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Autore: alessandroago_94    26/11/2018    7 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo ventisette

CAPITOLO VENTISETTE

 

 

 

 

 

 

 

 

Mia madre, notando quanto ero assorta nella lettura, finì di maneggiare le chiavi e fece due passi indietro, curiosa, cercando di sbirciare il contenuto della lettera.

“Cazzo, mamma”, riuscii solo a dire, non appena ebbi concluso la prima e frettolosa lettura del testo.

Agitai in fretta la lettera, facendole fare il classico rumore della carta quando viene stropicciata malamente.

“Cosa…?”, mi domandò, molto perplessa.

Ne approfittai per fissare il suo viso serio, ad un palmo dal mio.

“Tu sapevi che tuo marito è morto?”.

“Mio… marito?”.

“Dai, su! Il tuo ex marito…”, allora specificai, esasperata.

“Ma cosa stai dicendo? Sei impazzita?”, scrollò il capo, a sua volta spazientita.

Le allungai la lettera firmata da un notaio di Milano, dove ci informava che a seguito del decesso di Massimo Grimaldi, e cioè mio padre, ero invitata alla lettura del testamento, che sarebbe stata effettuata da lì a due giorni. Ero sbigottita e su tutte le furie.

Sbigottita perché una cosa del genere non me la sarei mai aspettata, così tra capo e collo, ed inoltre mio padre risultava deceduto ormai da mesi, e nessuno si era mai preso la briga di informarci. Questo mi stava mandando fuori di testa. Non che me ne importasse molto, non avevo neppure dei particolari ricordi di lui, però un minimo di rispetto dovevo meritarlo, almeno io, che ero sua figlia. La sua unica figlia, se non ne aveva avute altre con la signora con cui conviveva… o che l’avesse poi sposata? Non ne avevo idea.

Poi, quella convocazione così frettolosa, che non mi lasciava neppure un po’ di margine per prepararmi, mi fece salire la voglia di andare direttamente da chi di dovere e fare una bella denuncia.

Nel frattempo, mentre la mia testa era sopraffatta da una miriade di contrastanti pensieri, anche opposti tra loro, mia madre concluse la lettura e mi porse distrattamente la lettera.

“Cavolo”, riuscì ad affermare, anche lei senza parole.

“Questi sono pazzi. Mio padre muore, lo seppelliscono, e nessuno mi dice niente. Magari era anche malato da tempo. Poi arriva questa letterina così, a caso, dove mi invitano a recarmi alla lettura di un testamento…”.

“Nel quale, a quanto pare, sei citata, come ha affermato chiaramente prima di spirare in pace”, concluse mia madre, togliendomi le parole di bocca.

“Mamma, mi odiava! Anzi, ci odiava… ci detestava. Io a questa stronzata non partecipo! È che non mi metto neanche a prendermi tre giorni di permesso o di ferie per andare ad ascoltare questo mucchio di merda scritta. Sai quante cazzate ci avrà scritto? Aveva solo dei debiti”.

“Non parlare così di tuo padre!”, urlò all’improvviso mia madre.

“Perché, non è vero che era un grande stronzo? Che amava andare a zoccole? Quando stava via con il camion, pensi che non le…”.

Lo schiaffo mi colpì in pieno viso, alla sprovvista, e mentre avvampavo, riconoscevo che la rabbia provata sul momento mi aveva spinto a passare seriamente ogni limite.

“Scusami, ma’, però chiedo perdono solo a te, e non a lui. Se abbiamo sofferto, è stato solo a causa sua! E se è morto, amen…”, dissi, quasi singhiozzando. Mi sentivo esausta e esaurita.

“Perdonami, non volevo farti male. Quell’uomo era davvero un gran pezzo di merda”, disse a sua volta, cominciando a piangere e avvolgendomi in un abbraccio tenero e materno.

“Io non credo neppure che sia morto. Questa è una stronzata che ha fatto scrivere da qualche burattino di un suo amico, e magari è tutto falso, o una trappola per attirarmi là, in quella città lontana, e trarmi in chissà quale inganno o tranello”, confessai i miei sospetti.

Davvero, non riuscivo a crederci a quella notizia.

“Aveva sessantaquattro anni. Non era mica vecchio…”.

Sessantaquattro anni erano davvero pochi per spirare, riconobbi, a meno che non avesse avuto dei problemi davvero molto gravi, oppure un infarto improvviso, o un incidente sul lavoro, sempre che avesse avuto un impiego… in ogni caso, sarebbe stata una tragedia se un uomo ancora così giovane fosse per davvero venuto a mancare.

Non sapevo se era la verità o meno, comunque la faccenda aveva un pessimo gusto.

“Avanti, entriamo”, suggerii alla mamma, in modo che potessimo raccogliere le idee tra le mura domestiche, senza rischiare di dare spettacolo all’aperto. I panni sporchi, secondo me, andavano sempre lavati in casa.

Andammo subito in cucina, e dopo aver tirato su le tapparelle, ci mettemmo sedute l’una di fronte all’altra, con il tavolo a dividerci.

“Non può essere uno scherzo”, tornò a dire mia madre, “sarebbe una cosa gravissima, nessuno si macchierebbe di tale crimine. Perché, guarda, questa è proprio una firma vera. Nessuna persona si sarebbe esposta così tanto, c’è pure un indirizzo…”.

“Beh, guarda, mandiamo affanculo ogni dubbio, allora”, affermai io, ormai decisa a prendere l’iniziativa, “chiamiamo il numero indicato nel timbro del notaio, e sentiamo quello che ci racconta”.

“E’ domenica, non è mica lì apposta per te”, disse mia madre, scettica.

“Provare non costa nulla”.

Estrassi il mio cellulare dalla borsa, e digitai in fretta e furia il numero. Il telefono squillava liberamente, ma, come c’era da aspettarsi, non rispose nessuno, ed entrò in scena la classica segreteria telefonica.

Non attesi, e riattaccai, avvilita.

“Non risponde nessuno, c’è la segreteria telefonica inserita”, ammisi la mia sconfitta.

“Te l’avevo detto”, sancì mia madre, per nulla sorpresa dal risultato del mio tentativo.

“Ma non mi lascio mica scoraggiare. Domani è lunedì, e la lettura del testamento c’è martedì, se non sbaglio… quindi, domattina ho tutto il tempo per telefonare a questo signore e chiedergli informazioni di persona, sempre se esiste”, conclusi, per nulla demotivata dal primo risultato fallito. Mia madre scrollò le spalle.

“Non cambia nulla. Per me è vero”.

“Se anche fosse tutto vero, non possono farmi così tanta fretta”.

“Non sono affari del notaio se tu sei stata avvisata o meno del decesso di tuo padre”.

“Anche se non lo fossero, non m’importa, ho anche io i miei diritti e intendo farli valere”, affermai, risoluta, ma ormai certa che fosse inutile continuare a parlare di quella faccenda. Una scoperta inattesa, di quelle che non mi sarei mai attesa di dover affrontare durante quella che doveva essere una tranquillissima domenica sera.

E a quanto pareva non sarebbe bastata quella mazzata, perché il campanello trillò forte, facendomi sobbalzare.

“Aspettavi visite?”, chiesi a mia madre, perplessa, mentre mi avviavo con poca voglia verso la porta d’ingresso.

“Oh, io no”, mi rispose, e per una manciata di secondi il mio cuore batté forte nel petto, siccome temevo che George fosse venuto per chissà quale motivo anche a casa nostra, per completare al meglio quella giornata. Se così fosse stato, avrebbe rischiato davvero troppo per i miei gusti, e sarebbe anche risultato scortese.

Tuttavia, quando aprii la porta e mi ritrovai di fronte al faccino spensierato di Irene, tirai un mezzo sospiro di sollievo, che fui costretta a rimangiarmi sul più bello, quando la mia razionalità mi mostrò che forse quella mia amica era ben peggio del mio principe azzurro.

“Ciao! Ciao, Isa, come stai? Tutto bene? Tutto a posto?”, mi travolse con la sua gioviale irruenza, e non avevo ancora aperto del tutto la porta.

Sospirai, cercando di nascondere un brivido di nervosismo. Non sapevo perché, ma quella visita che solo due mesi prima sarebbe stata una sorpresa favolosa e ben gradita, in quel momento mi dava sui nervi.

Forse non riuscivo più a fidarmi della mia migliore amica dopo le ultime disavventure che mi aveva fatto vivere.

“Insomma. Tu?”, mi limitai a dire, seria.

“Oh, come mai quella faccia così triste? Dio mio, non posso vederti così giù di morale”.

Mi abbracciò, in un attimo, e mi veniva solo da pensare che se fosse tornata a casa sua, allora sì che sarei stata più sollevata. Come facevo ad essere felice in quegli istanti così delicati?

“Non esci più, non ti vedo più in giro. Non è che sei depressa? Eh? Non ti fa bene stare sempre in casa… e poi, con quel lavoro. Ah, tu pensi troppo al lavoro, devi lasciarlo perdere”, mi sussurrò alle orecchie, prima di sciogliere l’abbraccio amichevole che io avevo ricambiato solo blandamente.

Mi tornò a guardare con quella faccia rotondetta, e nonostante mi sorridesse, mi parve di avere di fronte a me un ghigno scimmiesco. Le avrei smollato tranquillamente uno schiaffo, così, senza pensarci troppo.

“Vieni pure in casa, entra”, optai per un ultimo pertugio di cortesia stanca e fredda, evitando accuratamente di provare a ribattere o a rispondere a quello che mi aveva detto da quando era piombata lì.

Non si fece ripetere l’invito, e come una tranquilla ragazza di casa, andò dritto in cucina, già scordandosi che esistevo, giacché le avevo fatto poca festa.

“Ma ciao!”, salutò mia madre, ed andò da lei. Io ribattei la porta d’ingresso, e, sospirando, mi appoggiai per un attimo con le spalle contro il muro, sospirando. Credevo che non ce l’avrei fatta a sopportare dapprima quella lettera, così infausta, così folle, e poi quella pazzerella estrosa che era piombata dal nulla.

Davvero, avrei tanto voluto che quella ragazza fosse soltanto frutto della mia immaginazione del momento, ed invece era lì, a rompere le scatole.

Quanto ero cattiva! Mi stupii presto di me stessa, e della mia cattiveria gratuita, d’altronde non era colpa di Irene se era venuta a trovarci nel momento sbagliato. Era un’estranea ai fatti, non aveva colpe a riguardo, e non dovevo scaricare in nessun modo il mio nervosismo recente e appena accumulato su di lei.

Mi sforzai quindi di indossare un sorriso di circostanza, mettendomelo sulle labbra quasi tendendomele con le dita delle mani, e andai in cucina, dove mia madre e Irene stavano felicemente interagendo.

“Oh, vedo che la mamma sta meglio, eh! Che bello vedere che ti sei ripresa del tutto, ero sempre preoccupata per te”, disse infatti la mia amica, non appena mi vide entrare nella stanza, dapprima rivolgendosi a me, e poi alla mia genitrice.

“Non dovevi. Devi ringraziare mia figlia, comunque, perché è stato grazie alle sue cure se mi sono risollevata un pochino”, disse mia madre, così, molto spontaneamente. Il mio sorriso si tramutò improvvisamente da forzato a sincero.

“Ho fatto solo quello che qualunque figlia avrebbe fatto”, minimizzai, comunque convinta che avessi fatto davvero molto poco. Anzi, ne ero certa.

“Siete uscite assieme, mi pare di capire”, cinguettò Irene, usando il suo intuito.

“Sì, siamo appena rientrate”, dissi.

“Oh, che bello! Che famiglia unita”, affermò con gioia Irene, “e poi ti fa bene uscire un po’, Isa, dato che non esci più”.

“Non esce più?!”, saltò su mia madre.

Ecco, ero nei pasticci.

Irene aguzzò le orecchie e tornò a guardarla.

“Perché, esce? Io non la vedo più in giro”, chiese.

“Certo che esce, in continuazione mi verrebbe da dire”, disse mia madre, sincera, ed io avrei tanto voluto tapparle la bocca. Stava per scatenare la pestifera curiosità di quella ragazza pettegola, e non volevo che si aizzasse in quel modo.

Peccato che il latte fosse ormai versato.

“Davvero? Senti un po’”, affermò, infatti, tornando a guardarmi.

Cercai di intervenire, ma sembrava che non potessi farcela, siccome le due donne che mi stavano a fianco erano spietate quando erano assieme, e parlavano decisamente troppo.

“Hai un ragazzo, forse?”, mi chiese, subito dopo.

Stavo per negare con la testa, ma mia madre fu più tempestiva.

“Certo che ce l’ha! E la ricopre di tante dolcezze”.

Ecco, a quel punto ero ancor più nei pasticci. Non avevo più nulla da dire, avevo la bocca secca, non riuscivo ad articolare nulla.

Fu come se i secondi che intervallavano una frase dall’altra fossero diventati anni, all’improvviso, senza lasciarmi alcuna via di scampo. E mi ritrovai a pensare, nella mia confusione mentale, se per caso amare fosse un errore.

Io amavo George, e non dovevo mica rendere conto a nessuno di quella scelta mia e del mio cuore, e che andassero a quel paese tutti gli altri e tutto il resto. Il mio nervosismo verso Irene tornò ad aumentare quando lei si dimostrò ancora più interessata a quell’argomento che, come doveva apparire chiaramente alle mie interlocutrici, mi disturbava affrontare.

“Cavolo, Isa… che culo! Non sono tante le ragazze che possono vantarsi di avere un partner amorevole”, tornò infatti a dire la mia amica.

“Hai ragione”, mugugnai, come unica forma di risposta.

Le parole mi uscivano sibilate, tra i denti, ed era lampante che mi stavo turbando sempre di più, ma lei non era mica una tipa che demordeva, oh, no, quindi tergiversava, preparava la nuova domanda trabocchetto e la spiattellava come se nulla fosse, così, tanto per fare.

La verità era che il suo cuore di serpe pettegola voleva estrapolarmi dei segreti, cose che magari avrebbe poi spifferato in giro… no, stavo rapidamente cominciando a rivalutare ciò che provavo e pensavo per quella ragazza.

“Lo conosco, vero? Frequenta qualche locale pubblico?”.

“Sì…”, mi affrettai a mentire.

“Io non ti ho mai visto, però, in giro! Strano, perché tua madre ha detto che esci spesso, no?”, tornò a pungolare.

“Sarà stata la sfortuna a non averci fatto incontrare”, risposi di nuovo in maniera molto frettolosa.

“Oh, sei davvero così vaga…! Devi essere molto innamorata”, sancì la mia amica.

Mugugnai un altro nervoso sì.

“Me lo faresti conoscere…”.

Non finì di rendere esplicito l’ennesimo quesito che io esplosi, senza riuscire più a trattenermi.

“Ma basta, i cazzi tuoi non te li fai mai?”, le dissi, in un modo che mi venne fuori proprio cattivo, senza mezzi termini. Avrei voluto esprimere il concetto in modo più blando, magari anche un filino scherzoso, invece ci avevo dato giù in maniera pesante. Anche la mia voce aveva tradito tutto il nervosismo che stavo covando dentro di me, e quindi alla fine ero stata solamente sincera.

Mia madre trasalì di fronte alla mia schiettezza, e rientrò all’improvviso in scena, dopo qualche minuto trascorso più come sfondo che come partecipante a quella che sembrava un’intervista. Tra l’altro, anche lei qualche ora prima aveva tentato di farmi abboccare all’amo, ma io le avevo offerto solo un asso di picche.

Se già il suo primo tentativo aveva messo seriamente alla prova la mia interiorità, quel secondo me l’aveva fatta proprio rivoltare dentro al petto.

“Isa… non si parla così ad un’amica”, diede infatti il suo contributo, ma la zittii.

“Ma’, non ho più cinque anni, se una persona la voglio mandare affanculo, gliela mando senza problemi”, mi limitai a dire, con profonda nonchalance, consapevole che ormai ero compromessa.

Irene fremeva di fronte a me, aveva perso quel suo sorrisino spavaldo che sfoggiava spesso e volentieri, e non riuscivo a capire quello che stava pensando, e soprattutto se stesse riflettendo su come saltarmi in faccia e strapparmi i capelli per punizione, oppure se stesse solo meditando sul vero significato delle mie parole.

Aveva capito che non ero più nelle sue mani, che non mi fidavo più di lei, e quello era qualcosa che doveva metabolizzare.

“Ire”, mediò la mamma, con grande discrezione e con un tono di voce molto gentile, accomodante e controllato, “perdona mia figlia per quello che ti ha appena detto”.

Notò che stavo per ribattere qualcosa, i miei occhi mandavano fuoco e lampi, siccome li utilizzai per lanciarle una delle mie classiche occhiatacce terribili, ma fu la sua volta di zittirmi con uno sguardo ancora peggiore, e tutto rivolto a me.

Ottenne il risultato sperato, e la lasciai parlare.

“Sai, poco fa abbiamo trovato questa lettera nella cassetta della posta”, proseguì, e avvicinò alla ragazza quello scritto che avevo finito di leggere poco prima, e che mi aveva fatto tanto arrabbiare.

“Cos’è…”, sussurrò Ire.

“Avanti, leggila se vuoi”, la invitò mia madre.

“Non vorrei essere indiscreta”, provò a dire, e allora dentro di me sorse una vocina maligna che mi sussurrava altre malignità. D’altronde, per quella giovane l’indiscrezione era di casa, non aveva motivo per farsi tanti scrupoli, portati avanti solo per fare la figura dell’educata di fronte ad una donna più adulta.

“Non preoccuparti. Leggi, e poi dicci se anche tu non saresti incazzata e arrabbiata come Isa”, tornò a dire la mia genitrice, e mentre Irene afferrava la lettera e leggeva, mi volsi verso il lavabo e mi appoggiai contro di esso.

Avvertivo la pressione del mio sedere contro quell’acciaio fresco e umido, ma non mi spostai, ancora confusa, limitandomi a portare le mani all’altezza del viso, e a coprirmi gli occhi, stropicciandomi un po’ le sopracciglia con un tocco leggero.

“Immagino che non abbiate saputo nulla di ciò che era accaduto”, disse la mia amica, conclusa in fretta la lettura, con un’aria perplessa che aleggiava sui lineamenti del suo viso.

Appoggiò sul tavolo la lettera del notaio di Milano.

“No, è per quello che siamo su tutte le furie”, ammise mia madre, come se fosse stata una risposta ovvia, una vera e propria scusante.

Io non ero in vena di accettare compromessi, comunque volevo provare a seguire il filo logico che la mamma stava provando a tessere, senza che io riuscissi ad afferrarlo fino in fondo.

“Cavoli, queste sì che sono disgrazie! Oh, Isa, scusami se ti ho rotto con tutte quelle domande sceme, non immaginavo”, mi corse allora incontro Irene, abbracciandomi per l’ennesima volta, tornando anche gentile e rilassandosi. Mamma aveva messo una pezza al mio danno, deviando per il verso giusto la discussione.

Ricambiai il suo abbraccio, e sospirai, piano, restando seria.

L’unica cosa di cui avevo bisogno era piangere, me lo sentivo, ma non riuscivo affatto a sfogare la mia interiorità, e in più non potevo farlo di fronte a delle altre persone. Maledissi quel senso di pudore che ci assale ogni volta in cui necessitiamo di sfogare i nostri sentimenti in pubblico.

“Sono perdonata?”, insistette la mia amica, con gentile premura.

“Sì… anche se sono io che quella che ha esagerato. Scusa”, finii per dire, ammettendo anche le mie colpe.

Irene scrollò le spalle, segno che tutto era già acqua passata.

“E adesso che intendete fare? Sempre se non sono indiscreta”, tornò ad interloquirci.

“Cosa intendo fare, vorrai dire, visto che sono l’unica delle due che è stata citata, a quanto pare…”.

“Io, in ogni caso, non voglio nulla di quella persona. Sono disposta a rinunciare a tutto, e posso dirlo anche di fronte ad un giudice”, intervenne mia madre, risoluta.

“Va bene, ma anche io allora non…”.

Mi interruppe di nuovo.

“Tu sei sua figlia, tu devi”, e si soffermò con forza su quel devi, “andare a prendere ciò che è tuo di diritto”.

“Io…”, mugugnai, senza saper proseguire.

“Non ti ha mai fatto un regalo, non ti ha mai dato nulla in tutta la tua vita. E a quanto ne sappiamo sei la sua unica figlia, la sua unica e vera erede. Non m’importa nulla di quello che ti avrà lasciato, citandoti nel testamento, e a questo punto voglio sperare che non siano debiti”, e mi sorrise, bonaria, donando un minimo di simpatia a quel discorso serissimo, “quindi, anche se solo ti avesse lasciato uno spillo, tu lo devi andare a prendere. Devi aggiudicartelo, e controlla che le parti siano fatte in maniera equa; tu sei sua figlia e come erede diretta hai diritto, in ogni caso, a una certa quota, nonostante il testamento. Fai valere i tuoi diritti”.

“La fai facile, ma’. Io ancora non so bene cosa pensare, a parte che sono incazzata nera e sconvolta”, ammisi, sincera.

Non temevo di parlare in modo troppo irruento di fronte alla mia genitrice, ormai ben sapeva che quando ero sotto stress mi si scioglieva la lingua.

“Se parlerai con questo coraggio anche di fronte a chi di dovere, naturalmente senza inserire volgarità, sono sicura che ogni tuo diritto sarà rispettato a dovere”, riconobbe lei.

Irene, che era diventata all’improvviso una spettatrice del nostro dibattito, non seppe starsene zitta per altro tempo.

“Tua madre ha ragione, Isa, ascoltala”.

Guardai entrambe, con uno sguardo rapido.

“Domani chiamo quel numero da idiota che è impresso lì, nel timbro del tipo. Poi sentirò com’è la situazione… cioè, io dopodomani dovrei essere di fronte a questo qui? Ma non esiste, chi ci parla con la signora Virginia, che poi ultimamente è sempre stata gentilissima con me? Dio mio, che casino”, mi misi le mani tra i capelli.

“Oh, che dramma, figliola! Virginia è una persona dalla scorza dura, ma un cuore ce l’ha. Sono convinta che ti concederà qualche giorno, d’altronde è un’emergenza imprevista, e hai anche le carte che la certificano”, affermò saggiamente la mamma. Ne ero convinta anch’io, ma in fondo non me la sentivo proprio, non avevo voglia di affrontare quell’imprevisto, ed era più facile drammatizzare.

Ancora, mi venne da piangere, ma non per mio padre, per il quale non provavo nulla, con grande freddezza, bensì per tutto il resto. Che poi non avevo neppure diritto a lamentarmi così tanto, siccome avevo il mio George.

Al solo pensiero mi si scaldò il cuore; sapevo che su di lui potevo fare grande affidamento.

“Dai, vai e taglia la testa al toro”, disse Irene, ancora molto seria.

“Vorrei essere così tanto forte come lo siete voi”, dissi, infine, lasciandomi andare.

Mi levai le mani dalle prossimità del viso, e mi scostai dal lavabo, ormai troppo sfinita per proseguire oltre.

“Ti faccio un grande in bocca al lupo per tutto, mia carissima amica, e… condoglianze”, concluse Ire, aggiungendo l’ultima parola dopo averci riflettuto un attimo, quasi a soppesarla. Aveva ragione lei.

“Ti ringrazio. Spero di tagliare la testa anche a questo lupo”, risposi, metaforicamente.

“Sarà meglio che vada a casa, adesso… il mio ragazzo mi sta aspettando già da un po’, ma ero qui in zona ed ho pensato di fermarmi a farvi un saluto…”, tornò a dire.

“Hai fatto benissimo, grazie per la visita”, ringraziò mia madre.

“Buona serata”, mi limitai a dirle, poi le diedi un piccolo abbraccio, cortese e da amica. Tra di noi non c’era più un muro a separarci, come poco prima. Qualcosa era tornato a mutare, in meglio.

Così Irene se ne andò, congedandosi e lasciandoci finalmente sole, e mentre mia madre si metteva ai fornelli, pensierosa, ne approfittai per andare in camera mia, con la scusa di andare a cambiarmi l’abito sudaticcio che avevo indosso, per chiamare invece il mio Piergiorgio.

Anche se ci eravamo salutati poco prima, avevo bisogno di narrargli quello che poi mi era accaduto, e ciò che mi si prospettava di fronte, in un futuro davvero imminente.

Rispose subito, dopo solo due squilli.

Gli raccontai gli eventi recenti, e lui se ne rimase in ascolto, in profondo silenzio, lasciando quindi che completassi la narrazione e mi sfogassi un po’, seppur avessi avuto ben poco tempo a disposizione, poiché mia madre mi attendeva al piano inferiore.

Devo venire lì subito? Ti sento molto scossa”, mi disse George, non appena non ebbi più nulla da aggiungere. A lui l’immenso merito di avermi ascoltata senza mai interrompermi una volta.

“No, ti prego, non ti scomodare. Adesso sono con la mamma, abbiamo bisogno di metabolizzare assieme”, lo rassicurai, cercando di non trasmettergli nessun turbamento.

Per me non è un problema. Se vuoi…”.

“Vieni questa notte, ok? Mamma entro le ventitré va a dormire. Posso venire giù ad aprirti, se puoi venire”, mi venne spontaneo suggerire, su due piedi.

La verità era che avevo ancora bisogno di qualche ora da passare solo in compagnia di mia madre, e magari d farci forza a vicenda, poi non avrei potuto resistere oltre senza vederlo. Avevo bisogno di essere consolata, e di qualche coccola, dopo l’imprevisto poco piacevole che minava la mia vita nei giorni immediatamente successivi.

Va bene, sarò lì alle ventitré in punto. Poi, magari, puoi parlarmene meglio e possiamo fare mente locale, per raccogliere le idee e calmarci un pochino”.

“Certo”, dissi, e dopo una brevissima pausa, gli sussurrai un grazie molto sentito e profondo. Potevo immaginare il suo sorriso bonario ben impresso sul volto aggraziato e gradevole alla vista.

E di cosa? La vita è fatta anche di brutte sorprese, e di problemi, e a questo servono i partner, no? Ad aiutare e a sostenere”.

“Tu sei infinitamente buono. Ringrazio continuamente la sorte per averci fatto incontrare e innamorare”, tornai a dirgli, sinceramente grata.

Le persone come Piergiorgio, in un mondo in corsa e in crisi, erano molto rare, e lui aveva sempre il sapore di un caldo abbraccio anche quando parlava. Era speciale, e me ne accorgevo ogni istante di più.

Mi unisco al tuo ringraziamento, allora”, aggiunse, con la sua solita e moderata cortesia, quella cortesia così sincera e spontanea che lo contraddistingueva, “e ci vediamo dopo, cara. Ti lascio alle tue momentanee incombenze”.

Riattaccai, dopo averlo salutato, e già mi sentivo un po’ meglio; non vedevo l’ora di averlo a mio fianco. Si prospettava una notte intensa, sotto tutti i punti di vista.

Mia madre mi chiamò, dal piano inferiore, e così mi affrettai a mettere sotto carica il cellulare e a scendere le scale, pronta per l’ansiosa e magra cena che mi attendeva, consapevole che poi sarei tornata tra le braccia protettive del mio uomo, e avrei potuto usufruire dei consigli fondati sulla sua lunga, saggia e corretta esperienza di vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Tra tensioni, lutti inattesi e battibecchi, la storia va avanti. Cosa accadrà? Chissà ^^

   
 
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