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Autore: Lady1990    27/01/2019    5 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Dopo un fine settimana trascorso in compagnia di un solidale Poe a svernare su ogni superficie morbida della casa, pervaso dalla stessa gioia di vivere di un tubero, lunedì Regan si recò a scuola, segretamente impaziente di carpire commenti sulla festa a casa di Charlotte. Di norma non gli interessavano i gossip, ma la prima festa dell’anno scolastico era un evento da non sottovalutare. Era in quell’occasione, infatti, che si forgiavano alleanze e stabilivano gerarchie. Imparare quali fossero lo avrebbe aiutato a capire da chi stare alla larga.

Ciò che Regan non si sarebbe neanche lontanamente aspettato fu sentirsi schiaffare in faccia un volantino non appena varcò la soglia del liceo. Barcollò confuso, sputacchiò oltraggiato e se lo strappò di dosso, per poi accartocciarlo in una mano. Lanciò un’occhiataccia alla ragazza colpevole dell’affronto, ma lei non se ne accorse, impegnata com’era a scaraventare volantini sulle facce di altri poveri studenti. Regan notò che le sue labbra erano serrate in una linea pallida e sfoggiava scure borse sotto gli occhi, arrossati e gonfi per il pianto. Il suo viso era struccato e i capelli scarmigliati “ad arte”.

Regan sbuffò e proseguì lungo il corridoio, indifferente al chiacchiericcio concitato. Gli occorsero cinque minuti abbondanti per intuire che qualcosa non andava, e soltanto perché un’altra ragazza scoppiò in lacrime a pochi passi da lui.

Il secondo indizio fu lo striscione gigante appeso alla bacheca degli avvisi, accanto alla segreteria. Il terzo furono i volantini incollati sopra ogni armadietto, identici a quello che stringeva nel pugno, con la foto di… Teresa Meyers? Eh, sì. Era proprio lei. La scritta “SCOMPARSA” campeggiava a lettere cubitali sopra la foto. Sotto di essa c’erano le informazioni sulla data della scomparsa e i numeri di telefono da contattare in caso di avvistamento.

Regan lisciò il volantino accartocciato e lo lesse con attenzione. Quando gli caddero gli occhi sulla data in cui Teresa era stata vista per l’ultima volta, percepì il sangue defluirgli dal volto. Avrebbe dovuto capirlo. Matthew non era più apparso dopo averlo supplicato di proteggere una “lei”, ma a quel punto era ovvio che si fosse riferito a Teresa. E poi c’era stata la visione nel corridoio, un monito che aveva bellamente ignorato.

Analizzò le facce degli studenti. Tutti esibivano espressioni preoccupate, leggevano e rileggevano il volantino bisbigliando tra loro in piccoli capannelli. Regan non sapeva bene quali emozioni provare, se totale distacco o frustrazione.

Aprì l’armadietto con un sospiro esausto, ci gettò dentro il volantino, agguantò il libro di Inglese e si incamminò verso la classe, rassegnato a una giornata di pettegolezzi e teorie complottiste.

Entrando in aula, localizzò un posto vuoto sul fondo e ci si sedette. Estrasse libro e quaderno dallo zaino senza badare alle occhiate torve che gli lanciarono Kevin e Derek. Per fortuna, Inglese era l’unico corso che condivideva con i due. Gregory, invece, lo vedeva soltanto a Educazione Civica. Le ore di lezione erano le sole in cui Regan e i tre bulli si evitavano come la peste. Piccola grazia divina.

Durante la pausa pranzo, rintanato in biblioteca col suo panino e la sua borraccia, Regan rimuginò su Teresa e ricapitolò i fatti.

Innanzitutto, il fantasma di Matthew gli era apparso in camera e lo aveva supplicato di proteggere una “lei”. Poi aveva visto Teresa in quella mise inquietante da film horror. Infine, sabato sera era scomparsa. Non poteva essere stata una coincidenza.

Tuttavia, siccome i fantasmi non parlavano, era più plausibile che fosse stata opera del suo sesto senso e della sua macabra immaginazione, che avevano unito le forze creando il fantasma per avvisarlo dell’imminente pericolo. In tal caso, che diavolo aveva voluto dirgli il suo subconscio con le parole “Lui è qui”? Chi era quel “lui”? Cosa voleva? Perché?

Gli stava scoppiando la testa, così decise di darci un taglio e finire il pranzo. Magari era stato solo un episodio isolato. Infatti, da allora non aveva avuto nessun incontro ravvicinato con i morti e nessuna visione. D’accordo, l’incubo era tornato, ma per ora restava uno dei tanti parti della sua mente malata.

Passeggiando verso l’aula di Latino, Regan prese nota dell’atmosfera che aleggiava nei corridoi, talmente satura di paura e agitazione che non potevi fare due passi senza imbatterti in piagnistei, teorie di rapimenti alieni e sguardi cupi.

Charlotte non era venuta a scuola, com’era prevedibile. Approfittando della sua assenza, i ragazzi non si facevano problemi a infilarla in ogni conversazione. Alcuni addirittura la accusavano di aver orchestrato tutto per attirare su di sé i riflettori.

Anche se non si poteva ritenere la quindicenne responsabile, dal momento che i testimoni l’avevano collocata in piscina all’ora della presunta scomparsa di Teresa, era pur vero che se Charlotte non avesse organizzato la festa, Teresa non sarebbe scomparsa. Stando alle voci, proprio su questo i Meyers insistevano. Gli Wilson contrattaccavano dicendo che Teresa aveva scelto di andare alla festa, perciò era altrettanto responsabile.

Dopo le lezioni del pomeriggio, Regan optò per un’altra sosta in biblioteca. L’intenzione iniziale era quella di avvantaggiarsi con i compiti, ma presto si ritrovò immerso in una ricerca su fenomeni paranormali, l’interpretazione dei sogni e la simbologia relativa ai serpenti. Neanche a dirlo, si imbatté in una valanga di materiale, sia online che sui libri. Non gli sarebbe bastata una settimana per leggere tutto.

Si impose di sfogliare ogni singolo testo almeno una volta, focalizzandosi sulle voci dell’indice per appurare che ci fosse l’argomento che gli interessava. I testi inutili, benché alcuni fossero alquanto affascinanti, li accantonò senza esitare, perché non aveva tempo da perdere.

Lesse rapidamente di spiritismo, sogni, contatti con l’aldilà e cadde in una spirale ossessiva con i serpenti: a seconda delle mitologie e delle religioni nel mondo, i simboli a cui erano assimilati erano diversi, come la storia dietro la loro creazione, funzione e significato. Nonostante verificasse le fonti, scoprì che molte delle informazioni riportate si contraddicevano a vicenda. Questo non aiutava.

Tre ore dopo, la signora Milford venne al suo tavolo per avvisarlo con la sua voce nasale che la biblioteca avrebbe chiuso entro dieci minuti. Regan si segnò sul quaderno i titoli che lo avevano intrigato di più e quelli che non aveva ancora avuto tempo di guardare. Avrebbe fatto un salto alla biblioteca pubblica quel fine settimana per prenderli in prestito, dato che in quella scolastica non era permesso.

Quando raggiunse la bici nel parcheggio, notò che qualcuno aveva scritto con un pennarello rosso indelebile le parole “strambo”, “perdente” e “zombie” sul sellino e sul manubrio. Non ci voleva una laurea per capire chi era l’autore. Regan sospirò e roteò gli occhi. Poi tolse il lucchetto e pedalò verso casa come se nulla fosse.

A cena, di fronte a un piatto di lasagne fumanti, sua nonna gli chiese che cosa avesse.

“Una studentessa è scomparsa alla festa di Charlotte. A scuola hanno appeso volantini dappertutto.”

“Oh, sì. Ho sentito. In città non si parla d’altro. Tu come stai?”

Regan emise un verso interrogativo.

“Conoscevi Teresa Meyers?”

“No. Cioè, era qui alla veglia di suo cugino, se non sbaglio, ma non ci ho mai parlato.” biascicò.

“Non parlare a bocca piena.” lo rimproverò Deirdre di riflesso, per poi tornare a Teresa, “E come ti fa sentire la sua scomparsa?”

“Ehm… devastato, triste e deciso a ritrovarla?” rispose esitante.

“Lo stai chiedendo a me?”

“Non vedo nessun altro.”

“Regan.”

Regan fece spallucce, continuando a mangiare le sue lasagne. Erano squisite. Con la coda dell’occhio colse Deirdre assumere l’espressione dura di qualcuno in procinto di elargire una predica, che infatti giunse puntuale un attimo dopo.

“Comprendo la tua riluttanza ad interagire con il prossimo, credimi. Ma se vuoi inserirti nella comunità e smettere di essere etichettato come ‘il ragazzo strambo’, dovrai darti da fare.”

Regan giocherellò con un pezzo di lasagna nel piatto, spingendolo a destra e a sinistra con la forchetta. Tenne la testa bassa, gli occhi rassegnati fermi sulle ginocchia, mentre ascoltava la ramanzina.

“Perché non ti fai avanti e ti offri volontario per aiutare a spargere altri volantini in giro per la città? Perché non vai a trovare i Meyers e offri loro aiuto nelle faccende di casa e nelle commissioni? Saranno troppo impegnati a cercare la figlia per badare a loro stessi. Sono sicura che sarebbero grati se qualcuno gestisse questo tipo di mansioni al loro posto. Poi potranno dirti di no, che non c’è bisogno, ma almeno prenderanno atto della tua buona volontà e non si dimenticheranno della tua faccia, o della tua gentilezza.”

“Anche se non è genuina?”

Deirdre lo squadrò con sussiego: “Non ti ho forse insegnato a simulare le giuste emozioni?”

“Mentire è una fatica inutile, nonna. Perché devo disturbarmi a farlo? Risparmierei energie preziose se non facessi nulla.” si lamentò.

“Perché se non lo fai, la gente comincerà a guardarti ancora più storto. Non serve che ti dica quali potrebbero essere le conseguenze, già le conosci. Questa città, al pari della vicina Salem, è famosa per un motivo preciso, oltre al pesce di ottima qualità.”

Regan levò gli occhi al cielo. Sapeva che la nonna aveva ragione. Più volte gli aveva ribadito l’importanza di essere benvoluti dal prossimo, perché non sai mai quando potresti aver bisogno di alleati. Se Regan avesse seguito i suoi consigli, nessuno avrebbe mai sospettato di lui nel caso avesse perso di nuovo il controllo sulla sete.

Insabbiare un omicidio solo era un conto, coprirne altri era assai più difficile. Le persone non avrebbero esitato a puntare il dito e scegliere un capro espiatorio se un certo numero di corpi avesse iniziato ad apparire, proprio come era successo con le presunte streghe di Ashwood Port. Si sarebbe rinnovata la caccia. Allora soltanto coloro che avevano già un posto assicurato nella comunità si sarebbero salvati. Era una semplice tattica di sopravvivenza.

Regan ricordava vagamente un periodo in cui le emozioni fluivano libere in lui, in cui rideva e faceva le bizze senza alcun timore di cadere vittima di un impulso primitivo. Quei ricordi ora erano sfocati, così lontani ed estranei che era come se appartenessero a qualcun altro: un bambino da tempo morto e sepolto, digerito dal mostro che se lo era divorato. Al posto dei sogni, delle speranze e dei colori sgargianti dell’arcobaleno, dentro di lui c’era una pianura grigia, arida e desolata, sormontata da un cielo liquido, rosso come il sangue.

“Le emozioni sono il tuo tallone d’Achille. Sono un veleno che ti consumerà dall’interno in una lunga ed estenuante agonia. Se non te ne liberi subito, saranno la tua rovina.”

La voce della nonna gli rimbombò nelle orecchie con la stessa furia dei tuoni, scuotendolo sin nelle ossa. Quelle parole funzionavano come una sorta di collare elettrico, che rilasciava potenti e dolorose scariche se solo osava deviare dal cammino che gli era stato imposto.

Le sue spalle si rilassarono, la tensione nei muscoli si sciolse. Le preoccupazioni, la rabbia e l’ansia vennero spazzate via e rimpiazzate dal vuoto. In pochi istanti, riassunse il dominio su se stesso.

“Farò come desideri, nonna.” disse apatico.

Il sorriso dolce che gli scoccò Deirdre valeva lo sforzo che lei gli aveva chiesto.

Poe approfittò della loro guardia abbassata per saltare sul tavolo e rubare un pezzo di lasagna.

Il giorno dopo, Regan si trascinò svogliato fino al tavolo allestito dalle cheerleader, a ridosso del corridoio dell’ala est della scuola. Sopra c’erano volantini e cartelloni pieni di foto e biglietti per Teresa. Qualcuno aveva addirittura lasciato piccoli mazzi di fiori, come se fosse già morta e il tavolo fosse un altare in sua memoria.

Charlotte e Jennifer erano sedute ai lati del tavolo. Altre due ragazze stavano domandando loro se ci fossero novità. Charlotte era stravolta. Le occhiaie suggerivano che non dormiva da almeno due giorni e la sclera arrossata era sintomo di un’infiammazione, probabilmente dovuta alle lacrime.

Regan si fece avanti col magone, più per l’incombente interazione sociale che per una sincera preoccupazione per l’incolumità di Teresa. Si schiarì la gola. In un attimo, l’attenzione delle quattro ragazze piombò su di lui alla stregua di un macigno.

“Sì?” chiese Charlotte, lo stupore evidente sul viso di bambola, più pallido del normale.

“Volevo sapere se c’è qualcosa che posso fare. Per aiutare a trovare Teresa. O per la sua famiglia.”

“Oh. Beh… in realtà non ce n’è bisogno, abbiamo già fatto tutto il possibile. Il resto è nelle mani della polizia.” rispose lentamente Charlotte.

Regan osò incrociare i suoi occhi grandi e scuri. Inalò il suo odore, caramello e peperoncino, e si umettò le labbra, immaginando che sapore divino dovesse avere il suo sangue. Deglutì. Dopo aver accennato un assenso, si voltò, desideroso di allontanarsi.

La voce della cheerleader lo raggiunse inaspettata.

“Grazie.”

Lui si girò di tre quarti, spiazzato. Vide che si era alzata dalla sedia e lo fissava con un minuscolo sorriso. Jennifer e le altre due osservavano lo scambio con espressioni sbigottite.

“Nessun problema. Spero che venga ritrovata. Viva. E in salute.”

“Lo speriamo tutti.” gli disse e il sorriso si ampliò, “Grazie per esserti offerto, Regan.”

Regan strabuzzò le palpebre. Charlotte lo aveva appena chiamato per nome. Conosceva il suo nome. Cioè, ovvio che lo conoscesse, tutti lo conoscevano, ma era raro che lo chiamassero qualcosa di diverso da “zombie”, “strambo” o “McLaughlin”.

Venire considerato come qualcuno capace di gentilezza e ricambiato con altrettanto calore da una sua compagna gli suscitò una spiacevole sensazione a livello dello stomaco, una specie di nausea mista a contrazioni intestinali. Fu terribile.

“Prego.” gracchiò e fuggì verso l’aula di Matematica.

A fine giornata, venne a sapere dalle chiacchiere di corridoio che Charlotte era tornata a scuola solo perché la polizia aveva messo le mani sul secondo sospettato, cioè James, il fidanzato di Teresa. Anche lui aveva un alibi confermato, ma gli investigatori volevano battere il ferro finché era ancora caldo.

Durante la settimana, lo sceriffo Zimmermann e i coniugi Meyers vennero a scuola per interrogare gli studenti. Chiunque avesse informazioni da condividere venne ascoltato. Il punto era che, all’improvviso, tutti si professavano amici di Teresa, desiderosi di mostrare quanto erano affranti, quanto la tragedia li toccasse da vicino, quante visualizzazioni avessero i loro post sulle piattaforme social. Il liceo si trasformò in un patetico circo di disperati che elemosinavano attenzioni.

Uno dei pochi a restare indifferenti fu proprio Regan, a cui importava solo dei propri voti ed evitare l’ennesimo faccia a faccia con Charlotte. Dopo aver offerto il suo aiuto la prima volta, si era tenuto in disparte, evitando la neo-cheerleader come la peste. 

Venerdì il preside radunò tutti quanti in palestra dopo le lezioni e li invitò a collaborare ulteriormente con la polizia. Non divulgò dettagli sull’indagine, ma ormai era chiaro che Teresa non era scappata: era stata rapita. I sospettati erano più che altro gli studenti presenti alla festa di Charlotte, ma finora non era emerso nessuno con un movente.

Due settimane dopo, Regan era a un punto morto nelle sue ricerche e pieno di stress. Gregory e la sua banda si erano dati alla macchia, perciò non aveva più valvole di sfogo. Non si era mai reso conto dell’utilità delle loro colluttazioni. Era stato lui a suggerire che lo lasciassero in pace, ma ora se ne pentiva. Prendere a cazzotti qualcuno era maledettamente terapeutico.

Non ci fu più alcuna novità su Teresa. Era sparita nel nulla. Defunta, ripeteva una vocina nella sua testa. La polizia non aveva uno straccio di pista su cui lavorare, quindi il caso, per ora, restava un grosso punto interrogativo sulla scrivania di qualche sfortunato agente.

James era così distrutto che si prese una pausa dalla squadra, preferendo frequentare solo le necessarie lezioni per non restare indietro nel programma e ritagliarsi del tempo per stare accanto ai Meyers.

Le cheerleader erano in lutto. Per comunicare al mondo intero quanto fosse grande il loro dolore, crearono una pagina Facebook in onore di Teresa e decisero di indossare un nastro o un fermaglio nero fra i capelli. Presto, molti altri le presero a esempio e divenne una moda. Anche Regan venne scambiato per un seguace, dato che nel suo abbigliamento c’era sempre qualcosa di nero. Non gli sfuggirono le occhiate grate di Charlotte, come se la sua fosse stata una scelta conscia.

Alla fine del mese, come c’era da aspettarsi, l’argomento più discusso divenne la festa di Halloween organizzata dalla scuola. Nessuno menzionava più Teresa, tutti impegnati nei preparativi e nei progetti di allestimento della palestra, sebbene mancasse un bel po’ all’evento.

Le cheerleader smisero il nero e tornarono ai colori sgargianti. L’altare di Teresa venne rimosso. James fu riaccolto in squadra. Soltanto l’armadietto di Teresa esibiva ancora delle sue foto e dei biglietti da parte delle amiche, ma tutti gli altri ci passavano davanti senza fermarsi.

 
*

I primi di ottobre, la notizia che un nuovo studente si era trasferito nella loro scuola fece il giro delle classi in meno di un’ora. Erano solo le nove del mattino e Regan aveva la testa già talmente piena delle congetture dei suoi compagni che sentiva di stare per esplodere. D’accordo, era insolito che qualcuno si iscrivesse ad anno già iniziato al loro piccolo liceo, ma sembrava quasi che avrebbero ospitato il figlio del presidente! Tutto quel clamore era esagerato.

Regan stava percorrendo il corridoio in direzione dell’aula di Francese col naso immerso in un libro di mitologia norrena, più per intrattenimento che per una reale speranza di scovare un indizio sulla cosa che infestava i suoi incubi. Deirdre era ancora convinta che fossero presagi di morte.

Poiché era troppo occupato a leggere per badare a dove metteva i piedi, andò spesso a sbattere contro altri studenti, attirando su di sé imprecazioni o squittii spaventati. Distratto com’era, non si premurò nemmeno di chiedere scusa o alzare gli occhi dalle pagine.

Giunto a destinazione, si sedette al solito banco, contento nel confermare che quelli più prossimi erano vuoti. Tirò fuori il quaderno e le penne e nascose il libro di mitologia tra le ginocchia, con tutta l’intenzione di seguitare a sfogliarlo mentre fingeva di prendere appunti. Tanto si era già portato avanti col programma.

A metà lezione, la porta della classe si aprì. La professoressa si interruppe nel bel mezzo di una frase sulla coniugazione dei verbi e tutti si girarono verso il ragazzo che sostava insicuro sulla soglia.

“Permesso?”

“Oh, tu devi essere Roman. Prego, entra.” Miss Rochelle lo invitò a raggiungerla con un gesto della mano e un sorriso cordiale.

Il ragazzo entrò, scandagliando gli studenti con un’occhiata veloce. Regan lo vide dilatare le narici, come se stesse annusando la stanza.

“Lui è Roman Sinclair, da New York. È al secondo anno, ma frequenterà lo stesso questo corso per recuperare dei crediti. Siate gentili e aiutatelo se è in difficoltà.” disse, poi si rivolse a Roman, “Vuoi dire qualcosa?”

“Piacere di conoscervi. Sono Roman e vengo da New York.”

La classe rimase in silenzio ad aspettare il seguito col fiato sospeso, ma non giunse mai. Allora, la maggior parte degli alunni eruppero in risolini divertiti. Roman non represse un ghigno sardonico, segno che quella risposta era stata studiata in anticipo per sciogliere il ghiaccio. Infatti, Miss Rochelle non si offese e lo spedì a sedersi a un banco vuoto accanto a Regan.

Regan lo osservò avvicinarsi col cuore in gola, provando l’insolito, impellente e disperato bisogno di tracciare una linea di confine sul pavimento intorno a sé per marcare il territorio. Non stette a interrogarsi sul motivo di tale impulso, preferendo rimanere rigido come una statua e impegnarsi a emanare un’aura distaccata. Nonostante gli sforzi, non poté esimersi dal fargli la radiografia.

Indossava semplici pantaloni neri, All Star rosse e una giacca di jeans sopra una t-shirt bianca, stirata sui pettorali. Era alto e snello, ma non allampanato. Aveva le spalle larghe da nuotatore e capelli lisci biondo scuro, pettinati con la riga di lato. Un ciuffo gli ricadeva sulla parte destra del viso. Gli occhi azzurri avevano una bella forma, il naso era dritto, le labbra molto sottili e la mascella squadrata.

Regan avrebbe scommesso una razione mensile di sangue che, entro la settimana successiva, Roman sarebbe stato rapito dai popolari e reclutato tra i loro ranghi. Con un fisico come il suo, poi, sicuramente era uno sportivo.

Roman si accomodò al banco designato e si voltò verso Regan. Questi notò le sue narici dilatarsi di nuovo e lo udì inspirare lievemente. Si chiese se puzzasse. Non avrebbe dovuto, perché quella mattina si era fatto la doccia come al solito. Si stizzì comunque, pensando che era da maleducati annusare le persone. Ignorò la vocina nella sua testa che gli stava dando dell’ipocrita e assottigliò minaccioso le palpebre.

A quel punto, realizzò con orrore che la scena era pericolosamente simile a quella di Twilight, anche se lui non era una delicata fanciulla e Roman non era pallido o inquietante come Edward. Se per un qualche fortuito caso, in un ipotetico futuro, avesse cominciato a fiutare l’olezzo di sentimenti romantici, avrebbe staccato la testa di Roman a mani nude e usato il suo cranio come portapenne.

Una ruga verticale comparve sulla fronte di Roman, in mezzo alle sopracciglia. Le sue palpebre si assottigliarono e il capo si inclinò a sinistra, come farebbe un animale in preda a una confusa diffidenza. Poi allungò una mano e rinnovò il sorriso.

“Ciao. Io sono Roman.”

Regan fissò la sua mano come se al posto delle dita ci fossero serpenti velenosi. Deglutì e, involontariamente, inspirò a sua volta. Quando gli giunse alle narici una zaffata del tipico odore di cane bagnato, si trattenne a stento dal fare una smorfia.

“Regan.” mormorò cupo.

“In realtà, ci siamo già incontrati. O meglio, scontrati.” disse Roman con un sorriso sghembo, a bassa voce, “Mi sei venuto addosso poco fa. Stavi leggendo e non ti sei accorto che ero lì…”

“Ah.”

Si aspettava forse delle scuse? Illuso.

Roman piegò ancora la testa, stavolta dal lato opposto, e gli sorrise, ma con una punta in più di incertezza. Capendo che non avrebbe ottenuto nulla da Regan, salvo uno sguardo seccato, estrasse un quaderno dallo zaino, prese una penna dall’astuccio e puntò l’attenzione sulla lavagna, senza insistere o elargirgli ulteriori briciole di interessamento.

Regan avrebbe voluto fare una piccola danza della vittoria per essere riuscito a scoraggiarlo in appena una manciata di secondi. Era un record. Ma, memore dei suggerimenti della nonna, trascorse il resto della lezione a valutare con estrema riluttanza i pro e i contro di farsi amico il nuovo arrivato.

L’unica nota a favore era che Roman era, appunto, nuovo. Ergo, c’era la concreta possibilità che non avesse ancora sentito le voci che circolavano su Regan e perciò era privo di qualsivoglia pregiudizio nei suoi confronti.

Tra i contro c’era il suo aspetto piacente, che di sicuro avrebbe attirato le cheerleader come api sul miele, e il fatto che era uno sportivo. Presto si sarebbe iscritto o a football o a basket e, circondato da coetanei capaci di ridere e scherzare, avrebbe realizzato che stare con Regan era noioso e lo avrebbe scaricato.

“Vogliamo che tu ti inserisca nella comunità, che diventi un cittadino modello. Se ci riuscirai, se formerai alleanze dietro il pretesto dell’amicizia, sarai al riparo da qualsiasi sospetto.”

Le parole di sua nonna gli riecheggiarono nel cervello, ricordandogli la missione. Digrignò i denti, stritolò la matita nel palmo e trasse un profondo respiro, racimolando tutta la convinzione che aveva. Ovvero, non molta. Gli sarebbe venuta una sincope.

“Roman.”

Il ragazzo sollevò di scatto gli occhi limpidi dal quaderno e li fissò nei suoi.

“Mh?” mugugnò sorpreso.

“Ti va di fare un giro della scuola? Dopo i corsi, cioè… se non hai altri impegni.” bisbigliò, cercando di tenere a bada il dolore fisico che gli suscitava tutta quella situazione.

Roman gli sorrise. Regan lo rimpiazzò subito con l’immagine di un cucciolo scodinzolante.

“Mi farebbe molto piacere. Grazie.”

La campanella suonò e gli studenti si affrettarono a riporre i libri negli zaini, mentre Miss Rochelle elencava i compiti a velocità supersonica.

“Cos’hai adesso?” indagò Regan.

Era ansioso di separarsi da Roman, per timore che venisse rapito dai popolari non appena lo avesse perso di vista, distruggendo qualsiasi chance di farselo amico.

“Algebra.”

Le sue spalle si afflosciarono: “Oh. Già, sei al secondo anno.”

“Ci possiamo vedere a pranzo in mensa, se vuoi.” propose Roman.

Regan esitò. La mensa non era il suo posto preferito. Anzi, era l’anticamera dell’inferno. Ma per il suo nuovo potenziale amico poteva fare qualche sacrificio.

“A che ora hai la pausa?”

“Primo turno. Tu?”

“Anch’io.”

Roman gli sorrise ancora e lo salutò con un cenno del capo. Fuori dalla classe si divisero, ognuno andando per la propria strada.

All’ora di pranzo, Regan si diresse verso la mensa come un condannato alla sedia elettrica. C’erano persone ovunque. Persone rumorose, che appestavano l’aria con i loro odori mischiati, creando un miasma tossico e nauseante di varie marche di dopobarba, sudore, puzzo di piedi e profumi dalle note floreali. Senza contare il tanfo di fritto o stantio emanato dal cibo sui vassoi.

Per conservare una parvenza di sanità mentale ed evitare di commettere azioni impulsive, tipo un omicidio di massa, sulla mera base di un cattivo odore, Regan decise di respirare con la bocca finché si trovava nei pressi della mensa. Per tale ragione si perse la scia di cane bagnato in avvicinamento alla sua sinistra.

“Regan!”

Sussultò sul posto. Voltandosi, si trovò faccia a faccia con Roman e il suo sorriso accecante.

“Ciao.” lo salutò laconico.

Qualcosa dovette tradire la sua ansia, perché Roman mutò completamente espressione. Oltre a inspirare lievemente, lo fissò dapprima confuso, poi dubbioso e infine comprensivo.

“Ho un panino nello zaino, perciò non ho bisogno di entrare in mensa. Tu?”

“Anch’io.”

“Bene. Che ne dici di trovare un posto più tranquillo? E nel frattempo mi fai di Cicerone.”

Regan annuì, rischiando di strapparsi un paio di vertebre per la velocità con cui mosse la testa.

Diedero le spalle alla mensa, desiderosi di allontanarsi il più possibile dalla bolgia. Non fecero in tempo ad avanzare più di tre passi prima di venire fermati da una voce familiare.

“Roman! Non sapevo che avessi anche tu il primo turno.” esclamò Charlotte sbarrandogli il cammino, un sorriso gioviale sul viso di bambola.

I capelli castani e lisci le ricadevano sulle spalle in una cascata serica, che sprigionava un vago profumo di caramello. Indossava una camicetta bianca con sopra un golfino rosso attillato e una minigonna di jeans che le lasciava esposte le gambe magre, infilate in un paio di stivaletti pelosi.

Jennifer la tallonava da dietro, più timida, con un rossore eloquente a tingerle le guance. Il maglione color panna, di almeno quattro taglie più grande, le arrivava a metà coscia, mentre i jeans e le scarpe da ginnastica le conferivano un’aura da ragazza normale, non schiava della moda come la sua amica. Spiò Roman da sotto le ciglia per valutare la sua reazione, o forse per memorizzare ogni singola curva dei suoi pettorali. Poi distolse lo sguardo avvampando e cominciò a giocherellare con una ciocca bionda.

“Charlotte, ciao. Jennifer.” Roman le elargì un lieve cenno del capo in saluto, “Sì, ho il primo turno.”

Regan imprecò internamente nel vedere esaudite le sue paure. Ma come aveva fatto Roman a conoscere le due cheerleader? Entrambe, come Regan, erano al primo anno, perciò non potevano avere corsi insieme. Francese era un caso a parte, per quella storia dei crediti da recuperare, ed era un corso facoltativo. Possibile che tre misere ore fossero state sufficienti ai popolari per mettere le grinfie sul nuovo arrivato?

“Fantastico! Perché non ti siedi al nostro tavolo? I ragazzi saranno felici di conoscerti.” propose Charlotte.

“Ehm…” Roman lanciò un’occhiata a Regan, che osservava il vuoto con aria incredibilmente neutra, “Grazie, ma ho già appuntamento con Regan per fare un tour della scuola. Per oggi passo.”

Solo allora Charlotte parve registrare la presenza di Regan. Sobbalzò e squittì, quasi avesse ricevuto una scossa elettrica. Represse una risatina impacciata sotto la mano e, con gli occhi sgranati, lo guardò come di solito si guarda un animale esotico.

“Ciao, Regan. Non ti avevo visto.”

Il ragazzo assottigliò appena le palpebre e grugnì.

“Come stai?”

“Così.”

“Okay. Non volevo interrompervi nel vostro tour. Vi dispiace se io e Jen ci aggreghiamo? Abbiamo già le nostre insalate nelle borse.”

“Oh. Per me va bene.” accettò Roman, “Regan?”

Regan emise un altro grugnito.

“Non vogliamo intrometterci.” si affrettò a dire Charlotte.

Studiò cauta la faccia funerea di Regan, per capire se fosse arrabbiato. Ma quella era la sua faccia in qualsiasi occasione, perciò era difficile arguire cosa stesse pensando.

Regan si girò a fronteggiare Roman, le iridi di un azzurro metallico gelide come ghiacciai artici.

“Quella è la mensa.” borbottò annoiato, indicando con un dito l’area piena di tavoli, “Questo è il corridoio. Lì ci sono le aule. Di là altri corridoi e altre aule. Laggiù c’è il bagno. La biblioteca è da quella parte. Se ti affacci da quella finestra, puoi vedere il campo esterno e la palestra. In fondo a quest’altro corridoio c’è l’aula di musica. Poco più avanti, quella di arte. Il teatro è al piano di sotto. Presumo tu sappia già dove stanno la segreteria e la presidenza. È tutto.”

Roman lo fissò a bocca aperta, imitato dalle due ragazze. Passarono dieci secondi di silenzio, poi scoppiò a ridere di gusto. Gli si avvicinò per assestargli una poderosa pacca sulla schiena e lo abbracciò di lato, incurante della sua rigidità.

“Sei simpatico! Mi piaci!”

“Non volevo essere divertente.” mormorò costipato.

Roman si abbandonò ancora alle risate, seguito, seppur in modo più moderato, da Jennifer e Charlotte.

“Ora che ho il tour completo, andiamo a mangiare. Che ne dici di sederci sulle gradinate a bordo campo?”

Regan scrollò una spalla. Il cielo era terso e la temperatura mite, stare all’aperto non sarebbe stato spiacevole.

Il gruppetto si incamminò verso l’uscita, Roman e Regan in testa e le due ragazze subito dietro. Salirono sugli spalti del campo esterno, diretti a una delle file in cima. Il campo era vuoto a quell’ora, ma sulle gradinate c’erano studenti che mangiavano, chiacchieravano o leggevano.

Una lieve brezza accarezzava il prato e faceva stormire le fronde degli alberi che delimitavano il confine del bosco, a circa duecento metri di distanza. Il sole splendeva nel cielo limpido e i richiami dei gabbiani saturavano l’aria salmastra. La quiete aleggiava ovunque e Regan se ne riempì i polmoni.

Un attimo dopo, vide Jennifer prendere la rincorsa e piazzarsi sul seggiolino alla destra di Roman. Charlotte si sedette accanto a lei, mentre Regan, con molta più calma, prese posto alla sinistra di Roman. Tutti estrassero dagli zaini il proprio pranzo e, tra un morso e l’altro, le due amiche costrinsero Roman a subire un serrato interrogatorio.

“Allora… New York, eh?” esordì Charlotte.

“Sì. O meglio, Brooklyn.”

“Cosa ti ha portato nella nostra ‘rinomata’ cittadina? Hai per caso un’insana passione per il pesce?”

Roman ridacchiò: “No, i miei volevano solo cambiare aria. Non so perché abbiano scelto Ashwood Port, ma mi sta bene. Finora mi piace.”

“Perché vi siete trasferiti proprio adesso e non all’inizio dell’anno scolastico?”

“Ci è voluto parecchio per organizzare il trasloco.”

“Sei figlio unico?” domandò Jennifer, più rilassata ora che Charlotte aveva rotto il ghiaccio.

“No, ho un fratello maggiore, Declan.”

“Cosa fa?”

“Studia alla Columbia. Adesso si sta specializzando in Storia dell’Arte.”

“È un artista?”

“No.”

“Ah.”

Jennifer ridacchiò nervosa e si scervellò per trovare qualcosa di intelligente da dire. Una missione pressoché impossibile, a modesto parere di Regan.

“I vostri nomi fanno rima!” realizzò la ragazza e lo disse come se avesse appena fatto la scoperta del secolo.

“Già, a mia madre piaceva l’idea. Era Roman e Declan, o Dustin e Quentin. Ci è andata bene.”

Le ragazze scoppiarono a ridere. Pure Regan abbozzò un sorriso divertito, che svanì non appena si rese conto che anche il proprio nome faceva rima con quello di Roman. Non solo: stesso numero di lettere e stessa iniziale. Storse le labbra in una smorfia schifata.

“Vivi da solo con i tuoi genitori?” chiese Jennifer.

“Con noi vivono anche i miei zii e cugini. Mia zia Ruby è la sorella minore di mia madre. Poi c’è suo marito Sean e i loro figli, Trevor e Nina, di rispettivamente otto e sei anni. Oggi è il loro primo giorno alle elementari di Ashwood Port, come lo è per me qui al liceo.”

“Oh, che teneri!”

Regan avrebbe voluto sbattere la testa da qualche parte o asportarsi i timpani pur di non udire più la sua voce squillante di Jennifer. Doveva discendere da una qualche irriducibile stirpe di scimmie urlatrici, era l’unica spiegazione.

“Che lavoro fanno i tuoi?”

“Mio padre è un avvocato. Mia madre è… una consulente.”

“Consulente per cosa?”

“Un po’ di questo, un po’ di quello.” rispose vago Roman.

“Okay.” Jennifer non insisté, anche se moriva dalla voglia di soddisfare la curiosità e imparare quanti più dettagli possibili sul ragazzo, “E i tuoi zii?”

“Liberi professionisti.”

“Ah.”

“Ti manca Brooklyn?” intervenne Charlotte, cercando di mantenere viva la conversazione.

“Non molto. Troppo rumore e traffico. Però mi mancano gli amici della mia vecchia scuola.”

“Te ne farai subito degli altri, non preoccuparti.”

“Ho già cominciato.” disse Roman, scoccando un’occhiata all’indirizzo di Regan, che si stava fissando le scarpe mentre sbocconcellava distratto il suo panino.

Notandolo, Jennifer si corrucciò e serrò le labbra in una smorfia scontenta. Quando l’amica le tirò una gomitata nel fianco, tornò a sorridere.

“Dove vivi, Roman?”

“Nella parte sud, vicino al bosco. Dato che siamo in otto, ci serviva una casa grande.”

“Mi piacerebbe vederla.” butto lì con un sorriso timido.

“Un giorno vi inviterò.” rispose il ragazzo, usando volontariamente il plurale.

“Hai un cane?” domandò di getto Regan, interrompendo le due compagne.

“No. Perché?”

“Puzzi di cane bagnato.”

“Regan!” squittì Charlotte, indignandosi al posto di Roman.

Roman si irrigidì. Sembrò soppesarlo intensamente con lo sguardo, come se cercasse qualcosa di preciso. Inspirò a fondo un paio di volte, addirittura, sporgendosi verso di lui. Poi scrollò la testa con aria confusa e rinnovò il sorriso.

“Tranquilla, Charlotte, non mi sono offeso.” le disse pacato, “Non ti piacciono i cani, Regan?”

“Dipende dalle razze. Preferisco di gran lunga i gatti.”

“Hai animali?”

“Quando ero piccola, avevo un criceto.” rispose in fretta Charlotte, impaziente di ricondurre l’attenzione di Roman su di sé e su Jennifer, “Jen ha un pesce rosso”.

“Eh… okay.” annuì Roman e curvò le labbra in un sorriso forzato, “Tu, Regan?”

“Ho un gatto. Poe.”

“Come Edgar Allan Poe?”

“Sì.”

“Troppo inquietante per i miei gusti. Lo scrittore, intendo. Sei figlio unico?”

“Sì.”

“Che lavoro fanno i tuoi genitori?”

“Non li ho mai conosciuti. Mia madre è stata assassinata durante il parto e non so chi sia mio padre. Sono cresciuto con Deirdre, che io chiamo ‘nonna’ anche se non abbiamo legami di sangue e non è vecchia come una nonna. Era la vicina di mia madre, viveva nell’appartamento accanto al suo all’epoca, quando abitava in un condominio in periferia. È stata lei a tirarmi fuori dalla pancia di mia madre mentre esalava l’ultimo respiro. Ha usato un coltello da cucina. Poi mi ha adottato e ci siamo trasferiti dove stiamo ora.”

Un silenzio di tomba calò sul gruppetto. Pallide come spettri, Charlotte e Jennifer fissavano Regan con palese shock, evidentemente ignare di quella parte della sua vita. Roman era a dir poco sconcertato.

“Sei serio?!” indagò Charlotte.

“Non è un segreto.” rispose Regan con una scrollata di spalle.

“Hanno mai preso il colpevole?” chiese Roman.

“No. Il caso è stato archiviato.”

“Oh. Wow.” mormorò, per poi fare una smorfia di fronte alla propria mancanza di tatto.

Charlotte e Jennifer ebbero una silenziosa discussione tramite occhiatacce. Quando la prima spintonò leggermente l’altra per incoraggiarla, Jennifer raddrizzò la schiena e avvolse tra le mani un braccio di Roman. Era a un passo dallo spalmarsi su di lui come il burro sul toast.

“Quale sport sceglierai, Roman?”

“Eh?” farfugliò, preso in contropiede al repentino cambio di argomento.

“Sei uno sportivo, è evidente.”

“Praticavo nuoto alla mia vecchia scuola, ma ho visto che qui non avete la piscina. Menomale che non disdegno il basket.”

“Ti ci vedo bene. Sei alto e scommetto che sei agile.”

“Eh…”

“Hai già visitato la città?” domandò Charlotte.

“No.”

“E Salem?”

“Ehm…”

“Devi assolutamente vederla! È a mezzora di autobus da qui.”

Roman si grattò il mento, valutando l’idea: “Perché no?”

“Perfetto! Che ne dici di sabato?”

“Certo. Regan, tu che fai?”

“Vuoi che venga?” biascicò, senza curarsi di nascondere il genuino stupore, perché finora nessuno lo aveva mai invitato a uscire, anche solo per un gelato.

“Mi farebbe piacere, ma non sei obbligato. Se hai altri impegni, sarà per la prossima volta.”

Jennifer si sporse dietro Roman, sventolò una mano per attirare l’attenzione di Regan e, una volta ottenutala, iniziò a contorcere i muscoli del viso in buffe espressioni. Sembrava quasi che stesse tentando di comunicargli qualcosa.

Regan inarcò un sopracciglio e Jennifer, arresa, assottigliò le palpebre per trafiggerlo con un’occhiata raggelante. Allora, Regan afferrò il messaggio. E decise di fare il contrario.

“Andata. Ci sarò.” disse, stirando le labbra in un sorriso radioso.

“Bene. Voi siete d’accordo, vero?” fece Roman alle ragazze, ignaro della lotta di sguardi.

“Come no! Sarà divertente!” trillò Charlotte, annuendo con forse un po’ troppa enfasi.

“Ci scambiamo i numeri per tenerci in contatto?”

“Ottima idea! Jen, va’ prima tu.” la esortò Charlotte.

La bionda prese il cellulare di Roman e memorizzò il suo numero. Dopodiché fu il turno di Charlotte e, infine, di Regan.

Roman rinfoderò il cellulare nella tasca dei jeans ed elargì un caldo sorriso a Regan: “Hey, che ne dici se-”

Venne interrotto dalla campanella che annunciava l’inizio delle lezioni pomeridiane. Si alzarono tutti, raccolsero i rifiuti e corsero giù dagli spalti per raggiungere le rispettive aule.

“Ci vediamo dopo, Roman!” salutò Charlotte, “Regan.” aggiunse esitante.

In risposta ottenne un grugnito. La mora sbuffò una risata nervosa e li salutò con la mano, trascinandosi dietro una riluttante Jennifer. I due ragazzi rimasero soli.

“A che ora finisci?” domandò Roman.

“Ho solo Latino.”

“Oh. Beh, suppongo che sopravvivrò fino a domani senza il mio Cicerone.” scherzò, “Grazie della compagnia, Regan.”

“Uhm.”

“Sai, questo atteggiamento da cavernicolo ti dona.”

“È un talento naturale.”

Roman abbaiò una risata e gli batté una pacca amichevole sulla spalla.

“A domani!” gridò correndo lungo il corridoio.

Non appena sparì dietro l’angolo, Regan rilasciò un sospiro esausto. Rovistò nello zaino in cerca della borraccia e trangugiò d’un fiato metà del contenuto. Il sapore dolce del sangue gli esplose in gola, rinvigorendolo.

Mentre camminava in direzione della classe di Latino, si ritrovò ad annusare la propria felpa: una vaga puzza di cane bagnato aveva impregnato la stoffa.

 
*

Il seminterrato di casa McLaughlin, il cuore dell’agenzia di pompe funebri, era illuminato solo da tre lampade al neon che pendevano dal soffitto. Non c’erano finestre o altri accessi all’esterno, salvo per una porticina che conduceva al cortile sul retro.

Dando le spalle alle scale, percorrendo il corridoio sulla sinistra, si arrivava alla camera della veglia funebre. Era una saletta di tre metri per quattro, arredata con carta da parati color acquamarina e parquet in legno di betulla. Due tavoli, su cui di solito veniva allestito il rinfresco, contornavano l’entrata. Una cinquantina di sedie pieghevoli di plastica erano disposte in due blocchi ordinati, separati nel mezzo in modo da lasciare libero il passaggio.

Le dimensioni modeste della sala incoraggiavano un’atmosfera raccolta, resa ancora più confortevole una volta riempiti i vasi con i fiori scelti dalla famiglia del defunto. Allora si trasformava in una sorta di facsimile della navata di una chiesa durante un matrimonio. C’era pure un pianoforte a muro, anche se veniva usato raramente.

Il corridoio sulla destra conduceva, invece, alla stanza delle imbalsamazioni, dove Deirdre trascorreva la maggior parte del suo tempo. Accanto alla cella frigorifera c’erano quattro nicchie incassate nella parete, in cui Deirdre riponeva i corpi che dovevano essere preparati. Quelli meno urgenti andavano nella cella, in attesa che i familiari decidessero tra cremazione o sepoltura. Sugli sportelli delle nicchie tre delle targhette erano vuote, mentre la quarta mostrava il nome dell’ultima ospite, Hailey Tucker.

Il muro di fronte al tavolo operatorio era coperto da due armadi contenenti gli arnesi del mestiere e da un grosso forno crematorio. Lungo quello opposto c’era un ripiano di metallo, sul quale erano ammucchiate bacinelle, bisturi, forbici, bilance, asciugamani, sapone e cosmetici. L’abito che avrebbe indossato Hailey nella bara era ripiegato sul bordo del lavandino.

Il fantasma di Hailey se ne stava in piedi davanti al forno crematorio, di spalle al tavolo, vestita con una camicia da notte sporca di sangue.

La radio sulla mensola vicino all’entrata stava riproducendo un brano di Robert Johnson, Me And The Devil Blues, riempiendo il silenzio con melodiosi accordi di chitarra.

Deirdre mugugnava le parole della canzone fuori tempo, scandendo il ritmo con un piede. Il grembiule impermeabile le fasciava le curve sopra il vestito color pervinca. I capelli erano raccolti sotto una cuffietta rosa.Le sue mani, infilate in spessi guanti di lattice, si immersero di nuovo nel cadavere adagiato sul tavolo e ne uscirono stringendo il fegato, che venne posato dentro una bacinella sul ripiano dietro di lei, accanto agli altri organi.

La porta principale si aprì e chiuse con un tonfo secco, avvisandola del rientro di Regan da scuola.

“Nonna!”

“Sono di sotto!”

I passi di Regan si avvicinarono alla porta del seminterrato e si abbatterono sui gradini di legno. Quando emerse nella stanza dell’imbalsamazione, sbadigliò e le rivolse un sorriso stanco. Poe era acciambellato sulle sue spalle a mo’ di sciarpa, la coda a penzoloni sullo sterno del ragazzo e la testa premuta sul lato destro della sua gola. Deirdre poteva udire le sue fusa fin da lì.

“Com’è andata a scuola?”

“C’è un nuovo studente, da New York. Ci ho stretto amicizia.”

Deirdre si pietrificò e guardò il nipote con occhi fuori dalle orbite. Appurato che non stesse scherzando, le sue labbra si stirarono in sorriso fiero.

“Sono così felice, leprotto! E dimmi, come si chiama? Perché si è trasferito in questo periodo dell’anno? Coraggio, raccontami tutto.” lo esortò, avida di pettegolezzi.

“Si chiama… aspetta, come mai stai praticando l’autopsia su quella donna?”

“Sto collaborando con la polizia. Hillary mi ha chiesto di occuparmene, perché quelli dell’obitorio sono degli incompetenti, a sentire lei.”

Hillary Zimmermann era lo sceriffo, eletta con consenso unanime sei anni addietro. Lei e Deirdre si erano conosciute durante le indagini relative al decesso di Shannon Tally, la madre biologica di Regan. All’epoca, Hillary era da poco entrata nelle forze dell’ordine. Successivamente, aveva aiutato Deirdre a stilare le pratiche per l’adozione evitando i cavilli legali più insidiosi, inaugurando così una lunga amicizia. Veniva a cena da loro almeno una volta al mese da che Regan avesse memoria.

Hillary non era al corrente della natura vampira di Regan, come neanche dell’abilità sua e di Deirdre di vedere i fantasmi. Deirdre si era premurata di tenerla all’oscuro del mondo sovrannaturale, perché Hillary, testarda come un mulo, realista e atea, non accettava nulla che non potesse vedere e toccare. Perciò era meglio che non sapesse cosa si celava sotto il suo naso. Le persone come lei tendevano ad avere gravi crolli psicologici se poste di fronte a una realtà che ribaltava tutti i pilastri precedentemente eretti.

“A proposito, è da un po’ che non viene a trovarci. L’ultima volta è stato per il mio compleanno, ad agosto. L’ho vista a scuola qualche settimana fa, quando è venuta con i Meyers a parlare di Teresa, ma da allora niente.”

“Mi ha detto di essere molto impegnata col lavoro. Sembra che l’indice di criminalità sia salito, anche se non ai livelli delle grandi metropoli.”

“Cosa intendi?”

Deirdre finì di ricucire lo squarcio sullo sterno del cadavere e tagliò il filo avanzato con le forbici.

“Furti, ubriachezza molesta, disturbo della quiete pubblica, risse. Ogni giorno ne capita una e sono a corto di personale, così Hillary è costretta a fare i doppi turni.”

Regan mugugnò assente e si focalizzò su Hailey Tucker. Dai lisci e lunghi capelli castani, passando per i seni piccoli e sodi, separati nel mezzo da una colonna di freschi punti di sutura, per finire con il ciuffetto di peli pubici fra le gambe ossute, i suoi occhi percorsero ogni centimetro visibile di quel corpo, senza tradire alcuna emozione. I lividi spiccavano sulla sua pelle alla stregua di macchie d’inchiostro su una tela bianca. Gettò un’occhiata stranita al suo fantasma e alla camicia da notte sporca di sangue e si accigliò.

“Che le è successo?”

“Pare che questa poverina si sia uccisa. Impiccata, per l’esattezza. Vedi qui, sul collo, questa leggera gobbetta? Era spezzato. Ciò che ha allarmato Hillary, però, sono i lividi a forma di mano o causati da un corpo contundente che costellano il suo corpo. Dato che il marito si dichiara innocente e non hanno prove o testimoni per incastrarlo, non possono arrestarlo per violenza domestica.”

“E tu come speri di trovarle?”

“Sugli avambracci mostra ferite da difesa. Forse sotto le sue unghie è rimasto del DNA, oppure la misura dei lividi corrisponde a quella della mano del marito. Beh, mi hanno solo incaricata di fare un controllo e stilare un rapporto. E dal momento che la famiglia ha già richiesto i nostri servizi per il funerale, non vedo perché no. Finisco di appuntare gli ultimi dettagli dell’autopsia, poi la imbalsamo per bene. Già che sei qui, potresti pesare gli organi e scrivere i valori su quel foglio? Non dimenticare i guanti.”

“Hai già fatto le analisi del sangue?” indagò mentre indossava i guanti di lattice.

“Almeno quelle gliele hanno fatte all’ospedale, ed è risultata pulita. Ma io sto ancora aspettando di sapere qualcosa sulla nuova matricola.”

“Non è una matricola, è al secondo anno. Si chiama Roman Sinclair.”

“Che lavoro fanno i suoi genitori?”

“Lui è avvocato, lei una consulente di qualche tipo.”

“Mmm…”

Deirdre non elaborò i suoi pensieri. Quando e se avesse voluto condividerli, lo avrebbe fatto. Così Regan lasciò cadere l’argomento e si concentrò sul suo compito.

Terminato di pesare gli organi, buttò i guanti nel cestino sotto al tavolo e scrisse i dati raccolti nel referto della vittima. Quindi afferrò la macchina fotografica e scattò delle foto da più angolazioni, nel caso la polizia ne avesse avuto bisogno. Nel referto c’erano già i risultati tossicologici, perciò, d’ora in avanti, gli organi non sarebbero più stati di alcuna utilità.

Scambiò un’occhiata eloquente con Poe, ancora appollaiato sulle sue spalle. Il gatto strusciò una guancia sulla sua miagolando e, dopo aver ricevuto un buffetto sul naso, saltò sul tavolo senza perdere altro tempo. Regan lo lasciò a smangiucchiare fegato e reni, le sue parti preferite.

Quando la radio diffuse l’ennesimo pezzo blues, Regan grugnì esasperato.

“Perché ascolti sempre questa roba mentre lavori?”

“Robert Johnson è un dio, ignorante di un nipote. Un giorno imparerai ad apprezzarlo. Vieni qui, devo drenare il sangue e imbalsamare le arterie, mi serve una mano.”

“Hai già cucito la bocca?”

“E incollato le palpebre e depilato il viso, sì. Mi hai presa per una dilettante?”

Mentre Deirdre iniettava formaldeide mista ad altre sostanze chimiche nelle arterie del cadavere, Regan incise quella femorale per drenare il sangue, che si raccolse in una bacinella di metallo. L’odore ferroso gli stuzzicò le narici. Aveva un retrogusto stantio. Non provò alcun desiderio di assaggiarlo, e non solo per il sapore amaro che avrebbe avuto. Bere il sangue di un morto era praticamente uguale a ingerire un bicchiere di varechina. Non sarebbe finito all’altro mondo, ma la gastrite non gliel’avrebbe risparmiata nessuno.

“Comunque, Roman mi ha preso in simpatia, per qualche ragione a me oscura. Sembra il classico bravo ragazzo, gentile e carismatico. Ha già degli ammiratori. Sabato esco con lui, Charlotte Wilson e Jennifer Dawry. Lo portiamo a Salem.” disse, riprendendo il discorso da dove lo aveva interrotto.

“Ottimo lavoro, leprotto. Sono sicura che se saprai giocare bene le tue carte, in men che non si dica ti ritroverai inserito con successo nel club dei cittadini modello. Cerca anche di limitare i tuoi tic, se puoi. Ed evita le minacce di morte e violenza fisica. Sorridi e comportati da persona normale.”

“E se fallissi?”

Quando ci riuscirai,” lo corresse sua nonna, “e quando avrai imparato a controllare i tuoi impulsi alla perfezione, allora potrai concederti di nuovo il lusso della caccia. Prendilo come un incentivo a fare del tuo meglio.”

Regan trattenne il fiato e fissò Deirdre con un luccichio famelico nelle iridi di ghiaccio. Lei gli scoccò un sorriso complice e gli fece l’occhiolino.

Poe balzò sul tavolo e si sedette sulle gambe del cadavere, per poi iniziare a ripulirsi il pelo dai rimasugli di carne e sangue con rapide leccatine.

In sottofondo, la voce di Robert Johnson continuava a riempire il silenzio assieme melodiosi accordi di chitarra.

 
*

Intorno alle cinque del pomeriggio, Roman parcheggiò la macchina nel vialetto, accanto alla BMW di suo padre e alla Toyota dei suoi zii. Spense il motore, scese e, in quattro falcate, raggiunse la porta della villa.

Era un edificio spazioso a due piani, più una soffitta e un seminterrato. Al pian terreno c’erano la cucina, il salotto, la biblioteca, una camera per gli ospiti e un bagno; al secondo c’erano cinque camere e tre bagni. L’architettura era moderna, la casa ristrutturata di recente.

Nell’aria aleggiava ancora l’odore chimico della vernice usata dagli imbianchini. Da quando erano arrivati, ormai due giorni addietro, i Sinclair se ne andavano in giro col naso arricciato in un’espressione di palese fastidio e disgusto. L’unica soluzione era tenere le finestre spalancate il più possibile, respirare solo dalla bocca e pregare che il tanfo sparisse in fretta.

“Sono tornato!” chiamò Roman, oltrepassando la soglia di casa con le chiavi in mano e lo zaino in equilibrio su una spalla.

“Lo sappiamo!” urlò Trevor dal salotto.

“Non c’è alcun bisogno di essere acidi.” farfugliò seccato Roman.

“Tu sei acido.”

Roman entrò in salotto e vide suo cugino Trevor spaparanzato sul divano, gli occhi fissi sullo schermo della televisione e il telecomando stretto al petto, per evitare che sua sorella Nina glielo rubasse. La frangia rossa gli copriva gli occhi, ma lasciava esposto il colossale broncio che gli adornava le labbra. Indossava la sua maglietta preferita, quella gialla con il disegno di un cactus che faceva una linguaccia. Le gambe, invece, erano infilate in dei leggings grigi.

Nina era rannicchiata dalla parte opposta del divano, con la schiena appoggiata al bracciolo e le dita impegnate a giocherellare con le trecce bionde. Il suo corpo magro era fasciato da una felpa nera con cappuccio e da un paio di larghi pantaloni della tuta. Nina odiava i vestiti da femmina, perciò i genitori le avevano riempito l’armadio di indumenti maschili, tassativamente di una gamma di colori che andavano dal nero al blu notte. Non vedevi un lampo sgargiante nemmeno a pagarlo oro. L’unica cosa femminile che sfoggiava erano i capelli, perché li adorava lunghi e acconciati sempre in modi diversi.

“Deduco che il primo giorno abbia fatto schifo…”

“Il peggio del peggio.” borbottò funereo Trevor.

“Nina?”

“A ricreazione siamo andati in giardino e ho chiesto ai maschi se potevo giocare con loro a palla. Le bambine hanno subito cominciato a prendermi in giro e a sparlare di me alle mie spalle. Hanno detto che sono strana e brutta.” borbottò con occhi lucidi.

Roman la fissò sconvolto per un momento, poi indurì lo sguardo: “Dimmi chi sono queste smorfiose, ci penso io a rimetterle in riga.”

“No! Non sono una principessina che ha bisogno di protezione!”

“Scusa, non intendevo offenderti.”

“Tu? Hai già fatto svenire tutte le ragazze di provincia con il tuo fascino?” chiese Trevor con una punta di sarcasmo.

“Da dove le tiri fuori certe espressioni? Comunque, no. Non tutte.” ghignò giocoso.

“Non tutte.” lo scimmiottò il cugino, schioccò la lingua e riassunse il broncio scorbutico.

“Dai, Trev, ora è il mio turno!” si lamentò Nina.

Trevor le fece una pernacchia, scattò in piedi e cominciò a correre per il salotto, sventolando il telecomando sotto il naso di Nina. Lei abboccò. Si scagliò contro di lui per agguantare l’oggetto, ma cadde di faccia sul tappeto quando Trevor si scansò all’ultimo secondo. Scoppiò a piangere, mentre il fratello sghignazzava trionfante.

“Buoni, voi due.” li ammonì Tamara dalla cucina.

Roman lasciò i cugini a litigare e la raggiunse.

“Ciao, ma’.”

“Ciao, tesoro.”

Roman non protestò quando sua madre si sporse per baciarlo sulla guancia e strofinargli un palmo sul collo e tra i capelli, senza distogliere lo sguardo dalle padelle sui fornelli.

“Che c’è per cena?”

“Pollo alla cacciatora, spinaci al formaggio e patate al forno.”

Roman la osservò rimestare gli spinaci con il mestolo. Inalando l’aroma del formaggio, si umettò le labbra.

“Papà e gli zii dove sono?” le chiese.

“Vincent è in biblioteca. Ruby e Sean dovrebbero tornare tra poco.”

“Va bene. Vado in camera a fare i compiti.”

“Okay.”

Roman salì le scale e si rifugiò in camera, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza non era insonorizzata, perciò i suoni provenienti dal salotto e dalla cucina, sebbene attutiti, filtravano tranquillamente attraverso la barriera di legno. Ci era abituato, avendo dovuto fare a meno della privacy fin da quando era nato. Ormai aveva imparato a respingerli, trasformandoli in rumore bianco.

Ammonticchiati in un angolo c’erano ancora un paio di scatoloni, contenenti la sua collezione di videogiochi. Non sapeva dove metterli, dato che la piccola libreria era già piena. Una scrivania, un letto a una piazza e mezzo e un armadio a muro completavano l’arredamento. Erano arrivati da un paio di giorni, quindi Roman non aveva avuto tempo di personalizzare la camera.

Si sedette alla scrivania, accese la lampada ed estrasse i libri dallo zaino. Non sarebbe riuscito a completare tutto prima di cena, ma intanto si sarebbe tolto di mezzo Algebra. Anche se non era mai stato una cima in quella materia, si era promesso che quell’anno si sarebbe impegnato di più. Ignorò persino il computer, cosa che non sarebbe mai riuscito a fare fino a un paio di mesi fa.

Un’ora dopo, salivando alla vista della tavola imbandita, Roman si sedette alla destra di suo padre, che era a capotavola. Tamara prese posto alla sinistra del marito, gli zii si accomodarono accanto a lei, mentre Trevor e Nina accanto a Roman, di fronte ai genitori. Se ci fosse stato Declan, avrebbe dovuto occupare lui la sedia di Roman, secondo la tradizione.

Roman scacciò la malinconia che il pensiero di suo fratello portava con sé e si distrasse ad ascoltare i cugini che battibeccavano.

Il cibo venne servito, ma finché Vincent non azzannò il primo pezzo di carne nessuno cominciò a mangiare. Dopodiché, l’aria si riempì di chiacchiere e del rumore metallico delle posate che cozzavano sui piatti.

“Allora, figliolo. Com’è andato il primo giorno di scuola?” domandò Vincent dopo dieci minuti.

“Bene. Mi sono fatto un paio di amici e sono stato invitato a una piccola gita a Salem questo sabato. Mi mostreranno i musei e le altre chicche della città.” rispose pacato Roman.

L’uomo mugugnò un assenso e si grattò distrattamente la barba. Scostandosi il ciuffo di capelli brizzolati dal viso, addentò un altro pezzo di pollo, ingoiò e si schiarì la gola. Anche se gli occhi azzurri rimasero fermi sul cibo che aveva nel piatto, tutta la sua attenzione era concentrata sul figlio.

“Chi sono questi amici?”

“Tre del primo anno, un ragazzo e due ragazze.”

“E puoi divulgare i loro nomi o sono un segreto?”

“Vince, andiamo!” sbuffò Tamara.

“Che ho detto?”

“Lascia stare, ma’, non c’è problema. Il ragazzo si chiama Regan, le due ragazze Charlotte e Jennifer.”

“E compagni della tua età?”

“Ho scambiato qualche convenevole, ma nulla di particolare.”

Tamara ridusse gli occhi a fessure e squadrò severa il marito: “Ti basta?”

“Ho fatto solo domande generiche!” si difese Vincent, “Perdonami se voglio impedire un ripetersi dell’anno scorso.”

“Roman ha imparato la lezione, non serve rigirare il coltello nella piaga.”

Vincent si rabbuiò e tornò a infilzare il pollo con la forchetta. Tamara si portò una ciocca di capelli ramati dietro l’orecchio e roteò gli occhi.

“Ruby, Sean. Com’è andato il giro di pattuglia?”

“Abbiamo marcato i confini del territorio. Niente da segnalare.” rispose Sean, sintetico come sempre.

La luce emanata dalla lampada sul soffitto conferiva una brillantezza innaturale ai suoi capelli biondi, rasati sulla nuca e ai lati, oltre a rendere più definiti i tratti severi del suo viso, che sembrava scolpito nel marmo. Gli occhi azzurri, invece, rifulgevano di una freddezza simile a quella che sprigionavano gli occhi di Regan.

Ruby masticò un pezzo di pollo e, subito dopo, si riempì la bocca con una forchettata di patate. Lo chignon di capelli rossi ballonzolava seguendo i movimenti della testa, in un modo che Roman poteva solo definire ipnotico. Le iridi grigie puntate sul piatto e l’espressione assente erano un palese indizio che non stesse minimamente ascoltando, come al solito.

“Bene. E voi?” disse Tamara, rivolta a Trevor e Nina.

“Uno schifo!” esclamarono in coro.

Vincent simulò un attacco di tosse per nascondere una risata, Ruby sollevò di scatto il capo e Sean sospirò spazientito. Roman piegò le labbra in un sorriso genuino e spettinò giocosamente i capelli di Trevor.

Il resto della cena trascorse tra chiacchiere superficiali. Roman aiutò a sparecchiare e, dopo aver asciugato i piatti, si rintanò in camera per terminare i compiti.

Durante l’ora successiva, seduto alla scrivania davanti al libro di Storia, adocchiò di frequente il cellulare, abbandonato sul comodino per allontanare le distrazioni. L’evidenziatore, stretto tra indice e medio, sbatteva rapidamente sulla pagina allo stesso ritmo della gamba destra sotto il tavolo. Il labbro inferiore era prigioniero dei denti, la mano sinistra un groviglio di nervi e tendini che scrocchiavano ogni dieci secondi.

Era assai tentato di scrivere a Regan, chiedergli come stesse, cosa stesse facendo, se gli andasse di inviargli una foto di Poe, ma alla fine lasciò perdere. A suo avviso, non c’era nulla di peggio di qualcuno che ti si incollava addosso subito dopo aver fatto conoscenza. E poi lo avrebbe rivisto l’indomani, non v’era alcun bisogno di struggersi se non aveva un contatto nelle prossime ore.

In compenso, ricevette un paio di messaggi da Jennifer e uno da Charlotte. Nulla di speciale, solo qualche proposta di uscire al cinema e, magari, a mangiare una pizza.

I messaggi di Jennifer erano generici ma mirati. Era più che evidente l’interesse della ragazza, anche se lei cercava di celarlo. Come se gli ormoni che aveva emanato a pranzo non fossero già stati un chiaro indizio.

Charlotte sembrava voler convincere Roman a passare più tempo con l’amica, offrendo idee per appuntamenti sotto la guisa di consigli su posti belli da vedere ad Ashwood Port.

Almeno con Jennifer c’era da apprezzare la sottigliezza. A Roman non piacevano le ragazze troppo sicure di sé, spavalde e con l’aria da reginette del ballo. Di oche che gli ronzavano intorno ne aveva avute a volontà nel suo vecchio liceo e, sebbene fossero perfette per una relazione senza troppe pretese, alla lunga diventavano insopportabili.

Regan era tutta un’altra questione. C’era un’aura attorno a lui che attraeva Roman come una falena verso la fiamma. Sotto la felpa larga nascondeva un fisico magro, eppure straordinariamente tonico, come aveva appurato quando lo aveva abbracciato. A prima vista non lo si sarebbe considerato forte, ma lo era. Roman aveva percepito nitidamente l’energia racchiusa nei suoi muscoli, nervosa e fredda come la sua pelle. Anche i suoi occhi erano freddi e affilati, a tratti spenti, a tratti vigili e crudeli. No, non crudeli: severi, disillusi. Apparivano crudeli solo a causa delle borse violacee che li incorniciavano e degli zigomi spigolosi.

Il dettaglio che, in assoluto, lo aveva catturato era stato il suo odore. Roman non aveva mai fiutato nulla di simile in vita sua. Era un miscuglio difficile da catalogare. Aveva registrato l’odore del gatto, certo, e una forte scia di gelsomino e miele, probabilmente sua nonna. Sotto di essi, però, il vero odore di Regan era indescrivibilmente unico: sangue, legno bruciacchiato, terra smossa, resina, ortiche, neve. Era un odore che, in principio, lo aveva confuso, ma più lo inalava più si scopriva ad apprezzarlo.

Quel ragazzo aveva risvegliato la sua curiosità. Non vedeva l’ora che arrivasse domani, e poi sabato. Desiderava conoscerlo meglio, scavare, dissotterrare, portare alla luce ciascun aspetto della sua personalità. La sola idea lo eccitava.

Andò a dormire che era quasi mezzanotte. Spense la luce, si infilò sotto le coperte e sorrise pensando a un altro giorno di scuola. Era la prima volta che gli capitava di essere emozionato per una cosa del genere.









 
  
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