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Autore: blackjessamine    20/12/2018    5 recensioni
Ufficio Misteri, 31 dicembre 1998: mentre l'anno della guerra e della pace vive i suo ultimi minuti, un gruppo di Indicibili scopre che una Soglia altro non è che un passaggio, e che dove si può andare avanti, si può tornare indietro.
Un grosso cane nero – apparentemente molto debole, ma innegabilmente vivo – viene estratto dalle macerie di un arco di pietra.
E mentre l'anno della morte e della rinascita volge al termine, i rimpianti si fanno leggeri, pronti ad essere spazzati via dalla speranza di una seconda possibilità.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Harry Potter, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pas de Deux '
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Capitolo 3
Fuori dal blu e dentro al nero


 




Luce, di nuovo.
Anche attraverso le palpebre serrate, la luce di quella stanza era troppo forte.
Aggressiva, forse. Sembrava che quella luce accecante volesse a tutti i costi scovarlo e strapparlo con violenza a quel mondo fatto di silenzio e suoni ovattati in cui la sua coscienza poteva restare addormentata.
Un mondo dove non c'erano prigioni a cui tornare, non c'erano incubi dai quali scappare, non c'erano Mangiamorte pronti ad attirare Harry in una trappola...
Harry.
Harry e l'Ufficio Misteri, Harry che non aveva accennato a muoversi, quando gli aveva detto di andarsene, Harry che...
“Signor Black? Riesce a sentirci?”
Una voce musicale e pacata, una voce che non conosceva lo spinse a concentrarsi sul presente.
Non si trovava più nell'Ufficio Misteri, ma era da qualche parte al caldo, disteso su di un letto morbido. Non aveva idea di dove potesse trovarsi, né del perché ci fossero diverse persone affaccendate attorno a lui, ma la voce che lo chiamava non sembrava quella di un Auror pronto a consegnarlo ai Dissennatori.
“Sirius?”
Questa nuova voce, esitante e spaventata, Sirius la conosceva bene. Era la voce di Harry. Il suo figlioccio sembrava spaventato, ma non come lo sarebbe stato se si fossero trovati in una situazione di estremo pericolo. Non come se lui fosse appena stato catturato, insomma.
Con un piccolo sforzo di volontà, Sirius si costrinse ad aprire gli occhi, lasciando che quella luce fredda e insistente gli ferisse lo sguardo.
In mezzo alla nebbia dei suoi occhi pieni di lacrime, Sirius scorse il viso familiare di James: era ritto in piedi davanti a lui, e lo fissava con un'intensità vagamente inquietante.
“Sirius...” mormorò il ragazzo, e il suo viso si aprì in un incerto sorriso.
Sirius era confuso: quel ragazzo non poteva essere James, e Sirius sapeva che non lo era – gli occhi dietro le lenti dei suoi occhiali erano troppo chiari, e fra i ciuffi ribelli della sua fronte si intravvedeva una cicatrice a forma di saetta – ma non era nemmeno l'adolescente che Sirius conosceva.
Il viso del ragazzo che gli stava davanti era quello di Harry, eppure era anche quello di James: James come Sirius lo ricordava, dopo la scuola, sulla soglia della sua vita da adulto.
“Harry?”
Sirius si sorprese nel sentire quanto la sua voce suonasse flebile e roca. Sembrava la voce di un uomo che non aveva pronunciato una parola per anni, eppure erano passati solo pochi attimi da quando l'incantesimo di Bellatrix lo aveva colpito al petto, mozzandogli il respiro.
“Sirius! Stai... stai bene?”
La voce di Harry era talmente strozzata che Sirius si affrettò ad annuire.
Un gesto decisamente sconsiderato, dato che quel piccolo movimento sembrò in grado di rimescolare completamente tutti i contorni della stanza, mentre i suoi occhi si velavano e piccole lucine colorate salivano ad accecargli la vista. Quando la stanza sembrò tornare a fuoco, Sirius cercò di parlare, ma fu assalito da un violento senso di nausea, che minacciò di sopraffarlo. Temendo di vomitare mentre era ancora disteso supino, Sirius cercò di sollevarsi, ma in quel momento un paio di mani decise corsero ad afferrargli le spalle, costringendolo a letto.
“Non si muova, per favore, signor Black. Riesce a parlare?”
Di nuovo quella voce musicale.
Sirius volse appena il capo in direzione di quel suono, e per la prima volta cercò di prestare attenzione a ciò che lo circondava: era in una stanza ampiamente illuminata da numerosi globi di luce argentata sospesi a mezz'aria. Le pareti della stanza erano immacolate, e c'era uno strano odore, un odore freddo e pungente, che chissà per quale motivo gli fece tornare in mente le albe che seguivano la luna piena, a Hogwarts, quando lui, James e Peter scivolavano in silenzio alle spalle di una Madama Chips intenta ad assicurarsi che Remus fosse ancora tutto intero.
C'erano diverse persone, in quella stanza: uomini e donne che lo fissavano con intensa curiosità al di sopra di lunghe vesti di un nauseante verde acido. Una donna dai capelli scuri raccolti in una morbida crocchia stava armeggiando con un'ampolla da cui si levava un denso fumo violetto, ma tutti gli altri Guaritori sembravano essere vittima di un Incanto della Pastoia, tanto erano immobili, intenti ad osservarlo.
“Credo di sì”, mormorò Sirius, e ogni parola era sabbia nella sua gola secca.
L'uomo dalla voce musicale, un giovane dalla pelle color caramello e dai penetranti occhi scuri annuì appena, gli afferrò il polso con una mano coperta da sottili guanti verdi, e dopo aver sussurrato dei numeri incomprensibili ad una giovane donna alta e pesantemente truccata di scuro, sollevò la sua bacchetta, posandola nell'incavo del collo di Sirius.
La sua reazione fu istintiva: Sirius si gettò di lato, rischiando di cadere dal letto e scalciando per allontanare quell'uomo. Non aveva intenzione di farsi ammazzare da un Auror travestito da Guaritore.
Accadde tutto molto velocemente: la sua vista si annebbiò, mentre tutto il suo corpo sembrava lambito da lingue di fuoco e ghiaccio. Aveva dolore ovunque, e un fischio assordante premeva sulle sue orecchie, premeva e premeva, come se volesse penetrare nel suo cervello e spremere ogni briciola di coscienza fuori da lui.
Quel tormento sembrò proseguire per ore, ma quando finalmente la luce tornò a farsi strada nei suoi occhi, era di nuovo inchiodato al letto: altre mani lo tenevano fermo, mentre il Guaritore dalla pelle ambrata sfiorava il suo petto con la punta della sua bacchetta, mormorando a mezza voce una litania infinita e monotona, un incanto che Sirius non riusciva a riconoscere. E più il Guaritore cantava la sua litania, più la pressione nella testa di Sirius diminuiva, rendendogli possibile tornare a respirare senza difficoltà.
“Signor Black, stiamo cercando di aiutarla. Non abbiamo intenzione di attaccarla o di metterla in pericolo, ma lei deve collaborare” sentenziò seriamente il Guaritore dalla voce musicale.
Sirius annuì di nuovo, rischiando di scatenare una nuova ondata di nausea, ma riuscì a restare abbastanza concentrato sul mondo che lo circondava. Harry, che per tutto il tempo era rimasto immobile a osservare la scena, fece qualche altro passo avanti, e Sirius poté notare quanto fosse diverso, questo Harry, dal ragazzo che conosceva: il suo viso era smagrito, pallido, e segnato da ombre di preoccupazione troppo profonde, per un ragazzo della sua età.
Dopo un lungo silenzio, Sirius riuscì a domandare:
“Dove sono?”
Il Guaritore che lo stava visitando, che aveva smesso di intonare la sua litania, ma non di sfiorare ogni parte del suo corpo che la punta della sua bacchetta riuscisse a raggiungere, fece per parlare, ma Harry lo interruppe.
“Sei al San Mungo.”
Al San Mungo. Il prigioniero più ricercato della comunità magica, ricoverato al San Mungo.
“Ma... devo nascondermi, io...”
Harry scosse la testa, si tolse gli occhiali e si passò stancamente una mano sul viso.
“Sirius, sono successe tante cose... e tu non sei nelle condizioni di ascoltare un racconto troppo lungo. Però...” Harry lanciò un'occhiata al Guaritore che, evidentemente, era a capo di quell'equipe medica, il quale annuì brevemente, prima di rigettarsi a testa china nei suoi esami.
“Però non ti devi preoccupare. È tutto finito. Sei libero...”
Sirius fissò a lungo Harry, domandandosi se non avesse definitivamente perso il senno. Da tempo ormai sospettava che le sue facoltà mentali fossero state irrimediabilmente danneggiate dai Dissennatori, ma questa doveva essere la prova definitiva. Tutto finito? Libero, lui? Era evidente che doveva trattarsi solo di un sogno. O di un'allucinazione, forse. L'incantesimo con cui Bellatrix lo aveva colpito all'Ufficio Misteri doveva essere stato più violento del previsto, e ora probabilmente si trovava di nuovo a Grimmauld Place, in preda a chissà quale delirio. Quello che gli stava parlando, con ogni probabilità, era Remus, non Harry.
“Svegliami...”
Mormorò, più a sé stesso che ad altri. Harry, o l'immagine di Harry creata dalla sua mente, strabuzzò gli occhi, inforcò di nuovo i suoi occhiali e domandò:
“Che cosa?”
“Svegliami”, ripeté Sirius, questa volta un po' più forte, cercando di scorgere un lampo del viso di Remus attraverso i lineamenti di Harry, “è un'illusione troppo realistica, non voglio rischiare di crederci.”
Harry e il Guaritore si scambiarono un'altra occhiata d'intesa, ma questa volta fu il Guaritore, a proseguire:
“Signor Black, mi rendo conto che questo potrebbe risultare uno shock, per lei. Per questo preferiremmo raccontarle i dettagli solo quando ci saremo accertati della sua completa ripresa fisica, ma deve sapere che molte cose sono cambiate, dall'ultima volta che è stato cosciente. È stato prosciolto da ogni accusa, ed è, a tutti gli effetti, un uomo libero.”
L'ultima volta che era stato cosciente... ma che cos'era successo, dopo che era stato colpito dalla maledizione di Bellatrix? Di quella battaglia aveva ricordi confusi, era tutto un turbinare di grida e di angoscia. Ricordava il sollievo nell'aver ritrovato Harry sano e salvo, e ricordava di averlo incitato ad andarsene assieme a quell'altro ragazzino... e poi ricordava Bellatrix che avanzava verso di lui, dopo essersi liberata di Tonks, e ricordava di non aver esitato un secondo a gettarsi sulla sua strada. Ricordava di aver maledetto Alhena, che se ne stava immobile a fissarlo, invece di prendere Harry e portarlo via, e poi ricordava solo la sorpresa del dolore che gli era esploso nel petto, e la voce di James e quella di Harry che si sovrapponevano, e la luce accecante di quella stanza d'ospedale.
Sentendo l'angoscia della battaglia risvegliarsi nelle sue vene, Sirius si ritrovò a domandare, senza riflettere:
“Alhena sta bene?”
Le sopracciglia di Harry si aggrottarono in un moto confuso: Sirius sapeva che quella domanda doveva apparire strana al suo figlioccio, ma non gli importava.
“Alhena? Macnair?”
Sirius annuì lentamente, osservando la confusione sul viso di Harry fare spazio ad un moto incurante, mentre il ragazzo sollevava le spalle, disinteressato.
“Immagino di sì. Vive all'estero, ora, in Bulgaria mi pare, o giù di lì...”
Alhena se n'era dunque andata? Dopo tutto quello che aveva fatto per l'Ordine, se n'era andata in mezzo alla guerra?
Non che fosse dispiaciuto all'idea di saperla lontana da un Paese sull'orlo del baratro, ma non poteva negare di essere deluso dalla sua partenza. Se n'era andata, senza nemmeno aspettare di poterlo salutare. Sirius sapeva che al momento c'erano cose molto più importanti a cui dedicare la sua attenzione – era stato prosciolto da ogni accusa? Com'era possibile che il Ministero avesse acconsentito a un processo nei suoi confronti, e che avesse addirittura creduto alla sua versione dei fatti? – ma dovette combattere a lungo, per scacciare quella bruciante delusione dalla sua mente.
Il mondo aveva ricominciato a vorticare in maniera incontrollabile, ma questa volta, Sirius lo sapeva, il malessere non era più solamente fisico. Era qualcosa di diverso, qualcosa nella sua testa che si rifiutava di funzionare nel modo giusto, qualcosa che gli intimava di scappare e rifugiarsi in un mondo fatto solo di istinti e sensazioni. Harry lo fissava confuso, forse anche spaventato, e Sirius avrebbe voluto allontanarlo... Harry non aveva bisogno di preoccuparsi per lui, era solo un ragazzino che era stato costretto ad affrontare fin troppo, nella sua giovane vita. Doveva essere a Hogwarts, in questo momento, non accanto a lui, in un ospedale.
Harry non aveva bisogno di vederlo in quello stato, e non era di Harry che ora Sirius aveva bisogno.
Cercando di concentrarsi sul presente e di mantenere un tono di voce saldo, Sirius domandò, asciutto:
“Dov'è Remus? Ho bisogno di parlare con lui.”
Remus avrebbe saputo cosa fare. Remus avrebbe saputo fermare quell'ondeggiare di pensieri, avrebbe trovato il modo migliore di spiegargli quanto era accaduto, e tutto sarebbe andato bene.
Ma Harry non rispose, e il suo viso si rabbuiò tutto, trasformandolo improvvisamente in un adulto tormentato dal dolore. Qualcosa, nel modo in cui Harry distolse lo sguardo, lasciò Sirius boccheggiante: non c'era più il suo dolore, non c'era la sua paura e la sua confusione, ma solo una lenta, fredda angoscia che saliva lentamente ad avvolgerlo in spire soffocanti.
“Dov'è Remus?” ripeté, la voce un sussurro flebile, quasi che parlare troppo forte avrebbe potuto dare vita e corpo al suo tormento.
“Sirius... devi capire che le cose sono più complicate di quanto tu pensi. Durante la battaglia all'Ufficio Misteri credevamo che tu fossi... morto... e lo abbiamo creduto per due anni. Siamo nel 1999, è passato tanto tempo da quando tu... da allora, e sono successe tante cose. La guerra è finita, abbiamo vinto, ma c'è stata una battaglia, e...”
La voce di Harry morì sulle sue labbra, ma era come se non avesse parlato affatto. Le sue parole toccarono le orecchie di Sirius e volarono oltre, come se non avessero un peso, come se non potessero sfiorarlo. Harry diceva sciocchezze, parlava di cose folli e senza senso, ma il dolore che aveva negli occhi era quanto di più reale Sirius potesse immaginare.
Per l'ultima volta, domandò:
“Dov'è Remus?”
Harry non rispose, si limitò a scuotere leggermente la testa, chiudendo gli occhi.
Non c'era bisogno di parole.
Sirius chiuse gli occhi, cerando di tenere a bada quella voragine che aveva nel petto, quella voragine che si stava allargando, contaminando tutto ciò che trovava.
Aveva un gemito intrappolato in gola, ma riuscì a trattenerlo, e si concentrò su quel suono strozzato così a lungo che quasi non si rese conto della scarica elettrica che si diffondeva nel suo corpo, scorrendo nel suo sangue al ritmo del suo cuore impazzito. Era un dolore familiare, una scossa fatta d'eccitazione e terrore, quel salto nell'ignoto che doveva affrontare ogni volta che il suo corpo mutava forma, mentre i suoi sensi umani si facevano sottili, e quelli di Felpato prendevano il sopravvento.
L'odore dei medicamenti assalì il suo naso delicato come uno schiaffo in pieno viso, e i colori andarono a fondersi l'uno sull'altro, appiattendosi e trasformandosi in scie di movimento.
Il dolore c'era ancora, era tutto lì, concentrato nel ringhio basso nella sua gola, ma era un dolore fatto di rabbia cieca e disarticolata, una sensazione primordiale che lo stordiva, e i suoi sensi animali lo proteggevano, almeno in parte, dalla portata sconvolgente della piena consapevolezza.
Suoni attorno a lui, e movimenti rapidi, odori di sconosciuti che si avvicinavano minacciosamente, una bacchetta puntata contro di lui... i suoi istinti furono più rapidi dei suoi pensieri: davanti ad una bacchetta levata, si fugge o si attacca. E Felpato non era fatto per fuggire. I suoi denti trovarono la carne morbida di un braccio, e il gemito sopra la sua testa non bastò a convincerlo a mollare la presa. Era più facile lasciare che il dolore si trasformasse in fauci serrate, era facile respirare affannosamente, e ignorare l'intenso vociare che lo circondava.
Il lampo di luce dorata lo investì d'improvviso, cogliendolo impreparato.
Non fu doloroso.
Fu come scivolare nelle acque tiepide e salate del brodo primordiale, tornare ad essere un lumicino appena pulsante di vita.
Pieno di vita, ma privo di coscienza. Sirius scivolò fuori dal blu e dentro al nero con la certezza che, almeno lì, il dolore sarebbe cessato.

 
***


Budapest, 23 gennaio 1999

Imre Szeredàs respirava affannosamente, il petto magro ancora scosso dalle convulsioni di quel tremendo accesso di tosse. L'inverno era sempre una stagione difficile, per i suoi polmoni, ma era certo che ben presto le cose sarebbero migliorate. Del resto, aveva davanti a sé una tazza fumante di quella tisana speciale che sua mogli gli preparava ogni anno: l'effetto su di lui non era rapido e immediato come lo sarebbe stato per qualcuno del popolo di sua moglie, ma anche un non varàszlò (1) come lui sapeva trarne dei benefici. E, in ogni caso, l'effetto del vapore che risaliva dal suo stomaco fino alle sue orecchie, fuoruscendo con un curioso sibilo simile ad una locomotiva da salotto era a dir poco esilarante, e Imre non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
Imre, comodamente adagiato sui cuscini mezzi sfondati del loro divano, ascoltava i suoni attutiti prodotti da sua moglie Emerenc, tutta intenta a tirare a lucido la cucina. Per quale motivo quella benedetta donna si ostinasse a perdere tanto tempo e tante energie nelle pulizie di casa, quando le sarebbe bastato agitare quel pezzetto di legno che si portava sempre appresso per avere una casa in perfetto ordine, Imre non aveva mai smesso di chiederselo. Del resto, aveva smesso di farsi domande sulle stranezze di sua moglie molti decenni prima, quando lei lo aveva seriamente preso da parte e gli aveva raccontato una storia straordinaria fatta di magia e stregoneria. E alla fine del suo racconto, gli aveva dimostrato che era tutto vero.
Oh, insomma, il fatto che sua moglie fosse una strega era solo l'ultima delle sue stranezze, e lui quelle stranezze le aveva amate tutte, pazientemente, dalla prima all'ultima.
Imre sospirò, allungando una mano scarna ad afferrare la tazza fumante che aveva davanti: stava proprio invecchiando, si stava trasformando in un patetico sentimentale. Emerenc lo avrebbe guardato col suo sopracciglio sollevato in segno di disprezzo, se lo avesse sentito fare dei discorsi del genere ad alta voce.

Un discreto picchiettio alla finestra distrasse Imre dai suoi pensieri: un piccolo gufo dalle piume arruffate beccheggiava piano contro il vetro appannato, e sembrava faticare a reggere il peso del pacchetto cilindrico legato alla sua zampa. Per quale motivo quegli sciocchi inglesi si ostinassero ad utilizzare gufi così piccoli per consegne internazionali, per Imre era un mistero. Per tagliare sui costi, probabilmente.
L'uomo, un po' malfermo sulle gambe, si sollevò lentamente in piedi, caracollando piano fino alla finestra: quando l'aria gelida di quel nevoso mattino gli allargò le falde della vestaglia, Imre rabbrividì, e si affrettò a lasciar entrare il piccolo pennuto nella stanza. Il gufo svolazzò attorno alla sua testa, bubolando vivacemente, e Imre sorrise: erano sempre i soliti, i gufi impiegati dalla Gazzetta del Profeta per le consegne internazionali a Budapest, e Imre aveva imparato a conoscerli. Questo piccolo diavoletto curioso lo aveva soprannominato Kis, e lo aveva viziato a suon di biscottini che il piccolo animale mangiava direttamente dalla sua mano.
“Porti buone notizie, vero, Kis?” mormorò l'uomo, frugando nella tasca della vestaglia fino a trovare le strambe monetine di bronzo che servivano a pagare la consegna del giornale. Il gufetto tubò soddisfatto, lasciò che l'uomo slegasse lentamente e con dita incerte l'involto in pelle scura che avvolgeva il quotidiano, e poi svolazzò con aria sicura verso la cucina dove, Imre lo sapeva, Emerenc avrebbe borbottato, lo avrebbe sgridato perché spargeva le sue penne ovunque, salvo poi viziarlo con le briciole dell'ultima torta che aveva sfornato.
Imre, osservando l'animale muoversi con familiarità nella loro piccola casa, sorrise, aprendo l'involto di pelle e preparandosi a sfogliare il giornale: era curioso come, fra di loro, fosse lui, il babbano, quello che insisteva per continuare a comprare il quotidiano magico nazionale del Paese in cui erano vissuti per quasi trent'anni, e da cui erano fuggiti quando la guerra si era fatta troppo pericolosa. Emerenc diceva di non voler sapere più niente di quello schifo di posto, non ora che la loro gyermek li aveva seguiti definitivamente a Budapest, ma Imre non avrebbe mai rinunciato al piacere quotidiano che gli dava sfogliare uno di quei giornali dalle figure sempre in movimento.
Qualche volta, quando una fotografia attirava la sua attenzione, dedicava qualche minuto del suo tempo agli articoli, ma il più delle volte si limitava ad osservare uomini sconosciuti sorridere e agitare le braccia sulla carta stampata.
Quando tornò a sedere, la pozione aveva finalmente raggiunto una temperatura adatta a gole umane, e così si decise a sorseggiare quel carico di vapore e erbe medicinali mentre sfogliava distrattamente il giornale.
Non avrebbe saputo dire perché il grosso titolo in terza pagina avesse attirato la sua attenzione: non c'erano immagini, in quella pagina, fatto salvo la pubblicità di una squadra di Gobbiglie, ma qualcosa lo spinse a leggere distrattamente il grosso titolo nero che incoronava una lunga e fitta colonna:
“Inchiesta San Mungo: il Ministero non riesce più a nascondere le verità sconcertanti. Sirius Black, la grande vergogna della giustizia magica per anni considerato morto, è ricoverato in un'ala impenetrabile dell'ospedale londinese, e la sua salute sembra migliorare di giorno in giorno.”
Imre lesse più volte quel titolo, gli occhi sgranati, mentre nella sua mente riviveva quelle notti terribili dell'estate di due anni prima, quando la loro gyermek si era ripresentata all'improvviso sulla soglia di casa, pallida e terrorizzata. Non aveva mai detto che cosa le fosse successo, e loro non lo avevano mai chiesto, ma Imre ricordava fin troppo bene le lunghe notti passate insonni a vegliare il suo sonno agitato. Tante volte, troppe volte l'avevano vista risvegliarsi, in lacrime, chiamando il nome di Sirius.
Szerelem! (3)” chiamò, allarmato.
Non ebbe risposta.
“Szerelem! Devo farti vedere una cosa!”
Emerenc, borbottando ininterrottamente e legandosi al meglio un fazzoletto di un rosso sgargiante sulla sua candida treccia spettinata, lo raggiunse.
“Bevi la tua pozione, sciocco che non sei altro, e non farmi perdere tempo. Il forno non si pulisce da solo nemmeno con una bacchetta!”
Imre scosse una mano, impaziente: non aveva tempo per stare al gioco con le lamentele di sua moglie.
“Guarda qua”, si limitò a dire, porgendo il giornale a Emerenc, che lo prese con un'occhiata scettica.
Imre osservò con attenzione gli occhi chiari e penetranti della donna scivolare da una riga all'altra, mentre le sue labbra sottili si tendevano in una linea sempre più severa.
Quando la donna ebbe finito di leggere, sollevò lo sguardo, accigliata.
Marito e moglie si guardarono a lungo, senza dire niente: non c'era bisogno che parlassero, non quando avevano passato due settimane a interrogarsi sul bigliettino scritto di fretta che la bambina aveva fatto pervenire loro: “Torno a casa. Non so quanto starò via, dormirò a Dublino. Non preoccupatemi per me, vi voglio bene. A.”
Era tornata a casa, la loro bambina, nella casa di Dublino nella quale loro l'avevano accolta, più di dieci anni prima. Era tornata a casa senza una spiegazione, lasciandosi dietro solo un biglietto, e a lungo loro si erano chiesti che cosa potesse essere successo, che cosa l'avesse spinta ad abbandonare quelle briciole d'equilibrio che si era costruita a Budapest per rigettarsi nel caos della vita da cui era fuggita. Si erano chiesti se non fosse il caso di raggiungerla, di accertarsi che stesse davvero bene, ma poi avevano deciso di aspettare. Lei era forte, se la sarebbe saputa cavare, e loro avevano preferito attendere un segnale. Un segnale che era arrivato solo con quell'articolo di giornale.
Emerenc richiuse il giornale, sistemando un ciuffo di capelli ribelli sotto il fazzoletto che aveva in testa. Nei suoi occhi si leggeva lo sguardo determinato che aveva ogni volta che prendeva una decisione.
Non c'era bisogno che parlassero, Imre già sapeva che cosa sarebbe successo.
Osservò sua moglie prendere il mantello da viaggio dall'attaccapanni accanto al fuoco, e sorrise.
“Stasera chiamerò Anikò. Sarà felice di lavorare un po', anche se mi mancherà la tua cucina.”
Emerenc sorrise appena, e, afferrando un grosso borsone di tela, mormorò:
“Non essere un pezzo di burro come al solito. Se non la strigli tu, ci penserò io quando tornerò: non ho intenzione di pagare una donna per accarezzare i mobili. Deve pulire, quella ragazza.”
Imre annuì, già sapendo che niente di quello che Anikò avrebbe fatto avrebbe mai potuto soddisfare l'occhio ipercritico di Emerenc.
Soffocando un altro accesso di tosse straordinariamente lungo, si sollevò in piedi per aggiustare la piega nella sciarpa di lana di sua moglie:
“Dalle un bacio da parte mia, e dille che non deve farsi fretta. Mai, per alcun motivo.”
Emerenc annuì, dando una carezza sulla testa calva del marito.
“Ci penso io, a quella screanzata. Tu riguardati. Se il telefono funziona ancora, ti chiamo appena arrivo, altrimenti aspetta un mio gufo.”
Non si scambiarono altre parole, e quando le fiamme del camino smisero di brillare di un intenso verde smeraldo, Imre si lasciò cadere con un sospiro sul divano.
Sarebbero stati giorni lunghi e solitari, a Budapest.


Note:

(1) Varàszlò: stregone in ungherese
(2) Gyermek: bambina in un ungherese
(3) Szerelem: amore in ungherese

Emerenc Szeredàs è la protagonista del mio romanzo preferito della mia autrice preferita: “La porta”, di Magda Szabò.
Quando ho dovuto inserire un personaggio positivo, un personaggio capace di aiutare Alhena quando era solo una ragazzina, ho scelto di farlo con un piccolo omaggio a quella donna straordinaria.
Non credevo sarei mai arrivata a mostrarla apertamente, ma insomma, tant'è.
Come sempre, ulteriori spiegazioni arriveranno: per seguire la storia, vi basti sapere (credo che basti, altrimenti chiedete pure!) che gli Szeredàs sono una famiglia di ballerini ungheresi che hanno vissuto per anni in Inghilterra, hanno insegnato ad Alhena bambina, e l'hanno aiutata quando è cresciuta.
Il capitolo non è per niente quello che avrei voluto che fosse, ma ci tenevo a pubblicare prima di Natale.
Tanti auguri, spero che queste feste vi portino conforto e serenità.
   
 
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