He swore by grass, he swore by corn
(that his true love had never been born)
-TERZO
CAPITOLO -
Dean torna in auto, si accascia sul sedile, si sforza di non
pensare.
Per alcuni secondi, vuole solo immaginarsi lontano. È un bisogno, non un
capriccio. Sente che se riuscisse a fermarsi per un attimo, al suo ‘ritorno’,
tutto andrà meglio. Sarà come uscire dalla doccia di cui avrebbe veramente
bisogno, rigenerare i propri neuroni esausti. Per cui, chiude gli occhi,
rilassa le spalle, conta gli istanti di quiete. Sapeva che ignorare i gemiti di
Sam sarebbe stato difficile, ma si sforza di farlo. Solo un paio di secondi, Sammy
– prega mentalmente, corruga le sopracciglia.
Si ferma allo scoccare dei dieci secondi; volati via come il fiato gettato
fuori dalle sue labbra un paio di volte in quella pausa.
Si china per recuperare la cartina da un angolo del cruscotto, evita come può
di incrociare il volto di Sam: non è saggio farlo prima di guardare la cartina
degli USA; non è sicuro di poter sommare ad esso la delusione dello scoprire
che il prossimo centro abitato non è che a tre o quattro ore di distanza da lì.
‘Salva Sam. Se non puoi farlo, uccidilo...’ a questo punto, si domanda se non è esattamente ciò che sta facendo: Storey, la città più vicina (e più o meno abitata) che la cartina indica a circa centocinquanta miglia da lì, ne rafforza la sensazione. Degli sbuffi fuoriescono dal suo naso; vorrebbe essere una risata, se solo l’idea non lo faccia poi ridere così tanto.
“Come diavolo faccio a portarti a Storey senza che il tuo
cervello frigga nel frattempo, Sammy?”
Volta il viso verso Sam. Cattiva idea, non averlo fatto prima.
“Sam?!”
La schiuma giallastra che gli ricopre la bocca è colata ovunque; sul sedile,
sulla maglietta; ne ha un buon quantitativo appiccicato anche tra i capelli, ma
mai quanto ne dovrebbe davvero avere: cianotico in volto, Sam trema. Piccoli
spasmi contraggono le sue spalle ad ogni conato silente che non riesce a far funzionare, e non tossisce, non
butta fuori quasi nulla di quel che gli sta risalendo in gola e lo sta
soffocando – e cazzo.
Recuperato il volto con entrambe le mani, Dean grida il suo nome, e anche
un’altra serie di ingiurie più o meno sensate che non portano a nulla, perché
Sam non risponde. Dean scivola al suo fianco, va’ per portargli la schiena in
avanti, ma ritrova questa dolorosamente inarcata all’indietro, e ancora
ingiurie, maledizioni, imprecazioni urlate schizzando fuori dall’auto e
precipitandosi verso il lato passeggero. Perché la sua memoria tattile è fin
troppo ferrata su quella particolare
rigidità: fase tonica. La riconosce
dai tempi in cui Sam aveva due-tre anni, e non vi era batterio o virus a cui
riuscisse a sfuggire.
Riesce a spingerlo giù sui sedili giusto un paio di secondi prima che le
convulsioni abbiano inizio. Almeno di questo, Dean può vantarsene; almeno con questo, può consolarsi (perché ha
bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi, se è costretto a guardare suo fratello
vibrare sui sedili come un animale decapitato, e l’unica cosa che gli è
permesso fare per aiutarlo, è cercare di trattenerlo su di un fianco affinché
non continui a soffocare nel proprio vomito).
“Cazzo, Sammy! Cazzo!”
Tutto è troppo. L’impala troppo
stretta, Sam troppo grande, la sua fronte troppo calda, e quelle cazzo di
convulsioni infinite sono la ciliegina sulla torta che confermano
l’impossibilità di poter sopportare oltre.
La crisi si placa dopo un numero imprecisato di minuti che a Dean sembrano ore.
Gli spasmi rallentano. Lentamente, Sam smette di strizzare gli occhi in quel
modo orrendo, rinunciando anche ad afferrare quel qualcosa di invisibile che le
sue braccia tese sembravano voler contrastare. Ha l’impressione che vi sia un
alito di coscienza in quel gemito che emette nel momento in cui si piega a
liberargli la bocca da ciò che restava di quella bile collosa (con la propria
camicia; che ha sfilato, appallottolato e sistemato sotto la testa di Sam – da
mettere in conto anche questo, naturalmente), per questo motivo, non sa
resistere all’istinto di accarezzare quella schiena dalla scomoda stazza.
“Dovrai davvero farti in quattro per potermi ripagare di tutto questo, fratellino-” perché l’immagine di un Sam ‘del futuro’ nuovamente in salute è l’unica cosa a cui vuole pensare quando torna a toccare la sua fronte rovente, incapace ormai persino di sudare.
Il battito è irregolare, così come il respiro – ma il solo
fatto di trovarne uno, per Dean è una vittoria. Sposta le dita dalla carotide,
lascia Sam al suo sonno senza sogni.
Per lo meno, non piove più.
Il cielo è adesso un mazzo di viole avvizzite da un sole che si avvia al suo
crepuscolo. Sono passate circa dodici ore da quando Sam ha cominciato a star
male (sempre che non abbia iniziato a star male ancora prima) e di tutte le soluzioni sino ad ora tentate, nessuna è
andata in porto. Dean sa di certo che non ne troverà una efficace nel fondo
della bottiglia di whiskey che ha appena pescato dal cofano, ma non la troverà
neanche continuando ad osservare il corpo esanime di Sam gonfiarsi e sgonfiarsi
con quel sibilo che sente potrebbe presto condurlo alla pazzia, quindi niente,
indugia. Fa un sorso. Uno solo, appena accennato. Diamine, quanto gli è mancato
il bruciore di quei quarantatré gradi nella gola. Poggia la schiena sulla
portiera dell’auto, da’ un’ultima occhiata veloce a Sam, e poi ancora il bacio
vitreo della bottiglia di Jack Daniels tra le sue labbra. Solo un altro po’, si dice, disperdendo lo sguardo verso le piccole
colline nodose, buie adesso come demoni.
D’improvviso, si leva un suono, come un lamento. Dean sussulta, si volta di
colpo verso l’auto, verso Sam, ma no – non è lui. È solo uno stormo di avvoltoi
che sorvola l’area deserta lamentando l’assenza di prede. Rilassa le spalle,
sospira. Sam dorme ancora. Giace sul fianco, immobile nella posizione in cui lo
ha lasciato. Vorrebbe dire che nel frattempo abbia ripreso un po’ di colore, ma
in verità, il contrasto con i sedili neri dell’impala, rendono il colorito
bluastro di Sam più evidente che mai.
Fa ritorno in auto quando si rende conto che l’alcol sembra avergli voltato le
spalle; il senso di colpa, lo sente molto più di prima (e quei due minuti
d’orologio trascorsi a bere, pesano adesso come macigni sul suo petto).
Vi sono dei grumi di vomito incrostati agli angoli della bocca di Sam; Dean li
ripulisce con una manica della propria camicia, prima di tentare di svegliarlo.
È una crudeltà, ma deve rimettersi alla guida, e Sam sta occupando in lungo
l’intero sedile anteriore.
“Sammy-“ Gli schiaffi alle guance sono un breve zampillo di normalità. Qualcosa che gli ricorda che Sam è ancora tutto intero, che non si sarebbe sgretolato al solo tocco delle sue mani. “Sammy, sveglia. Hey–!” schiude le dita, ma non gli occhi, Sam. Sono rinsecchite, scure, piene di crepe. Le irrigidisce come stesse afferrando qualcosa, un sostegno invisibile che lo tratterrebbe ancora nel mondo oscuro in cui si trova, qualcosa del genere.
“Sam!”, questo geme e rabbrividisce quando Dean spalanca il palmo della mano sul petto e lo scuote, ma non si sveglia. È troppo presto. Il sonno post-critico solitamente è profondo, e cazzo, è troppo presto.
Dean inforca le dita tra i capelli, la disperazione è una
puttana da bar che non vede l’ora di saltargli addosso, ma no - ma non cederà.
È quando prova a ricavarsi lo spazio necessario di fronte al volante
spingendo di peso Sam, che la vede.
La scatolina verde se ne sta incastrata tra il sedile e la spalliera, appena
dietro la schiena di Sam. Si domanda come e quando ci sia finita, una scatolina
verde, di un verde così brillante, lì
sotto; e soprattutto, come abbia fatto sino ad ora a non vederla.
Dean è certo che sia il colore – l’inconscia, strenua ricerca di un semaforo verde in quella situazione, a
spingerlo a dare priorità ad essa, raccogliendola tra le mani.
‘Metocal: 2 in 1.’, legge sul fronte
della scatola a caratteri cubitali. ‘Metoclopramide
+ Paracetamolo: antiemetico, gastroprocinetico + analgesico, antipiretico’,
prima ancora di sincerarsi di aver compreso bene il significato di quelle
indicazioni, Dean sente già agitarsi in petto qualcosa; un’inattesa,
inaspettata gioia salirgli in gola, per poi assalirlo completamente in una
silente implosione di felicità nel momento in cui la scritta ‘trattamento sintomatico di nausea e vomito a
breve termine + trattamento degli stati febbrili e dolorosi’ ‘colpisce i
suoi sensi.
“Sì.” Un prepotente ghigno di soddisfazione si allarga sul suo viso, il primo,
dopo la morte di suo padre. “Sì, sì, sì, cazzo, sì!” un pugno stretto, una rivincita contro un destino che, per una
volta, può dire di aver fottuto.
Stringe il polpaccio di Sam con una stretta, forte, salda, “non puoi immaginare
che razza di fortunato figlio di puttana tu sia, Sammy!” Fatica davvero a
contenere l’entusiasmo Dean, e si sente stupido ad esultare in quel modo di
fronte ad una scatola di...qualunque cosa
siano!
Ad aiutarlo a ridimensionare la felicità, è la risposta a quell’interrogativo,
che plana sulla sua mano una volta aperta la scatola e mette bruscamente a
tacere ogni festa interiore.
Il sorriso di Dean svanisce lentamente ma inesorabilmente; i tratti del viso si mescolano, formano adesso un’espressione interdetta infinitamente più stupida di quella di un paio di secondi prima (che sembrano adesso distare secoli), e Dean si sente davvero, davvero un cretino quando si lascia scappare un “Sammy...” così casuale, che la sola idea abbia potuto davvero svegliare Sam è sufficiente per farlo rabbrividire. Per fortuna, il richiamo non sortisce alcun effetto: Sam continua a dormire.
“Al diavolo!“ Dean scuote la testa, infila la punta delle dita dentro la scatola, recupera il foglietto illustrativo e il sorriso sarcastico in viso, “Non sarà di certo la prima volta che ti infilo una di queste cose, dopotutto—“
In realtà, può solo ipotizzare che non sia la prima volta.
La sua mente riesce solo a ripescare memorie confuse, sfocate; note di
atmosfere anni ottanta e motel impregnati di fumo e muffa.
Processo di rimozione, ipotizza. O forse un falso ricordo, qualcosa che la sua
mente crea per dar vita a un precedente che renda il presente meno ‘critico’.
Ma è sufficiente così, davvero. Dopotutto, che importa? A chi importa? Suo fratello si sta prosciugando, e quella che ha in
mano è la soluzione al problema.
Per cui, Dean non ha intenzione di investigare oltre. Il fine giustifica i
mezzi, sempre – si ripete
mentalmente, insieme ad un’altra serie di frasi di circostanza, mentre
snocciola sotto la torcia le indicazioni, che sono scritte a caratteri così
microscopici da pensare che chiunque lo abbia stilato, avesse tentato del suo
meglio per nascondere lo sporco segreto
che contraddistingue il loro utilizzo.
Al termine della lettura, Dean è pallido. Dà la colpa all’umidità esterna per
quelle gocce di sudore freddo apparse sulla sua fronte, ma per lo meno, le
tenebre della notte sembrano dargli il conforto e la privacy di cui ha bisogno.
Due file di supposte, due involucri dal colore differente allineati una di
fronte all’altra come soldati.
Le antiemetiche nell’involucro verde, le antipiretiche nell’involucro rosso.
Dal momento in cui si intende usarle entrambe, la posologia indica di
somministrarle a distanza di tre ore l’una dall’altra; l’antiemetica per prima.
Se la febbre non dovesse scendere nel frattempo, allora anche l’antipiretica.
Dean sa che dovrebbe ringraziare i ‘cuochi’ di metanfetamine per aver ficcato
nella busta qualcosa di diverso dei decongestionanti, tuttavia, si ritrova a
ingoiare un grumo di saliva amara che non sapeva neanche di aver in bocca.
Poco convinto, si volta verso Sam. È ancora accucciato sul fianco come un
animale ferito, gli occhi chiusi di chi non vuole aver nulla a che fare con
tutta la situazione. Dean non può che concordare con lui.
“Va bene,” dice, mentre spinge prepotentemente contro il corpo esanime di Sam
per farsi spazio e chiudere la portiera dell’auto (non vi è anima viva, ma
l’idea di fare tutto con la portiera aperta è qualcosa con cui non riesce a
scendere a patti). Puntella un ginocchio sul sedile, cerca a tastoni di
rintracciare la cintura dei jeans di suo fratello, e cazzo – dov’è finita?
Stringe la torcia tra le labbra: adesso va decisamente meglio. Forse.
Dean tentenna ad afferrarla. È tutto troppo reale. Avvicina le mani a quella
fibbia come fosse rovente, ma infine, lo fa. Con la punta delle dita, la
slaccia. Ciò che segue, è un suono strano. Un gemito talmente distante da
quelli di Sam che Dean sobbalza, sussulta. Allontana le mani, strabuzza gli
occhi. Guarda suo fratello allungarsi, mentre schiaccia il volto sudato contro
l’ecopelle del sedile e i suoi capelli appiccicosi formano figure surrealiste
sulla sua fronte – e no, si dice Dean ignorando quella goccia di sudore che,
fastidiosa, scivola giù, dalle sue tempie. Non c’è niente di strano in quel
gemito. Sam è semplicemente dolorante, Cristo – al posto suo, si sentirebbe più
o meno come fosse stato investito in pieno da un autocarro, ed è per questo che
lui è lì, pronto ad aiutarlo.
Titubante, riporta le mani sui suoi pantaloni. La cintura è slacciata;
tocca al bottone e alla cerniera cedere, adesso. La ricerca a tastoni con le
dita, è lì: schiacciata tra il sedile e il ginocchio piegato di suo fratello.
Preme un po’ sull’osso pelvico di quest’ultimo, fa in modo che ruoti un
pochino, giusto lo stretto necessario per poter abbassare quella dannata
cerniera a sufficienza. E lo fa piano, lentamente, con delicatezza– è l’unica
consolazione con cui può ancora tentare di soffocare l’orrenda sensazione di
star facendo qualcosa di terribilmente sbagliato.
Sam risucchia aria tra i denti quando le mani di Dean inciampano contro parti
del suo corpo solitamente non comprese
nell’operazione.
Cazzo.
Dean mugugna uno ‘scusa’, il volto si
accartoccia in una smorfia silenziosa di fastidio e imbarazzo, ma non si ferma.
Sa che non deve farlo. Sa che non può
farlo. Afferra i lembi dei jeans di suo fratello, li tira giù sino alle
ginocchia senza ulteriori indugi. Prima quella roba finirà dentro Sam, prima
potrà rimuovere quella giornata di merda dalla sua memoria si ripete – il non
aver abbassato le mutande di Sam insieme ad essi però, sottolinea la differenza
tra idea e azione.
“Sammy—“ Quando l’elastico dei boxer scuri di quest’ultimo è
tra le sue dita, d’improvviso Dean sente l’impellente quanto incomprensibile
bisogno di rendere Sam partecipe della sua tragedia.
“Avanti, Sammy! Non farmi fare una cosa simile mentre dormi! Dai!” non sa
neanche perché stia lì a dare delle pacche sulle gambe di Sam, ma non ha
bisogno di trovare alcuna giustificazione, dato che il minore dei Winchester si
limita a raggrinzire il volto madido di sudore, muovere le spalle come a
scrollarsi di dosso qualcosa di invisibile, e cominciare a respirare con un
suono così orrendo da far sollevare ogni singolo peletto sulle braccia di Dean.
Ma non si sveglia. Niente da fare.
Ha solo perso la posizione in cui sembrava sentire meno il dolore dei suoi
muscoli maciullati, e adesso è incapace di ritrovarla. Ottimo lavoro, Dean.
Darsi del coglione come mai ha fatto prima è, per la sua mente, una risposta
fisiologica. La stessa che in un impeto di orgoglio e di ritrovata dignità, lo
porta a dire basta. A mettere fine a
quella stupida commedia.
Schiocca la lingua e senza pensarci oltre, priva Sam dell’ultimo indumento
rimasto ad opporsi tra sè e la sua guarigione.
“Ci metto un attimo, Sammy-“ sussurra con apparente calma, mentre lancia il suo
sguardo verso qualcosa (qualcosa che non siano le pallide natiche di Sam adesso
esposte alla sua vista, per la precisione); la scatola che ritrova incastrata
accanto il ginocchio è, ancora una volta, provvidenziale.
Frenetico, il maggiore dei Winchester cerca di estrarre la prima supposta dalla
confezione; litiga con l’involucro – come cazzo lo hanno sigillato!? Quando le
dita falliscono, sono i suoi canini ad intervenire; abbandona la torcia tra le
gambe, cerca di strappar via l’alluminio con gli incisivi. Suda. Suda e ci
ripensa sullo sportello chiuso; fanculo la privacy! Lo schiaffo dell’aria
fredda della notte è tutto ciò di cui ha bisogno per non perdere la ragione.
La supposta dell’astuccio verde plana sulla sua mano; un piccolo cilindro,
innocuo e innocente come poche altre cose al mondo. A vederla così, gli sorge
impensabile credere che possa avergli provocato un simile subbuglio interiore.
È talmente piccola che Dean fatica a tenerla tra il pollice e l’indice. Ha la
sensazione possa sfuggirgli di mano da un momento all’altro, per questa ragione
si affretta a fargli fare il suo dovere.
Sam è quasi nella posizione giusta; quasi.
È rannicchiato su di un fianco, la schiena pressata adesso contro lo schienale,
le ginocchia nude strette al petto. L’aria fredda della notte ha reso il suo
corpo una distesa di piccole collinette irte e ruvide; sembra la pelle del
tacchino del ringraziamento e il paragone fa sorgere un sorriso stupido sul
volto di Dean. Non sarà così difficile,
si dice.
Deve solo scollare la schiena di Sam dal sedile, fargli girare leggermente il
bacino verso di sè, raddrizzargli un po’ le gambe– e Sam, cotto dalla febbre, è
morbido come un gatto: si lascia manovrare senza alcuna resistenza. Sì - si
dice Dean - ci vorrà davvero un attimo.
Deglutisce un paio di volte, poggia la mano sulla natica destra, la separa
piano piano dall’altra.
Visto? Non è stato così difficile.
Non è stato così brutto, ripete
ancora dentro di sè come una nenia stanca. Funziona. O almeno, funziona sino
quando non dirige il fascio di luce della torcia verso il suo obiettivo.
Distoglie di colpo lo sguardo, almeno un paio di secondi se li concede: in
fondo, niente quel giorno avrebbe potuto prepararlo a ciò.
“Cristo, mi ucciderai per questo,” si dice a denti stretti, e in effetti,
potrebbe aver ragione.
Soprattutto quando, in preda ad un raptus nervoso, tenta con un gesto maldestro
e del tutto sconsiderato, di fare velocemente ciò che deve fare, e l’apparente
abbandono iniziale di Sam, di colpo, viene meno.
Il cervello di Sam sarà pure in poltiglia, certo – ma non al punto da non registrare
lo sconsiderato tentativo di intrusione. Le natiche di Sam si serrano tra loro,
le gambe si tendono, Sam risucchia rumorosamente aria tra i denti come fosse
stata sfiorata una ferita aperta; ed è in quel momento che Dean si sveglia, apre gli occhi, riacquista
lucidità; e si rende conto della cazzata
appena fatta.
Cazzo.
“D’accordo, d’accordo, la bagno. La bagno!”
esclama smanioso a chi non può sentirlo, il cuore a tanto così dall’infarto.
Afferra la bottiglia d’acqua mezza vuota che fa capolino da sotto il sedile, ne
rovescia una quantità eccessiva sul medicamento che ha in mano, e senza
domandarsi se l’effetto desiderato fosse stato ottenuto o meno, ci riprova.
Inspira e espira un paio di volte in profondità, e ci riprova.
Riesce a sentire Sam irrigidirsi sotto le mani quando queste
planano nuovamente sulle sue natiche, sposta subito il palmo sinistro sul suo
osso pelvico, prima di cingerlo con decisione. Non vuole fargli male, ma non vuole
neanche che quella supposta non finisca
dove debba finire, dunque è indispensabile prevenire qualsiasi movimento
inconsapevole di Sam, si ripete in una magra consolazione che, comunque, non
riesce a strappargli di dosso quella sensazione di sporco.
Cazzate, si dice ancora. Tutte cazzate.
Non c’è niente di sporco nell’aiutare il proprio fratello a stare meglio. Il
volto sfatto, completamente sfinito
di Sam rinvigorisce la sua convinzione.
Per cui, questa volta, individua per bene l’orifizio in questione, insinua piano la medicina, comincia con delicatezza a
spingerla dentro. Ancora una volta, Il respiro di Sam si spezza, la schiena si
inarca.
“Rilassati,” ordina con voce atona, e gli sembra una barzelletta. Sì, Sammy,
rilassati, mentre il tuo fratellone ti immobilizza e ti ficca qualcosa su per
il culo, e tu sei così debole da non poter neanche evitarlo! – “Sammy,
rilassati-“ Ripete, e non cede. Rafforza la stretta sul bacino, blocca la gamba
di Sam con il suo ginocchio, lascia che Sam grugnisca quando la supposta supera
lo sfintere insieme alla punta del suo dito. Ma non cede.
Ed è fatta. È dentro.
Accarezza appena l’idea di aver vinto quando, nel rimuovere l’indice, lo
scomodo medicamento decide, per tutta sorpresa, di spuntare nuovamente fuori.
“Figlio di—“ Lo stupido ma istintivo tentativo di Dean di spingerlo nuovamente
dentro ha come risultato un impiastro grasso e oleoso che il maggiore dei
Winchester in pochi secondi si ritrova, letteralmente, ovunque.
“Ma che cazzo!” Scuote le dita per liberarsi dalla schifezza
rimasta impigliata, lancia un’occhiata incredula e disgustata a Sam – il suo
sguardo ricerca aiuto, comprensione, solidarietà; ma l’ancora dormiente
fratellino non offre nulla di tutto ciò: Sam si limita a chiudere il proprio
viso in una smorfia, stringersi ancora di più nelle spalle e battere i denti
con una tale, indomabile violenza da far tremare tutta la sua schiena alla
stessa velocità, quasi un richiamo al precedente episodio convulsivo.
E non è nulla di cui Dean ha bisogno. Decisamente.
Tra un insulto e un altro bofonchiato tra i denti, il maggiore dei Winchester
richiude a malincuore la portiera, sacrifica la boccata d’ossigeno offerta
dalla notte al virus che sta consumando il suo fratellino, ed è davvero stanco.
Davvero, davvero stanco.
Annuisce a se stesso, le sue mani vagano a tastoni sul sedile, ritrovano la
scatola – un sorriso sardonico spunta sul suo volto, non perde altro tempo.
“D’accordo,” divarica di nuovo le natiche di Sam, i suoi movimenti hanno una
determinazione e una fluidità che prima non c’era. “Ho una scatola intera di
questi affari, Sammy. Potremmo continuare così per tutta la notte, quindi fai
tu—“
Il gemito che parte dal retro della gola di Sam quando tenta
ancora una volta l’inserimento non lo coglie di sorpresa, se ne fa una ragione.
Va avanti, forza l’ingresso, e lo fa più di quanto Sam sembrerebbe disposto ad
accettare. È il preludio di una serie di proteste che Dean si sforza di non
accogliere, se non rafforzando la stretta sul suo fianco e bisbigliando uno ‘shhhhh’ che non convince nessuno.
“Dio, Sammy – piantala di agitarti, ho fatto! Ho finito!” Lo annuncia più a se stesso che ad altri. Ha passato
sessanta secondi con la punta dell’indice nel retto arroventato di suo
fratello, ed è abbastanza certo che non sia un’esperienza che la stragrande maggioranza
della popolazione mondiale può quotidianamente vantare, per cui, sì: chiunque
al posto suo avrebbe avuto il bisogno fisiologico di sentire l’eco di simili
parole, pur di restare aggrappato alla realtà.
Ed è andata. Questa volta, per davvero. Dean schiude la bocca, l’eccitazione gli morde lo stomaco: è davvero fatta. Il proiettile di cera sembra aver preso la direzione giusta: scompare tra le viscere del minore dei Winchester e per Dean è davvero troppo bello per essere vero. Affonda una mano sulle natiche tonde del fratello, le tiene strette tra loro per una manciata di secondi, non vuole cantare vittoria troppo presto, ma in cuor suo, sta già festeggiando.
Da parte sua, Sam ha ingrugnito il viso in un modo che lo fa
sembrare un neonato appena venuto al mondo, ed è un paragone che gli calza a
pennello: una tempesta di stimoli sensoriali amplificati, provenienti da un
mondo di cui non ha alcuna consapevolezza.
“Tutto fatto, fratellino. Tutto finito!” Persino il suo tono di voce cambia,
mentre si appresta a rivestire in fretta suo fratello e poi fuggire, allontanarsi da quel momento, andare via da quell’incubo. Si sciacqua
le dita con le poche gocce d’acqua rimaste nella bottiglia.
Il minore dei Winchester scotta ancora come fuoco vivo; la sua fronte ha però
smesso di essere inasprita dall’orrore; probabilmente per azione miorilassante
del farmaco - o perché qualcuno ha smesso di armeggiare con i suoi sfinteri,
molto più probabile. Dean lo risistema correttamente sul sedile, lo copre con
la sua giacca – guarda l’orologio: sì, tra quindici minuti proverà a farlo
bere.
Fine terzo capitolo
- Betata a tempo record da Narcy <3 Grazie di cuore! E grazie infinite a
tutti voi per aver letto anche questo capitolo! Spero vi sia piaciuto. <3 Il
prossimo, tra una settimana!