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Autore: Tenar80    16/12/2018    1 recensioni
Devono metterlo in conto questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato, come tutte le cose dure e fredde.
Di chi prova a diventare un campione.
Di chi diventerà Victor Nikiforov e di chi non ci riuscirà.
Della fatica di crescere dei campioni, o almeno di farli diventare adulti.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victor Nikiforov, Yakov Feltsman
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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– Quasi quasi ti invidio – sospirò Ekaterina, leccando il proprio gelato, minuscolo e alla frutta. – Ancora dieci giorni di riposo assoluto. Vorrei quasi farmi male io…

    – Non dire sciocchezze – replicò Victor, secco.

    Era sabato pomeriggio e il ragazzo aveva zoppicato dietro a Ekaterina fino al centro, dove finalmente lei aveva accettato di fermarsi su una panchina del parco dietro la cattedrale. Aveva caldo, odiava la stampella, il tutore, odiava stare lontano dalla pista, sentiva la mancanza dei pattini ai piedi quasi gli avessero amputato un arto, e odiava dover farsi offrire il gelato da Ekaterina. Non che Yakov non gli passasse dei soldi, se glieli chiedeva, ma aveva dimenticato di farlo, o forse lo aveva evitato, perché era sempre un momento imbarazzante. Doveva tornare al più presto in pista. E doveva vincere. Da juniores con le vittorie si iniziava a guadagnare. Insomma, non si poteva in nessun modo sentirsi a proprio agio con una bella ragazza se non si aveva neppure la possibilità di offrirle un gelato o si indossavano i vestiti smessi di suo fratello. Mentre si allenava non pensava mai a quelle cose, al mondo fuori dal palazzetto. Anzi, era più giusto dire che non pensava. Stando fermo, però, i pensieri riemergevano. E non sempre era un bene.

    Lei guardò l’orologio.

    – Andiamo a casa mia – propose la ragazza.

    Abitava nel pieno centro cittadino, in un palazzo antico proprio sulla Prospettiva Nevskij.

    – A quest’ora non c’è nessuno, mio fratello è a studiare da un amico, mio padre è via per lavoro e mamma è col suo amante – spiegò, come fosse la cosa più normale del mondo.

    Victor la guardò, senza commentare.

    – Le famiglie sono cose complicate, ragazzino – disse, stringendosi nelle spalle. – Sopratutto le famiglie ricche, dove ognuno ha il suo ruolo da interpretare. Io sono quella graziosa da esporre, come la ballerina di un carillon, e un giorno da far sposare a qualcuno che voglia imparentarsi con gli affari di papà. 

 

    Victor non era mai stato nella stanza che un adolescente aveva abitato fin dalla prima infanzia. C’era tutto lo stratificarsi dell’esistenza di Ekaterina, lì. Dei peluche sui toni del rosa abitavano il fondo del grande letto. Sugli scaffali, serie di libri di scuola, alcuni consumati, altri quasi nuovi. Quaderni in disordine sulla scrivania di legno scuro sopra cui era appesa una lavagnetta di sughero dove delle puntine dalla capocchia in plastica colorata tenevano ferme delle foto. Ekaterina da bambina a delle competizioni, o sul podio, sui dodici anni, con delle amiche in un parco divertimenti, con un abito lungo nero e il volto truccato a una qualche cerimonia. Sulle ante degli armadi erano appesi poster raffiguranti cantanti che lui non conosceva. Era un territorio del tutto nuovo, per lui, pieno di fascino e di pericolo.

    Su uno scaffale c’era uno stereo nuovissimo, che la ragazza accese con un gesto noncurante. Ne uscì della musica ad altissimo volume, che fece sobbalzare Victor.

    – Che roba è? – chiese, quasi urlando.

    Ekaterina rise.

    – Non è possibile che non li conosci! È musica vecchissima, i Nirvana, un cd di mio fratello.

    Victor scosse il capo, a disagio.

    – Da Yakov e Lilia solo classica, vero? – chiese la ragazza.

    Lui annuì. E gli piaceva. Quando aveva accesso alla radio preferiva il pop o certe canzoni in italiano, di cui non capiva le parole, ma gli piaceva il suono di quella lingua. Quella roba urlata lo disturbava. Eppure, in qualche modo, si adattava bene a Ekaterina, che ora muoveva la testa a ritmo, facendo fuggire i capelli neri dalle forcine. Lui rimase a guardarla ipnotizzato, in bilico sulla gamba sana come un fenicottero, fino a che lei si avvicinò, gli diede una spinta che lo sbilanciò e lo fece cadere sul letto. Victor si attendeva di vederla saltare al suo fianco, regalandogli una vicinanza che gli faceva nascere al solo pensiero una sorta di tremore a metà del petto, che per fortuna rimaneva interiore, del tutto segreto. Ekaterina invece, sempre muovendosi a tempo, cercò qualcosa sotto il letto e un attimo dopo estrasse da una scatola uno spinello e un accendino.

    – Ancora con quella roba? – esclamò Victor.

    Il ricordo di quanto era stato male era ancora vivido. Per non parlare della reazione di Yakov. Non era affatto sicuro di voler ripetere l’esperienza. 

    – Non è forte come quella che girava alla festa – disse lei. – E non abbiamo bevuto niente. È solo per lasciarsi andare, non pensare… Tu cosa fai quando vuoi smettere di pensare?

    – Pattino – replicò Victor, sulla difensiva.

    – Ma adesso non lo puoi fare. E non lo farai neppure questa sera o domani. Un tiro a testa. Non gareggi fino ad agosto. Non può farti male in nessun modo.

    – Ma tu…

    – Io secondo Yakov devo fare il triplo Axel – disse Ekaterina, accendendo lo spinello. – Devo. Non posso o devo provare. Devo. E sono stanca. E ho paura di farmi male. E quel salto alle donne porta sfortuna. E non ci voglio pensare.

    Victor pensava che sarebbe stata splendida su quel salto che pochissime al mondo erano state in grado di completare in gara. Doveva essere bellissimo essere tra i pochissimi al mondo a riuscire a fare qualcosa, anche solo uno stupido avvitamento sul ghiaccio. Forse, però, Ekaterina non aveva bisogno di essere tra i pochi al mondo a fare qualcosa per sapere di essere speciale. Lo era già.

    Il fumo, buttato fuori dalle labbra di Ekaterina gli arrivò proprio in faccia, con quel suo odore inconfondibile, facendolo tossire.

    – Dai, ragazzino, un tiro soltanto.

    E poi, senza sapere bene come fosse successo, Ekaterina era a cavalcioni sopra di lui, i Nirvana ancora a tutto volume e il mozzicone spento che fumava su uno specchietto adibito a portacenere, sul comodino. Victor sentiva il respiro accelerato di lei e la guardava fisso negli occhi color della crepuscolo. Sentiva il cuore che martellava e una vaga sensazione di fluttuare. Ekaterina gli prese le mani e le portò ai propri fianchi, facendole insinuare sotto la maglietta.

    – Baciami, e non pensare a niente – sussurrò. – Ma prima dimmi se almeno è la prima volta che ti trovi in una situazione così.

    – È la prima volta.

    – Bene.

    La pelle di Ekaterina era calda sotto le sue mani. I suoi fianchi erano magri, la punta delle sue dita sentivano gli addominali tonici, quasi come quelli di un ragazzo. Questa volta un brivido percorse tutto il corpo di Victor, mentre lei si chinava per baciarlo. E davvero non c’era più modo di pensare.

 

 

 

 

    San Pietroburgo – Giugno 2002

 

    – Vieni con me, dobbiamo parlare – disse Yakov a Kirill.

    All’interno del palazzetto il tecnico aveva una sorta di ufficio che di fatto usava pochissimo, se non per riporre e compilare le scartoffie. Aveva scatoloni che strabordavano dall’unico armadio e un’unica fotografia alle pareti, di quando ancora gareggiava, che ogni volta che entrava si riprometteva di togliere. Fu lì, comunque che condusse il ragazzo.

    Ragazzo che aveva il naso gonfio e uno zigomo viola.

    – Allora, cos’è successo? – chiese, dopo che ebbe chiuso la porta e indicato a Kirill una sedia.

    – Niente, sono caduto.

    Yakov sbuffò.

    – Il mio lavoro è veder la gente cadere. So riconoscere i lividi dovuti ai pugni. È la prima volta?

    Kirill si fissava intensamente le mani.

    – Così, sì – borbottò.

    – Quando è iniziato?

    Il ragazzo scosse il capo. 

    – Quando è iniziato? – ripeté Yakov, alzando la voce.

    – Dall’inizio. Da quando il mio primo compagno di camera ha frugato tra le mie cose e ha trovato…

    Il tecnico sospirò.

    – Se non è roba illegale non mi importa cos’ha trovato, vai pure avanti.

    – Era il catalogo di un parrucchiere – ringhiò Kirill, alzando lo sguardo. – Solo uno stupido catalogo di parrucchiere. E da allora sono iniziate le prese in giro. E gli scherzi. E le notti chiuso fuori dalla camera. Anche adesso che dormo in singola. Mi mettono le cicche masticate nella toppa e non riesco a inserire la chiave. 

    Yakov annuì. Nulla che non avesse già visto. Il ragazzo non era riuscito a farsi nessun amico. Era isolato e questo da solo faceva di lui una vittima perfetta per altri ragazzi lontani da casa e annoiati. Faceva pattinaggio, aveva il fisico esile dei pattinatori e persino a lui, molti anni e molti chili prima, avevano dato della ragazzetta. 

    – Non ti avevano mai picchiato prima, però – commentò.

    – Non le ho proprio solo prese – sbuffò il ragazzo. Mentendo, molto probabilmente. – Comunque prima almeno gli amici di Georgi mi lasciavano stare.

    – Prima di cosa?

    Aveva litigato anche con Georgi, quindi, che, in effetti, era in ritardo, per la primissima volta. Ci voleva un bell’impegno. Georgi non si offendeva mai, a meno che non si parlasse male della ragazza di cui era innamorato in quel momento. Non si era offeso neppure qualche giorno prima, quando aveva chiesto a Vitya un parere sulla propria coreografia e il siberiano aveva risposto che era un bell’esercizio adatto alle bambine del gruppo di Dimitri. 

    Adesso però Kirill era arrossito e si stava di nuovo guardando le mani.

    – Siamo andati al cinema e un suo amico più grande mi ha toccato il sedere. Io l’ho insultato, sono andato via. E il giorno dopo ne ho trovati tre di quelli soliti ad aspettarmi.

    Anche quella era una storia già sentita. Al pensionato con Kirill e Georgi stavano parecchi universitari. Qualcuno di loro aveva vigilato fino a quel momento perché la situazione non degenerasse. Nulla di disinteressato, a quanto pare. Che lo accettasse oppure no, a Kirill piacevano i ragazzi. Era abbastanza evidente. Quando pensava di non essere visto si mangiava con gli occhi Dimitri, con suo grande disappunto. Il suo protettore occulto aveva gli stessi gusti, ma visto che era stato rifiutato aveva abbandonato Kirill al proprio destino. Una storia già vista e piuttosto squallida. Da cui, però, non era così facile uscire. Lividi a parte, il ragazzo aveva delle occhiaia che, unite al naso affilato, contribuivano al suo aspetto da rapace smagrito. Si allenava con rabbia, cercando di canalizzare lì la propria aggressività. Non si era fatto male, ma non ci voleva un fine occhio medico per capire che era sull’orlo dello sfinimento.

    Yakov sospirò.

    – Senti un po’ ragazzo, sei simpatico come la peste bubbonica e questo non aiuta. Ma quello che stai passando non è colpa tua. E finirà. Dimmi i nomi di chi ti ha pestato.

    Il ragazzo prese un respiro, come prima di iniziare salto difficile.

    – Puoi ospitare anche me, almeno per qualche tempo? – chiese.

    Il tecnico rimase un istante immobile, interdetto. Non ne aveva alcuna voglia. 

    – Io… Potrei mettere una brandina nella stanza dove sta Vitya. Ma devo sentire cosa ne pensa mia moglie e anche Vitya – prese tempo.

    Il siberiano sarebbe stato entusiasta, di sicuro, di dividere la camera, la prima che avesse avuto tutta per sé, con uno che lo odiava. E sua moglie altrettanto di avere per casa uno perennemente arrabbiato con il mondo.

    Intanto, però, Kirill stava già scuotendo il capo.

    – Lascia stare. Sono stato stupido a chiederlo. Lo so che è lui il preferito di tutti. Anche se è del tutto fuori di testa e parla col proprio peluche.

    Lo sguardo del ragazzo era così spento, così disilluso, che Yakov si trovò proprio malgrado a deglutire l’aria. Perché aveva ragione. Il suo dovere di allenatore era l’imparzialità. Oltre tutto quei due al momento si equivalevano. Kirill aveva più tecnica, Vitya più espressività. Il suo dovere era proteggerli entrambi allo stesso modo. Un allenatore, a volte, non dovrebbe essere anche un essere umano.

    – Ho bisogno di chiedere, anche al fuori di testa – si sforzò di dire. – Intanto forse Dimitri ha una stanza.

    Dimitri, che sarebbe stato felicissimo di portarsi a casa uno schifoso pervertito.

 

 

 

    – Non ce la faccio – disse Ekaterina, a carponi, con le mani sul ghiaccio.

    – Sì che che la fai – la contraddisse Yakov. – Ce l’hai fatta ieri e anche settimana scorsa.

    – Non ce la faccio – protestò di nuovo lei.

    – Sarebbe tutto più facile se tu andassi a dormire a un’ora decente e conducessi una vita un po’ più regolata.

    – E se invece non me ne fregasse un cazzo del tuo triplo Axel? – ringhiò lei.

    – Vai a farti un giro, Ekaterina. Poi riprendiamo.

    Non gli piaceva la piega che stava prendendo Ekaterina. Che si portasse dietro Vitya come fosse un cagnolino poteva andare. Non aveva fatto “Il discorso” al ragazzino, ma con due battute si era assicurato che non fosse davvero ingenuo come a volte sembrava. Quello che non andava bene era che tornasse a casa con gli abiti che puzzavano di fumo. Non che questo fosse un problema per le prestazioni del siberiano. L’incidente lo aveva spaventato. Era tornato in pista due giorni prima del termine stabilito. La sua droga, quella vera, era il ghiaccio. Ne aveva bisogno. Bisogno di sapere di essere bravo, bisogno di crogiolarsi nell’ammirazione degli spettatori. Fuori dalla pista scondinzolava dietro alla ragazza appena lei faceva un cenno, ma aveva declinato alcuni inviti serali. A quanto pareva, portarlo in pista con ancora i postumi del post sbornia, dopo quella festa, era servito. Vitya odiava farsi vedere cadere o sbagliare e quella, almeno, era un’ottima leva per un allenatore. 

    Ekaterina, invece, a quelle feste ci andava. A quanto pareva quella vita serale era molto più attrattiva, ai suoi occhi di sedicenne, di quella diurna tra pista e palestra. E in quelle feste circolava un po’ di tutto. Quelli che la ragazza frequentava erano giovani russi ricchi. La prima generazione cresciuta nell’agio. Famiglie che si erano arricchite in pochi anni e che davano ai figli ampia disponibilità economica, solo per dimostrare che potevano farlo. E, quindi, ragazzi che compravano tutto quello che potevano per lo stesso motivo. Yakov non era un ingenuo, né aveva vissuto come un monaco. Si era ubriacato, aveva provato il fumo e aveva fatto le olimpiadi tra gli anni settanta e gli ottanta, quando girava di tutto. Ma i soldi erano pochi, le vittorie cose importanti e quindi prima si vinceva e poi, se mai, si festeggiava, comunque senza folleggiare. Ekaterina non aveva bisogno di vincere per accedere a tutto quello, era già suo di diritto. E forse, era stata per talmente tanto tempo la più brava che dava per scontato che avrebbe continuato ad esserlo. L’allenatore sperava con tutto se stesso che qualche bella sconfitta nelle prime gare internazionali la rimettesse in riga.

    – Ehi, ragazzi, pausa, hanno appena consegnato i costumi! – gridò Dimitri, arrivando correndo a bordo pista.

    Anche da lui non erano arrivate grandi notizie. Aveva borbottato per mezza giornata, ma ovviamente si era portato a casa Kirill. Che a quanto pareva, quando pensava che nessuno potesse sentirlo, verso le due di notte, in una camera chiusa a chiave, piangeva disperato.

    Di giorno, al palaghiaccio, Kirill mostrava la sua abituale maschera di supponenza, e fu con quella che si voltò, mentre Vitya quasi lo travolse nella foga di raggiungere l’uscita.

    – Voglio vedere il mio del lungo, subito! – esclamò il siberiano.

    Georgi lo guardò sogghignando, come se avesse dieci anni di più di lui, invece che sei mesi di meno.

    – Pausa costumi, dunque – concesse Yakov.

    Quando lui, Georgi e Kirill arrivarono nell’atrio per prendere in carico gli scatoloni appena consegnati, scoprirono che Vitya li aveva già aperti, come un cane che scava alla ricerca di un osso.

    – Eccolo! – esclamò, trovando ciò che cercava.

    Yakov non poté fare a meno di sorridere. Vitya apriva i pacchetti con l’entusiasmo di un bambino di quattro anni. Era quasi certamente perché non l’aveva fatto per tutta una vita. Tuttavia era talmente immerso in quella sua gioia infantile che era difficile non rimanerne contagiati. Persino Lilia una paio di volte era tornata a casa con dei cioccolatini, minuscoli, dentro elaborati pacchetti per il puro gusto di vederglieli aprire.

    – È bellissimo! – mormorò il ragazzo, con gli occhi che scintillavano.

    Il costume era bianco e grigio, decorato con delle piume sulle spalle e i polsi. La coreografia del libero di Vitya era una rielaborazione, creata da lui e Lilia, di quella della prima esibizione a cui Yakov aveva assistito. Non più un fiocco di neve, ma una piuma, portata dal vento, destinata a sporcarsi. Il ragazzo aveva una forza interpretativa che non aveva mai visto e che al momento sopperiva alle carenze tecniche ancora presenti. L’allenatore sospettava che quello che Vitya metteva in scena fosse il racconto danzato di una perdita dell’innocenza. Qualcosa che forse aveva molto a che fare con i suoi pomeriggi con Ekaterina…

    – Ma dai! Con quello e i tuoi capelli sembrerai Odette – commentò Kirill, che stava estraendo il suo costume da cosacco. – Yakov deve averti scambiato per una delle ballerine di sua moglie.

    Vitya stava per ribattere qualcosa, ma fu preceduto da Georgi.

    – Ma senti da che pulpito! – disse. – Intanto Vitya sta con Ekaterina, alla faccia dell’essere una ballerina.

    C’era del rammarico in quelle parole, che il ragazzo consolò accarezzando il proprio costume, che aveva dei fulmini sulle braccia, un omaggio non dichiarato a Harry Potter.

    – Io non sono la ragazza di nessuno – disse Ekaterina, che arrivava nell’atrio in quel momento. – Di certo non di un bambino di quattordici anni, per quanto grazioso.

    Il costume bianco e grigio cadde a terra, mentre Ekaterina, che si era già messa la tuta e dava per terminato l’allenamento, usciva con i propri pattini sulle spalle.

    Due secondi dopo, Vitya la seguiva.

    – Ehi, ho detto qualcosa di sbagliato? Non volevo… – mormorò Georgi.

    Yakov gli mise una mano sulla spalla.

    – Mai intromettersi nelle liti tra innamorati – disse. – A meno che non ci sia di mezzo una gara importante.

 

 

 

    – Come sarebbe a dire che non sei la ragazza di nessuno? – disse Victor, mettendole una mano sulla spalla.

    Erano proprio davanti alla panchina su cui si erano baciati la prima volta.

    In quell’ultimo mese, poi, ogni scusa era buona, Victor personalmente usava il fatto che lei lo aiutava con i compiti, per scivolare insieme nella camera di Ekaterina, il sabato pomeriggio, o anche la sera subito dopo cena. Una volta aveva persino bigiato le lezioni. Non sempre c’erano stati i Nirvana, per fortuna, non sempre gli spinelli, sempre per fortuna, ma sempre erano finiti sul letto. Con sempre meno vestiti addosso. L’ultima volta era rimasta solo la biancheria. Ekaterina si era lamentata dei propri seni troppo piccoli e lui aveva ribadito quanto li trovasse perfetti, studiandoli attraverso il pizzo.

    – Non è che il fatto di pomiciare ti dia un qualche potere su di me, ragazzino – disse lei, senza voltarsi.    

    – Ah, no? Quindi per te è che cosa… Un’abitudine? Una cosa che fai con tutti i tuoi amici?

    Non si era mai sentito in quel modo. No, non era vero. Era lo stesso senso di dissanguamento che aveva provato l’anno precedente, quando aveva capito che suo padre, anche se era libero, non aveva la minima intenzione di vederlo. All’improvviso faceva freddo, anche se non era vero, e i colori intorno a lui si erano fatti smorti.

    – Non sono cazzi tuoi quello che faccio o non faccio con gli altri – replicò Ekaterina.

    Victor pensò che se ne sarebbe andata senza neppure voltarsi, invece si sedette sospirando sulla panchina.

    – Noi ci facciamo compagnia, ragazzino, perché siamo uguali, nessuno ci vuole bene e non vogliamo bene a nessuno, non ha senso mentirci – disse, con voce dolce e triste.

    – Io ti voglio bene – disse Victor, con tutta la sicurezza che seppe trovare.

    – No, ragazzino. Noi non sappiamo neanche cosa via voler bene, perché non l’abbiamo mai provato. Siamo bravi a recitare una parte, sappiamo come sembrare adorabili. Ma non siamo «qualcuno» per le persone che abbiamo intorno, siamo «qualcosa». Atleti, una figlia da esibire, un problema da sistemare. E siamo abituati a pensare agli altri come «qualcosa». Lo so che è così anche per te, ragazzino. Persino quando pomiciamo, a volte non è me che stai abbracciando.

    Victor abbassò gli occhi fino a incontrare le proprie scarpe da ginnastica. Non erano di Boris, quelle, le aveva comprate lui stesso, con dei soldi che Yakov gli aveva dato “come anticipo sui tuoi futuri guadagni”. Com’era possibile che quelle cose, che neppure lui riusciva a dire a se stesso con tanta chiarezza, uscissero da una ragazza che era, in apparenza, l’esatto opposto di lui? 

    – Io però ti voglio bene – disse ancora, con ostinazione, forse per convincere se stesso che era vero.

    – Davvero, ragazzino? Se davvero vuoi bene a una persona dovresti essere disposto a fare qualsiasi cosa per lei, anche a rinunciare alla cosa che ami più al mondo. Smetteresti di pattinare per me?

    Victor rialzò lo sguardo, per incrociare gli occhi seri di lei.

    – Ma sei matta?

    – Andiamocene. Prendiamo due cani e giriamo l’Europa come artisti di strada, sappiamo ballare, io so suonare. Andiamo il più lontano possibile da qua.

    – È molto comodo dire queste cose quando si ha comunque un posto a cui fare ritorno – commentò Victor, piatto.

    Non gli piaceva per nulla quella conversazione. Non gli piaceva la freddezza che vedeva nel viso di Ekaterina, come se davvero fosse pronta a fare qualsiasi follia, solo per provare a se stessa di esistere. E lui la capiva quella sensazione, la necessità di spingersi oltre i propri limiti per sentire davvero che il sangue pulsava nelle sue vene. La provava ogni volta che scendeva in pista e infinitamente più forte quando c’era un pubblico. Cosa sarebbe accaduto se l’avesse persa, se un giorno anche pattinando non fosse riuscito a sentirsi vivo?

    – Forse non siamo uguali come credi – disse.

    Inaspettatamente, la mano di lei si posò sulla sua guancia.

    – No, lo siamo, invece, ed è il motivo per cui tu non faresti davvero una sciocchezza per me – c’era molta tristezza in quelle parole. – Il sono «qualcosa» per te. Una porta per un mondo che non avevi mai visto e che ti piace da matti.

    Si alzò dalla panchina, guardando la propria tuta.

    – Devo andare, starò via qualche giorno con i miei – disse, come se fino a quel momento avessero parlato del tempo. – Non prendertela a male. Io non sono la tua ragazza, ma tu sei carino davvero.

    Victor la guardò allontanarsi verso la fermata dell’autobus. Sentiva le lacrime che gli colavano sulle guance. Io sono una porta per un mondo che non avevi mai visto e che ti piace da matti. Era davvero solo quello Ekaterina, per lui? Ma era anche quello, senza dubbio. E il fatto che le parole di lei fossero vere le rendeva più taglienti. Facevano così male che forse neppure il suono delle lame dei pattini sul ghiaccio ne avrebbe attutito il dolore.

 
   
 
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