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Autore: Cara93    22/12/2018    1 recensioni
Cinque personaggi legati tra loro solo da un fragile filo, per una serie di eventi si ritroveranno a interagire tra loro, chi più chi meno.
{Storia partecipante al contest "Cinque in una scatola!" indetto da Little_Rock_Ange5l sul forum di EFP}
Genere: Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia batteva fitta sul marciapiede sudicio, la strada cosparsa di buche, che si riempivano d'acqua piovana verdastra e marroncina, era fredda e desolata. Si tratta di una via di un quartiere residenziale, pieno di villette e case divise in appartamenti, più o meno ben tenuti. Le auto filavano lente lungo la carreggiata ad una corsia, alcune fermandosi, altre proseguendo la corsa, indifferenti. Lui era lì, davanti alla porta di casa sua, al freddo e sotto la pioggia, che gli penetrava nelle ossa e gli arruffava il pelo, già riccio e annodato, del suo manto scuro. Uggiolò davanti alla porta per qualche secondo, in attesa. Voleva la sua cena e stendersi al caldo, davanti al caminetto sicuramente acceso del suo padrone. Desiderava accoccolarsi nella
sua cuccia imbottita e sicura, invece, sembrava che i suoi richiami rimanessero muti e inascoltati.

Doyle Blackbeard, per un pelo non perse la svolta, così ben nascosta e poco segnalata, che stava cercando. Quando, quel mattino era arrivato nel suo ufficio, una galera in mezzo ad un mare di possibilità; arruffato e scarmigliato come al solito, una brioche mezza finita nella mano destra e mazzo di chiavi nella sinistra, l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di trovare era il suo capo, Lloyd Abbott, ad aspettarlo. Doveva mollare tutte le pratiche che si ammassavano polverose e disordinate sulla sua scrivania e dirigersi immediatamente al nuovo quartiere residenziale di Wall Stone. La settimana prima, un eccentrico misantropo era morto in circostanze misteriose e Doyle doveva assolutamente valutare la sua collezione d'arte. Possibilmente, avrebbe dovuto ritirare tutto e organizzare un'asta al più presto: l'agenzia non navigava in buone acque e perdere un'altra collezione potenzialmente importante come quella della Contessa De Bardi avrebbe significato chiudere bottega. Doyle rimuginò a lungo, mentre era al volante, la sigaretta tra le dita e il finestrino mezzo abbassato, sulla conversazione avuta con il suo superiore. Di bassa statura, ormai quasi completamente calvo e la faccia bovina arrossata e coperta di sudore, Lloyd Abbott non faceva un bell'effetto. Ma era un genio con i numeri e con le vendite al buio. Il suo carattere rabbioso e poco paziente, non era esattamente ciò che serviva in un'attività come quella che aveva avuto in mente, perciò era stato costretto a cercare un socio, praticamente ancora prima di cercare un cliente. Solitamente, Doyle, che aveva lo stesso appeal del suo superiore, non avrebbe mai ricevuto un incarico simile, ma era stato un periodo difficile, i tagli al personale erano stati pesantissimi e doveva ringraziare solo suo fratello, che era socio di Abbott, per avere ancora un lavoro. Improvvisamente, dopo aver aspirato una boccata di fumo, l'amarezza a lungo ignorata lo invase. Era triste e umiliante sapere che il proprio capo lo considerava solo una palla al piede e che l'incarico delicato che si stava apprestando a compiere non gli era stato assegnato per delle competenze effettive, ma solo perchè era l'ultimo rimasto tra i dipendenti  in grado di portarlo a termine. Avrebbe dovuto licenziarsi, cambiare lavoro o, ancora meglio, comprare una barca e trasferirsi in Australia, come diceva sempre che avrebbe fatto. Ma, per trasferirsi avrebbe avuto bisogno di soldi che, però, non aveva. Rabbiosamente, scosse la cenere della sigaretta fuori del finestrino, perdendo per un secondo il controllo del volante sulla strada ancora bagnata, creando una serie di doppie esse sull'asfalto luccicante.

Lenora Kyle era stesa scompostamente sul suo letto a baldacchino. Non aveva impegni pressanti quella giornata, perciò, poteva permettersi di poltrire e rilassarsi un po'. Scostò con uno snello piede bianchissimo, nudo e affusolato, dalle unghie smaltate di un rosa acceso, uno dei lembi delle tende leggere e quasi trasparenti che schemavano il letto. Preferiva che fossero aperte, spesso le sembrava quasi che non la lasciassero respirare, come se si avvolgessero sulla sua faccia come un sudario. Aveva pensato spesso a toglierle, ma, come le consigliava sempre Kitty, la sua più grande amica e collega, avevano un tocco di sensualità in più che spingevano anche il più frettoloso dei clienti a "entrare nell'atmosfera". Lenora intimamente pensava fossero tutte cazzate, ma non aveva molta voglia di spendere un patrimonio per sostituire il letto matrimoniale che svettava nella stanza, visto che aborriva l'idea di togliere solo le tende, perchè, pensava, un letto a baldacchino nudo era pure peggio di uno coperto da tende fruscianti. Il tutto avrebbe richiesto solo un paio di giorni, il tempo di comprare un altro letto e provvedere a che venisse montato, ma nel suo lavoro un paio di giorni potevano essere fatali. Sospirò alzandosi a sedere, ancora incerta su cosa fare. Appoggiò la testa contro uno dei tanti cuscini che la circondava e chiuse gli occhi, tendendo le orecchie. Amava ascoltare i suoni e i rumori che provenivano da fuori. Automobili che sfrecciavano sulla strada, rami quasi spogli sferzati dal vento che si abbattevano sui tetti delle case, un cane che abbaiava ormai quasi senza voce. Era stata fortunata a trovare quel posto, si disse. Certo, non era come essere in città e doveva stare giusto un po' più attenta a non dare nell'occhio, ma era comunque perfetto. Per fortuna, la posizione del suo appartamento l'aiutava: si trovava nell'ultima costruzione della via, l'appartamento contiguo era vuoto, mentre la facciata era nascosta alla vista della casa di fronte da alti alberi tutt'intorno e da una siepe. Era il suo rifugio circondato dal verde. Si alzò, aggiustandosi la leggera sottoveste che copriva le sue forme sinuose, mentre, canticchiando si dirigeva verso il bagno, con l'intenzione di fare una doccia. Di lì a poco, aveva un appuntamento che, sperava, le avrebbe fruttato non poco. Una volta uscita dalla doccia con il vapore che la seguiva e l'avvolgeva come un amante e dopo essersi asciugata i lunghi e soffici capelli biondi, si sedette davanti al tavolino da toilette presente nella stanza, lo specchio che le rimandava la sua immagine riflessa. Ciò che vide la soddisfece parecchio: un viso ovale, dalla pelle liscia e bianchissima era impreziosito da grandi occhi azzurri con delle ciglia lunghe da cerbiatta, sopracciglia biondissime e perfettamente curate sormontate da una fronte piana e priva di rughe. Un neo svettava su una delle guance rosee, il nasino all'insù e una piccola boccuccia rossa a forma di cuore completavano il tutto. Soddisfatta, si truccò leggermente, prima di vestirsi. Infilò, tra i tanti completi intimi che possedeva, quello che ne esaltava le forme, sinuose e sensuali. Entrò con abilità nello stretto tubino verde scuro, infilò un paio di scarpe dello stesso colore esattamente quando il campanello cominciò a suonare. Con un gesto del capo, scompigliò i capelli, facendo cadere alcune ciocche sulla scollatura profonda dell'abito, sorrise alla propria immagine riflessa e si precipitò ad aprire. Un uomo di mezz'età, nervoso e ben vestito si stagliava sulla soglia.
-Trilli?- domandò, schiarendosi la voce. Lenora sorrise.

Dorothea Eliana Marcella DuVallet, con un sopracciglio inarcato in un'espressione di superiorità e disprezzo, ascoltava le scuse banali dell'ennesimo studente mediocre che le sedeva di fronte. Ancora non si capacitava di come quegli idioti non si degnassero neppure di essere originali, presentandosi come postulanti in cerca di un'assoluzione. Sapeva che il suo corso era tra i più difficili dell'università e che, inevitabilmente, qualcuno avrebbe cercato di fregarla, ma non credeva che quei qualcuno fossero davvero così tanti. Esigente e intransigente, fredda e glaciale, era la più odiata tra i docenti. Aveva ricevuto svariati richiami e avvisi su come sarebbe stato opportuno stabilire un rapporto con gli allievi da parte del nuovo rettore, un sempliciotto riformista dell'ultima ora, a suo parere. Li aveva ignorati tutti. Nel suo regno, composto da tomi polverosi e lezioni tecniche e minuziose, gli errori non erano perdonati. Quando sedeva sul suo scranno, un poco più in alto rispetto all'agnello sacrificale che le sedeva di fronte, sentiva di avere tutto il potere e tutto il controllo di una regina. Poco importava se, nella vita privata, fosse solo una moglie, presto ex, delusa e cornificata dal marito. Clarence, l'uomo più bello e di buone speranze a cui era riuscita ad aspirare, il rispettabile insegnate, saggista e studioso di lingue romanze nella stessa università in cui lei stessa insegnava, le aveva giusto comunicato la sua intenzione di lasciarla. E perchè? Perchè si era innamorato della puttanella che si scopava ormai da un paio d'anni. Dorothea sapeva dell'esistenza della ragazza, l'aveva sempre saputo e anzi, dopo averla vista, una barbie un po' stupida e di una bellezza disarmante, ne era rimasta un poco delusa. Aveva sempre pensato che, in fatto di donne, Clarence avesse gusti meno ordinari. In più, era pure convinto che la ragazza, una escort dalle tariffe esorbitanti, si fosse presa una sbandata per lui. Cazzone egocentrico. Almeno, da quella storia, aveva capito di averlo idealizzato troppo e che, per il suo benessere emotivo, sarebbe stato molto meglio concentrarsi su ciò che sapeva fare bene: il suo lavoro. Così, troncando a metà un'altra patetica scusa della ragazzotta sudata che aveva davanti, vergò, nella sua calligrafia ordinata e angolosa, il voto più basso che era autorizzata a dare.

L'uomo che si trovava davanti a Nicola Tassel non sembrava il suo solito potenziale cliente tipo: niente sguardo da duro, niente cicatrice o tatuaggio visibile, niente fedina penale chilometrica, niente sguardo di spregio nei suoi confronti e niente modi irritanti da maschio alpha. Al contrario, era un uomo normale, di media altezza e medio peso, con negli occhi scuri uno sguardo rassegnato, abbattuto dalle circostanze. Era per aiutare persone come lui che Nicola, fresca di laurea e di un tirocinio ben pagato in un grande studio legale, aveva deciso di mandare all'aria una potenzialmente comoda e ben pagata carriera da avvocato specializzato in compravendita, per una più movimentata e sottopagata carriera da avvocato d'ufficio. Era un'idealista e, nonostante i quindici anni d'inferno passati ad arrabattarsi tra una lista infinita e sempre aggiornata di clienti e poliziotti scortesi, era felice della sua scelta. Dopo aver scarabocchiato un appunto sul suo blocco a spirale e aver rassicurato il suo nuovo assistito, una volta fuori dalla saletta delle riunioni del carcere, si diresse sicura verso il suo prossimo caso, un noto spacciatore trovato con una voluminosa busta di cocaina nel cruscotto. Non aveva tempo da perdere. Eppure, il suo telefono trillò. Non era un messaggio o una chiamata persa, era l'avviso del promemoria che si era appuntata tre giorni dopo il funerale del padre: un perito ufficiale sarebbe passato per valutare la collezione del defunto per una possibile vendita. Con un'imprecazione a mezza bocca e dopo aver trovato qualcuno che la sostituisse, si recò correndo verso la propria auto, sperando di non arrivare in ritardo all'appuntamento.

Nonostante tutta la sua buona volontà, Nicola arrivò trafelata ed in ritardo davanti alla casa del padre. L'uomo che aspettava davanti al portone, oltre ad avere un aspetto poco raccomandabile, era pure piuttosto incazzato. Si fece piccola piccola, mentre si scusava, imbarazzata. Lo sguardo freddo, quasi rettile del suo interlocutore, le fecero rimpiangere di non aver perso ulteriore tempo per cambiarsi e presentarsi al meglio, il suo aspetto una barriera protettiva contro il biasimo di quello sconosciuto. Lo sprezzo che gli leggeva negli occhi la schiacciava e la intimidiva. Raddrizzando le spalle e alzando la testa, Nicola si disse che non poteva farsi piegare così facilmente: aveva incontrato ben di peggio, nel corso della sua carriera. Ebbe tutto il tempo di osservarlo, mentre si fermava davanti ad ogni quadro e libro della collezione di suo padre. Le guance cadenti e le rughe intorno agli occhi esacerbavano il suo cipiglio ostile, mentre una fossetta sul mento ne addolciva allo stesso tempo il viso. I freddi occhi scuri erano uno specchio rivolto verso il baratro, scuri e illeggibili. Non solo lo sguardo era capace d'intimidire, anche l'altezza e la corpuratura, degne di un buttafuori. I capelli brizzolati e la cicatrice che gli attraversava il naso lo rendevano più attraente di quanto in realtà fosse. Il suo istinto le diceva, anzi, le urlava che l'uomo che aveva di fronte era pericoloso e il suo istinto non l'aveva mai fregata.

Dopo aver girato in tondo per almeno venti minuti buoni, aveva scoperto che la cliente per cui era stato costretto a scomodarsi tanto non era neppure lì ad attenderlo. Aveva freddo, era deluso e nervoso. Non fosse stato per il potenziale valore della collezione che era andato a vedere e la potenziale percentuale di vendita che vi avrebbero ricavato, sarebbe montato sulla sua Cissy, la Volkswagen del 2003 che trattava come una moglie e sarebbe salpato per altri lidi. Ogni minuto che passava, camminando brevemente, una sigaretta dopo l'altra, l'irritazione si trasformò in qualcosa di peggio. Se quella stronza non si fosse presentata, gliel'avrebbe fatta pagare cara. Mentre rimuginava su questi foschi pensieri, la vide. Stava scendendo dalla sua auto, lucida e argentea, dignitosa e ritta come una martire. E questo lo fece mandare in bestia ancora di più. Tra i due, era lui quello che aveva molto più da perdere: sia tempo che denaro. Gli si avvicinò con passo marziale, una brunetta alta quanto un soldo di cacio, piccola e fragile come una bambina. Portava i capelli stretti in un severo chignon, il tailleur gessato scuro e le scarpe dal tacco basso come se fossero un'armatura, la valigetta impugnata come un'arma. Intuì di non piacerle dalla superiorità con cui lo guardarono i suoi occhi nocciola. Doyle non se ne preoccupò: non piaceva a nessuno.

Anche se aveva girato l'angolo, abbattuto, non avrebbe demorso. Quella era casa sua e nessuno lo avrebbe mai cacciato. Neppure l'uomo grande e grosso che l'aveva allontanato a calci. Accovacciato sotto una siepe, il pelo arruffato e infangato, si leccò il costato dolorante, mentre aspettava che l'Uomo Cattivo e la Falsa Padrona uscissero. Era addolorato e si sentiva tradito. Non solo il suo padrone era morto, lasciandolo solo, ma anche la sua padroncina, che aveva visto crescere e che amava con tutto sè stesso l'aveva abbandonato. O forse si era dimenticata di lui. Faceva male pensarci. L'aveva chiuso fuori da casa sua, era stata sorda ai suoi richiami. E adesso aveva fatto entrare l'uomo che l'aveva preso a calci e insultato. No, non si sarebbe più fidato di lei.

La collezione del morto non era rara e quasi inestimabile come quella della Contessa, ma contava di un oggetto che non si era aspettato di trovare: una traduzione in lingua d'oc del trattato latino di Plinio il giovane, che raccontava gli ultimi giorni della caduta di Pompei. Infilò i guanti sulle manone tozze e pelose e, con attenzione quasi maniacale, prese a esaminare meglio il tomo. La carta era molto vecchia e scura, fragile e spessa allo stesso tempo, una pergamena d'altri tempi. L'inchiostro sbavato sembrava tipico degli amanuensi europei, mentre la rilegatura sembrava piuttosto recente, come se, passando di mano in mano, fosse stato necessario ripararla più volte, per evitare di perdere fogli preziosi. Il cuore gli batteva forte, forse aveva davvero trovato il pezzo che avrebbe svoltato la sua esistenza. Se era autentico e, per ora, non aveva ragione di credere che non lo fosse, la percentuale che Lloyd sarebbe stato costretto a sborsargli, sarebbe stata considerevole. Occhieggiò la brunetta stronza, posando il libro nella sua nicchia, fingendo di valutare il quadro che si trovava alla destra della libreria. Paccotiglia. Il resto, a parte una prima edizione di "Grandi speranze", qualche tela che poteva essere opera di qualche pittore minore della scuola olandese e due cornici d'argento, era tutta roba che un antiquario avrebbe pagato molto poco. Non voleva che la piccoletta vedesse la sua eccitazione. Se si fosse accorta che avrebbe potuto guadagnarci, sicuro come l'alba, come la Contessa De Bardi prima di lei, non avrebbe incaricato lui e la sua agenzia di vendere. Si mostrò, anzi, quasi annoiato, con un sorriso di circostanza alle labbra, mentre rifletteva sul da farsi. Nel suo ambiente, si parlava di un professorone che cercava vecchi libri e pergamene, soprattutto se risalenti al 1400-1500, e che era disposto a pagarli più di quanto effettivamente valessero. Forse, sarebbe riuscito pure a piazzare la prima edizione. Ma ciò avrebbe voluto dire coinvolgere Lloyd e non era più sicuro di volerlo fare. Lanciando un'ultima occhiata alla donna, che stava fissando sfacciatamente l'orologio, prese la sua decisione: si sarebbe arrangiato, come sempre. E si sarebbe goduto i soldi ricavati dalla vendita, avrebbe comprato una barca e se se ne sarebbe andato in Australia, finalmente. Doveva festeggiare. Appena fu fuori dal campo visivo della stronza, mandò un messaggio ad un suo socio, che conosceva praticamente ogni puttana del paese. Pochi secondi dopo, gli giunse la risposta, con un numero e un indirizzo e, con sua grande sorpresa, la ragazza abitava a poche porte di distanza dalla villa in cui si trovava. Riacquistato il buon umore, non si risentì neppure della svogliatezza e freddezza con cui venne congedato.

Non era nelle sue abitudini accettare appuntamenti con poco preavviso, eppure Jon l'aveva convinta a fare un'eccezione. Si trattava di un amico, disse. Uno a cui avrebbe fatto piacere un po' di compagnia di un certo tipo, per una volta. Traduzione: era uno spiantato. Lenora sospirò, quasi con rassegnazione. Non era riuscita a rifiutare. Jon era una sorta di fotografo/talent scout/imbroglione, che aveva avuto la fortuna di sposare una donna ricca e talmente egocentrica da non accorgersi della passione principale del marito: le donne, in particolare qualunque donna che non fosse lei. Infatti, Jon detestava la moglie, tanto da inventare qualunque scusa pur di starle il più lontano possibile. Ma amava spenderne i soldi.  Era gentile e simpatico, in fondo un bambinone. Era stato lui a renderla ciò che era. Lui l'aveva introdotta ai suoi contatti più fruttuosi. Solo tu puoi alleggerirli, Nora, diceva. Solo tu, con quella tua particolare magia puoi soddisfarli. E così era stato. Solo che, a volte, Jon le mandava dei clienti diversi, meno raffinati e più rozzi. Sono amici, Nora. Mi hanno aiutato tanto e devo ricambiare, non credi anche tu che i favori si debbano ricambiare? L'aveva fregata così.              

La bella ragazza bionda, quella che, non importa se piove o c'è il sole, si ferma sempre a salutarlo e ad accarezzarlo, è triste. Lui se ne accorge, si accorge sempre quando gli umani cambiano umore, forse è l'odore, che il suo naso fino non può fare a meno di sentire. Vorrebbe aiutarla, vorrebbe consolarla, ma ha giurato che non si fiderà più di un essere umano. Il tuo affetto non è mai ricambiato, anzi, non ci guadagni niente, solo calci.

Lenora si ferma sempre quando si accorge del cane. Probabilmente è un randagio, anche se le pare di ricordare che uno dei suoi adorabili vicini possedesse un barboncino come quello. Vorrebbe tantissimo adottarlo, ma non può. Cosa penserebbero i suoi clienti? Il giorno in cui ha ricevuto l'amico di Jon, quel tal Doyle, non si è imbattuta nel cane per caso, però. Infatti è andata a cercarlo. Ha frugato fra tutte le siepi, ha portato con sè del cibo per cani, che ha preso l'abitudine di comprare da quando l'ha visto girovagare per la via. Lo cerca perchè ha bisogno di lui. Non tanto perchè creda che un cane come quello potesse davvero proteggerla. Per indole e dimensioni, probabilmente il massimo che potrebbe fare sarebbe strofinarsi contro le caviglie di un potenziale aggressore. No. Ha bisogno che qualcuno la riscaldi, dopo quell'esperienza. Ha bisogno di qualcuno che la rassicuri e che la abbracci. Ma chi potrebbe mai voler bene ad una puttana? Per questo, man mano che il tempo passava e il cucciolo non si vedeva da nessuna parte, sentiva crescere dentro di sè la disperazione. Per questo, non appena l'ebbe trovato, fregandosene di ciò che potrebbero pensare i suoi clienti, aveva deciso di portarselo a casa. 

Doyle aveva creduto che trovare un compratore per quel maledetto manoscritto dovesse essere la cosa più semplice del mondo. E invece nulla. Non solo quel professore non l'aveva più richiamato, ma persino Lloyd aveva cominciato a tormentarlo, chiedendogli di rilevare tutta la collezione e di venderla al ribasso ad un antiquario, cercando di ricavarci almeno un misero due per cento. Si trovava in una situazione delicata e una chiamata dalla banca non ci voleva proprio. Non ci teneva a scoprire di quanto in rosso fosse andato il suo conto o di quanto tempo gli rimanesse prima di rimanere senza casa. Doveva fare in fretta e, nonostante intuisse il valore quasi inestimabile di quell'opera così rara, era costretto a svenderla pur di sopravvivere. Sperava solo che quella stronza non si fosse rivolta a qualcun altro e che quel maledetto potenziale acquirente lo contattasse al più presto. 

Dorothea sbattè il ricevitore con forza, il viso una lastra di pietra. Aveva appena licenziato il suo avvocato, un incapace che non era riuscito a far valere le sue ragioni. Il divorzio non stava procedendo benissimo e si era convinta che Clarence stesse facendo di tutto per non darle ciò che le spettava di diritto. Espirando nervosamente, con una forza tale che, se fosse stata un drago avrebbe sollevato nuvole di vapore, compose il numero dell'unica persona che avrebbe potuto sostituire quell'incompetente del suo avvocato: Nicola Tassel, figlia di George Tassel, coautore del saggio che le aveva garantito il posto all'Università e unico collega che Dorothea rispettasse davvero.

Un mal di testa feroce la stava letteralmente mangiando. Tra il suo lavoro e le spese di successione e alla vendita dei beni di suo padre stava per scoppiare. La ricerca che aveva delegato ad un paralegale sul suo perito, Doyle Blackbeard, non era ancora stata effettuata e, se non avesse avuto conferma ai suoi dubbi, non aveva appigli logici per ricusarlo. Si trovava nel suo appartamento in centro, spartano e spoglio, cercando di mettere qualcosa nello stomaco prima di fare incetta di aspirine, frigorifero permettendo. La sua ricerca minuziosa tra le varie mensole e scaffali venne interrotta dallo squillo del telefono di casa. Bofonchiando una maledizione e leggermente incuriosita dalla dicitura sul display, che indicava un numero che non riconosceva, sperando internamente che quella telefonata non peggiorasse la sua situazione, si decise a rispondere.
Nicola non credeva che una donna come Dorothea DuVallet avesse bisogno di lei. Lei, che aveva sempre difeso gli ultimi e, a volte, l'indifendibile. Erano anni che non la vedeva, eppure l'avrebbe aiutata. Suo padre l'avrebbe voluto.

Lenora e Vagabondo avevano trovato un loro equilibrio, superando l'iniziale diffidenza reciproca. Perchè, sì, anche se Lenora aveva deciso di adottarlo, temeva che la mordesse e l'abbandonasse. Vagabondo, da parte sua, non si fidava della gentilezza che l'umana gli riservava. Temeva che lo abbandonasse e, lo sapeva, non avrebbe retto un altro rifiuto.

Clarence non si curava di abbassare la voce o di non rispondere al telefono, quando passava le sue serate con Lenora. E lo faceva spesso, dato che voleva sposarla. Sembrava non recepisse quella semplice verità che chiunque avrebbe capito: per Lenora era solo un lavoro. Stava pianificando da anni di lasciare la moglie, evitando processi e lungaggini che il divorzio sicuramente avrebbe comportato. Per questo, per guadagnare dei soldi extra, era entrato in un giro di compravendita di oggetti di lusso. Per questo, il manoscritto che Doyle Blackbeard gli aveva proposto giungeva proprio al momento giusto.
Quando Lenora sentì il nome di Doyle Blackbeard, trasalì. Se Clarence faceva affari con lui, doveva per forza essere qualcosa di losco. Avrebbe fatto tutto il possibile per metter loro i bastoni fra le ruote.

Le ci vollero mesi, per capire cosa avessero in mente. Tra sprazzi di chiamate e i messaggi letti furtivamente, quando lasciava che Clarence si addormentasse nel suo letto, invece di scacciarlo come faceva di solito, Lenora cominciò a mettere lentamente insieme i pezzi: avevano intenzione di truffare una donna, usando il ricavato per i propri scopi. Non poteva permettere che lo facessero. Nonostante c'era chi pensasse che una puttana non potesse avere dei valori per definizione, Lenora credeva diversamente: lei non si sarebbe mai abbassata a togliere denaro ad altri, lo aveva sempre guadagnato, seppur, per qualcuno, in modo discutibile.

Nicola non aveva tempo per pensare alle faccende che riguardavano i beni di suo padre. Aveva sbrigato le pratiche di successione più urgenti, perciò non aveva fretta di vendere la casa e la collezione, almeno per il momento. In più, la pressione che Blackbeard continuava a farle, la insospettiva. Così non si stupì, o almeno non troppo, quando ricevette una telefonata, in studio, di una donna che chiedeva di lei e diceva di avere informazioni sul perito. Presa dai propri mille impegni, si dimenticò di disdire l'appuntamento con Dorothea.

Quando Dorothea si trovò di fronte la prostituta di cui si era invaghito il marito, pensò solo che fosse una qualche mossa ingeniosa dell'avvocato Tassel. Non si aspettava ciò che stava per sentire.

Era in imbarazzo. Non le era mai capitato prima, anche se, per sua ammissione, era la prima volta che si occupava di un divorzio. Le ci era voluto un po' per capire l'equivoco. Ma forse, sarebbe andato tutto bene lo stesso. Osservò le due donne ai lati opposti del lato della scrivania riservato ai clienti, mentre chiamava un'assistente e le chiedeva di portare qualcosa da bere. Non potevano essere più diverse. Da una parte, l'algida e non più giovane Dorothea, dall'altra la vivace e fresca Lenora. Poteva capire, in parte, in che guaio si era cacciato Clarence. Anche lei, al suo posto, si sarebbe innamorata di due donne simili, seppur così apparentemente agli antipodi.

Dorothea dovette ammettere che la procace bionda che sedeva al suo fianco non era per nulla stupida come credeva. E la sua bellezza non poteva essere definita banale. Classica, piuttosto. O almeno della stessa classicità delle Barbie. Eppure, quella Barbie aveva la chiave per salvare il suo divorzio e il patrimonio di George.
-Quindi, ricapitolando: questo Doyle Blackbeard ha intenzione di pagare a Nicola un quarto del valore dei beni di George, mentre quell'idiota di mio marito intende fregare questo Blackbeard a sua volta, vendendo quest'oggetto raro al doppio del prezzo, pagando a Blackbeard un terzo della vendita- riassunse Dorothea, con la sua voce secca e gelida, una volta che Lenora ebbe spiegato, tra giri di parole e frasi sconnesse, perché era lì. Lenora annuì, sgranando gli occhi chiari. Dorothea la metteva in soggezione. Non la imbarazzava il fatto che fosse la moglie di Clarence, ma l'aura fortemente autoritaria che emanava.
-Ho sempre sospettato che mio marito fosse un'idiota, ma non credevo fino a questo punto. Ha fatto tutto da solo e per cosa? Perché è incapace di tenere le questioni economiche fuori dal letto. Immagino che questa informazione ti aiuterà per il mio divorzio, Nicola- continuò, imperterrita.
-Sì. Oltrettutto, può darsi che abbia fatto una cosa del genere in passato, quindi potremmo lavorarci su- confermò Nicola, entrata in modalità lavorativa.
-Farò io una perizia dei beni di George- riprese Dorothea -così potrai confrontarla con quella di quel tizio. Sono perfettamente indicata per farlo, inoltre, le mie competenze sono più accertabili e rilevanti di quelle di qualunque altro perito che potresti trovare. Appena accerterai la frode, deciderai tu se farlo sbattere in galera o meno-
-Oh, grazie, sei molto gentile- Nicola era sorpresa. Non credeva che a Dorothea interessasse salvaguardare la collezione di suo padre.
-Sciocchezze. Il lavoro di George va preservato, in un modo o nell'altro. Potrei persino acquistare io l'intera collezione, una volta ottenuti i soldi che mi spettano-
La risposta della donna smentì tutta la sorpresa di Nicola. Dorothea non era certo il tipo che faceva niente per niente.
-E io che faccio?- domandò Lenora, affascinata e spaesata. Le altre due la guardarono fissamente per un attimo, finché non fu Dorothea a parlare: -Continua a fare ciò che ti viene meglio, cara- ed uscì.
-Ciò che intendeva dire la signora DuVallet, è che basterà la tua testimonianza o una dichiarazione giurata- le rispose Nicola, con più gentilezza.
-Oh. Ok-
La delusione si leggeva apertamente sul bel viso di Lenora. Fu più forte di lei, allungò una mano e le accarezzò una guancia. Se il gesto sorprese la bionda, non lo diede a vedere.
-Scusami, io...-
-Oh, non importa. Sono abituata a non contare molto-
-Non dovrebbe essere così- mormorò Nicola, intensamente. Forse troppo intensamente.

Quando Doyle Blackbeard si accorse delle auto della polizia, ormai era troppo tardi. Sfortunatamente per lui, la frode che era intenzionato a compiere, non era il solo reato a lui imputabile. A denti stretti, maledendo prima la stronza, poi Lloyd e infine la puttana bionda, sicuro che c'entrasse in qualche modo, si lasciò mettere le manette, promettendo vendetta.

Clarence era disperato. Tutto quello che aveva fatto, era stato desiderare di poter vivere una vita comoda e sicura con Lenora, convinto che anche lei fosse d'accordo. Invece, quel pitbull del nuovo avvocato di Dorothea non glielo permetteva. Aveva scoperto delle cose, cose che l'avrebbero messo veramente nei pasticci, se fossero trapelate. A malincuore, era costretto a rinunciare a tutto e, come pugnalata finale, sembrava che a Lenora non importasse nemmeno. Anzi, ne sembrava quasi contenta.

-Sai, Vagabondo, ho incontrato una persona nuova, che non mi ha presentato Jon, intendo. Oddio, in verità due, ma lei mi piace di più. Ci siamo date appuntamento per domani. Non credo sia il solito lavoro, ma sai, non si può mai dire- cinguettò l'umana bionda che l'aveva adottato. Gli piaceva, anche se parlava troppo e a volte insisteva che lui uscisse a fare una passeggiata con lei o lo chiudesse per qualche tempo in cucina.
-Si chiama Nicola...-

Vagabondo smise di ascoltare la sua nuova padrona, concentrandosi un attimo su sè stesso. Quella che stava descrivendo era la sua vecchia padroncina, come si sarebbe comportato se si fosse presentata davanti a lui?
-Ecco qua, Vagabondo. Una bella ciotola piena e dell'acqua. Come sei bello, oggi, tesoro!- esclamò, baciandolo sul naso. In quel momento,
Vagabondo decise. Non avrebbe più abbandonato la padrona bionda per nulla al mondo, neanche per la vecchia padroncina.
 
   
 
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