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Autore: blackjessamine    14/01/2019    4 recensioni
Ufficio Misteri, 31 dicembre 1998: mentre l'anno della guerra e della pace vive i suo ultimi minuti, un gruppo di Indicibili scopre che una Soglia altro non è che un passaggio, e che dove si può andare avanti, si può tornare indietro.
Un grosso cane nero – apparentemente molto debole, ma innegabilmente vivo – viene estratto dalle macerie di un arco di pietra.
E mentre l'anno della morte e della rinascita volge al termine, i rimpianti si fanno leggeri, pronti ad essere spazzati via dalla speranza di una seconda possibilità.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Harry Potter, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pas de Deux '
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Capitolo 5
Amore è il fatto che tu sei per me il coltello con cui frugo dentro me stesso




Dublino sembrava essersi appena risvegliata da un sogno nebuloso, quella sera: erano giorni che la nebbia invadeva le strade della cittadina, confondendo i contorni di oggetti e persone e avvolgendo le luci di un alone soffuso, quasi timido.
Eppure, per la prima volta da quando era tornata nella grande casa di St. Ignatius Road, quella mattina Alhena era stata svegliata da un raggio di sole, da una luce pulita e decisa, una luce che l'aveva accompagnata fino a Londra. Era stata una giornata gelida, fatta di vento tagliente e cieli limpidi, e la notte che ora avvolgeva le strade della cittadina era una notte fatta di pece e stelle luminose.
Alhena aveva dovuto lottare non poco con la testardaggine di Marmellata, che si rifiutava di lasciarsi avvolgere da quell'orribile cappottino con ricami natalizi, ben consapevole che cappottino significava passeggiata, e passeggiata non poteva che significare passare almeno mezz'ora esposti all'aria gelida di quella notte di fine gennaio. Alla fine era stata la donna ad averla vinta, e le due figure esili e intirizzite si erano avventurate sotto le luci limpide dei lampioni.
Alhena era distratta, teneva il guinzaglio di Marmellata con una mano e camminava a passo svelto, senza nemmeno guardarsi attorno. Aveva perso il conto di quante volte avesse percorso quelle strade, da ragazzina, nelle lunghe domeniche estive passate a evitare i turisti e a osservare con occhi avidi le abitudini dei babbani.
Non metteva piede a Dublino da anni, eppure, non appena vi era tornata, le era sembrato di non averla mai lasciata. Aveva preso a muoversi con una sicurezza che non aveva mai avuto nelle strade delle altre città che l'avevano accolta. Camminava con passo sicuro, si stupiva dei piccoli cambiamenti avvenuti qui e lì – un negozio chiuso, case ridipinte, nuove insegne a sostituire le vecchie – e si stupiva che tutto, in fondo, fosse rimasto sempre uguale.
Lei stessa, nonostante i quasi ventotto anni che le pesavano sulle spalle – anni durante i quali aveva cercato in tutti i modi di scrollarsi di dosso quella sensazione di impotenze e di essere minuscola, in balia di un mondo che non avrebbe mai saputo fronteggiare – continuava a sentirsi una quattordicenne spaventata, che scendeva barcollando dal suo primo Nottetempo, non avendo idea di che cosa il futuro le avrebbe riservato.
Le era sembrata orribile, Dublino, quella prima sera estiva: pioveva, e lei aveva freddo, nella sua veste magica meno appariscente, aveva freddo e il suo baule di Hogwarts pesava troppo per le sue braccia di ragazzina che troppo spesso saltava la cena, perché di sedersi ad un lungo tavolo pieno di adolescenti con cui credeva di non avere niente in comune non le andava proprio. Pioveva, e non sapeva che cosa sarebbe successo, quando avesse bussato alla porta del numero 3 di St. Ignatius Road.
Com'era stata sciocca.
Doveva saperlo che Dublino aveva una scorza amara, una scorza difficile, ma che era solo questione di tempo, prima che le rivelasse tutta la sua luce.

Alhena camminava a passo svelto, senza nemmeno prestare attenzione alle strade che attraversava. In qualche momento era lei a guidare, tirando con determinazione il guinzaglio di un infreddolito Marmellata, mentre in altri momenti i suoi pensieri si distraevano, riportandola ai corridoi freddi di quell'ospedale di Londra dove non aveva ancora avuto il coraggio di palesarsi apertamente, ed era il cagnolino a scegliere la direzione della passeggiata.
Fu dunque con un certo grado di sorpresa che Alhena si ritrovò ad alzare la testa con un sospiro, mentre i suoi occhi chiari si posavano sul cartello che segnalava l'inizio di Starsfield Street. Quante volte le sue gambette scattanti di adolescente l'avevano condotta fino all'incrocio fra Starsfield Street e Berkeley Road, dritta davanti all'ufficio postale sempre affollato, e poi via di corsa lungo la strada fiancheggiata da un filare di ciliegi, fino al cancelletto di ferro battuto del numero 9, e poi su per le scale di quell'edificio di mattoni rossi che l'aveva vista crescere più di ogni altro luogo al mondo. La Dublin City Ballet Academy, il luogo di ritrovo di genitori apprensivi e ragazzini pieni di talento e belle speranze.
"Ma guarda un po' dove siamo finiti..." mormorò la donna, osservando con un velo di malinconia Marmellata annusare intensamente il cancelletto di ferro battuto smaltato di nero.
Da quando aveva nuovamente messo piede a Dublino, pur essendo tornata a vivere nella casa che l'aveva accolta da ragazzina, non aveva mai dedicato nemmeno un pensiero a quell'accademia in Starsfield Street. Era stata troppo presa a sopravvivere ai ricordi di un passato recente, per dedicarsi al suo passato remoto. Ogni giorno si svegliava presto, passava fin troppo tempo sotto il getto della doccia bollente, combattendo l'ennesima battaglia contro la sua forza di volontà, e poi si ritrovava, immancabilmente, a gettare una manciata di polvere verde e scintillante fra le fiamme del camino del salotto. Il San Mungo l'accoglieva ogni giorno con la confusione che lei aveva imparato a benedire, perché questo le permetteva di nascondersi fra la folla e di non farsi notare: era diventata brava, ormai, a cavalcare il silenzio, a rendersi poco interessante e a restare in disparte, attenta solo a cogliere stralci di conversazioni non dedicate a lei. Quel pomeriggio, però, qualcosa era andato storto: come avesse fatto ad essere così stupida da non accorgersi che Harry Potter era accanto a lei, quello proprio non se lo sapeva spiegare.
E ormai il tempo stava scadendo: non poteva continuare a fare finta di niente, a nascondersi fra la folla e a chiedere a Bill di informarsi su ogni cambiamento nello stato di salute di Sirius: doveva agire, prendere in mano la situazione e decidere che cosa fare. Decidere se lasciare che la sua vita perdesse di nuovo ogni bussola, se affidarsi al vento del cambiamento e perdere ogni sicurezza, o tornare ai tristi equilibri di Budapest.
Alhena si riscosse in tempo per strattonare delicatamente Marmellata, il quale, nel frattempo, aveva ben deciso di marcare il territorio proprio accanto al cancelletto d'entrata della scuola.
“Ma che diamine... Marmellata! Lo sai benissimo che non si fa pipì su macchine, biciclette o porte di casa!”
Per tutta risposta, il cane abbaiò un paio di volte, tirando il guinzaglio e cercando di infilarsi in mezzo alle sbarre nere e lucide del cancelletto.
“Stai fermo, che ti incastri, così!”
Alhena si guardò attorno, lieta di constatare che la strada era completamente deserta. Non ci teneva proprio a far sapere a tutti che, sì, lei intratteneva lunghe e regolari conversazioni con il suo cane.
Quella strada deserta, però, la convinse ad alzare il capo verso le finestre scure della scuola: non c'era nemmeno una luce accesa, lì dentro. Non c'era nessuno, e Marmellata continuava ad insistere per infilarsi fra le sbarre del cancello.
Con circospezione, Alhena estrasse dalla tasca del cappotto la sua bacchetta, e si limitò a bisbigliare un incantesimo a mezza voce, sfiorando la serratura del cancello, che scattò con un allegro click.
“Tu non hai idea di quante ore io abbia passato qui dentro, mostro...” sussurrò Alhena, seguendo finalmente un Marmellata barcollante di entusiasmo.
Un paio di colpi di bacchetta dopo, Marmellata e Alhena stavano percorrendo i corridoi bui della scuola, seguendo con circospezione la fioca luce emanata dalla bacchetta della donna.
Tutto era rimasto esattamente com'era quindici anni prima: le ampie finestre che davano sul giardino interno, le fotografie degli allievi più illustri della scuola, quelli che della danza erano riusciti davvero a farne un mestiere, e lo avevano fatto calcando le scene più importanti d'Europa.
Alhena si diresse a passo svelto verso l'ultima porta in fondo al corridoio del primo piano. Il suo studio preferito, quello piccolo, quello con una sola finestra, troppo in alto perché qualcuno dal giardino potesse guardare dentro.
Con mani tremanti, abbassò la maniglia, e un tocco di bacchetta sull'interruttore della luce fu sufficiente a illuminare tutta la stanza.
Alhena respirò a fondo, stupita di quanto quell'odore le sembrasse familiare e vicino, come se non se ne fosse mai andato. Odore di legno lucido, e grani di pece greca che si sbriciolavano sotto la suola delle scarpette, qualche residuo di lacca per i capelli, e giusto un pizzico di deodorante per ambienti alla lavanda.
Alhena lasciò scivolare una mano sul legno lucido della sbarra che correva lungo tre delle quattro pareti, osservando con una smorfia la sua immagine riflessa nel grande specchio davanti a lei. Era a dir poco ridicola, infagottata com'era in quel piumino scuro. Ed era cresciuta, non era più una ragazzina incerta, che si ritrovava a faticare, sempre un passo indietro rispetto alle sue compagne di corso, che avevano quattro, cinque anni meno di lei, ma le bagnavano il naso come niente.
Aveva sempre danzato, Alhena, e con una delle migliori insegnanti della comunità magica, ma aveva solo appreso le danze tradizionali che le avrebbero permesso di fare una splendida figura a qualsiasi festa organizzata nel maniero di qualche famiglia purosangue. Lavorava sodo, ed era brava, ma questo non le era servito a niente, la prima volta che Imre, stanco di vederla ciondolare senza nulla da fare in casa, se l'era trascinata dietro in accademia. Vivere con il direttore della scuola e sua moglie aveva dei privilegi, perché le era permesso accedere ad ogni masterclass estiva senza dover superare alcun provino. C'erano anche degli svantaggi, ovviamente, come l'essere obbligata a frequentare tutte le lezioni di Imre, partendo da quelle delle bambine piccole, in mezzo alle quali spiccava come un cactus nel deserto, ma con le quali condivideva la goffaggine, fino ad arrivare alle classi dei ragazzi più grandi, dove a malapena riusciva a seguirli nel riscaldamento, salvo poi restare in disparte ad allenarsi alla sbarra. Dicerie e derisioni l'avevano seguita, plié dopo plié, pirouette dopo pirouette, ma Imre l'aveva sempre esortata a lasciar parlare chi doveva parlare e a concentrarsi sul suo corpo. E, sorprendentemente, la cosa aveva funzionato. Perché dopo una giornata intera passata a farsi sanguinare i piedi davanti a quello specchio, la stanchezza era troppa perché Alhena riuscisse a preoccuparsi del suo futuro, della famiglia da cui si era allontanata e dalla scuola in cui sarebbe dovuta tornare, a settembre. Era troppo stanca anche per essere perennemente arrabbiata, e la danza richiedeva così tanta disciplina e autocontrollo che, semplicemente, nella sua testa e nel suo corpo non c'era più spazio per nient'altro.
Alhena non avrebbe mai saputo dire se fosse stata semplicemente fortunata nel trovare riparo presso una famiglia di ballerini, o se la danza le fosse entrata dentro a tal punto solo proprio perché scorreva nelle vene di chi l'aveva aiutata. Sapeva di aver iniziato a danzare quando era troppo grande, e di aver continuato a farlo con troppa poca costanza, quando ancora frequentava Hogwarts, ma sapeva anche di non essere mai stata tanto libera come quando si concentrava a tenere sotto controllo ogni singolo muscolo del suo corpo. Imre diceva sempre che, se solo avesse potuto iniziare a studiare da bambina, seguendo programmi costanti e regolari, probabilmente avrebbe potuto aspirare a qualche stagione da solista in compagnie di tutto rispetto. Emerenc, invece, sosteneva che i risultati che aveva ottenuto - compagnie sgangherate e un posto da insegnante in una scuola di terz'ordine - erano dovuti solo al suo caratteraccio: se non si fosse intestardita a voler dimostrare di essere perfettamente all'altezza di quello sciame di bambine giovanissime e molto più esperte di lei, con ogni probabilità Alhena non avrebbe mai trovato lo stimolo per mantenere uno sforzo costante. E Alhena, sebbene non lo avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura, concordava perfettamente con Emerenc.

L'abbaiare infastidito di Marmellata – l'animale detestava essere ignorato per così tanto tempo dalla sua umana preferita – riportò Alhena al presente. Il cagnolino si era rannicchiato accanto ad un vecchio stereo che aveva decisamente l'aria di aver vissuto tempi migliori, e Alhena decise di avvicinarvisi.
“La vuoi vedere una magia babbana?” chiese la donna, grattando distrattamente le orecchie di Marmellata. Dopo aver armeggiato con pulsanti e prese della corrente, finalmente dallo stereo si diffusero lievi le note di una sonata per pianoforte. Alhena era certa di conoscere quel brano, ma era sempre stata una frana con la musica, e non avrebbe mai saputo dire di chi fosse.
Per un po', rimasero così, immobili: un cagnolino zoppo e una giovane donna accovacciata a terra, in una scuola di danza chiusa e fredda. Una parte di Alhena, quella più istintiva, quella che respirava con la memoria del corpo, avrebbe voluto solo sollevarsi da terra, abbandonare scarpe e piumino, e gettarsi nei familiari esercizi di riscaldamento alla sbarra, gli stessi che, fino a qualche settimana prima, lei si impegnava ad insegnare alle sue bambine a Budapest.
Quanto sarebbe sembrata stupida nei suoi jeans un po' stretti e con i suoi muscoli freddi, intenta ad evitare le feste di Marmellata, a danzare in una stanza in cui non sarebbe mai nemmeno dovuta entrare.
“È meglio che andiamo, prima che qualcuno ci trovi qui dentro... ci mancherebbe giusto dover passare la notte a dare spiegazioni ad un poliziotto babbano.”
“Io invece credo che sarebbe il caso che tu prenda una decisione, gyermek: o danzi, o lasci libera la sala. È una regola importante.”
Alhena si voltò di scatto, la mano che correva a stringersi attorno alla bacchetta in un moto istintivo.
Mentre il cuore le tuonava nelle orecchie in una corsa impazzita, Alhena si ritrovò a fissare i piccoli e luminosi occhi scuri di una donna avvolta in un logoro mantello da viaggio. Le rughe sul viso di Emerenc Szeredàs erano congelate in una strana espressione, un sorriso appena nascosto dietro la piega severa delle labbra.
Alhena era senza parole: Emerenc doveva trovarsi a centinaia di chilometri da lì, come poteva ora essere su quella soglia ad osservarla con le braccia conserte?
“Che? Cosa ci fai qui?”
La voce di Alhena risuonò innaturalmente acuta, in quella grande stanza vuota. La voce di una bambina che temeva ci fosse una ramanzina in arrivo.
Le labbra di Emerenc si serrarono ancora di più, mentre la sua testa si chinava appena di lato, gli occhi assottigliati in un attento esame della ragazza che le stava di fronte.
“Che cosa ci fai tu, qui? Con un cane in sala prove? Vestita così, senza nemmeno esserti data una pettinata?”
Alhena sorrise appena. Niente ramanzine, niente ramanzine vere.
“Fa un po' troppo freddo per danzare, no?”
Emerenc emise un verso insofferente, facendo schioccare la lingua e lanciando l'ennesima occhiataccia a Marmellata.
“Rudi si allenava in un capanno nel bosco senza riscaldamento, a Ufa. Ed era quasi in Siberia.”
Fu il turno di Alhena di incrociare le braccia al petto, ribattendo:
“Ah, stai implicitamente paragonando le mie potenzialità a quelle di Rudolf Nureyev?”
“Sei sempre la solita bambina sfacciata!”
Emerenc batté con stizza un piede a terra, ma pochi istanti dopo stava già attraversando a passi rapidi la sala, attirando a sé Alhena e stringendola in un lungo abbraccio.
Alhena non aveva idea di che cosa Emerenc ci facesse a Dublino, o forse sì, ma solo quando si ritrovò a stringere fra le sue braccia il corpo magro dell'anziana donna si rese conto di quanto si fosse sentita sola, negli ultimi giorni. E di quanto tutto sarebbe andato meglio, ora che non era sola.
“Andrà tutto bene, gyermek. Andrà tutto bene.”
E per la prima volta da quando il mondo le era franato sotto i piedi, Alhena si permise di credere che sarebbe davvero andato tutto bene.


 
***
 

Finalmente, silenzio.
Sirius chiuse gli occhi, appoggiando la fronte al vetro freddo della finestra.
Harry se n'era appena andato, e Sirius già ne sentiva un po' la mancanza, ma una parte di lui – quella gretta e meschina, quella egoista, quella che spesso cercava di nascondere ma che, immancabilmente, risultava essere la più forte – era felice che fosse rimasto, finalmente solo.
Solo con quel turbinare di pensieri che gli si affollavano in testa dall'ultimo colloquio con il Guaritore Landmann, quella mattina. Solo con tutte le preoccupazioni per un futuro al quale, nonostante tutto, non riusciva proprio a pensare. Solo, con tutte quelle voci che urlavano nella sua testa, che gli dicevano che tutto stava per cambiare, tutto, tutto tranne lui.
Non era pronto per affrontare quello che sarebbe venuto.
Non ne era pronto, lui con i suoi lunghi silenzi e le tante ore passate rannicchiato sotto le coperte, il naso di Felpato premuto contro il cuscino a respirare quell'odore pungente di medicine e pozioni antibatteriche. E a poco serviva pensare che sarebbe andato tutto bene, perché Harry avrebbe pensato a tutto, perché Harry era solo un ragazzo. Un ragazzo che aveva bisogno, finalmente, di poter fare solo il ragazzo, e non di preoccuparsi per tutti i guai che il suo padrino gli faceva passare.

Un discreto bussare alla porta costrinse Sirius ad aprire gli occhi e a voltarsi.
I Guaritori non bussavano mai, in quel maledetto ospedale, e l'orario di visita si era bello che concluso.
Evidentemente, però, quel bussare sommesso era solo una finta cortesia, perché prima che lui avesse il tempo di invitare il visitatore ad entrare, la porta della sua camera si spalancò.
Una donna minuta avvolta in un mantello da viaggio che doveva essere stato confezionato almeno vent'anni prima avanzò con passo rapido e silenzioso nella stanza. Il suo volto coperto da una sottile rete di rughe era illuminato da un paio di luminosi occhi scuri, occhi vispi e attenti, che lo studiavano con circospezione. La donna aveva vaporosi capelli candidi avvolti in una crocchia morbida, da cui alcune ciocche ribelli sfuggivano per danzarle attorno al viso. Qualcosa, nel modo in cui le sue labbra screpolate erano tese in una linea severa e sottile, ricordò a Sirius l'atteggiamento della professoressa McGrannitt. La donna lo fissò a lungo, e nonostante fosse un donnino minuto ed esile, Sirius si ritrovò a combattere contro una soggezione che non credeva avrebbe mai potuto provare nei confronti di una persona del genere.
“Dunque sei tu, il famoso Sirius Black.”
Quando alla fine la donna si decise a parlare, lo fece con una voce tagliente, quasi che il famoso Sirius Black non fosse all'altezza delle aspettative. Parlava un inglese corretto e fluido, eppure c'era una cadenza strana nella sua voce, l'accento di un paese che Sirius non riusciva ad identificare.
“E lei sarebbe...?”
La donna si guardò in giro per la stanza, gettando un'occhiata chiaramente infastidita ai resti della sua cena che riempivano il vassoio di stagno posato sul piccolo tavolino di fianco al letto. Estraendo la bacchetta, la donna fece sparire pigramente ogni cosa, lasciando pochi piatti lucidi e bene impilati sul vassoio.
“Ehi! Non può farlo, qui controllano ancora quello che mangio e quello che non mangio!” esclamò Sirius, ripensando con irritazione alla faccia implorante di una giovane Guaritrice che lo esortava a terminare almeno una delle due portate.
“Mi sembra un ulteriore motivo per lasciare i piatti puliti, no?” ribatté la donna, voltandogli le spalle e cominciando a tendere le lenzuola del suo letto mezzo sfatto.
“Si può sapere chi diamine è lei?”
Sirius era a dir poco scocciato: aveva mal di testa, era stanco, e lo aspettava una giornata difficile, l'indomani. Una giornata a cui non aveva ancora iniziato a pensare, cosa che di certo non sarebbe riuscito a fare con quella donna insolente nella sua stanza.
“Szeredàs.”
Sirius si trattenne a malapena dal sibilare un sarcastico “salute!” alle spalle della donna, che nel frattempo aveva terminato di rifare il suo letto, lasciando lenzuola e copriletto perfettamente appianate.
“Allora?”
“Allora cosa?” mormorò la donna, incrociando le braccia al petto magro, e fissando Sirius con freddo interesse.
Sirius era senza parole. Quella donna piombava nella sua stanza dal nulla, lo indisponeva, toccava le sue cose senza chiedere il permesso, e si permetteva anche di fare del sarcasmo.
Da quando si era risvegliato al San Mungo, Sirius non aveva mai sentito così tanto la mancanza della sua bacchetta, che non era riemersa dal velo assieme a lui e che ancora non gli era stato permesso sostituire.
“Allora, mi può dire chi diamine è lei e che cosa vuole da me?”
La donna sospirò, scuotendo la testa, e per la prima volta, sorrise. Un sorriso dolce, pieno di malinconia, che trasfigurò il suo viso freddo e duro.
“Ah, sfacciato e impertinente! Proprio come lei.”
Sirius chiuse gli occhi, massaggiandosi vigorosamente la fronte. Evidentemente, doveva essersi addormentato, e questo era solo uno dei sui incubi migliori, quelli irritanti ma innocui.
“Senta, se non si decide a dirmi che cosa ci fa qui, io...”
Per tutta risposta, la donna lo interruppe con una sonora risata, che mise in mostra una dentatura non proprio perfetta.
“Calmati, Sirius Black. Mi chiamo Emerenc Szeredàs, e sono qui solo perché avevo voglia di conoscerti finalmente di persona, e per parlarti di qualcosa che spero stia a cuore ad entrambi.”
Emerenc Szeredàs... quel nome, chissà perché, suonava familiare a Sirius, ma lui non riusciva proprio a capire dove lo potesse aver sentito. Ed era certo, certo come di poche altre cose al mondo, di non aver mai incrociato quegli occhi neri e luminosi.
La donna fece un cenno a Sirius, invitandolo a sedere sulla sponda del suo letto, e Sirius, senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò ad obbedire. Oh, fantastico, stava obbedendo a qualcuno che lo invitava a sedersi nella sua stessa stanza.
“Vedi, Sirius Black, io ho passato gli ultimi quattordici anni della mia vita a vegliare su una bambina testarda, sfacciata e impertinente. Una bambina che ha avuto la forza di tirarsi fuori da situazioni ben peggiori di queste, ma che, al momento, è piuttosto stanca e confusa.”
Sirius osservò la donna, anche lui confuso. Non aveva voglia di ascoltare i suoi problemi familiari, non ne aveva proprio la minima voglia.
“Con tutto il rispetto, signora, ma al momento ho problemi più gravi che occuparmi di sua nipote o quello che è...”
Il viso di Emerenc Szeredàs era tornato una maschera di ghiaccio, mentre la donna sibilava, adirata:
“E invece credo che tu debba occuparti di questa bambina, Sirius Black, perché è soprattutto colpa tua se ora si è ridotta ad essere una figuretta che piange a ogni alito di vento e ha paura anche ad uscire di casa.”
Sirius era sconvolto, e furioso: che colpa ne aveva lui se questa benedetta bambina stava male? Lui era morto, scomparso dalla circolazione per due anni, due maledetti, schifosi anni, e non aveva potuto fare niente per cambiare quello che era successo in quei due cazzo di anni.
Fu con un certo grado di sorpresa che Sirius si accorse che quelle parole non erano rimaste nella sua testa, ma che erano sgorgate dalle sue labbra a colpire quella stramba vecchina, che aveva accolto le sue grida con l'espressone annoiata di una madre che guarda i capricci di suo figlio.
“Bene, su questo siamo tutti d'accordo. Ciò non toglie che ci siano persone che hanno sofferto non poco a causa della tua morte, e tu ora hai un debito nei loro confronti. Un debito che dovrai ripagare in tempo, pazienza e silenzio.”
Oh, sì, decisamente quello doveva essere un incubo, e nemmeno uno dei più innocui.
“Ascoltami bene, Sirius Black: io sono Nata Babbana, e mio marito è un babbano. Vivevamo a Dublino, fino a tre anni fa, ed eravamo felici. Poi però è arrivata la guerra, e alla fine la nostra bambina ci ha costretti a scappare, e a tornare a Budapest.”
Sirius aprì la bocca per ribattere, ma poi la richiuse, colpito da un pensiero improvviso: c'era un senso, nelle parole di quella donna. Il suo racconto andava ad accarezzare dei pensieri sopiti, qualcosa che Sirius non riusciva ad afferrare concretamente, ma che era lì, da qualche parte nella sua mente.
Concedendo un breve cenno di ringraziamento al silenzio di Sirius, Emerenc Szeredàs continuò a parlare:
“Noi siamo partiti solo perché lei sembrava serena. Non ci ha raccontato che cosa stava combinando, ma io e mio marito non siamo stupidi. Avevamo capito che aveva qualcosa in ballo, qualcosa di molto più grosso di lei. Qualcosa che aveva a che fare con la guerra e la resistenza. Siamo partiti, perché era suo diritto restare e combattere. Perché era l'unico modo affinché si lasciasse alle spalle il passato e trovasse finalmente la sua strada.”
E poi, eccolo, quel pensiero che tanto gli stava sfuggendo: il salotto di Grimmauld Place il giorno di Natale, il silenzio assordante lasciato dal viaggio al San Mungo di Harry e dei ragazzi Weasley, e Alhena acciambellata su una poltrona davanti al fuoco. Era stata la prima volta che Sirius e Alhena si erano parlati civilmente, dopo una brutta lite. Avevano sepolto l'ascia di guerra, e si erano concessi di abbassare tutte le difese, sfiorandosi piano, imparando a conoscersi e a volersi bene. Sirius la ricordava bene, lei con i suoi lunghi capelli accesi di bagliori dorati dai riflessi delle fiamme, le sue dita sottili che coccolavano Grattastinchi, e la sua voce, leggera, che raccontava la trama di un balletto composto da topi e bambole e fate di zucchero.
“Sono stata da Emerenc Szeredàs e da suo marito. Non voglio che siano in Inghilterra, se le cose dovessero peggiorare. Mi mancheranno.”
“Alhena!”
Per la seconda volta da quando si era risvegliato al San Mungo, Sirius si concesse di pronunciare il suo nome. Aveva pensato spesso a lei, più spesso di quanto avrebbe voluto, soprattutto da quando aveva saputo che Alhena non era in Ungheria, ma lì a Londra, così vicina, eppure irraggiungibile. L'aveva odiata per il suo silenzio, eppure, quando si svegliava di notte in preda a uno dei suoi incubi, non poteva fare a meno di pensare a quanto fosse più semplice sopravvivere a una notte insonne, quando c'era Alhena a respirare accanto a lui.
“Sì, Alhena. Alhena che due estati fa mi è comparsa davanti, a Budapest, magra come un uccellino e spaventata a morte. Non me l'ha mai voluto raccontare, che cosa le fosse successo, ma ho passato abbastanza notti nella sua stanza da averle sentito gridare il tuo nome all'infinito.”
Sirius non voleva ascoltare. Era più facile pensare ad un'Alhena lontana, un'Alhena che era andata avanti nella sua vita, che lo aveva dimenticato ed era felice. Faceva male, faceva un male cane, ma era facile. Sirius poteva provare rancore per questa donna giovane e felice, poteva rimproverarle di non aver nemmeno cercato di dargli una spiegazione, ma erano sentimenti facili, che non richiedevano di attingere alla riserva di sensi di colpa che lo tormentavano.
Non voleva pensare ad un'Alhena che la notte gridava il suo nome.
“È tornata qui, e quest'estate me l'hanno quasi ammazzata, in quella stupida scuola. L'ho rimessa in piedi, e lei ha ricominciato a vivere, più o meno. E poi tu, dopo che me l'avevi spezzata due anni fa, hai pensato bene di sentirti Gesù Cristo e di risorgere!”
Emerenc Szeredàs pronunciò quelle ultime parole con una stizza incredibile, e, a giudicare dall'occhiata sprezzante che lanciò a Sirius, probabilmente avrebbe anche sputato per terra, se non si fosse trovata in un ospedale.
“Non ho certo scelto io di farmi ammazzare!” sbottò Sirius, scocciato.
Era chiaro che Alhena non voleva più avere niente a che fare con lui, quindi per quale motivo quella donna si trovava lì, a rinfacciare a Sirius colpe che non aveva?
“No, non l'hai scelto tu. E, credimi, Sirius Black, mi dispiace per quello che hai dovuto sopportare. Ti hanno accusato di aver tradito un amico, ti hanno dato in pasto a dei mostri per troppi anni, ti hanno inseguito e braccato, e poi ti hanno ammazzato. Sarebbe un destino ingiusto per chiunque.”
I piccoli occhi scuri della donna erano due spilli penetranti, ma la compassione sul suo viso era sincera. Sirius distolse lo sguardo, imbarazzato. La testa gli faceva sempre più male, e il viso di Alhena continuava a balenargli davanti agli occhi, una distrazione sgradita e dolorosa.
“Ma è Alhena che io ho visto crescere” continuò Emerenc, mentre il suo viso tornava ad indurirsi in una fredda maschera, “ed è di lei che mi importa. Tu forse non lo sai, Sirius Black, ma lei si era rifatta una vita, a Budapest. Non la migliore delle vite possibili, ma una vita in cui era serena. E questa vita l'ha abbandonata senza nemmeno guardarsi indietro, quando ha saputo che tu respiravi ancora, qui.”
Era come se qualcuno avesse acceso una candela nel petto di Sirius. Respirare era un po' meno difficile, un po' meno doloroso, e faceva un po' meno freddo.
Sirius cercò di scacciare tutte quelle sensazioni, perché aveva imparato che la speranza era una bestia infida: fa abbassare le difese, annebbia i sensi, rende ciechi e ubriachi, e alla fine il dolore della sua scomparsa lasca ferite infette.
“Alhena è una ragazza più forte e coraggiosa di quanto lei stessa immagini, ma in questi giorni ha perso la sua strada. Da quando è tornata in Inghilterra, è venuta in questo ospedale ogni singolo giorno, Sirius Black. Ma ha paura di tante cose: ha paura che questo sia solo uno scherzo del destino, e che presto te ne andrai di nuovo. Ha paura che ormai sia passato troppo tempo, e che tu non la voglia più vedere, dato che non ha avuto il coraggio di parlarti subito. Ha paura di essere diventata pazza, e che questo sia solo un brutto scherzo del suo cervello.”
Sirius si guardò attorno, come se quel semplice gesto bastasse a mostrargli Alhena, magari nascosta nel brutto armadio laccato di bianco accanto alla poltrona preferita di Harry, o dietro le tende della sua finestra.
Come se gli avesse letto nel pensiero, Emerenc Szeredàs si affrettò ad aggiungere:
“Alhena ti ha davvero voluto bene, Sirius Black. E anche se non è stata una tua scelta, per colpa tua ha sofferto molto: il minimo che tu possa fare per lei, ora, è ripagare questo debito che hai nei suoi confronti.”
“Come?”
Sirius era confuso. Tutto quello che avrebbe voluto fare, ora, era uscire da quella maledetta stanza e andare a cercare Alhena. Dirle che non gli importava niente di niente, niente del silenzio, niente di quanto avesse fatto in quei due anni, niente. Abbracciarla stretta, accarezzare i suoi capelli, e parlare di tutto e di niente, come avevano saputo fare con tanta naturalezza due anni prima.
“Te l'ho detto, con tempo, pazienza e silenzio.”
Il volto di Emerenc Szeredàs tornò a sciogliersi di quella dolcezza malinconica, appena trattenuta, piena di compassione.
“Io la conosco, quella bambina. Lo so che presto troverà la forza di affrontare ogni cosa, ma tu devi promettermi che le lascerai tutto il tempo che le serve. Non la cercherai, non la presserai, resterai in silenzio fino a quando sarà lei a venire da te.”
Questo andava contro ogni desiderio di Sirius, contro ogni suo istinto. Se Alhena era lì, a pochi passi da lui, perché continuare a ignorarla?
“Ma...”
“No, Sirius Black, non ci sono ma”, lo interruppe brusca Emerenc Szeredàs, improvvisamente preda di una nuova urgenza.
“Non ci sono ma, c'è solo una bambina che sta affrontando tutto il dolore che tu lei hai causato, e sta affrontando le sue paure. Dalle tempo. Lasciale il suo tempo. Per favore.”
Quelle due ultime parole, pronunciate con una voce bassa e tremante, spensero ogni obiezione. Sirius non conosceva questa donna, ma aveva la netta impressione che non fosse nelle sue abitudini chiedere per favore.
“Io... d'accordo. Sarò paziente, le darò tempo e me ne starò in silenzio.”
Emerenc Szeredàs annuì, sorridendo piano, e raddrizzò la schiena magra, facendo qualche passo all'indietro, in direzione della porta.
“Grazie, Sirius Black. Mi auguro che anche tu possa trovare la tua serenità.”
Mentre la donna si voltava dandogli le spalle, Sirius chiuse gli occhi, e sibilò:
“Mi stanno per dimettere. Lunedì pomeriggio. Forse vuole farlo sapere ad Alhena.”






Note:
Ok, non volevo troncare così rapidamente il capitolo, ma aveva già raggiunto un numero di parole notevole, e non volevo tediarvi oltre.
Dato che temo il piano temporale sia un po' confuso (è la mia pecca principale: impiego un numero infinito di capitoli per delineare la situazione iniziale di una storia, e poi le vicende mi sfuggono di mano), anticipo una mezza spiegazione: Harry nello scorso capitolo diceva che le dimissioni di Sirius erano previste per la primavera. In realtà qui ci troviamo ancora a fine gennaio, e le dimissioni vengono anticipate perché, a livello fisico, lui sta ormai bene, e ha solo bisogno di fare movimento, stare all'aperto e ricominciare ad avere una sana routine. E perché certe altre situazioni dovevano svilupparsi, e non mi andava di continuare a scrivere cose ambientate in una stanza d'ospedale. Sorry.
Il titolo è una celebra frase scritta da Kafka in una delle sue lettere a Milena Jesenskà.
Chiedo scusa anche per la lunga attesa, ma nonostante non abbia più un lavoro (che bello essere giovani e avere certezze per il futuro) trovare il tempo e la concentrazione per mettermi a scrivere mi è comunque difficile.
Vi lascio con un siparietto tragicomico, giusto perché nella mia vita reale i potterhead scarseggiano e nessuno comprende il mio disagio. Mia madre ha visto il film “L'ora più buia”, e stava parlando della performance di Gary Oldman. Ad un certo punto se ne salta fuori dicendo: “Ma lo sai che ha anche recitato in Harry Potter? Faceva Lupus (sic)”. Vedendo la mia espressione scioccata, capisce di aver detto una sciocchezza, e si corregge. “Ah, no, vero, faceva Black... com'è che si chiamava? Gavin Black”.
Gavin Black.
Gavin Black.
Aiutatemi. 
   
 
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