arima potrebbe scoprirlo da un momento all’altro.»
Non
faceva una piega, certo.
Urie
però sentiva che mancava qualcosa. Il quadro totale non era completo, gli
sfuggiva un tassello o forse più di uno. Sapeva che Aiko
stava omettendo qualcosa e quel qualcosa era maledettamente importante se
doveva preoccuparla al punto tale da farla impallidire. Di nuovo, la studiò,
portando una mano al suo viso per spostare i capelli lunghi. Era fredda,
stanca. Mancava del suo solito sarcasmo e i suoi occhi la tradivano. Era
preoccupata.
Azzardò
a pensare che fosse spaventata.
Da
cosa, però, non poteva saperlo se non era lei ad ammetterlo per prima. Non
poteva costringerla a dirgli tutto, non ne aveva il potere, ma ci provò lo
stesso.
«C’è
altro che dovrei sapere?»
La
ragazza alzò a sua volta la mano, sfilandogli il profilo del mento con i
polpastrelli. Chiuse gli occhi, appoggiandosi alle sue labbra con la fronte.
«In realtà sì», ammise con tono basso. Con entrambi i palmi lisciò la camicia
sul suo petto, tenendo le iridi sul nodo della cravatta. «Credo che Sasaki faccia il doppio gioco.»
Basso.
Vile.
Senza
ombra di dubbio il colpo più infimo che poteva tirare. Colpire l’anello debole.
Il ghoul di cui pochi si fidavano.
«Non
è più Haise, il nostro
Haise. Si comporta come se nulla gli importasse
più. »
Non
stava mentendo su questo, certo. Tutti potevano notare che l’associato alla
classe speciale era diventato più cupo non solo nel look. Però sostenere una
tesi del genere era inconcepibile per chiunque lavorasse con lui. Aiko avrebbe tramutato la sua dedizione nello smascherare
il Gufo col Sekigan nella copertura perfetta di una
spia.
No.
Della
spia.
«Sono
preoccupata anche per lui, vorrei solo aiutarlo a trovare un po’ di pace.»
Urie
le accarezzò la nuca, prima di sospirare pesantemente. «Vorrei sapere cosa
diavolo succede in quella squadra.»
«Questo
è quello che mi chiedo anche io ogni singolo giorno, sai? Anche standoci
dentro, è strano.»
«Ci
occuperemo anche di Sasaki. Andiamo per gradi e
vediamo di non fare troppo casino. Non abbiamo bisogno né di pubblicità né di
incasinarci la vita.»
Aiko si tirò indietro, guardandolo finalmente
negli occhi e sorridendogli. Si sentiva meglio, nonostante fosse riuscita a
ingannarlo per l’ennesima volta, in un certo senso, si giustificò pensando che
sotto sotto, qualcosa lo aveva ammesso. Urie non
aveva scavato molto a fondo, ma da lui se lo aspettava. Lasciava spesso perdere
le questioni che sapeva che avrebbero potuto in qualche modo danneggiare o
ferire qualcuno della squadra. Lo faceva continuamente, soprattutto con Mutsuki.
Forse,
molto più semplicemente, non voleva ferire più sé stesso.
«Ora
basta però parlare di queste cose, ok? Starò bene?»
«Lo
puoi promettere?»
Masa annuì. «Te lo prometto, Kuki. Staremo bene.»
Si
spose verso di lui, colmando la distanza con quello che sarebbe stato
semplicemente un bacio pacificatore, se non fosse stato per le mani del
ragazzo, che scesero sui suoi fianchi. La aiutò a sollevarsi e a sedersi sul
suo grembo, dove la fece di nuovo sedersi.
Poi
la abbracciò per così tanto tempo che parve non finire più.
«Se
c’è altro o dovesse succedere qualcosa in quella squadra», sussurrò fra i suoi
capelli, mentre lei socchiudeva gli occhi, tranquillizzata dalla sua voce. «Tu
devi venire immediatamente da me. Ti riporto nei Quinx
con effetto immediato e fanculo il matrimonio. Non ha
senso che tu ci rimetta la carriera o la salute, non ora.»
Lei
alzò la testa, incrociando le braccia dietro al suo collo. Poi sorrise,
sghemba. «Molto nobile da parte tua, Cookie. Tanto so che sei solo geloso
perché io sono nella SIII e tu no.»
Era
un ottimo momento per sdrammatizzare. Lo pensò anche Urie, che roteò gli occhi,
con un leggero sorriso però a incurvargli le labbra. La spinse con la schiena
contro il divano, strappandole un urletto divertito e
una risata. «Strega, perché mi preoccupo per te?», le soffiò sulle labbra,
mentre riprendeva a baciarla.
Ogni
battuta e ogni obiezione morì nella sua bocca, mentre lei si liberava già della
sua cravatta, andando poi ad aprirgli la camicia.
Si
staccarono solo quando lui sollevò il torso nudo, per sfilarle gli stivali neri
che aveva messo quella sera.
Ivak aprì gli occhi, fissando con
astio la sveglia che suonava imperterrita nonostante fosse sabato mattina e
lui, da settimane, non faceva più straordinari nel weekend.
La
spense con una certa stizza, prima di mettersi seduto. Sentiva la schiena
dolergli dalla prima vertebra cervicale all’ultima lombare. Aveva dormito
scomposto e di questo poteva sicuramente rendere grazie a Urie. Sapeva di non
avere voce in capitolo per lamentarsi, perché ogni volta che lo chiamava
sbronzo lo andava a prendere a prescindere dall’orario, ma in quel frangente si ritrovò a pensare che
quel ragazzo non aveva alcun rispetto per gli adulti.
Come
se Urie fosse un adolescente, poi.
Si
stirò alla meno peggio, levandosi la camicia della sera precedente che puzzava
di fumo e scotch di pessima scelta. Buttò tutto in un cestone, insieme ai
pantaloni eleganti e ai boxer bucati su una gamba, ficcandosi in doccia e
provando a lavare via l’amarezza dal suo corpo.
Non
ci riuscì, ma almeno quando ritornò in camera con addosso la sua peggior tuta
da casa, non puzzava più.
Certo,
l’odore di fallimento era difficile da togliere, ma quello poteva sentirlo solo
lui.
Pensò
che un po’ di tv spazzatura sul suo divano nuovo di fronte a una ciotola dove
annegare i cornflakes nella vodka avrebbero in parte curato il suo malumore, ma
aveva i fatto i conti senza l’oste.
Anzi,
senza gli ospiti.
Non
era un ghoul, ma non gli serviva un super udito o un
super fiuto per percepire che in casa sua doveva esserci qualcun altro a parte
lui. Lo poteva vagamente intuire dalla camicia nera che penzolava oltre il
bordo del divano o dal reggiseno rosa di pizzo a terra, a qualche centimetro
dal tavolino da tea.
Si
avvicinò nemmeno troppo circospetto, spiando oltre il bracciolo con orrore.
«Voi
due siete davvero due pezzi di merda», sbottò dopo aver lanciato un cuscino in
faccia a Urie, riuscendo a svegliarli con un unico colpo. Si erano coperti, ma
con il suo pile preferito da casa.
Quella
era una tragedia.
«Ma
che ore sono?», si lamentò Masa, spostando il capo
dal petto di Kuki e coprendosi il viso con lo stesso
cuscino che era appena stato usato come arma, mentre il compagno di portava a
sedere, con le mani al viso, stordito da un risveglio tanto brusco.
«Chi
se ne frega di che ore sono, Aiko! Non posso crederci
che abbiate fatto sesso sulla mia unica gioia nella vita!»
Urie
lo guardò con un occhio aperto e uno a mezz’asta, mentre una ciocca viola ribelle svettava dalla sua fronte con
scherno. Aizawa ormai interpretava ogni loro gesto o
aspetto come un personale affronto. «Cosa diavolo stai blaterando?»
«Avete
fatto sesso sul mio divano nuovo! »
Masa mugolò, mentre sentiva l’altro
che cercava di infilarsi i boxer sotto alla coperta cercando al contempo di non
scoprire lei. «Non urlare.»
«Urlo
quanto cazzo mi pare! Questa è casa mia! E questo è il mio fottuto divano
nuovo! Nemmeno io ci avevo mai fatto sesso prima! Non avete rispetto per il mio
lutto!»
Kuki riuscì nella sua impresa,
scivolando poi fuori dal pile alla ricerca dei suoi pantaloni. Non sembrava
avere fretta, comunque. Passava quasi più tempo in quell’appartamento che allo chateau. Se Masa doveva lavorare di notte, certe volte, riportava Ivak e rimaneva a dormire sempre sul medesimo divano.
Prima
non si era mai lamentato, ma effettivamente dovevano averlo preso di
contropiede così facendo. In un certo senso, anche se Aizawa
non poteva avere idea della pesantezza della loro conversazione della sera
precedente, era come se gli avessero sbattuto in faccia qualcosa che lui non poteva
avere più.
In
un momento in cui lui era ancora sensibile.
«Vieni»,
gli disse Urie sbadigliando, mentre cercava la camicia che si mise, senza
allacciarla. «Ti preparo i dorayaki per colazione.»
Il
biondo sospirò, rassegnato. Poteva farci qualcosa, eccetto rinfacciarglielo in
eterno? No.
«Sarà
bene per te che siano croccanti come piacciono a me.»
«Lo
saranno, lo saranno. Aiko, tu svegliati, pigra culona.»
Un
altro cuscino le volò addosso, stavolta lanciato da Urie. Lei sbuffò,
affacciandosi oltre al bracciolo e spiando i due sparire in cucina. Si appoggiò
con gli avambracci alla superficie liscia di pelle, prima di nascondervi il
viso.
Su
di esso, c’era un piccolo sorriso divertito.
Forse,
forse, sarebbe riuscita a farlo funzionare.
Forse
sarebbe riuscita ad avere una vita normale, con degli amici normali e un lavoro
normale.
Forse
sarebbe addirittura riuscita a smettere di mentire.
Ci
sperò sinceramente, mentre si alzava, cercando i suoi vestiti.
Quel
giorno, iniziava la sua nuova vita.
Libera.
Continua…