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Autore: Tenar80    03/12/2018    1 recensioni
Devono metterlo in conto questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato, come tutte le cose dure e fredde.
Di chi prova a diventare un campione.
Di chi diventerà Victor Nikiforov e di chi non ci riuscirà.
Della fatica di crescere dei campioni, o almeno di farli diventare adulti.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victor Nikiforov, Yakov Feltsman
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Eccoci entrati nella seconda parte della storia. È passato un anno dal capitolo precedente e Victor vive a San Pietroburgo ormai da più di sei mesi. Sarà riuscito ad ambientarsi?



San Pietroburgo – Aprile 2002

 

    Yakov guardò con soddisfazione i suoi atleti che, a turno, provavano le coreografie che stavano preparando per la nuova stagione.

    Il primo fu Georgi. 

    Il ragazzo se l’era cavata bene, per essere la sua prima stagione da juniores. Terzo al campionato nazionale, sedicesimo agli europei. 

    – Un po’ più di grinta, che diamine, è un’aquila quella che stai interpretando, non un piccione! – gli gridò l’allenatore.

    Georgi annuì e riprese da capo i movimenti. No, non aveva il guizzo degli altri, ma sopperiva con l’impegno. Alla lunga, tra talento e impegno, non era detto che fosse il primo a prevalere. Il fatto che ci fossero altri davanti a lui non lo aveva scoraggiato, anzi. Lui era uno che continuava sulla propria strada, leggeva i suoi libri, guardava i suoi film e si innamorava ogni tre mesi di una ragazza nuova, solo per evitare di pensare a Ekaterina. Rifaceva gli esercizi tutte le volte che gli veniva detto, rispettava con scrupolo fin eccessivo la dieta, ascoltava Yakov come se fosse un dio sceso in terra. Allenarlo era quasi noioso.

    – Avanti Kirill! – l’allenatore chiamò il secondo atleta.

    Lui, certo non era noioso da allenare. Era aggressivo, umorale e, almeno per il momento, il migliore. Aveva fatto a pugni due volte con il compagno di stanza, uno nuovo, prima che Yakov riuscisse a convincere il direttore del pensionato a metterlo in una singola. Era il campione nazionale juniores ed era arrivato secondo agli europei. Come l’allenatore aveva previsto, l’arrivo di Victor in pista gli aveva fatto bene, almeno atleticamente. Forse per la prima volta da che aveva messo i pattini ai piedi, aveva visto la propria supremazia insidiata da vicino e aveva scoperto che le vittorie non erano così scontate. Adesso pattinava con un’espressione corrucciata, adatta al pezzo che stava preparando, in cui interpretava un giovane soldato, e gli occhi castani ardevano in quella particolare luce che ha chi è affamato di vittorie. Bene. Si muoveva con precisione e il pezzo gli cascava a pennello. Quanto al resto, quando vengono messi due atleti di uguale talento a stretto contatto, possono accadere due cose. O diventano grandi amici, o si odiano. E Kirill odiava Victor, con tutte le sue forze. Il contrario non era così facile da stabilire, poiché Yakov, in nove mesi di convivenza, ancora faticava a decriptare il vero carattere del siberiano.

    Vitya era, per certi versi, ancora un enigma.

    Nessuna delle fosche previsioni di chi, Dimitri in testa, lo avevano sconsigliato di prenderselo in casa, si erano avverate. Anzi, era come avere un gatto indipendente e pulito. Si alzava alle sei, che ci fosse oppure no allenamento, rassettava la propria camera e prima delle dieci di sera dormiva. Si entusiasmava per ogni sorta di sciocchezza e l’unica cosa che Yakov aveva capito che non andava fatta era lasciarlo con del denaro quando c’erano fiere, mercatini o bancarelle di qualsiasi tipo. Era già tornato a casa con un pesce rosso, deceduto in pochi giorni perché poi il ragazzo non si era ricordato di dargli da mangiare, con una collana di plastica per Lilia, dei terribili guanti tigrati che Ekaterina gli aveva fatto gettare via il giorno stesso e tre vecchie fotografie ammuffite dei tempi dello zar costatigli tutto il denaro che secondo Yakov doveva bastargli per un mese. Si era affezionato al portafazzoletti di peluche a forma di cagnolino che l’allenatore gli aveva fatto trovare in camera, che si portava dietro ovunque come un bambino con la metà dei suoi anni, ma non si era legato allo stesso modo alle persone. Era gentile, sorridente e in sostanza distante. Con un’unica eccezione. Era diventato l’ombra di Ekaterina e lei sembrava di aver ricevuto in dono un cucciolo da vezzeggiare.

    Nell’impossibilità di recuperare da un giorno all’altro tutto il guardaroba di un pre adolescente, Yakov aveva chiesto alla pattinatrice se per caso non avesse qualcosa di smesso del fratello da prestare. Ekaterina era arrivata con valige intere di abiti maschili firmati ed era rimasta tutta una domenica pomeriggio a spiegare a Victor come abbinarli e in quali occasioni andassero indossati. Da quel momento, con grande disperazione di Georgi, che in un anno non era mai riuscito a completare un discorso con Ekaterina, i due erano diventati inseparabili. Lei aveva deciso di trasformare il ragazzetto sperduto in un membro dell’alta società e lui era entusiasta di farsi addestrare. Vitya ascoltava la musica, guardava i film e quanto meno provava a leggere i libri che lei gli indicava. Da che Ekaterina gli aveva detto che sarebbe stato imperdonabile non passare l’anno scolastico si era persino messo a studiare, anche se con risultati alterni.

    Sul ghiaccio si era chissà come impadronito della particolare eleganza di Ekaterina, una cosa che in tutta onestà Yakov riteneva impossibile, che univa alla crescente potenza muscolare in un mix che l’allenatore iniziava a sospettare potesse essere unico. Ma con i pattini ai piedi Vitya era un ribelle. Negli ultimi anni a Salechard doveva necessariamente essere stato allenatore di se stesso e adesso non gli importava quante medaglie avesse vinto o fatto vincere Yakov. Doveva discutere quali elementi tecnici inserire, come farli, per non parlare del tono paritario che assumeva con Lilia quando lei vestiva i panni di coreografa. Non c’era nulla da fare, alle nazionali era arrivato secondo, perché aveva a tutti costi voluto inserire una combinazione che ancora non padroneggiava. Era caduto e questo probabilmente aveva evitato che Kirill si suicidasse in bagno. Yakov in tutta onestà non sapeva fino a che punto quell’istinto a superare i propri limiti andasse represso perché quella era la materia di cui erano fatti i record. O i brutti infortuni. Non aveva potuto portarlo agli Europei. All’ultimo momento era mancata una delle infinite firme necessarie per far espatriare un ragazzo in affido o, più probabilmente, era mancata una mazzetta. Ma, almeno, Yakov aveva imparato. Nella prossima stagione, se tutto fosse andato bene, con la coreografia che stava provando, il ragazzo avrebbe mostrato la propria esistenza a tutto il mondo.

    

    – Basta, sono stanca – disse Ekaterina, dopo aver provato un paio di volte il proprio pezzo.

    – Come sarebbe a dire “sono stanca”? – chiese Yakov.

    – Questo – replicò la pattinatrice, portandosi al bordo pista e guardando oltre le vetrate gli alberi che iniziavano appena ad aprirsi alla primavera. – Sono stanca. Mi fa male tutto e ho sonno.

    Non era da Ekaterina lamentarsi così.

    – Non abbiamo ancora iniziato la parte seria – replicò il tecnico.

    – Mi sono già allenata in palestra questa mattina. Mi fa male tutto.

    – Abituati, sono i ritmi dei professionisti – disse Yakov.    

    Il salto da juniores a senior era duro per tutti. Sopratutto se ci si portava sulle spalle il peso delle aspettative dovuto a un mondiale vinto di potenza. La vita degli atleti era un susseguirsi di allenamenti e fatica intervallati da fisioterapia, massaggi e dolore. Una volta non era richiesto null’altro. Adesso, nel così detto mondo globalizzato, ci si aspettava anche un atleta indirizzato a una carriera internazionale sapesse come muoversi, parlare quanto meno due lingue, abbozzare una risposta a domande che nulla avevano a che fare con lo sport, non rimaneva molto tempo per il riposo o per qualsiasi altra cosa. Ma era la loro vita.

    – E dopo l’allenamento hai ancora danza e… Inglese? – concluse l’allenatore.    

    – Francese – rispose la ragazza. – Ma non oggi. Basta.

    Senza chiedere ulteriori permessi, uscì dalla pista, sotto gli occhi perplessi dei tre ragazzi. Nessuno di loro si era mai neppure sognato di contraddire in quel modo Yakov. Questi sbuffò indeciso se forzare la situazione o lasciar correre.

    – Vai a farti un giro – concesse. – Ma non saltare la danza.

    Lei non rispose neppure, già avviata agli spogliatoi.

    I tre ragazzi si guardarono. Automaticamente, Kirill si mise della posizione di partenza, dando per scontato che si ripartisse da lui. Vitya invece si diresse all’uscita della pista, inseguendo Ekaterina.

    – Ragazzino, per te l’allenamento non è finito – gli gridò Yakov.

    Vitya scosse il capo, facendo ondeggiare i capelli che gli arrivavano già quasi alle spalle, e proseguì, imperterrito.

    – Non sei il suo cagnolino e non puoi saltare tre quarti di allenamento!

    Vitya, però, si limitò a girarsi verso di lui, sorridergli quasi a scusarsi, e a proseguire.

    Era un ammutinamento bello e buono. Peggio. Ekaterina era una ragazza e aveva vinto il mondiale, che gli altri tre la considerassero una creatura diversa da loro, non obbligata a seguire le loro stesse regole poteva starci. Kirill, Georgi e Victor, però, dovevano percepirsi come uguali e già non era facile, considerando che uno dei tre viveva nella stessa casa dell’allenatore. Yakov aveva già sentito Kirill lamentarsi del fatto che Victor era migliorato così tanto perché lui gli dedicava più attenzioni. Cosa che, per altro, non era del tutto vera né del tutto falsa. Yakov faceva il proprio lavoro, alla sera visionava le riprese delle competizioni degli avversari, discuteva di coreografie con Lilia. Vitya senza dubbio respirava ventiquattrore al giorno il pattinaggio, aveva accesso a tutti i testi e tutti i video sull’argomento, mentre Kirill, a quanto ne sapeva Yakov, passava le proprie sere a cercare di evitare scherzi sempre più pesanti da parte degli altri ragazzi del pensionato. Ci mancava solo che vedesse Victor uscire vincitore da uno scontro diretto.

    – Un quarto d’ora di pausa per tutti. – si inserì Dimitri, che era in un angolo della pista con il gruppetto di bambine sotto i dieci anni che seguiva. – Ho bisogno di più spazio per le mie principesse.

    Yakov scosse il capo. Dimitri era troppo tenero con i ragazzi. A neppure trent’anni aveva ancora ricordi troppo vividi di quand’era dall’altra parte della barricata. Se avesse continuato così, non avrebbe mai potuto gestire atleti sopra i dieci anni. Lui, d’altro canto, iniziava a non ricordare più cosa significasse essere adolescente. E, anche se lo faceva, erano ricordi di un’altra epoca. A neppure cinquant’anni a volte si sentiva un residuato di un mondo finito, incapace di adattarsi all’evoluzione troppo rapida dei tempi.

 

 

 

    Victor trovò Ekaterina seduta sulla panchina di pietra del giardinetto di fronte al palaghiaccio.

    C’era un sacco di pietra, lì a San Pietroburgo. A Salechard era tutto di cemento o di legno, le strutture delle fabbriche erano di metallo. Non c’era quasi nulla che avesse più di trent’anni. A San Pietroburgo era tutto vecchio, durevole, scolpito. Nessuno si sognava di dipingere i palazzi di rosso o di blu, almeno non lì, o nel centro. Era una città più bella, ma per certi versi più fredda e respingente, di quella da cui proveniva. Ekaterina sembrava l’anima della città nel corpo di un’adolescente. Bella di una bellezza antica, che avrebbe incantato in ogni tempo e in ogni luogo, fatta di contrasti, la pelle chiarissima con i capelli neri, il corpo dall’apparenza esile che nascondeva la forza della campionessa. Come la sua città, aveva un’eleganza fredda, un’alterigia un po’ sprezzante che faceva dimenticare il fatto che Ekaterina non ridesse quasi mai. Persino Kirill sorrideva più di lei.

    – Cosa succede? – le chiese, sedendosi al suo fianco.

    Lei sobbalzò, ma accettò la sua presenza, come si fa con un cane o un gatto inopportuno.

    – Niente. Sono stanca.

    – Non ti ho mai sentito lamentarti, prima.

    – Aspetta di preparati a passare nei senior – Ekateria sospirò. – Ho scoperto muscoli che neppure sapevo di avere. Ho sempre sonno e ho sempre fame. 

    – Anch’io ho sempre sonno e sempre fame. Da sempre.

    Ekaterina gli passò una mano tra i capelli.

    – Sei carino, ragazzino, ma non sai di cosa parli – disse. – Ieri era il compleanno di una mia amica. Alla festa c’erano ragazze che conosco da una vita e quasi non capivo di cosa parlavano. Studio a casa, non esco mai con loro, non conosco nessuno dei loro fidanzati. Non ho potuto mangiare quasi niente di quello che c’era, neppure la torta. A mezzanotte sono venuti a prendermi, mentre loro uscivano per andare in discoteca… Loro pensano che io giri il mondo, che veda chissà cosa, che faccia chissà che, ma vedo solo dei palaghiacci, che sono tutti uguali, in tutto il mondo.

    Aveva ragione, lui non sapeva di cosa lei stesse parlando. In quei pochi mesi la sua vita era cambiata come mai prima. Ogni volta che girava un angolo si imbatteva in qualcosa che non conosceva, a cui non sapeva come reagire. Per la maggior parte erano novità meravigliose e non gliene importava molto se rimaneva imbambolato a fissare estasiato cose che per tutti erano scontate. Era bellissimo vivere in un mondo che riservava sorprese ad ogni angolo, fossero anche solo le caramelle alla menta del distributore del palazzetto. Poi c’erano anche le cose come Ekaterina, del tutto spiazzanti. Finestre socchiuse su mondi splendidi e alieni, come nei fantasy di cui Georgi parlava sempre, in cui nessuno, però, reagiva come Victor si sarebbe aspettato.

    – Vorresti vivere come le tue amiche? – provò. – Nessuna di loro ha vinto un campionato mondiale.

    – E sai cosa gliene importa, a loro – replicò lei. – Non riescono a capire come ci si possa allenare così tanto, tutti i giorni, per esibizioni che durano pochi minuti. Uno stupido spreco di tempo. E un titolo del mondo dura un anno. 365 giorni dopo è solo una patacca che prende polvere. Tra quattro, cinque anni, magari una delle bimbette che allena Dimitri sarà al posto mio e io sarò zoppa, come Ivan. Pensaci bene, ragazzino, nel letto in cui dormi stava un ragazzo che era bravo quanto te e che adesso controlla macchine che fanno i bulloni alla periferia di Mosca.

    Victor annuì.

    Aveva sentito parlare di Ivan. Aveva dormito nella sua camera e respirato i suoi stessi sogni. Yakov aveva commentato anche con lui, alla sera, i filmati appena arrivati da gare o esibizioni sparse per il mondo. Se il tecnico l’aveva ospitato, voleva dire che anche lui non se la passava molto bene, prima. E anche lui si era sentito altrettanto speciale e predestinato. Solo che non era vero. E poteva non rivelarsi vero anche per lui.

    – Non importa – disse, per scacciare quel pensiero. – Anche se dovessi ritirarti domani, tra dieci, anche vent’anni la gente guarderà il video del tuo mondiale e ti troverà bellissima. Nessuno nel mondo del pattinaggio ti dimenticherà mai.

    – Non esiste solo il mondo del pattinaggio, ragazzino.

    – No, ma nessuno può dominare tutti i mondi. Io e te possiamo dominare questo.

    – Sei modesto, ultimo arrivato.

    – È una delle cose che non dovrei dire, vero? – domandò Victor, portandosi una mano alla bocca. – Non so mai cosa…

    Lei gli passò ancora la mano tra i capelli e poi sulla guancia.

    – Non sei modesto per niente, però sei davvero carino, ragazzino.

    La mano di Ekaterina era ancora sulla sua guancia, leggera, con le unghie blu come i suoi occhi. Occhi che erano troppo vicini, come tutto il suo viso da bambola di porcellana. Victor non arrossiva con facilità, ma pensava che, sotto il tocco di Ekaterina, il suo viso stesse per andare a fuoco.

    – Sei così carino che adesso ti darò un bacio – sussurrò la ragazza.

    Victor pensò per una frazione di secondo che forse era il caso di scappare. Perché lei era troppo bella, troppo diversa, troppo… Troppo tardi.

    Si ci avesse pensato, Victor si sarebbe aspettato un bacio da ragazzini, uno sfiorarsi appena delle labbra. Invece Ekaterina le stava succhiando, le sue labbra, socchiudendole. Ed era morbida e piacevole e non si poteva che lasciarla fare. E sperare che il mondo tornasse in asse. O che tutto continuasse così, per sempre.

    Lei staccò le mani dal suo viso, prese le sue e le appoggiò alla panchina di pietra, staccandosi.

    Victor non aveva idea di quale aspetto avesse, ma era lei ad avere le guance leggermente arrossate.

    – Non è il primo bacio che ricevi, ragazzino – disse. – Avrei preferito essere la prima.

    Adesso sicuramente Victor era arrossito.

    – È il primo bacio che sono contento di ricevere – mormorò, arretrando istintivamente verso il bordo della panchina.

    Non voleva domande. Ma Ekaterina non ne fece. Si limitò ad annuire.

    – La prima volta avevo dodici anni – sussurrò la ragazza. – Il socio di mio padre. Eravamo andati via un fine settimana con la sua famiglia. I suoi figli sono più piccoli di me… Come facevo a immaginare che fosse un porco?

    Victor non disse nulla, continuando a guardare le mani di lei, sopra alle proprie. Lui lo sapeva che era un porco, il dirigente della società sportiva di Salechard. Si era pagato con la propria disponibilità la partecipazione alle nazionali. Ed era andata bene così, visto che ora lui era lì e quell’uomo ancora in Siberia.

    Ekaterina gli prese il mento con la mano e lo obbligò a incontrare i suoi occhi.

    – Non devi dirmi niente, ragazzino. Non importa se veniamo da posti diversi. Noi siamo uguali.

    Lo erano? Con tutte le cose di cui Ekaterina parlava e che lui non conosceva? Erano cose che avevano importanza?

    – Sabato mio fratello fa una festa – proseguì la ragazza. – Ha detto che posso portare chi voglio, immagino speri in belle ragazze, ma vorrei che ci venissi tu.

 

 

    – Gli hai già fatto il discorso? – chiese Dimitri.

    Il quarto d’ora di pausa concordato era scaduto e i due allenatori si erano affacciati fuori dal palazzetto per cercare gli atleti fuggitivi, giusto in tempo per vedere Vitya e Ekaterina che si baciavano.

    – Il discorso? – mormorò Yakov, perplesso, poi capì. – Oh, dio, no!

    Toccava ai padri, quello, o hai fratelli maggiori… E quindi, supponeva, proprio a lui… Sbuffò. Ivan non gli aveva mai dato di quei problemi, ma c’era anche da dire che non era un adone, la sua bellezza la sprigionava solo in pista.

    – Dici che gli serve? Non è cresciuto in mezzo alle suore di clausura – provò a tergiversare.

    – Assicurati almeno che giri sempre con dei preservativi – continuò Dimitri, con un certo gusto per il metterlo a disagio. – Bellino com’è, dopo le gare le pattinatrici faranno a botte per portarselo a letto… Che invidia, a me non è mai successo.

    Yakov lo guardò male. Ma Dimitri aveva ragione. Portare in trasferta gli juniores, o anche i più giovani tra i senior era peggio che avere dei ragazzini in gita. Stavano tutti nello stesso albergo e alla sera, dopo le gare, avevano comunque più energia degli allenatori. Anche chiudendoli in camera a chiave, se volevano evadere lo facevano. Una volta lui era passato dalla finestra per raggiungere il party organizzato al piano di sotto, che non comprendeva donne, purtroppo, ma parecchia birra e fumo. 

    – Finché è marcato stretto da Ekaterina direi che non c’è concorrenza – ragionò.

    – Ma non sono nella stessa categoria e, sai l’occasione fa l’uomo ladro…

 
   
 
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