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Autore: Tenar80    28/12/2018    1 recensioni
Devono metterlo in conto questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato, come tutte le cose dure e fredde.
Di chi prova a diventare un campione.
Di chi diventerà Victor Nikiforov e di chi non ci riuscirà.
Della fatica di crescere dei campioni, o almeno di farli diventare adulti.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victor Nikiforov, Yakov Feltsman
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Courchevel – Agosto 2002

    

    – Sono meravigliose! Guarda quanta neve… Sono come la Siberia, ma in verticale!

    – Non siamo un po’ troppo bassi? Non è che rischiamo…?

    – No, Kirill, goditi il panorama, una buona volta – disse Yakov.

    Sorrideva ed erano giorni che non lo faceva.

    Ma l’emozione dei due ragazzi, la prima volta che sorvolavano le Alpi era una cosa che andava vista. Non avevano alcuna esperienza di montagne e in quel momento sembrava che si potesse mettere una mano fuori dal finestrino e sfiorare una vetta o raccogliere una manciata di neve da un ghiacciaio. Il suo lavoro, dopo tutto, era anche questo, accompagnare dei ragazzi in giro per il mondo, far vedere loro cose che senza il pattinaggio non avrebbero mai potuto neppure immaginare. E a volte il loro viso in quelle occasioni ripagava di tutto. Yakov si lamentava moltissimo delle continue trasferte, dei fusi orari, della scomodità dei voli e degli alberghi, ma in realtà era una delle cose che preferiva. Quando gli capitava di vedere immagini come quella della faccia di Vitya praticamente schiacciata contro il finestrino dell’aereo, gli occhi enormi nel tentativo di assorbire tutto, era difficile dire che non ne valesse la pena. Cosa che, invece, aveva pensato di continuo nel mese precedente.

    Le cose erano andate esattamente come Lilia aveva predetto. Maledetta donna che aveva quasi sempre ragione. Il ragazzo che aveva messo incinta Ekaterina si era dileguato appena saputa la notizia, a diciannove anni si era trincerato dietro la famiglia, a un padre che giurava che non fosse stato il suo figlio, che non avrebbe mai fatto alcun test per sincerarsene e che comunque lei era una poco di buono. Una facile, che andava con tutti, compreso un ragazzetto figlio di un delinquente. Queste cose Yakov le aveva sapute in prima persona perché i genitori di Ekaterina erano interessati solo al fatto che non si sapesse niente e quindi erano stati ben disposti a mascherare il tutto come un infortunio sportivo e lasciare nelle sue mani l’intera gestione della cosa. E con quello, la voglia di schiaffeggiare Ekaterina gli era passata del tutto. 

    La ragazza non aveva mai pianto, tra tutti, sembrava l’unica ad aver mantenuto intatta la propria dignità. Una volta Yakov aveva visto un film su Anna Bolena. Ekaterina si era avviata a tutte le visite mediche e anche alla clinica privata e di comprovata discrezione esattamente con lo sguardo che aveva Anna Bolena in quel film quando saliva sul patibolo. Ma, dopo tutto, Ekaterina era una regina. Lo era sempre stata e avrebbe continuato ad esserlo. Per certi versi, Yakov non era mai stato tanto orgoglioso di lei, anche se era quasi certo di averla persa. Erano stati i suoi genitori a spingerla a pattinare, era stato il loro sogno vederla diventare una campionessa. Non c’era nulla di male in questo, la maggior parte dei ragazzini iniziava uno sport per gli stessi motivi. Ma di certo Yakov al posto suo non avrebbe più fatto nulla per compiacerli. In altri tempi, quando era lui a pattinare, una ragazza di quel talento non sarebbe stata lasciata andare. A costo di ricorrere alle minacce o ai ricatti. Lo aveva visto succedere. Un talento doveva per forza servire alla causa sovietica. Adesso, però, vivevano nel tempo della libertà. E, forse, anche quello di non sviluppare il proprio talento era un diritto.

    – Allacciatevi le cinture, stiamo per atterrare – disse ai ragazzi.

    Intercettò i loro sguardi di colpo ansiosi. Per Kirill era la seconda gara internazionale, per Vitya era tutto nuovo.

    – Oh, certo, qualcuno riderà di voi – disse. – Perché siete impacciati e il vostro inglese, sopratutto quello di Vitya, è tutt’altro che perfetto. Ma solo fino a che non sarete scesi in pista. E in ogni caso la maggior parte dei ragazzi che incontrerete è esattamente come voi, si sentono stranieri, sono in ansia per la gara e non sanno come comportarsi. Siete qui per vincere, questo è certo, ma anche per imparare a gestirvi nel mondo. Ed è una buona occasione per iniziare a fare amicizia con altri atleti che magari pattineranno con voi per anni.

    – Io non ci faccio amicizia con i nemici – ribatté Kirill.

    – E quando mai tu fai amicizia? – sospirò Yakov. – Comunque non devi per forza legare con gli avversari diretti, ci sono le ragazze e i ragazzi delle coppie di artistico e di danza. Magari succede un miracolo e trovi qualcuno che non ti è insopportabile.

    Quello che pensava davvero era del tutto censurabile. Qualcuno che ti cacci la lingua in bocca e migliori un po’ il tuo umore. Yakov aveva seguito per quattro anni un atleta che aveva una relazione segreta con un pattinatore canadese che faceva danza su ghiaccio. Mai avuto un ragazzo così desideroso qualificarsi per le competizioni internazionali. Per Dimitri, all’epoca, era stato un avversario quasi imbattibile. Yakov era diventato amico del tecnico canadese ed entrambi avevano convenuto che era una delle situazioni più facili che a un allenatore potesse capitare. Atleti motivati che avrebbero fatto qualsiasi cosa per evitare che la notizia trapelasse.

    Kirill, però, si limitò a sbuffare, guardando con malcelata preoccupazione la pista che si avvicinava.    

 

 

 

    Bene, o, almeno, meglio del previsto.

    Alla mattina dell’ultimo giorno di gara, Kirill guidava la classifica e Vitya era al terzo posto. Il siberiano il primo giorno era parso ancora un po’ frastornato dalle troppe novità, dagli gli annunci di gara in inglese che non sempre capiva agli gli avversari che avevano tutti più esperienza, anche quelli più giovani, e sapevano come intimidire. Si era adattato in fretta, però. La malinconia che lo avvolgeva da che Ekaterina non veniva più in pista non era sparita, ma la sua innata curiosità lo aveva portato già quel pomeriggio a esplorare il paesino francese, che poi era una manciata di case di legno circondate dai monti, ed era tornato in compagnia di un inglese e una polacca con cui comunicava con un misto di russo, inglese e gesti. Courchevel era infinitamente più sicuro di una qualsiasi festa a casa di Ekaterina e i ragazzi erano tutti atleti con le stesse esigenze e responsabilità e Yakov era stato ben felice di lasciarlo alla trasgressione di una pizza senza adulti alle calcagna. 

    Kirill, ovviamente, era più ombroso ma le cose non giravano così male. Divideva la camera con Vitya, ma a quanto pareva non si erano ancora azzuffati e il fatto di dominare la gara aiutava. Aveva persino scambiato due parole con un ragazzo americano. Nulla di più che informazioni banali sulla provenienza e la specialità di gara, il ragazzo faceva coppia di figura e a quanto pareva era in fuga dalle crisi d’ansia della propria partner, ma, dato che si trattava di Kirill, era un successo non da poco.

    Adesso, durante l’allenamento pre gara, si muoveva sicuro, con la convinzione di non poter che confermare le prestazioni precedenti. Quello che invece andò ad abbracciare il ghiaccio fu Vitya, nel tentativo di provare la sua sempre incerta combinazione.

    – Vieni qui, ragazzo – lo chiamò, a fine allenamento.

    – Ho fatto schifo, vero? – disse Vitya, con uno di quei sorrisi che ormai il tecnico riconosceva come “schermo anti sfuriata”.

    – Abbastanza. Quindi non strafare. Fai il doppio dopo il Lutz. Se cadi sulla prima combinazione non ne esci più. 

    – Sì, ma vincere sarebbe impossibile.

    – Mantieni la terza posizione. È la tua prima gara internazionale. Se vai a podio in tutte e due le qualificazioni entri di sicuro in finale.

    L’espressione del ragazzo non era affatto convinta.

    – Che cosa c’è?

    Vitya si guardò intorno, riluttante a parlare.

    – Non pensavo che fosse così, una gara internazionale.

    – Così come?

    – Diversa dalle nostre… Piena di cose, di persone… Io vorrei… Conquistarmi il diritto di restare in questo mondo?

    – Allora vedi di mantenere la posizione e non fare idiozie.

    Eppure stava pensando qualcosa e Yakov non sapeva se fosse un bene o un male. Per i ragazzi era la prima partecipazione al Grand Prix e quindi era un po’ la prima volta anche per lui, dato che, pur conoscendoli, non sapeva come avrebbero reagito alla tensione. Kirill era ringhioso e concentrato, come i giorni precedenti e come all’europeo, l’anno prima. Quindi Yakov supponeva che andasse tutto bene. Vitya sembrava… Un segugio in un bosco troppo pieno di selvaggina. Attento ad ogni stimolo, teso e con un sottofondo d’inquietudine. Dal momento che non l’aveva mai visto così, Yakov non aveva idea neppure di cosa fare o se aspettarsi un disastro o un miracolo. E un disastro andava evitato a tutti costi. Meglio una prestazione mediocre che una caduta rovinosa nella propria gara d’esordio.

    Stavano pattinando tutti bene, maledizione a loro. L’inglese, che era quinto, piazzò anche lui una combinazione con due tripli, Loop e Toe Loop, che fece digrignare i denti a Kirill, ma applaudire di cuore Vitya e si guadagnò un punteggio da podio sicuro.

    Anche il quarto il classifica, un giapponese, gli asiatici stavano iniziando a diventare un problema, se la cavò in modo più che dignitoso.

    Vitya si tolse la felpa, rivelando il costume bianco e grigio, e assestò un carezza al proprio peluche, come se fosse un cane vero.

    – Tutte le ragazze sono già innamorate di te – gli disse Yakov, sperando di far leva sulla sua vanità. – Adesso vai a far vedere chi sei e ricordati che cosa ti ho detto.

    Vitya annuì.

    – Sì – sembrava che stesse per buttarsi nel vuoto. – I diritti qui si conquistano sul ghiaccio e se posso fare una cosa la devo fare.

    Non erano le frasi che Yakov aveva in mente, ma lo sguardo del ragazzo era cambiato del tutto. Sembrava ancora un segugio, ma che avesse trovato la sua preda.

    Gli altoparlanti annunciarono il suo nome e Yakov si godette lo sguardo degli altri tecnici quando il nome fu ripetuto anche come quello del coreografo del pezzo, insieme a quello di Lilia. Le altre esibizioni erano state prove generali, la gara di Vitya era quella.

    Il ragazzo partì benissimo. Lui, beh, Yakov se n’era accorto subito. Ci sono atleti che sanno attirare gli sguardi, hanno un’eleganza innata. Vitya, con i capelli lunghi e il costume chiaro sembrava un cigno o un angelo e nessuno poteva togliergli gli occhi di dosso. Questo, però, voleva dire che ogni sbavatura tecnica sarebbe stata notata. In una prestazione mediocre, un buon salto veniva apprezzato dai giudici. In una sublime una sbavatura poteva essere penalizzata moltissimo da una giuria esigente. E il sistema di valutazione era tale che l’umore dei giudici diventava un elemento determinante.

    Ecco la combinazione… Yakov ebbe la tentazione di chiudere gli occhi.

    Triplo Luzt, perfetto. Triplo Toe Loop, atterraggio non meraviglioso, ma senza bisogno di appoggiare una mano. Altro che non strafare. Subito di seguito aveva un’altra combinazione, triplo Axel e doppio Toe Loop, la versione più facile di quella di Kirill… No. Non la versione più facile. Triplo Axel, il triplo Axel ormai perfetto di Vitya, e triplo Toe Loop. Maledetto siberiano. Ecco perché aveva insistito tanto per quella combinazione che non gli usciva così bene. Testa dura e ribelle. Avrebbe dovuto dirgli cos’aveva in mente! Quella era una cosa da far vedere in finale o ai mondiali, non alla prima gara. Ora tutti gli atleti avrebbero alzato l’asticella della difficoltà, rendendo le gare successive un incubo… Ma Yakov non ci pensava davvero. Come tutti era ipnotizzato dalla piuma, l’angelo o quel che era e la sua caduta verso la dannazione. Finché non intercettò lo sguardo di Kirill. Era come se qualcuno gli avesse sparato a tradimento nella schiena.

 

 

 

    Victor si preparò ad entrare in camera, rassegnato alla fine della propria giornata perfetta.

    Quindi vincere voleva dire quello. Essere al centro degli sguardi, del flash delle fotografie, delle domande. Gli avevano persino lanciato dei fiori sulla pista, al termine dell’esibizione. Pensava capitasse solo alle ragazze. E invece si era ritrovato a raccogliere una rosa e aveva trovato la cosa un po’ assurda. Che cosa se ne faceva di una rosa che sarebbe appassita prima ancora del proprio ritorno in Russia? Eppure era così bella, del rosso intenso del sangue, e aveva pensato che era un fiore che a Salechard non viveva e che non gli sarebbe mai capitato in mano, se fosse rimasto là. Di certo non avrebbe mai avuto i soldi per comprare rose da regalare a qualcuno, per San Valentino. Lì invece ne avevano tirata una ai suoi piedi, poteva persino calpestarla, o ignorarla, invece che raccoglierla. Più tardi aveva chiesto a Yakov come dovesse fare per farla seccare e conservarla, per ricordarsi di tutto quello che poteva raggiungere. Yakov aveva borbottato qualcosa sull’appenderla a testa in giù e sul fatto che forse c’erano degli sponsor che magari gli avrebbero passato dei vestiti. L’allenatore era stato un bel miscuglio di rimbrotti e orgoglio, ma più tentava di fare la voce grossa e più lasciava in realtà trapelare la soddisfazione. Poi c’era stata ancora la cena con gli altri ragazzi, non solo l’inglese e la polacca e lui si era trovato a offrire le bevande a tutti, capendo perché Yakov gli aveva infilato nella tasca della giacca due banconote da cinquanta euro. A quanto pareva anche le vittorie avevano dei costi. C’era stato un velo di imbarazzo, al momento di scambiarsi i numeri di cellulare con gli altri, quando aveva ammesso di non averne uno, ma nessuno aveva approfondito l’argomento. Ci si poteva dare semplicemente appuntamento alla prossima gara o alla finale.

    Ormai era quasi mezzanotte e la stanchezza iniziava a pensare, non c’erano più scuse per non rientrare in camera, dove c’era Kirill.

    Non che Victor avesse pensato davvero a lui nel corso della giornata, anzi. Ma era un fatto che avesse pattinato malissimo, cadendo proprio sul triplo Axel e finendo quarto. Poi si era eclissato. Victor era stato trascinato via dal flusso degli eventi, ma non ricordava di aver visto il connazionale da nessuna parte. Quasi sicuramente, però, lo avrebbe trovato in camera e di certo di pessimo umore. Sperare che già dormisse era pura utopia.

    – Perché cazzo l’hai fatta, la mia combinazione?

    Eh no, non dormiva. Victor non era neppure riuscito a richiudersi alle spalle la porta della camera. 

    La stanza, tutta arredata in legno, come del resto l’intero albergo, aveva la luce spenta, filtrava appena quella del corridoio, da sotto la porta, eppure Victor intravedeva gli occhi di Kirill, come quelli di una tigre in agguato.

    – Per vincere. E non mi sembra che salti e trottole possano diventare proprietà privata – disse, gettando la giacca dove sperava ci fosse il proprio letto.

    – Era la mia combinazione! Tu avevi il tuo cavolo di Luzt, non avevi il diritto di portarmela via!

    – Dovevo rimontare. Se tu l’avessi fatta meglio di me avresti vinto e io sarei arrivato secondo. Ero convinto che sarebbe andata così.

    Iniziava a essere un po’ eccessivo per i suoi gusti. Dove cavolo era l’interruttore?

    – È da quando sei arrivato che non fai che portarmi via tutto!

    – Eh?

    Davvero eccessivo. Victor finalmente riuscì ad accendere la luce.

    Kirill aveva pianto. Forse, dalla faccia, aveva pianto dal termine della gara. Il suo letto era disfatto e sembrava fosse esplosa una bomba tra le sue cose.

    – Tu non hai idea della vita che ho fatto per arrivare qui! – stava gridando il ragazzo. – Delle cose che ho sopportato! Io sono il Campione di Russia, lo ero da novice, lo sono da juniores, io devo diventare il più grande! Ma tutti hanno sempre e solo occhi per te. Sei il favorito di Yakov, ci vivi in casa, avevi la tua bella camera spaziosa mentre la mia testa veniva infilata nei water del pensionato. Non c’è un cazzo di giorno in cui Georgi o Dimitri o persino una delle bambine non mi dica quanto hai fatto bene questo o quello, quanto sei bello o gentile o dolce! Sei pazzo, cazzo, ti sei portato dietro un peluche tutto il giorno eppure vedono tutti solo te.

    Victor aveva fatto d’istinto un passo indietro, investito da quel fiume di parole gridate tra i singhiozzi e le lacrime. Kirill aveva le mani strette a pugno, ma sembrava pronto a colpire piuttosto se stesso. 

    – Dobbiamo fare a gara a chi ha avuto la vita più schifosa? – domandò, freddo.

    – Certo, come no! Tu sei quello che non ha nessuno, quello che «chissà cos’ha passato?», con lo sguardo da cucciolo. Te li rigiri tutti. Yakov, Dimitri, Ekaterina. Scommetto che è sempre stato così. Ovunque tu sia stato, ti è sempre bastato guardare qualcuno con quei tuoi occhioni per averlo dalla tua parte.

    – Sì, è andata proprio così – replicò Victor, con tono neutro.

    Era vero. 

    Aveva pensato più di una volta negli ultimi mesi che, al netto delle cose possedute, lui era sempre stato più felice di Ekaterina. Forse gli era persino stato voluto più bene. E di certo non era mai stato pestato come era successo a Kirill, né gli era mai stata infilata la testa nel water. Tutti pensavano che dovesse aver vissuto chissà cosa in istituto. Non era vero. Lì era stato protetto, aveva avuto degli amici. Solo che poi c’era il resto, il mondo di fuori. E l’ufficio soffocante nella palazzina accanto al palaghiaccio di Salechard e quei ricordi con cui non era ancora venuto a patti. Quello che ho fatto per arrivare qui…

    – Hai finito? – domandò, togliendosi la felpa.

    Voleva che il rancore di Kirill gli scivolasse addosso, insieme ai ricordi che aveva riportato in superficie, voleva spegnere ancora la luce, buttarsi nel letto e sognare il colore delle rose o le risate in pizzeria.

    – No, non ho finito! Vorrei che tu sparissi. O che almeno mi guardassi con qualcosa di diverso da questa indifferenza. Andrebbe bene anche l’odio, sarebbe comunque qualcosa! Vorrei che te ne andassi dalla mia testa e dai miei sogni!

    Detto questo, Kirill fuggì in bagno. 

    Chiuse la porta sbattendola e un attimo dopo si udì il rumore dell’acqua che scorreva.

    Victor rimase un istante a guardare la porta chiusa del bagno e poi si lasciò cadere sul proprio letto. Tirò fuori il cagnolino peluche dalla tasca della giacca e lo tenne tra le mani. Si era aspettato rabbia da Kirill. Ma non aveva immaginato di rappresentare un’ossessione per lui. La rabbia poteva capirla, a ruoli invertiti l’avrebbe provata lui stesso. Le ultime parole invece… Quanti pensieri, e di che genere, Kirill gli aveva dedicato? Era persino possibile che nessuno, certo non Ekaterina, avesse pensato così tanto a lui… 

    Guardò il peluche, mentre in bagno l’acqua scorreva, di certo per coprire i singhiozzi.

    – Sarebbe molto più facile, Kirill, se anche tu fossi entrato almeno una volta nei miei sogni – sospirò.

 
   
 
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