Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: Lady1990    20/01/2019    5 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A







 
Camminava nel buio, il suo portamento sicuro anche se in lui non v’era un grammo di sicurezza. Un passo dopo l’altro, gli sembrava di avanzare su una superficie solida e liscia. Fredda, come fredde erano le sue ossa e il suo sangue. 

Aveva gli occhi ben aperti, vigili, nella speranza di scorgere un dettaglio qualunque a cui potersi aggrappare per non sentirsi in balia del vuoto. Ma l’oscurità, come una densa cortina di nebbia, era fitta e pesante.

Nessun suono giungeva alle sue orecchie, neanche quello del suo respiro o il battito del suo cuore, che martellava nel petto come un tamburo. 

L’angoscia gli intorpidì le membra, rallentandolo nei movimenti. Allora si fermò, deciso a non proseguire oltre. Infatti, chi mai si addentrerebbe nelle tenebre senza sapere cosa vi si annida? In ogni film horror c’era sempre il personaggio stupido che si inoltrava in qualche luogo buio e, puntualmente, veniva aggredito e ucciso dal mostro di turno. Lui non era stupido. 

Si girò e riprese a camminare. All’indietro, in avanti, di lato? Non riusciva a capirlo. Lo spazio si espandeva e restringeva come un elastico brandito da un sadico, giocando con le sue percezioni.

Ad un tratto, simile a un miraggio, una flebile luce comparve alla sua destra, la fonte ignota. Non era nemmeno una vera e propria luce, ma più un alone opaco, il cui unico scopo era delineare la forma di un grammofono. La tromba, che riluceva di barbagli dorati, poggiava su una base di legno. Su un lato c’era una manovella immobile e sul piatto un vinile che ruotava.

Si avvicinò cauto. Sapeva che la visione aveva lo scopo di distoglierlo dal proposito di uscire da quella dimensione oscura, sentiva chiaramente che era una specie di trappola, ma la curiosità vinse sul buonsenso.

Non appena gli fu di fronte, la punta di lettura si posò da sola sul disco e dei sibili ruppero il silenzio assordante. Ad essi si accompagnavano delle voci indefinite, smorzate dal gracchiare del grammofono. Dopo un po’, riuscì a cogliere frasi sparse.

 
“Stacy, sei tu?”

“Mamma…”

“Maledetto tubo.”

“Sciò!”

“Non è divertente!”

“Papà!”

“Ma che diavolo…”

“Aiutami!”

“Brutto figlio di puttana!”
 
Le voci variavano nell’inflessione, nel timbro e nel volume. La prima era femminile, giovane, probabilmente appartenente a una ragazza. Poi, a seguire, quella di un bambino. Dopo ancora un uomo, una donna, un ragazzo, una bambina, e un altro uomo e un altro ragazzo. Infine, riconobbe la propria, distorta dalla furia mentre pronunciava un insulto.

All’improvviso, tutte quante le voci iniziarono a gridare all’unisono, in un coro cacofonico che si fuse coi sibili, i quali, a loro volta, si ripiegarono su loro stessi fino a trasformarsi in una melodia dal sapore orientale, fatta di percussioni, flauti e strumenti a corde. Gli fece venire in mente un deserto rosso, uomini ricoperti di stracci seduti attorno a un falò, con volti scuri e incavati macchiati di sangue. 

In quel momento, una mano scheletrica, nera, con dita adunche e artigli emerse dal buio, simile a un moncherino. Sollevò la punta dal disco e la melodia si interruppe.

La rabbia lo pervase e mostrò le zanne alla creatura che si nascondeva nelle ombre. Pur non vedendola, ne avvertiva la presenza. L’unica cosa che riusciva a pensare era “Come osa?”. 

Si avvicinò al grammofono per rimettere la punta sul disco. Prima che potesse farlo, una forza invisibile lo acciuffò per le viscere e lo strattonò indietro.

 
“Regan, sorgi e splendi o farai tardi a scuola!”

Spalancò gli occhi di scatto. I muscoli si contrassero in uno spasmo e la gola si rilassò per permettere ai polmoni vuoti di incamerare ossigeno in un’unica, faticosa boccata.

Il primo dettaglio che registrò fu la tinta color guscio d’uovo del soffitto della sua camera, al contempo familiare e perturbante: dopo aver trascorso chissà quanto tempo nell’oscurità, quel lampo di colore, seppur tenue, gli ferì le retine e gli provocò repulsione.

Inspirò di nuovo, lentamente, come se fosse appena riemerso da una prolungata apnea, e tentò di calmare il proprio battito impazzito.

Il cervello seguitava ad aggrapparsi agli ultimi stralci dell’incubo, riluttante a lasciarli andare. Era stato agghiacciante, insensato, senza né capo né coda. Ma, in fondo, la maggior parte dei sogni era privo di senso.

La stessa immotivata e sconcertante rabbia che aveva provato nel sonno gli ribolliva nelle vene pure da sveglio. Le dita erano serrate a pugno, le nocche bianche e le unghie conficcate nei palmi.

“Regan!” lo chiamò ancora sua nonna dalle scale, la voce attutita dalla porta chiusa.

Rilassò le dita, le fletté per riavviare la circolazione e bofonchiò un pigro “Sono sveglio”.

“La colazione è pronta. Sbrigati.”

Inalò piano, avvertendo il battito del cuore rallentare mentre l’adrenalina abbandonava il suo corpo. Gli odori che permeavano la stanza si fecero strada attraverso le sue narici, contribuendo a rilassarlo e ricondurlo alla realtà. Sotto i più immediati, come quello del sudore acre appiccicato al suo pigiama o dell’ammorbidente emanato dai vestiti ripiegati sulla sedia, fiutò la polvere, l’inchiostro e la cellulosa dei libri, impilati su ogni superficie piana della camera in piccole torrette.

Il profumo di sua nonna, gelsomino e miele, saturava le tende, che lei si ostinava a maneggiare ogni mattina per aprire la finestra mentre lui era in bagno. L’odore di gatto impregnava il lato destro delle lenzuola, dalla parte del muro. Su di esse spuntavano qua e là peli neri di ovvia origine felina, incastrati nel tessuto.

Si stropicciò le palpebre, si strofinò la faccia con i palmi e si umettò le labbra. Quando il sapore del sangue gli esplose sul palato, si bloccò e sollevò la testa per esaminare la federa del cuscino. Vide macchioline vermiglie punteggiare l’area in cui la sua bocca era posata sino a pochi momenti prima. Esalò un sospiro frustrato, posò i piedi nudi sul pavimento e si stiracchiò.

Trascinatosi in bagno con l’entusiasmo di uno zombie, senza disturbarsi ad accendere la luce osservò il proprio riflesso nello specchio. Non poté fare a meno di contrarre il viso in una smorfia nel notare le occhiaie pronunciate. Parevano due grossi lividi attorno agli occhi, i quali erano di un’inquietante sfumatura metallica. Prese pure atto del sangue sbavato sul mento e sulla guancia sinistra.

Fece per chinarsi e aprire il rubinetto, quando all’improvviso scorse un’ombra scheletrica nello specchio. Era proprio dietro di lui. La posa rannicchiata, con la testa e le spalle incurvate per non sbattere contro il soffitto, la faceva sembrare più bassa di quel che in realtà era. L’ombra era immobile, così come l’aria che la circondava, dandogli l’impressione che si trovasse al centro di un buco nero.

Quando Regan si girò di scatto, si scontrò con le piastrelle del muro. Niente ombra. Sbatté le palpebre confuso e scacciò un brivido.

Si chiese distrattamente se si fosse trattato di un fantasma. Non era raro che i fantasmi gironzolassero per casa, dato che nel seminterrato si trovava il “centro operativo” dell’agenzia di pompe funebri gestita da sua nonna. Di solito, vagavano vicini al corpo finché non ricevevano l’appropriato rito funebre, dopo il quale svanivano oltre il Velo senza lasciare traccia.

Ma la sensazione che provava al loro cospetto era diversa, a cominciare dal freddo e dalla pressione sul corpo, come se fosse schiacciato da centinaia di piccoli sassi. Stavolta, invece, alla vista dell’ombra aveva provato un picco di acuta rabbia.

Inoltre, a dispetto delle credenze popolari, i fantasmi non cercavano mai un contatto. Nessuno di loro si era mai messo a fissarlo o aveva fatto capire che poteva percepirlo. Lui poteva vederli, ma loro non potevano vedere lui. Poco fa era stato diverso. Quell’ombra lo aveva messo a disagio.

Scrollò il capo. Forse l’incubo lo aveva suggestionato a tal punto da provocargli allucinazioni. Sospirò e riprese la routine mattutina da dove aveva interrotto.

Si pulì il viso, afferrò spazzolino e dentifricio e si lavò i denti. Prima di risciacquarsi, aprì di più la bocca, inclinando il capo all’indietro. Guardò nello specchio i canini dell’arcata superiore prendere la forma di due zanne affilate e le sfregò per bene con lo spazzolino. Dopo essersi passato il filo interdentale, fece i gargarismi col collutorio per eliminare il retrogusto ferroso del sangue definitivamente.

Mentre i suoi muscoli agivano col pilota automatico, ripensò al buio, al grammofono e alla mano scheletrica. Non sapeva che razza di incubo era stato. Gli aveva lasciato addosso una strana angoscia. La sua mente non aveva cessato di riprodurre “Come osa?”, come se quella domanda fosse la chiave per risolvere tutti i misteri dell’universo.

Richiamò alla memoria l’emozione che la vista di quella mano sul grammofono aveva scatenato: rabbia, pura e cruda. Si era sentito come un mastino territoriale che ringhia all’intruso.

Realizzò che non sarebbe riuscito a smettere di rimuginarci sopra per tutta la giornata. Perché il suo cervello aveva dovuto propinargli quella cosa, piuttosto che il suo sogno preferito, in cui scorrazzava per i boschi in compagnia di un lupo? Un lupo dalla pelliccia color caramello e una macchia bianca sull’occhio destro, grosso quanto un bue. Gareggiavano tra gli alberi, giocavano a nascondino, si facevano gli agguati tra i cespugli e, quando si stancavano, si raggomitolavano uno accanto all’altro con gli occhi puntati verso il firmamento, incantandosi a guardare la luna e le stelle.

Quei sogni lo riempivano sempre di pace e serenità, e al risveglio si sentiva rinato. Quando erano iniziati, esattamente tre anni prima, aveva indagato sul loro significato, ma senza ottenere riscontri plausibili. Stando ad alcuni testi, il lupo poteva essere la proiezione della sua anima, il suo animale totemico. Se così fosse, era alquanto ironico, dato che, semmai, avrebbe dovuto sognare un pipistrello.

Si spogliò per farsi una rapida doccia, poi tornò in camera con il pigiama appallottolato in una mano e l’asciugamano legato in vita. Come da manuale, sua nonna era passata ad aprire la finestra. L’aria umida di inizio settembre era a piede libero, assieme a una scia recente di gelsomino e miele. Se si concentrava, riusciva pure a cogliere l’odore di salsedine proveniente dall’oceano sotto quello dei fiori e delle piante del giardino.

Gli venne l’acquolina in bocca quando, all’improvviso, colse l’odore dei pancake. Non sarebbero stati la sua colazione, poiché aveva già fiutato l’aroma bruciacchiato dei toast che lo attendevano in cucina. Quanto avrebbe voluto bussare alla porta dei vicini e chiedere di poter favorire! Non che sua nonna non gli cucinasse mai i pancake, anzi, erano parte della colazione rituale di ogni domenica.

Inspirò ancora e tutte le fantasie sui pancake furono spazzate via dal profumino di bacon che si diffuse per tutta la casa. Deirdre era una santa.

Abbandonando l’asciugamano sul letto rifatto – sua nonna gli aveva pure cambiato la federa sporca del cuscino – indossò un paio di jeans neri, una maglietta grigia e una felpa marrone con cappuccio. Dopo aver infilato i piedi negli anfibi, raccolse lo zaino dal pavimento e ci ficcò dentro l’orario delle lezioni, un paio di quaderni e qualche penna.

Stava per lasciare la camera, quando avvertì la temperatura scendere di colpo e una familiare pressione sulle membra. Un fantasma era vicino, poteva quasi sentirlo respirare. Non per davvero, chiaro, anche se ad alcuni piaceva simulare quell’atto, quasi non avessero ancora compreso la loro nuova condizione o rifiutassero di accettarla.

Regan si voltò lentamente con una smorfia annoiata, che mutò in una scioccata appena incrociò lo sguardo pazzo di un giovane sui vent’anni. Si chiamava Matthew Doyle. Avevano celebrato la veglia giusto il giorno prima con i familiari del defunto, nella stanza apposita nel seminterrato. Era morto in un incidente. Secondo il referto, si era messo alla guida ubriaco e si era schiantato contro un lampione.

I suoi occhi azzurri erano limpidi, non invasi dalle cateratte, e il suo viso era privo dei tagli riportati nell’incidente. I vestiti erano quelli che indossava quando era morto. Se non fosse stato per il pallore, sarebbe potuto passare per vivo.

Il fatto sconcertante era che Matthew lo stava fissando dritto in faccia.

“Proteggila.”

Regan boccheggiò smarrito per qualche secondo, sperimentando un rarissimo blackout mentale.

Quando aveva capito che anche lui poteva percepirli, Deirdre gli aveva inculcato tre indiscutibili certezze: i fantasmi non parlavano, non interagivano e non erano capaci di vedere i vivi. Erano regole poste lì da qualche essere superiore che sapeva cosa stava facendo. Ergo, sicuramente si era immaginato la voce di Matthew che pronunciava la parola “proteggila”.

“Proteggila!”

O forse no.

“Proteggere chi?” balbettò incerto.

“La prenderà. Devi proteggerla.”

“Chi?”

“Lui è qui.”

“Chi?!”

“Proteggila!”

Regan stava per urlare di nuovo uno spazientito “Ma chi?!”, quando la nonna lo chiamò dalla cucina. Matthew scomparve senza emettere un suono, lasciandolo ancora più confuso. Rimase a guardare il vuoto per un minuto buono. Magari era ancora mezzo addormentato. Magari, alla fine, era davvero impazzito. Qualunque cosa fosse stata, rientrava nel regno dell’impossibile e, per questo, non era degna della sua attenzione. Non avrebbe sprecato altro tempo a dare corda alle creazioni sinistre del proprio cervello. C’era un limite a tutto.

Scese al piano di sotto con passo elefantino, senza preoccuparsi del rumore. Mentre le dita tamburellavano sulla ringhiera di legno al ritmo della melodia orientale che aveva sognato, i suoi occhi si soffermarono sulle foto appese lungo le scale. Lo ritraevano in varie pose, da quando era piccolo fino all’anno scorso, in una breve galleria di ricordi dedicati esclusivamente a lui. Deirdre non aveva voluto accogliere la proposta di Regan di crearne una soltanto per Poe, il loro gatto, e infilare in uno scatolone in soffitta quei obbrobri. Era fiera del suo nipotino e voleva ostentarlo, diceva.

La prima foto era di lui neonato, agghindato con una tutina di Batman. Poi c’era quella del suo primo giorno all’asilo, con lo zainetto di Batman e il taglio di capelli improponibile. In un’altra reggeva trionfante la pianta carnivora vinta alla fiera estiva a otto anni. Nella quarta era seduto sul divano, con un piccolo Poe acciambellato in grembo. Nella quinta aveva undici anni e teneva tra le braccia un sassofono. Nella sesta ne aveva quindici e fissava il vuoto con un’espressione indecifrabile, in piedi nel cortile della scuola, l’ultimo giorno delle medie.

Quando scorse il proprio riflesso sulla cornice a specchio, si corrucciò. C’era un ricciolo ribelle che si stagliava verticale in cima alla sua testa, sfidando tutte le leggi della fisica. Con la mano libera se lo schiacciò sul cranio e pregò che bastasse a insegnargli la disciplina.

Entrò in cucina proprio mentre sua nonna stava impiattando i toast e il bacon.

“Buongiorno, leprotto! Wow, quando ho detto ‘sorgi e splendi’ non intendevo seriamente.” disse Deirdre con velato sarcasmo, notando le occhiaie marcate e l’aura cupa che gli aleggiava sopra la testa.

Regan grugnì un saluto. Dopo aver abbandonato lo zaino a ridosso di una gamba del tavolo, si sedette con l’acquolina in bocca. Divorò la prima fetta di bacon in un baleno, ignorando i rimbrotti della nonna sul non dover mangiare come un troglodita.

Un miagolio lo distolse dalla pura estasi da bacon in cui era piombato. Si girò giusto in tempo per evitare che Poe ne acciuffasse una fetta con la zampa. Circondò il piatto con le braccia e gli mostrò i denti. Poe miagolò di nuovo, affranto. Le pupille dilatate erano fisse su Regan, imploranti e dolci, sature di promesse di amore eterno se solo lui gli avesse allungato un pezzo di quel delizioso bacon. Regan non si fece intenerire dagli occhioni del gatto, ormai abituato al teatrino da più cinque anni.

Aveva trovato Poe dentro un cassonetto una mattina d’estate, poco dopo aver finito le elementari. Si era innamorato a prima vista di quel batuffolino nero e morbido, di circa quattro mesi di vita, e non aveva esitato a portarselo a casa. All’inizio sua nonna si era opposta, ma Poe, grazie alla sua adorabilità felina, era riuscito a strisciare nelle grazie di Deirdre. Da allora non ne era più uscito, divenendo il beniamino di casa. Dire che era viziato era un mero eufemismo.

Deirdre prese Poe e lo depositò a terra, offrendogli un pezzo di bacon avanzato dalla padella. Poi andò a riporla nell’acquaio con un sorriso, fingendo di non sentire il pelo morbido del gatto strusciare sui suoi stinchi e le sue fusa soddisfatte. Si strinse nella vestaglia lilla, sollevò la tazza di tè allo zenzero che aveva lasciato sul piano cottura per servire il nipote e riprese a sorseggiarlo lentamente con aria pacifica.

Regan approfittò della distrazione di Poe per spolverare tutto il contenuto del piatto. Fatto ciò, trangugiò ad ampie sorsate il succo d’arancia corretto con due dita di sangue umano.

“Ti va di dirmi perché hai quella faccia?” indagò Deirdre dopo un po’.

“Sono emozionato per l’inizio del liceo.”

“A-ha.” commentò accigliata.

Regan la fissò impassibile e annunciò: “Chiedo il permesso di ibernarmi finché non avrò compiuto almeno trent’anni.”

“Negato.” dichiarò con un leggero sorriso divertito, “Davvero, cos’hai?”

“Ho fatto un incubo, ho visto un’ombra in bagno e un fantasma mi ha parlato.” snocciolò tutto d’un fiato.

A Deirdre andò di traverso il tè e tossì per almeno un minuto prima di riacquisire il contegno. Lo scrutò con gli occhi ridotti a fessure, per capire se la stava prendendo in giro.

“Puoi ripetere? Intendo la parte del fantasma.”

“Il fantasma di Matthew Doyle mi ha parlato mentre ero in camera.”

Le sopracciglia di Deirdre quasi si fusero con i capelli, per quanto le inarcò.

“I fantasmi non parlano, Regan. E come hai potuto vedere Matthew, se è stato sepolto ieri?”

“E io che ne so? Ha detto ‘proteggila’ e ‘lui è qui’.”

“Sei sicuro di non essertelo immaginato? Magari sognavi a occhi aperti.”

“Probabile.”

Deirdre scosse la testa e si adombrò: “Se ricapiterà, dimmelo, okay? Non è normale.”

“Il concetto di normalità è relativo. Ciò che è normale per il ragno, è caos per la mosca.” recitò a memoria.

“Quanta saggezza in quella piccola testolina!” chiocciò, sorridendo orgogliosa.

Regan roteò gli occhi e si alzò per riporre le stoviglie sporche nell’acquaio.

“E l’ombra?” tornò alla carica Deirdre.

“Credo che fosse un’eco dell’incubo.”

“Cos’hai sognato?”

“Camminavo nel buio, poi è comparso un grammofono e ho cominciato a sentire dei sibili, accompagnati da delle voci. Alla fine, quei rumori si sono trasformati in una melodia orientale. Subito dopo, una mano fatta di ombra ha messo fine alla musica.”

Regan attese paziente che sua nonna gli desse un responso. Era un’esperta nell’interpretazione dei sogni, ci azzeccava quasi sempre. Perciò, quando la vide rannuvolarsi e fissare il vuoto in lontananza, si preoccupò.

“Ritieni che sia un presagio di morte?”

“Tutto è un presagio di morte, leprotto. Cambiano solo la modalità e la vittima.”

“Giusto. E allora?”

“Qualcuno morirà.” enunciò solenne.

“Grazie, adesso sono più tranquillo.” borbottò sarcastico.

Deirdre gli si accostò, condusse una mano tra i disordinati riccioli neri, più lunghi sulla parte alta del cranio, e gli stampò un bacio sulla fronte.

“Stasera ti cucinerò il tuo piatto preferito, che ne pensi?”

Regan drizzò le antenne: “Bistecca?”

“Appena scottata, come piace a te.”

Regan le scoccò un piccolo sorriso e l’abbracciò, inalando l’odore di gelsomino e miele che la sua pelle sprigionava.

Deirdre si scostò e gli acconciò un paio di riccioli. Schioccò la lingua con crescente irritazione quando il ciuffo ribelle rimase nella sua posizione verticale. Si leccò le dita e fece per infilarle nella chioma corvina del nipote, solo per venire fermata da uno squittio orripilato.

“Non osare. Se lo farai, straccerò il nostro contratto di reciproco affetto e smetterò di farti da cavia per gli intrugli che spacci per tisane rilassanti.” dichiarò gelido.

“Sono tisane rilassanti!”

“Convinci il mio stomaco.”

“E poi ti ricordo che da piccolo mi hai riempito di saliva tonnellate di vestiti. Mi sono mai lamentata?”

“I neonati hanno il sacrosanto diritto di sbavare dove vogliono. Non puoi incolparmi di questo! Tu, invece, dovresti essere una persona adulta e le persone adulte non vanno in giro a infilare mani bavose nelle chiome altrui.”

Deirdre sospirò teatrale e sventolò una mano in direzione della porta: “Va’. Il pranzo è sul tavolo dell’ingresso. Ti ho versato dieci gocce di sangue nella borraccia dell’acqua.”

“Grazie, nonna.”

“Passa una bella giornata. Ti voglio bene, leprotto.”

“Anch’io. A più tardi.”

Regan raccolse il pranzo, appurò di avere dietro portafoglio, chiavi e cellulare e si caricò lo zaino sulle spalle. Prima di chiudere la porta, udì sua nonna accendere lo stereo. Un attimo dopo, la voce di Evelyn Knight che cantava Lucky, Lucky, Lucky Me si diffuse per tutta la casa. Regan non amava particolarmente quella canzone, perché una volta che gli entrava nel cervello non ne usciva più. Mentre scendeva le scale della veranda, si mise a fischiettarla senza rendersene conto.

Guardandosi intorno, inspirò a fondo gli odori con i quali era cresciuto. Fiutò subito i gerani sui davanzali delle finestre del salotto e la siepe di viburno che delimitava i confini della proprietà, separandola, assieme a una staccionata di legno, a sinistra da quella dei Thompson e a destra da quella dei Davis. Ai lati della rampa di scale del portico c’erano cespugli di petunie rosa, mentre sul lato destro del vialetto si ergevano due piccole catalpe. L’erba, tosata ad arte da Regan solo una settimana prima, appariva come un soffice letto verde e uniforme. Il giardino sul retro era invece circondato da una fitta siepe di maonie, da sempre l’invidia più grande della signora Greenwood.

La signora Greenwood abitava dall’altro lato della strada da quando Regan ne aveva memoria. Con i suoi novant’anni suonati, si trascinava in su e in giù per il portico a tutte le ore del giorno, avvolta in vestaglie eccentriche e foulard vistosi, con una tazza di tè in mano. Spiare i vicini era il suo passatempo preferito, come lo era criticare i loro giardini o le loro abitudini. Talvolta, Regan l’aveva scorta impugnare persino uno di quei binocoli di solito usati dalle ricche signore a teatro.

Tra tutti i residenti della strada, solo Deirdre godeva del favore della vecchia signora, avendolo vinto anni prima grazie proprio a quelle maonie, che restavano rigogliose e colorate in ogni stagione. La signora Greenwood le aveva domandato spesso quale fosse il segreto per ottenere un giardino tanto bello. Deirdre rispondeva puntualmente “Magia, signora Greenwood”, con un sorriso enigmatico e un tono a metà tra il serio e il faceto. La signora Greenwood allora la invitava a prendere il tè e a sparlare dei vicini.

Regan la salutò distrattamente e non si stupì quando lei, già seduta sulla sedia di vimini sul portico, assottigliò sospettosa le palpebre. Non era un segreto che Regan non le stesse molto simpatico, perché, a suo avviso, “era troppo pallido per essere umano”. Oh, non ne aveva la minima idea, la cara signora Greenwood.

Regan issò la bici dal manubrio, aspettando a salirci finché non arrivò in fondo al vialetto. Passò accanto alla targa che recitava “Pompe funebri McLaughlin” e, dopo aver richiuso con cura il cancellino, pedalò deciso verso il liceo continuando a fischiettare.

Sfrecciando sui marciapiedi e in mezzo alle macchine, lanciò un’occhiata in direzione del parco del quartiere, dove gli operai stavano terminando di smantellare uno dei palchi che avevano ospitato vari musicisti per il festival del jazz, avuto luogo la settimana scorsa. Ashwood Port condivideva quell’evento assieme alla vicina Salem. I musicisti, prima di riprendere il viaggio verso Boston, passavano sempre da lì.

Anche quell’anno, la festa era stata un enorme successo. Regan ci era andato quasi tutte le sere con sua nonna. Passeggiando per le strade affollate con un cono gelato in mano, si erano fermati presso diverse contrade e stand per ascoltare i musicisti riempire l’aria di note con i loro sassofoni, trombe, contrabbassi, pianoforti e percussioni.

L’ultimo giorno, al tramonto, c’era stato un concerto al porto, seguito da fuochi d’artificio. Cinque diverse band si erano sfidate a colpi di musica dalle barche, distanti circa una cinquantina metri dalla riva, intrattenendo il pubblico con una sorta di staffetta sonora degna degli elogi che la stampa aveva loro dedicato. La sfida consisteva nel tentare di indovinare e riprodurre una canzone solo dalle poche note che una band accennava. La prima partiva e le altre quattro dovevano raccogliere il testimone, rilanciando alla fonte le note giuste, in modo che la band iniziale potesse reinserirsi nell’esibizione e stupire gli spettatori. Se la cosa non riusciva, i giudici squalificavano la band che aveva mancato di rispondere alla “chiamata musicale” e interrotto la catena.

Il festival era una ricorrenza che Regan apprezzava molto, avendo assorbito fin da bambino il gusto per il jazz da sua nonna, una vera intenditrice. Ben tre scaffali della libreria del salotto straripavano dei vinili che Deirdre aveva collezionato durante la giovinezza.

Da qualche giorno, al posto dei manifesti del festival avevano affisso cartelloni che pubblicizzavano una mostra sull’Asia Minore presso la Fondazione Sthenos. Una mostra del genere era insolita per una città come Ashwood Port. I giornali locali ne parlavano con scetticismo, come anche i marinai e le famiglie che discendevano dai confederati morti lì, da sempre orgogliosi del loro retaggio storico affisso sulle pareti della Fondazione. Sostituire i simboli del patriottismo di Ashwood Port con chincaglierie primitive era stato percepito come un rifiuto verso la tradizione. Nonostante il malcontento generale, in molti avevano già comprato il biglietto.

Il tragitto verso scuola durò circa un quarto d’ora. Regan non dovette mai sostare a riprendere fiato, forte del sangue consumato a colazione. Fece comunque attenzione a non esagerare: se avesse sottoposto il corpo a uno sforzo prolungato, l’effetto energizzante sarebbe svanito presto.

Non appena giunse innanzi all’edificio, si preparò psicologicamente. Avrebbe rivisto parecchi dei suoi vecchi compagni delle medie, i quali non erano esattamente suoi fan. Regan sapeva che opinione avessero di lui. Il fatto che da piccolo se ne fosse andato spesso in giro dicendo che vedeva i fantasmi non aveva certo giovato alla sua reputazione.

Più che altro, era stato il suo temporaneo ritiro da scuola “per motivi di salute”, durante il primo anno delle medie, a renderlo famoso. C’era chi affermava che fosse un malato terminale e gli rimanesse appena qualche settimana di vita, chi era convinto che facesse uso di droghe e chi raccontava di averlo visto deambulare di notte nel cimitero, in cerca di cervelli freschi. Il punto era che alcuni ci credevano sul serio, a causa del lavoro di Deirdre.

Dopo circa sei mesi di assenza, era tornato. Al contrario dei docenti, che si erano dimostrati comprensivi, alcuni compagni erano diventati ancora più meschini. Il suo armadietto aveva subito atti vandalici almeno una volta a settimana; i suoi libri e quaderni erano soliti sparire nel nulla, se solo si distraeva; nello spogliatoio, dopo l’ora di educazione fisica, la sua roba finiva sempre ammonticchiata nelle docce. Non era stato per niente facile far buon viso a cattivo gioco.

Regan osservò la bolgia di studenti assiepati nel cortile, che si stava pian piano riempiendo di macchine, motociclette e bici. Inalò l’odore del loro sangue, fu più forte di lui. Rabbrividì e si morse un labbro quando percepì la salivazione aumentare. Allora, in una mossa dettata dall’abitudine, serrò i denti, chiuse gli occhi e richiamò alla memoria l’essenza di gelsomino e miele di sua nonna, la sua ancora all’umanità.

All’improvviso, però, un ricordo oscuro emerse dai recessi della coscienza e lo aggredì prima che potesse respingerlo.

L’aria venne squarciata da un sibilo e uno schianto secco riecheggiò nel silenzio. 

Un gemito acuto proruppe dalle sue labbra martoriate.

“Devi abituarti ad associare la sete al dolore, leprotto. È l’unico modo.”

“Ti prego… basta…”

I suoi polsi erano legati dietro lo schienale della sedia tramite delle spesse corde. Non indossava niente, eccetto le mutande.

La lampadina appesa al soffitto dondolava pigramente, proiettando ombre sinistre sulle pareti. Sembrava prediligere quella di una donna che torreggiava su un bambino. Aveva i capelli raccolti in una crocchia, il corpo fasciato da un vestito e le mani serrate attorno a un frustino. 

Esso si abbatté sui muscoli e sulle ossa con più vigore, dipingendo sulla pelle linee rossastre che si rimarginavano in pochi minuti.

Per ore, giorni, settimane, mesi, i soli rumori udibili in quella maledetta soffitta furono lo schiocco del frustino sulla carne, i suoi rantoli e il respiro affaticato di Deirdre.

Scrollò il capo con veemenza. Aveva sigillato ricordi simili nello speciale caveau che aveva costruito nella sua mente, all’interno di una fortezza impenetrabile. Quello spazio era necessario per contenere la pazzia e le tenebre e impedir loro di avvelenarlo un’altra volta. Certi scrigni era meglio tenerli chiusi, sua nonna glielo diceva sempre.

Si accorse che le mani gli tremavano, così le strinse a pugno e si mise a contare. I battiti del cuore rallentarono e il respiro si regolarizzò. Alzò lo sguardo, focalizzandolo dinanzi a sé con rinnovata determinazione.

Intravide Gregory, Kevin e Derek appoggiati al muro accanto alla porta, intenti a chiacchierare fra loro. Esalò un sospiro seccato e piegò le labbra in un broncio. Quei tre erano apparsi nella sua vita al secondo anno delle medie e l’avevano trasformata in un piccolo inferno. Non lo entusiasmava l’idea di venire preso di mira dai bulli pure quell’anno, si era ripromesso che il liceo sarebbe stato un nuovo inizio. Perciò si impose di non cedere al pessimismo e cercò, piuttosto, di incanalare la Deirdre che era in lui.

Un clacson gli perforò i timpani, distogliendolo bruscamente dalla meditazione. Sterzò a destra di scatto e per poco non inciampò in una coppia di studentesse.

“Ma che diavolo fai? Sta’ attento!” gli urlò dietro una delle due.

“Che imbranato.” lo schernì l’altra.

Regan le guardò allontanarsi. Non appena furono fuori portata d’orecchio, fece loro il verso, da adolescente maturo quale era.

Parcheggiò la bici lungo la transenna apposita, la assicurò con il lucchetto e si aggiustò lo zaino sulla spalla. Si prese qualche momento per studiare meglio il cortile affollato. Riconobbe molti studenti, ma con sollievo notò anche delle facce nuove. Forse il liceo non sarebbe stato così male.

Si ripeté di essere paziente, educato e zen, e marciò a testa alta verso l’entrata. Con un po’ di fortuna, quel giorno non avrebbe sbranato nessuno. Voleva fare una buona impressione e rendere fiera sua nonna, dimostrandole che, pur essendo un mostro, sapeva comportarsi civilmente.

Estrasse dalla tasca esterna dello zaino l’orario delle lezioni, completo del numero e codice del suo armadietto. Ci si diresse subito e lo aprì, per poi ricordarsi di non avere ancora niente da metterci dentro. Fissò intensamente il comparto vuoto per qualche secondo. Quando si stufò, lo richiuse con uno scatto secco.

Il ragazzo che sostava di fronte all’armadietto accanto al suo sussultò per lo spavento e fece cadere un libro dalla pila che reggeva tra le braccia. Regan lo squadrò con un sopracciglio inarcato, notando subito la cicatrice a forma di mezzaluna sul mento. Non gli era familiare.

Il ragazzo deglutì, pallido come uno spettro, poi si sforzò di abbozzare un timido sorriso, che creò delle fossette sulle guance rubizze. Regan lo fissò negli occhi finché non vide quel sorriso morire e il viso divenire ancora più pallido. Siccome fare amicizia con uno sfigato non era nella sua lista, gli diede le spalle e marciò spedito verso l’aula di Storia.

Nell’aula c’erano già due studenti. Uno era seduto a uno dei banchi in fondo e l’altro in prima fila, davanti alle finestre. Regan prese posto nella fila centrale, a ridosso del muro, e attese l’arrivo del professore giocando sul cellulare.

Durante il monologo noioso del professor Schulz, scarabocchiò sul quaderno fingendo di prendere appunti. Ce la stava mettendo tutta per ignorare le occhiate e i commenti sussurrati dei compagni di classe – come anche l’odore delizioso del sangue che scorreva nelle loro vene, caldo, denso e succoso – ma non era colpa sua se quegli scemi non sapevano cosa fosse l’arte della discrezione. Se volevano sparlare di lui, che lo facessero con i classici bigliettini!

“Dio, fa paura. Sembra che sia appena risorto dalla tomba.”

“Guarda piuttosto come si veste! Mi sanguinano gli occhi.”

Regan si voltò e ghignò all’indirizzo delle due ragazzine dietro di lui. Quelle sbiancarono e abbassarono lo sguardo, fingendo di ascoltare il professore blaterare di guerre e invasioni.

Schulz assegnò loro un progetto da presentare entro dicembre, che sarebbe valso il trenta percento del voto finale, e al suono della campanella li congedò con un cenno annoiato della mano.

Dopo Storia, Regan si diresse a Francese e poi a Matematica. Prima di pranzo aveva un’ora buca, che trascorse in biblioteca, nascosto tra gli scaffali di una sezione raramente frequentata, a portarsi avanti con i compiti. Buttò pure giù una scaletta di argomenti per il progetto di Storia, per il quale si doveva scegliere un personaggio storico importante che aveva vissuto o era morto ad Ashwood Port e paragonarlo ad una delle personalità politiche o intellettuali dei loro tempi.

Mangiò il panino che gli aveva preparato la nonna e bevve metà dell’acqua nella borraccia. Era una borraccia da campeggio, non la tipica bottiglietta di plastica, perché il colore lievemente rosato dell’acqua avrebbe potuto suscitare sospetti o curiosità.

Nel pomeriggio si recò a Letteratura inglese e Latino e, in men che non si dica, l’ultima campanella suonò, segnalando la fine delle lezioni. Gli studenti si riversarono fuori dalle aule, chiacchierando e scambiandosi pareri su professori e carico di lavoro.

Regan li ascoltò distratto mentre percorreva il corridoio, la mente ancora focalizzata sulle declinazioni latine. La zaffata di sudore e fritto che gli accarezzò le narici dopo pochi passi annunciò in anticipo la persona che la emanava, dandogli così la possibilità di prepararsi allo scontro.

“Ciao, zombie.”

Levò gli occhi al cielo e proseguì senza girarsi. Quella scena si ripeteva uguale a se stessa da due anni e, francamente, Regan stava cominciando ad annoiarsi. Aveva sperato che al liceo il trio di bulletti avrebbe trovato altri interessi, altri ragazzi da tormentare, ma a quanto pareva non erano ancora pronti a dire addio alla loro vittima prediletta.

“Ti ho salutato, zombie, non è carino ignorare le persone. Mammina non te l’ha insegnato? Oh, già, dimenticavo… non ne hai una!”

Regan si fermò e si voltò lentamente per soppesare con lo sguardo i tre ragazzi che lo avevano accerchiato. Gregory era il capogruppo, l’istigatore. Era alto e tendente all’obesità, con una zazzera informe di capelli color carota, un viso tondo costellato di lentiggini e occhi porcini. Se avesse passato più tempo in palestra invece di strafogarsi di schifezze, avrebbe avuto il potenziale per diventare un culturista. Kevin era il suo galoppino più fedele, alto come Gregory, ma molto più magro e dall’aria perennemente annoiata. Possedeva lineamenti asiatici, occhi e capelli neri e labbra carnose.

Per quanto riguardava Derek, Regan ancora non sapeva come inquadrarlo. Sembrava il classico biondino presuntuoso, ma talvolta era capitato che prendesse le sue difese quando Gregory esagerava. Era atletico quanto bastava per riempire la sua giacca di pelle e leggermente più basso dei suoi due compagni, con un’espressione seria sempre stampata in faccia.

“Sei così originale, Gregory, qualcuno dovrebbe darti un premio.” commentò sarcastico, per poi squadrarlo da capo a piedi, “Wow, hai decisamente preso qualche rotolo durante l’estate. Somigli sempre di più a una palla di lardo.”

“Che cosa hai detto?”

“Ho detto che sei una palla di lardo.”

“Come osi, piccolo mostr-”

Regan era stufo marcio. Quel giorno non era iniziato nel migliore dei modi e non aveva alcuna voglia di avere a che fare pure con un ritardato come Gregory.

“Gregory, ascoltami bene, perché non lo ripeterò.” lo interruppe in tono secco.

I suoi occhi gelidi erano fissi sul bullo, il quale rabbrividì e compì un passo indietro, la bocca socchiusa in una piccola “o”. Nessuno poteva biasimare il suo stupore, dal momento che Regan non gli aveva mai rivolto davvero la parola, se non per ricambiare i suoi insulti. Le loro interazioni, di solito, cominciavano con frecciatine cattive, seguite da colluttazioni violente in vicoli o aule vuote, e finivano con i tre bulli che se ne andavano via zoppicando e con l’ego malconcio.

“Finora non ti ho privato delle viscere solo perché mia nonna non approverebbe.” scandì malevolo, “E anche perché, se finissi in galera, lei ne soffrirebbe. È anziana e non voglio causarle ansie o dispiaceri, non se lo merita. Ma se continuerai a regalarmi le tue moleste attenzioni, potrei decidere di spedirti tre metri sottoterra. Non proverei alcun rimorso, te lo garantisco, né ci perderei il sonno. Inoltre, ti ricordo che possiedo i mezzi per occultare un cadavere e farla franca. Sei sicuro di voler continuare a provocarmi?”

Prima che potesse fermarle, numerose immagini di cosa avrebbe fatto a Gregory se lo avesse avuto alla sua mercé gli invasero la mente. Gregory era di grossa taglia, come un maiale ben nutrito e più che maturo per il macello. Con così tanta carne, di certo ci sarebbe stato altrettanto sangue, abbastanza per placare la sua sete per mesi. Come sarebbe stato azzannarlo e succhiare fiumi di calda linfa vitale per giorni e giorni, senza alcuna paura di esaurirla in pochi istanti?

Brividi di piacere gli attraversarono la spina dorsale in piccole scosse elettriche, facendogli martellare il cuore nel petto e aumentare la salivazione.

Lo avrebbe incatenato in soffitta e imbavagliato, per evitare che le sue urla attirassero attenzioni indesiderate. Si sarebbe preso cura del suo corpo lavandolo e cibandolo, così da mantenerlo pulito e in forze, come si fa con un eccellente capo di bestiame. Ogni volta che gli fosse venuto un languorino, sarebbe salito in soffitta per affondare i denti nella carne flaccida, riempiendosi la bocca del suo sangue ricco e corposo. Le sue orecchie si sarebbero godute la sinfonia dei suoi gemiti di dolore, allo stesso modo in cui un critico di musica si incanta all’udire i gorgheggi di un soprano.

Lo avrebbe reso suo schiavo, per il resto della sua miserabile vita.

Il suo succulento maialino.

Concitati sussurri squarciarono la beatitudine della fantasia in cui era precipitato, riportandolo alla realtà. Alcuni studenti si erano fermati a origliare la loro conversazione, occhieggiandoli con interesse misto a timore, senza osare intervenire.

Regan represse a stento un ringhio infastidito e tornò a fissare Gregory e i suoi due compagni.

“La proposta che ti faccio, con un grande sfoggio di misericordia che dovresti apprezzare, è di inaugurare l’anno iniziando a ignorarci a vicenda. Ti piace l’idea? Oppure, potrei esaudire il tuo più intimo desiderio, cioè pestarti fino a renderti irriconoscibile e seppellirti vivo in giardino. Decidi tu.”

Gregory boccheggiò, palesemente scioccato e a corto di parole. Poi piegò le labbra in una smorfia minacciosa, spingendosi tanto in là da mostrargli persino i denti – come se quei dentini lisci e rotondi potessero spaventarlo – e sollevò un braccio per colpirlo.

Kevin gli afferrò il polso e lo fermò in tempo: “Greg, ci sono i professori. Lascia stare.”

Regan ghignò e gli fece il verso: “Sì, Greg, lascia stare. Vai a rintanarti dietro la sottana di Kevin.”

Gregory divenne rosso di rabbia al sentirsi umiliare in quel modo, ma non poteva reagire come desiderava perché erano in pubblico. Digrignò i denti e strinse i pugni, superando Regan con una spallata.

Regan non andò giù come un birillo solo perché il muro di armadietti glielo impedì. Aspettò che il trio si allontanasse, poi sbadigliò e riprese a camminare verso l’uscita, incurante dei mormorii che si lasciava dietro.

Un gruppo di cinque ragazzi appartenenti alla squadra di football gli passò accanto ridendo e scherzando, senza degnarlo di uno sguardo. Regan li udì parlare di una festa organizzata per quel sabato, per celebrare l’inizio della scuola. Si sarebbe tenuta a casa di Charlotte Wilson. Regan la conosceva solo di vista. Era molto carina, con lunghi capelli lisci e castani, occhi scuri e un fisico da modella. Aveva quindici anni ed era al primo anno come lui, avendo terminato le medie insieme.

“Secondo me, è un’ottima mossa.” commentò uno, “Le selezioni per cheerleader sono la prossima settimana. Se la festa avrà successo, Lorie sarà più propensa ad accettarla tra le sue reclute. È un metodo perfetto per mettersi in mostra e leccare il culo a chi comanda.”

“Se si deve parlare di culi, Charlotte ne ha uno niente male. Non mi dispiacerebbe darle una bottarella.” disse un altro, unendosi alle risate dei compagni.

Come evocata, Charlotte uscì dal bagno delle ragazze proprio mentre ci passava davanti. Regan si scansò per evitare di caderle addosso, ma lei non parve notarlo. Stava chiacchierando con la sua migliore amica, Jennifer Dawry, a proposito della festa, a cui erano invitati tutti ufficialmente, ma a cui solo i più popolari avrebbero partecipato.

Regan non era mai stato invitato ad alcuna festa. E i suoi compleanni li aveva passati esclusivamente in compagnia della nonna, con l’aggiunta di Poe negli ultimi cinque. Era un po’ lo svantaggio di non essere una persona estroversa che sprizza gioia di vivere da tutti i pori.

A volte non poteva fare a meno di chiedersi che cosa si stesse perdendo. Quando permetteva ai propri pensieri di vagare, si immaginava seduto in mezzo ai popolari, vestito bene, con un sorriso sulla faccia e gli sguardi di approvazione puntati addosso. Poi si ricordava di essere un mostro e tutte le sue fantasie crollavano come un castello di carte.

Sospirò, infilò le mani nelle tasche dei jeans e si diresse verso la bici per tornarsene a casa.

Non appena girò la chiave nella toppa e aprì la porta, Poe sfrecciò fra le sue gambe e si tuffò nella siepe di viburno, sparendo alla vista. Regan scrollò una spalla, abituato alla scena. Sul far della sera, il gatto sarebbe ricomparso con un topolino morto in bocca e glielo avrebbe offerto in segno di pace. La dolcezza fatta pelo.

La casa era vuota e immersa nella penombra. Salvo per il ticchettio dell’orologio a muro e il ronzio del frigorifero, il silenzio ammantava ogni stanza.

Inarcò un sopracciglio quando scorse la sagoma di Larry Carter, il postino del quartiere, in piedi in mezzo al salotto. Per una frazione di secondo fu tentato di domandargli cosa ci facesse lì, ma, rendendosi conto del freddo che aleggiava intorno a sé, richiuse la bocca con uno schiocco. Doveva essere morto in giornata, e il suo corpo, senza dubbio, si trovava nel seminterrato, in attesa di venire preparato per il funerale.

“Riposa in pace, Larry.” bisbigliò dandogli le spalle, salì le scale e si rifugiò in camera.

Un’ora più tardi, terminati i compiti, chiuse i libri e si stiracchiò. Guardò apatico il cielo color indaco dalla finestra, la mente sgombra da ogni pensiero, finché non cominciò ad annoiarsi. Raggiunse il letto in due falcate, si mise le cuffie, afferrò il blocco da disegno e con una matita tracciò le prime linee delle orecchie del lupo dei suoi sogni.

In pochi minuti aveva già una prima bozza della testa. Ponderò se continuare subito con il corpo. Alla fine, decise di concentrarsi sull’espressività degli occhi. Erano gialli, con pagliuzze nere intorno alla pupilla. Quegli occhi comunicavano sempre così tante emozioni che Regan non poteva fare a meno di chiedersi se, dietro al pelo e alle fattezze lupesche, per caso non si celasse una persona.

Alle sei sentì la porta di casa aprirsi. Si tolse le cuffie, sbadigliò e mise da parte il blocco da disegno con un grugnito stanco. Stropicciandosi gli occhi, scese a salutare sua nonna, la quale stava appendendo borsa e cappotto all’attaccapanni dell’ingresso.

“Ciao, leprotto! Com’è andato il primo giorno?”

Regan sbuffò e andò a spaparanzarsi sul divano. Emise un lamento quando la molla gli si conficcò nel gluteo sinistro. Quella dannata cosa era rotta da cinque mesi, che ci voleva a imprimerselo in testa? Pazienza, ormai era lì e non si sarebbe spostato. Stese le gambe e poggiò i talloni sul tappeto, afflosciandosi sui cuscini come un sacco di patate.

Deirdre serrò le labbra, forse per trattenere un sospiro o un sorriso amaro. Regan la sentì sedersi con calma accanto a lui. Il vestito viola le svolazzò attorno alle ginocchia e il golfino bianco si tese sul seno, mettendo a dura prova la resistenza dei bottoni. I capelli rossi legati in una crocchia incorniciavano il suo viso tondo e pallido, illuminato da due occhi scuri e gentili, che avevano sempre il potere di ricordare a Regan quanto quella donna lo amasse.

“Hai almeno provato a parlare con qualcuno?”

“Ho scambiato due chiacchiere con Gregory.” bofonchiò a braccia conserte, il mento premuto sul petto e i riccioli neri a coprirgli metà faccia.

“Hai di nuovo fatto a botte?”

“No, l’ho solo minacciato di morte.”

“E a parte questo?”

Regan fece spallucce. Deirdre, stavolta, esalò un sospiro afflitto.

“Se neanche ci provi, come puoi sperare di riabilitare la tua reputazione?”

“Ormai credo sia irrecuperabile.”

“Se non dimostri che si sbagliano, non puoi pretendere che cambino opinione.”

“E come dovrei fare?” sbottò in tono petulante, per poi chetarsi e mettere il broncio, “Nah, non importa. Non ho bisogno di nessuno.”

Deirdre gli accarezzò i riccioli e sorrise, una punta di tristezza nello sguardo.

“Devi solo avere pazienza. È stato il primo giorno, ne seguiranno altri. Le occasioni arriveranno.” gli disse, sempre così ottimista e piena di luce, “Vedrai che tutto si aggiusterà.”

Regan aveva un rapporto di amore-odio con quelle parole. La nonna gliele aveva ripetute sino alla nausea mentre attraversava la più terribile crisi di astinenza della sua vita, incatenato in soffitta, fuori di testa per la sete di sangue che gli bruciava lo stomaco e la gola. Ma, in effetti, col tempo le cose erano tornate alla normalità.

Per quanto fosse normale un’esistenza da mezzo vampiro.

“Ho visto Larry.” mormorò cambiando argomento, “Cioè, il suo fantasma. Deduco che la tua interpretazione del mio incubo si sia rivelata ancora una volta accurata.”

“Le persone muoiono tutti i giorni, leprotto. Non è detto che Larry sia legato a ciò che hai sognato.”

“Beh, allora noi diciamo che lo è e festa finita, non dovremo più preoccuparci.”

Deirdre sbuffò e gli assestò una leggera pacca sulla coscia: “Non funziona così, lo sai.”

Regan osservò la nonna alzarsi e sparire in cucina, lasciandosi dietro una scia di gelsomino e miele.

Poe si materializzò ai suoi piedi cinque minuti più tardi, un topo morto stretto in bocca e l’espressione più compiaciuta che un felino potesse esibire.

“Oh, qual grazioso dono mi porti, mio prode felino. Tu sai proprio come sciogliere il mio cuore di ghiaccio.” mugugnò con voce piatta.

Quasi lo avesse compreso, Poe sputò il topo sul tappeto, gonfiò il petto e miagolò.

Quella notte Regan sognò il lupo, con suo grande sollievo. Corsero per il bosco finché il loro respiro non divenne affannato e le loro gambe non cominciarono a dolere. Dopo la corsa, si sdraiarono sulla soffice erba della radura e rimasero a osservare il cielo stellato, godendo della rispettiva compagnia.

La mattina seguente, seduto a tavola di fronte al solito succo d’arancia corretto e due toast ricoperti di burro e marmellata di fragole, Regan sperò che il buonumore durasse per il resto della giornata. Sua nonna stava sorseggiando il tè in piedi, in vestaglia e pantofole, mentre Poe faceva le fusa per ingraziarsela e ottenere qualcosa in cambio. Cosa, di preciso, a nessuno era dato saperlo.

“Dormito bene, leprotto?”

“Sì, grazie. Niente incubi.” rispose e si avventò sul cibo.

“Come mai così affamato? Vuoi altri toast?”

Regan puntò lo sguardo di ghiaccio su di lei. Lo fece scivolare dal viso al collo, dove poteva fiutare l’aroma divino del sangue che scorreva al di sotto della pelle, nella vena pulsante. Gli venne l’acquolina in bocca. Senza accorgersene, si umettò le labbra secche.

“No, Regan. La tua razione mattutina è nel succo. Poi ho versato qualche goccia nella borraccia. Stasera avrai altre due dita. Sai che non devi esagerare.” lo redarguì Deirdre.

Regan abbassò il capo, sentendo le guance imporporarsi per la vergogna. La nonna gli donava quotidianamente quattro dita al giorno in totale, non un millilitro di più. Era la dose minima per mantenerlo in forze e la massima per non risvegliare il mostro.

Deirdre indicò la colazione sul tavolo: “Mangia o farai tardi.”

A scuola, le lezioni furono noiose, eccetto per le lingue straniere. Regan non era stato molto sicuro della sua scelta, all’inizio, ma ora stava sviluppando una certa passione per il latino.

Educazione fisica fu estenuante. La sua classe fu costretta a compiere un riscaldamento di circa mezzora e, per quella restante, l’allenatore li divise in squadre per giocare a palla avvelenata. Regan si beccò una pallonata nello stomaco dopo dieci minuti e venne messo in panchina. Non che non fosse agile o non possedesse i riflessi, ma il sangue consumato a colazione non gli aveva dato la giusta carica per gestire tutto quello sforzo. Di recente gli sembrava di aver perso forze, a dire il vero.

Mentre beveva l’acqua dalla borraccia, osservando i compagni lanciarsi la palla e correre da una parte all’altra del campo, decise che quella sera avrebbe provato a chiedere alla nonna di aumentare di un dito la dose giornaliera. D’altronde, stava crescendo. Le dosi che andavano bene prima che entrasse nella pubertà forse non erano più sufficienti a sostenerlo. Che male c’era a fare un tentativo?

Subito dopo aver pensato di estorcere altro sangue all’unica persona che conosceva il suo segreto e lo amava comunque, si sentì tremendamente in colpa. Deirdre non era la sua personale sacca di sangue, ma la sua famiglia. Non poteva essere egoista e obbligarla a dargli più di quanto lei potesse concedere senza svenire o ammalarsi. Doveva riuscire a farsi bastare la dose attuale, in qualche modo.

Quando l’ultima campanella suonò, Regan raccolse libri, quaderni e penne e si immerse nel fiume di studenti che scorreva lungo i corridoi, chi diretto verso l’uscita, chi all’armadietto.

Gregory e la sua cricca non si fecero vivi. Che avessero deciso di seguire il suo consiglio? Regan era alquanto scettico. E un po’ deluso, doveva ammetterlo. In fondo, lo avevano aiutato a sfogare lo stress per anni. Si era affezionato alla sensazione che gli dava prenderli a pugni e avvertire le loro ossa scricchiolare sotto le sue nocche.

Fece una sosta in bagno per rinfrescarsi e si diede qualche schiaffetto sulle guance. Si sentiva intorpidito, come se si fosse appena svegliato da un sonno lunghissimo, o come se non dormisse da altrettanto tempo. Quando uscì, si accorse che il corridoio era vuoto. Lo percorse a passi lenti e strascicati, ciondolando come uno zombie.

Un gruppo di quattro cheerleader gli passò a fianco, dirette al campo d’allenamento. Regan, al suono dei loro cuori che pompavano preziosa linfa vitale, alzò appena lo sguardo, la vista sfocata.

Aveva sete.

Un improvviso picco di adrenalina lo riscosse nel momento in cui una cheerleader del terzo anno, Teresa Meyers, gli passò accanto. Era la vicepresidente del comitato studentesco, ergo una persona molto influente e popolare persino tra i suoi simili. Tutti la conoscevano. Regan, però, l’aveva notata per la prima volta in un’altra occasione: durante la veglia di Matthew Doyle. Se non andava errato, era suo cugino.

“Proteggila!”

Si irrigidì, trattenne il fiato e la osservò superarlo a rallentatore. Durò meno di un secondo, giusto l’arco di un respiro, eppure la visione fu sufficiente a fargli schizzare il battito alle stelle.

Il gruppo passò e scomparve dietro l’angolo, lasciando Regan impietrito in mezzo al corridoio. Sbatté le palpebre, mise a fuoco l’ambiente e scrollò la testa. Per un attimo, gli era sembrato che la faccia della ragazza fosse una maschera grottesca: le orbite nere e vuote, l’incarnato spettrale, bianco come gesso, e la bocca spalancata in un grido muto.

Continuò a barcollare lungo il muro, lo sguardo vacuo e i canini appuntiti conficcati nel labbro inferiore. Giunto in prossimità dell’aula di musica, si arrestò di nuovo. Aggrottando le sopracciglia, piegò il capo e drizzò le orecchie.

Dall’aula deserta proveniva la melodia orientale del suo sogno. Era quella, impossibile sbagliarsi. Si era impressa nella sua memoria come un marchio a fuoco.

Confuso, entrò e cercò con sguardo febbrile la fonte. La melodia era diffusa da un grammofono. Era più moderno rispetto a quello del suo sogno, chiuso dentro una teca espositiva posta in mezzo a due finestre e sigillata da un lucchetto.

Si avvicinò. A un passo dalla teca, si rese conto che sul piatto non c’era nessun disco e il grammofono era spento. Assottigliò le palpebre e accostò l’orecchio sulla superficie trasparente. Sotto la melodia udiva quel sibilo, come di serpenti, misto a delle voci. Erano troppo flebili e indistinte per carpire ciò che dicevano, ma qualcosa gli suggerì che lo sapeva già.

“Che stai facendo?”

Regan sobbalzò e si voltò. Sanders, il professore di Biologia, lo stava scrutando con cipiglio severo dalla soglia. La sua figura allampanata e sottile era opaca, come se Regan lo stesse guardando attraverso una finestra appannata.

“Mi scusi, credevo…” balbettò, indicando timidamente il grammofono muto, “No, niente.”

Il professore gli rivolse un’occhiata preoccupata. Di sicuro stava pensando che fosse pazzo.

Regan si impietrì sul posto non appena il battito del cuore di Sanders gli riverberò nelle orecchie. Gli bastò inspirare brevemente per cogliere l’odore del suo sangue e provare l’irrefrenabile impulso di affondare le zanne nella sua carotide. Deglutì e la saliva gli raschiò la gola, come se avesse ingoiato una manciata di segatura.

“Devo andare.” farfugliò e uscì spedito dall’aula.

Raggiunse la bici, tolse il lucchetto e si sedette sul sellino. Prima di abbandonare il cortile, rovistò nello zaino in cerca della borraccia e bevve l’ultima sorsata. Il poco sangue nell’acqua lo aiutò a riacquisire il controllo, ma non scacciò la debolezza che gli appesantiva gli arti.

Quando imboccò il vialetto di casa, i polmoni bruciavano, il viso era ricoperto da una patina di sudore, che gli conferiva un aspetto malato e smunto, e la gola era secca. Avvertiva la pelle tirare sui muscoli, disidratata, assottigliata sulle ossa spigolose. Aveva una sete terribile, ma non di acqua. Non andava affatto bene.

E la signora Greenwood lo stava spiando dalla sua solita postazione. Sentiva il peso del suo sguardo sulla nuca.

Inciampò sugli scalini del portico, armeggiò con le chiavi e, dopo quattro tentativi, centrò la serratura. Appena aprì la porta, Poe gli schizzò accanto e sparì in giardino.

Si trascinò su per le scale, in camera, sul punto di svenire a causa della debolezza. Si gettò sul letto senza nemmeno levarsi le scarpe, lanciando lo zaino da qualche parte a occhi chiusi. Per le due ore successive rimase intrappolato in una sorta di stato vegetativo, che, invece di aiutarlo, acuì il suo malessere.

A cena sedò tutti i tentativi di conversazione di Deirdre con grugniti e occhiate truci. Mangiò in silenzio, imponendosi di non vomitare. Il cibo aveva un odore delizioso, sua nonna era una cuoca eccellente, ma ogni volta che toccava la sua lingua sembrava tramutarsi in sabbia e colla. Gli irritava la gola come carta vetrata e non faceva che aumentare esponenzialmente la sete. Trangugiò un litro e mezzo di acqua durante il pasto.

La secchezza lo tormentò finché Deirdre non estrasse dalla tasca della vestaglia una siringa. Regan osservò con occhi avidi la confezione di plastica che veniva strappata, l’ago che perforava la pelle del braccio e la fiala che si riempiva di sangue.

Deirdre si sporse sul tavolo e spruzzò il sangue nel bicchiere del nipote. Regan lo agguantò fulmineo per portarselo alle labbra. Di solito annusava il sangue, se lo gustava lentamente come fa un sommelier con un vino prelibato, ma oggi non aveva voglia attuare quel rituale.

Mugolò di piacere al sentire la gola allargarsi, i polmoni incamerare ossigeno, la pelle distendersi e lo stomaco quietarsi soddisfatto. Si leccò le labbra e, per fare le cose per bene, con la lingua ripulì il bicchiere sino a farlo brillare.

“La tua fame è cresciuta.” considerò Deirdre.

“Tranquilla, non ti chiederò più di ciò che puoi darmi.”

“Un dito di sangue in più non mi ridurrà in fin di vita. Speriamo solo che non risvegli il predatore che è in te.” disse con una smorfia.

“Non serve…”

“Serve eccome. Mi dispiace non essermene accorta prima. Avrei dovuto prevederlo, con la crescita. Non preoccuparti, leprotto, tua nonna è forte.” gli sorrise dolce.

Regan serrò le labbra e la fissò di sottecchi. Le dita torturavano un lembo della felpa sotto al tavolo per sfogare l’eccitazione.

“Se te la senti davvero…”

“Puoi contarci! Ora aiutami a sparecchiare e lavare i piatti. Poi, se vuoi, ci guardiamo un musical alla televisione.”

“Quale?”

“Scegli tu.”

“Mmm… La La Land?”

“Divino! Si vede che ti ho cresciuto io.”

Per il resto della serata, Regan si dimenticò delle allucinazioni avute a scuola e dell’aumento della sete. Trascorse un paio d’ore in compagnia della nonna a cantare le canzoni del musical leggermente fuori tempo, ma era divertente così, e alle undici salì in camera.

Indossò il pigiama, preparò lo zaino per il giorno dopo e, infine, si sdraiò sul letto con un sospiro stanco. Poe, che lo aveva seguito a passi felpati, saltò sul materasso e si acciambellò accanto a lui. Gli occhi gialli erano fissi sul suo viso, come se stesse provando a decifrarlo.

“Che hai da guardare?”

Poe continuò a scrutarlo.

“Sei inquietante.”

Regan si addormentò cinque minuti più tardi. Il suo sonno fu disturbato dal medesimo incubo del grammofono.

La settimana si concluse senza incidenti. Gregory e i suoi lacchè gli stettero alla larga, nessuno lo importunò.

La mattina di sabato, però, Regan si svegliò di nuovo di malumore a causa del dannato incubo. Per fortuna, gli bastò fiutare l’odore degli waffle e udire dalle casse dello stereo in salotto la voce profonda e vibrante di Louis Armstrong che cantava What A Wonderful World per disfarsene.

Andò in bagno a rinfrescarsi e, quando scese a fare colazione, si fermò ai piedi delle scale. Sua nonna stava ballando di fronte ai fornelli, canticchiando assieme ad Armstrong.

“Buongiorno.” la interruppe.

“Buongiorno, leprotto! Dormito bene?”

“No, ancora incubi.” rispose sincero.

“Ne vuoi parlare?”

“No.”

“Va bene. Sugli waffle ci vuoi i mirtilli?”

“No, prendo solo lo sciroppo d’acero.”

“Okay. Programmi di oggi?”

“Compiti e regressione allo stadio larvale.”

“Affascinante. Stamattina pulisco un po’ casa, poi vado a tenere compagnia alla signora Greenwood. Le è arrivato del tè delizioso dalla Cina. Dopo pranzo, invece, ho un appuntamento al piano di sotto. Te la senti di restare da solo?”

“Non ho cinque anni.”

“Ne hai appena sedici.” sbuffò.

“Lo so. Mi sento vecchio. Credo di avere qualche acciacco.” mugugnò mentre di massaggiava il collo.

Deirdre scoppiò a ridere e gli arruffò i capelli: “Mangia e fila a studiare.”

Dopo colazione, Regan salì in camera e si mise a fare i compiti con la musica nelle orecchie per coprire il rumore dell’aspirapolvere.

La giornata passò lenta, noiosa, priva di stimoli. Verso sera, una macchina sfrecciò davanti a casa, un pezzo rap sparato a tutto volume dalle casse. Fu allora che Regan si ricordò della festa di Charlotte. Accarezzò l’idea di presentarsi, tanto per creare un po’ di scandalo, ma alla fine scelse di guardare per la cinquantesima volta il DVD di Singing In The Rain. Si accomodò sul divano e si crogiolò nella sensazione di pace che lo avvolse quando Gene Kelly si mise a cantare.

A dodici anni, aveva ammesso con Deirdre di avere una cotta per lui. Quell’ammissione innocente li aveva condotti a un’imbarazzante conversazione sull’importanza del consenso e del preservativo e di come non ci fosse nulla di sbagliato nel provare interesse per gli esponenti dello stesso sesso. Regan non era riuscito a guardare sua nonna negli occhi per due mesi interi dopo il fatto. E non aveva nemmeno avuto il coraggio di spiegarle che la cotta era di platonica.

Gene Kelly ora stava ballando il tiptap sotto la pioggia. Era la sua scena preferita. Corse a prendere un ombrello nell’ingresso e cominciò a imitare a memoria i passi, cantando senza alcuna inibizione in mezzo al salotto. Sua nonna gli diceva sempre che aveva una bella voce, tranne per le volte in cui stonava di proposito per non farla sentire inferiore.

Seduto sul tappeto accanto alla televisione, Poe lo giudicava con lo sguardo. Regan seguitò imperterrito a ballare, approfittando della solitudine per esprimere tutto il suo talento.

Il sole tramontò, le luci nelle case si accesero e nel cielo comparvero le prime stelle. L’aria era calma, il vento lieve e fresco. Era una serata tranquilla, come molte altre.

Nessuno si immaginava che qualcosa si nascondeva nel buio, in attesa di cibarsi.

 
*

Teresa ingoiò l’ultimo sorso di birra e posò il bicchiere di carta sulla prima superficie piana disponibile. Era giusto un po’ brilla, non ubriaca fradicia come la maggior parte dei suoi amici.

Intorno a lei, ragazzi e ragazze ridevano e ballavano al ritmo della musica diffusa dalle casse dello stereo. I divani e le sedie erano occupati da chi non aveva più le forze per stare in piedi e da coppiette intente a pomiciare, incuranti del pubblico.

Tutto sommato, era una bella festa. Charlotte aveva fatto centro. Teresa non dubitava che Lorie l’avrebbe presto accolta tra le cheerleader.

James la raggiunse con il proprio bicchiere di birra fra le mani. Lei gli passò le braccia attorno al collo e si sollevò in punta di piedi per scoccagli un bacio a stampo sulle labbra.

“Ti diverti?” le domandò James in un orecchio, per farsi sentire al di sopra della musica sparata a tutto volume.

“Certo!”

Il fidanzato la osservò per lunghi secondi, abituato a vedere sotto la sua maschera.

“Ancora triste per Matthew?”

Lei sospirò e poggiò la fronte sul suo torace: “Se ti dicessi di sì?”

“Non si merita le tue lacrime, lo sai.”

“Era pur sempre mio cugino. E da piccoli eravamo molto legati.” protestò, “Non meritava di morire in quell’incidente.”

“Amore, Matt era un coglione. Chi cazzo si mette alla guida dopo aver bevuto tequila? Se l’è cercata.”

Teresa era d’accordo, ma le dispiaceva comunque. La famiglia era in lutto.

“Se proprio vuoi la mia opinione-”

“No, grazie.” lo interruppe, nascondendo a fatica un ghigno divertito.

“Ah. Ah. Dicevo, se vuoi la mia opinione, sarebbe meglio che la smetteste di comportarvi da ipocriti. Senza offesa, amore, ma stamattina non siete forse andati a visitare con sorrisi allegri la nuova mostra in città? Quella cinese.”

“È sull’Asia Minore, James.”

“È uguale. Il punto è che a nessuno frega un accidente di Matthew. Ha fatto una stronzata e ne ha pagato il prezzo. Lo avete pianto, gli avete pagato una bella bara, lo avete sepolto e ora è finita.”

“Cosa vorresti che facessi?”

“Goditi il resto della serata, come stanno facendo tutti, e finiscila di parlare di tuo cugino.” la pregò, poi la baciò per distrarla dai pensieri negativi, “Dov’è Stacy?”

Teresa scandagliò la folla che riempiva il salotto: “Non lo so, l’ho persa di vista.”

“E Claire?”

“Questa è facile: a bordo piscina a mostrare le tette ai tuoi amici.”

“E a te non va di mostrare le tette?” la provocò.

“Sono un bene privato.”

“Privato per chi?”

Lei roteò gli occhi divertita e lo baciò di nuovo.

“Vado un attimo in bagno, aspettami fuori. Appena torno, ce ne andiamo. I miei non sono a casa.”

“Non mi avevi detto di avere casa libera.” la accusò imbronciato.

“Era una sorpresa.” gli scoccò un’occhiata eloquente da sotto le ciglia, “Volevo vedere se te la saresti meritata.”

“Allora devo aver fatto qualcosa di buono.” scherzò James, ammiccando.

Teresa ridacchiò e, dopo un altro bacio, si separò per recarsi al bagno al piano di sopra. Salì le scale facendo lo slalom tra i ragazzi stravaccati sui gradini, mirando alla porta in fondo al corridoio, sulla destra. Non c’era nessuno in fila. Sperò che non fosse occupato.

Bussò. Quando nessuno le rispose, aprì la porta e accese la luce. Fece pipì, si lavò le mani e le asciugò con la salvietta rosa pallido appesa alla sbarra sotto la finestra. Dalla borsa estrasse matita e rossetto per rifarsi il trucco. Poi si aggiustò il vestitino azzurro, lisciandoselo addosso. La stoffa le fasciava le curve alla perfezione, mentre la scollatura metteva in mostra il seno quel tanto da provocare negli occhi di James lo scintillio affamato che adorava. Si pettinò i capelli neri con le dita e provò varie acconciature, ponderando se legarseli oppure lasciarli sciolti. James li preferiva così, perciò non perse altro tempo.

All’improvviso, la lampada si spense. Teresa si bloccò. Il cuore saltò un battito e il respiro le si mozzò in gola, ma solo per un breve momento. Sbuffò seccata e fece scattare l’interruttore. Lo spinse su e giù un paio di volte, senza ottenere alcun risultato.

La tenda gialla che copriva la vasca si mosse appena. Teresa aggrottò le sopracciglia e la studiò incerta. Non poteva essere stato un soffio di vento, dato che la finestra era chiusa. Scosse il capo, convinta di esserselo immaginato.

Fece per afferrare la maniglia della porta, quando, con la coda dell’occhio, colse di nuovo il movimento. Deglutì e restò immobile.

“Stacy, sei tu?”

Si obbligò a restare calma, poiché non era raro che dei ragazzi organizzassero scherzi da film horror per movimentare le feste. Non avrebbe dato loro soddisfazione, poco ma sicuro.

Avanzò di un paio di passi e protese una mano per afferrare la tenda. Esitò per una manciata di secondi, quindi la scostò con un gesto brusco.

Gli occhi si sgranarono e il sangue le defluì dal volto.

La borsa cadde con un tonfo sulle piastrelle.

Prima che potesse gridare, una mano nera e scheletrica si avvolse attorno al suo collo e la trascinò oltre la tenda con uno strattone violento.

Quando la luce si riaccese, il bagno era vuoto.










 
  
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: Lady1990