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Autore: Francine    01/02/2019    4 recensioni
Trema di Yggdrasill,
il frassino eretto,
geme l'antico albero,
lo jǫtunn è libero.
Tutti temono
sulla strada degli inferi,
che la stirpe di Surtr
li inghiotta.

(LJÓÐA EDDA - VǪLUSPÁ, La Profezia della Veggente, v 47)
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Quando piovono le stelle'
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25.




 


Il bello del rientrare alla base sono le quarantotto ore che il Sacerdote concede in premio all’eroico Santo dopo che questi gli ha presentato un primo rapporto. Uscito dalle porte a doppio battente della Sala delle Udienze, costui ha diritto ad un ragionevole lasso di tempo per rimettere insieme le idee e procedere a stilare un rapporto scritto che andrà a far parte degli Annali.
Per i posteri, s’intende, anche se Aristoteles non comprende fino in fondo questa fissazione - quest’ossessione - del Sommo Sion per la memoria – si vocifera che il sant’uomo abbia più di cento anni, ma neppure questa è una giustificazione soddisfacente, per Aristoteles – e i documenti pieni di polvere e muffa che ammassa nella propria libreria; tuttavia, ci sono momenti in cui i pallini di un vecchio cadono a fagiolo.
Quarantotto ore, pensa, solleticando quella manciata di lettere sulla punta della lingua. Quarantotto ore da spendere nelle taverne, tra le lenzuola di Dorcas o di Klio – o con tutt’e due – oppure a pescare. Ha solo l’imbarazzo della scelta, eppure Aristoteles ha le idee ben chiare: ozio totale. E anche il Sacerdote se lo immagina, convinto che il Santo di Athena passerà gli ultimi quarantacinque minuti a sue disposizione per redigere due righe confuse su quanto accaduto, magari finendo di scrivere il proprio rapporto in anticamera.
Pazienza. Il vecchio Sion è un uomo di mondo, dopotutto, pensa Aristoteles, aggiungendo tra sé e sé che se a quella gatta selvatica di Doina sono passate le paturnie, forse forse potrebbe spenderle tra le sue, di lenzuola, quella piccola licenza ufficiosa.
Sì, e quando mai quella si lascerebbe convincere ad uscire dal Santuario con me, pensa Aristoteles, la sacca da marinaio sulle spalle e l’armatura avvolta in modo da non destare sospetti.
Se non fosse stato per lei, e per i suoi ripetuti tentativi di strappargli le palle a morsi - e se non fosse stato per la tendenza congenita di Aristoteles di correre appresso ad ogni gonnella che gli passa sotto al naso – il Sacerdote non l’avrebbe spedito in Nuova Zelanda con una sonora pedata e l’obbligo di restarvi sei mesi per capire se, tante volte, il Bigfoot non si fosse trasferito nell’emisfero australe.
Così, tanto per ammazzare il tempo.
Peccato che non solo non vi fosse alcun Bigfoot o un qualche suo cugino zoticone – quattro ragazzotti troppo pieni di birra valgono? -, ma che il Sommo Sion lo sapesse eccome. Ma, spedendolo dall’altra parte del mondo – letteralmente –, il Sommo Sion ha preso due piccioni con una fava, salvando la pace del Santuario e la propria sanità mentale. Ecco perché ad Aristoteles piace il Vecchio. È un uomo di mondo. E a lui basteranno davvero cinque minuti per stilare il suo rapporto.
Stavolta potrò anche far asciugare l’inchiostro, pensa, ignaro del fatto che, non appena svolterà l’angolo, incapperà in qualcosa – in qualcuno – che gli manderà a gambe all’aria tutti i suoi progetti. Presenti e futuri.
C’è una ragazza, sul marciapiede. Una ragazza con un vestito bianco che sta armeggiando con una bicicletta – bianca – una di quelle col portapacchi e il cestino anteriore. Bianchi anch’essi. I piedi di Aristoteles si muovono da soli. Sente la propria voce chiedere: «Serve una mano?», prima di darsi del cretino da solo. Ovvio, che le serva una mano.
E infatti lei si volta a guardarlo, gli piazza due occhi color cobalto nei suoi e gli dice: «Eh. Magari!».
«Cos’è successo?»
«La catena. S’è sganciata e...»
«Fammi vedere.»
La situazione è chiarissima: non si è solo sganciata la catena, si sono anche rotti due o tre denti. Non c’è proprio modo di rimetterla a posto, se non sostituendola, ma dove lo trovi un negozio di biciclette aperto di domenica?
Così, dopo aver armeggiato per un po’ ed essersi lordato le mani, Aristoteles getta la spugna e le dice – e le sospira - «Non c’è niente da fare. La catena è rotta, temo dovrai cambiarla…».
«Questo lo so», risponde lei, pulendosi il lubrificante dalle mani con un fazzoletto. «Il problema vero è la ruota», e, seguendo il dito di lei, Aristoteles si accorge della foratura.
«Ah», dice. Come un perfetto cretino.
«Dev’essere successo quando s’è rotta la catena», dice lei. «Oppure, devo aver bucato strada facendo e non me ne sono accorta.»
«Possibile», si limita a constatare lui. «Ti toccherà lasciarla qui, legata ad un palo della luce. Hai la catena ed il lucchetto?»
Lei ride, un suono franco e argentino. «Sì, certo. E sai quante ne ritrovo, domani? Dieci!»
Scuote la testa, i riccioli neri scappano dalla coda di cavallo sulla nuca. Aristoteles resiste all’impulso di riacchiapparne un paio e passarglieli dietro l’orecchio.
«Ho provato a chiamare mio fratello, per venirmi a prendere, ma non è in casa. È in campagna da certi amici.» Sbuffa. «No, mi toccherà trascinarmela dietro…»
«Abiti lontano?»
Aristoteles vorrebbe mordersi la lingua.

Che diavolo ti salta in mente? Devi rientrare al Santuario, ricordi?!

Non posso certo abbandonarla qui! Che figura ci farei?!
«No, non molto. A Plaka.» Lei lo fissa perplessa. «Ma con quella, a farmi da zavorra, potrei metterci anche mezza giornata…»
Questo è un colpo basso. Recitare il ruolo della damigella in difficoltà senza dichiararlo apertamente.
Chapeau, pensa Aristoteles.
«Ti aiuto io!»
«No. Non se ne parla nemmeno», si schermisce lei. «Mi hai già aiutato fermandoti a vedere che stava succedendo. Non posso chiederti di spingerla fino a casa mia!»
«E perché no?», rilancia lui. «E poi, a voler essere pignoli, sono
io che mi sono offerto di aiutarti.»
Ecco. L’ha detto. S’è fregato colle sue stesse mani, ma che scelta aveva? S’è infilato nella tela del ragno per vedere se era poi vero che fosse appiccicosa ed è rimasto invischiato.
La prossima volta imparo a tenere la bocca chiusa.
La ragazza ci pensa su. Si morde il labbro inferiore e lui teme che possa fregarlo in chissà quale altra maniera, quando lei dice: «D’accordo. Ma ti fermi a cena.».
No. Non se ne parla nemmeno. Devi trovarti a ottanta chilometri a nord di Atene entro le sei del pomeriggio, gli intima il suo cervello, mentre la sua voce risponde: «Va bene. Affare fatto.».
«Perfetto, allora! Affare fatto. Puoi aspettare un attimo solo? Il tempo di fare un colpo di telefono a mia madre e dirle che abbiamo un ospite a cena…», dice, indicando la cabina telefonica dall’altra parte della strada. Non aspetta risposta, anzi, rilancia con un: «Come hai detto ti chiami?».

Non te l’ho detto. «Aristoteles.» Pausa. «E tu?»
«Nausicaä.»

 

Stavros Kalatzakis, il Greco Volante, era l’uomo più vecchio che Milo avesse mai visto. 
A voler essere precisi, si disse lo Scorpione, non è solo vecchio.
È incartapecorito
Magro, ossuto, la pelle scurita dal sole e cotta dalla salsedine, era difficile inquadrare quell’uomo e dargli un’età. Basarsi sui capelli d’argento, con testarde spruzzate di nero, sarebbe stato un errore: secondo Kanon aveva novant’anni suonati, ma c’era qualcosa di particolare, nello sguardo di quell’uomo intento a masticare tabacco come se ne andasse della rotazione stessa della Terra attorno al proprio asse; una luce che lo rendeva più giovane di quanto suggerito dal suo aspetto.
Non si giudica un libro dalla copertina, diceva Aristoteles. 
Magari è solo il luccichio del mare, pensò Milo.
Stavros non batté ciglio trovandoselo davanti, accanto a Kanon, con l’armatura dello Scorpione indossata e lucente come se stesse per sfilare in parata davanti ad Athena; o, se lo fece, Milo non se ne accorse. Il pescatore accostò a quello scoglio troppo cresciuto la sua barchetta bianca e azzurro carico, salutò Kanon con un cenno del mento e fece loro segno di salire a bordo. Obbedirono. A poppa c’erano delle cassette di polistirolo vuote.
«Sedetevi», borbottò Stavros sopra il rumore del motore, «oggi il mare s’è svegliato col culo scoperto.».
La barca oscillò mentre Kanon e Milo rovesciavano un paio di cassette per usarle come sedili e Stavros invertiva la rotta, riportando la barca in mare aperto. Nessuno osò fiatare per un’ora abbondante.
Milo cercò gli occhi di Kanon, ma ciò che vide nello sguardo dell’altro era di difficile interpretazione. Forse c’era qualcosa che neppure Kanon comprendeva. O che faticava a mettere a fuoco. Si stavano affacciando entrambi su un panorama poco ameno, guardandolo da due diversi punti d’osservazione. Milo decise di concentrarsi sul proprio. Avrebbero trovato il tempo e l’occasione di avere un piccolo conciliabolo, tra di loro. Meglio arrivarci colle idee chiare.
Stavros era venuto senza pesce.
Stavros non si era stupito di trovarsi davanti un Santo di Athena in armatura.
Stavros li stava portando da qualcuno.
Altro che decano dei pescatori. Il servizio taxi del Santuario, pensò Milo, decidendo di rimandare tutte le domande a più tardi, quando si sarebbero trovati coi piedi ben piantati per terra.
«Soffri il mal di mare?», gli chiese Kanon, un sussurro appena sopra il borbottio del motore e il vento sulla pelle.
È un po’ tardi per pensarci, si disse Milo, facendo un gesto con la mano, come a dire che andava tutto bene.
«Dove siamo diretti?»
«Le isole più vicine sono Christiana e Askania, ma indovina un po’?»
«Non dirmelo. Sono disabitate.»
«Esatto. Per cui la più vicina resta Thera.»
«Poteva andarci peggio.»
Kanon annuì, poi distolse lo sguardo e sprofondò nei suoi pensieri. Milo decise di godersi il viaggio, lo sciabordio delle onde contro lo scafo sbeccato della barca e il pizzicore sbarazzino della salsedine sulla pelle. Qualcuno li stava attendendo alla fine del viaggio, e se Kanon non aveva un piano B pronto all’uso – eventualità improbabile – peggio per lui. Milo aveva intenzione di arrivare preparato a quell’incontro. Estote parati, diceva Aristoteles, è questo l’unico modo per salvare le chiappe
Un gabbiano andò loro incontro, le ali bianche spiegate al vento. Atterrò a poppa, annusando la scia dei pesci sulle assi e le cassette di polistirolo. Gli occhi rossi incontrarono quelli di Milo, poi la bestia socchiuse le palpebre e si accovacciò tra di loro, come se fosse un uccello addomesticato. Scroccava un passaggio, senza aver paura di mostrarsi debole, pigro o stanco, e Milo trovò la sua schiettezza così sincera che quell’uccello dallo sguardo crudele gli venne quasi in simpatia.
Anche i predatori devono tirare il fiato, pensò Milo, mentre la barca bianca e blu su cui viaggiava attraversava l’azzurra luccicanza del mar Egeo.
Kanon taceva.
Milo suppose che lo stesse ignorando, che non volesse che Stavros ascoltasse il loro conciliabolo, ma poi si disse che quelle erano sue paranoie. Kanon stava dialogando con il mare, un botta e risposta di sguardi e onde, una gara a…
A chi ha gli occhi più blu, pensò Milo e lo sguardo gli si allargò mentre un ricordo si faceva strada nella sua mente, un ricordo di qualche anno prima, quando il mondo era più facile e non c’era spazio per le ombre. Era tutto bianco e blu. Il blu del cielo, il blu del mare, il blu degli occhi di Saga.
Milo si ricordò di respirare.
Saga.
I suoi muscoli s’irrigidirono, un rivolo di sudore freddo gli ruscellò dalle tempie e sulla nuca. 
Saga.
La sirena. La spia ad Atlantide. La missiva del Santuario. E la risata del Sacerdote oltre le porte a doppio battente del suo studio.
Figlio di puttana, pensò Milo. Figlio di puttana.
Camus ripeteva sempre che si uccide prima con il cuore, poi con lo sguardo e solo all’ultimo con le mani. Si uccide col cuore, diceva, con quel suo accento impossibile, con le adenoidi sempre sul punto di esplodere e la lingua che si arrotolava – che si contorceva – ad ogni erre che incontrava sul suo cammino.
Uccidere con il cuore.
Camus andava matto per una serie di romanzi su di un pistolero, e la cosa era ridicola considerando quanto fosse celere a liquidare l’allegra cialtronaggine a stelle e strisce con un «Les Ricains!» di esasperata pazienza.
Eppure, gli piaceva la storia del pistolero che mirava con gli occhi, sparava con la mente e uccideva con il cuore. Milo aveva già ucciso in passato. Con le mani – oh, com’era bravo a colpire, ancora e ancora e ancora, fino a lasciare l’avversario sul terreno e a sentirsi le spalle stanche – e con gli occhi – e se i suoi sguardi avessero davvero potuto uccidere, Kanon sarebbe caduto morto stecchito in fondo all’Egeo almeno da dieci minuti – ma con il cuore?
Come si fa ad uccidere qualcuno con il cuore?, rimuginava lo Scorpione colto da un’improvvisa vertigine, mentre Kanon ignorava le sue occhiatacce assassine, tutto preso com’era dal suo dialogo con quell’acqua che andava e veniva, e andava e veniva, sempre inquieta, sempre in movimento, sempre pronta a parlare con chiunque fosse disposto a starla ad ascoltare. Il mare è di tutti, non ha confini, se ne frega dei nomi con cui gli uomini lo chiamano, lo delimitano, lo. Il mare è di tutti, sì. Ma Kanon aveva con l’acqua una sorta di affinità elettiva con cui era impossibile competere.
Questa conversazione non mi riguarda, si disse Milo, lasciando l’altro al suo personale dialogo, e immergendosi nelle proprie elucubrazioni. Qualcosa non quadrava in tutta quella storia, e Stavros, zitto zitto, li stava portando da qualcuno. E chiunque fosse, questo qualcuno, Milo non era disposto a concedergli un vantaggio di alcun tipo.

 
«I collegamenti sono interrotti.»
La voce di Kostas è buffa al telefono. Gracchia, come se fosse uscita da uno dei vecchi dischi della mamma, o quella di un pupazzo meccanico.
«Ci toccherà fermarci qui fino a quando non smetterà di piovere.»
Kostas non è felice. Non è felice di essere dovuto andare al funerale di zia Urania, non è felice di avere a che fare coi parenti del ramo materno e non è felice di averla dovuta lasciare a casa, da sola, a badare al ristorante. Ristorante che resta comunque chiuso – chi è che se ne va a mangiare fuori, con il Diluvio Universale parte seconda che affligge l’Attica da tre giorni? -, ma a Kostas è ben altro che preme.

«Mi raccomando, chiudi bene porte e finestre», le raccomanda. «E non aprire agli sconosciuti.» Pausa. «Intesi?»
Nausicaä solleva gli occhi al soffitto.
«Intesi?!»
«Sì. Intesi», ripete. Come se non ci arrivasse da sola. Come se suo fratello non gli avesse raccontato la favola di Biancaneve fino alla nausea.
Perché Biancaneve è morta?
Perché ha dato un morso alla mela avvelenata?
«Nossignore», replicherebbe Kostas. «Perché ha disobbedito ai buoni nani e ha aperto la porta ad una sconosciuta! La mela è un fatto puramente secondario.»
Logica inoppugnabile. Peccato che i malintenzionati non girino con un cartello appeso al collo, pensa Nausicaä giocherellando col braccialetto di filo con su ricamato il proprio nome.
Peccato che Kostas non alluda proprio a tutti, tutti, tutti i malintenzionati, ma ad uno solo. Un energumeno di un metro e ottantacinque, i capelli ricci, lo sguardo strafottente e una cicatrice sul mento. Ed il brutto di vizio di parlare attaccando le parole le une alle altre.
«Isolani…», biascicherebbe Kostas al riguardo, prima di sputare in un angolo.
«Fa freddo, lì?», chiede Nausicaä, la cornetta incastrata tra la spalla e l’orecchio. Vorrebbe domandare a suo fratello cos’è che non lo convince di Ari, se la cicatrice, il suo modo di parlare o qualcos’altro, ma, sapendo che quella domanda spalancherebbe una porta che è bene resti chiusa – almeno per qualche tempo -, decide di glissare. «Qui si gela.»
«Siamo in febbraio», ribatte lui, ben intenzionato a non mollare l’osso. «Piove, fa freddo e…»
«Speriamo passi presto, allora!», risponde lei, conscia del fatto che le previsioni del tempo prevedono un peggioramento. «Questa pioggia mette addosso una certa malinconia…»
«Ho io la soluzione!» La voce di Kostas ha quella sfumatura metallica che non le piace. «Perché non ammazzi il tempo spolverando le mensole e i bicchieri?»
«Ma è tantissima roba!», protesta lei. «E poi ci saranno due dita di polvere!»
«E chi ce l’ha il tempo di spolverare per bene? Ma, visto che il ristorante è chiuso, perché non ne approfittiamo?»
«Perché io non ne approfitto, semmai!», lo rimbecca lei, le dita strette attorno alla cornetta e le sopracciglia aggrottate. «Sai quanto detesto spolverare!»
«E tu sai quanto io odi i funerali!», ribatte Kostas. «E poi, si dice sai quanto io detesti spolverare.»
«Stai scherzando?»
«Nossignore. Direi che siamo pari e patta, sorellina», e prima che lei possa replicare qualcosa, Kostas chiude di scatto la comunicazione lasciandola ad ascoltare il tututututututututu monocorde del telefono.
Nausicaä digrigna i denti, sbuffa e sbatte la cornetta sulla forcella. «Non è colpa mia, se soffro il mal di mare!», sbotta, sistemandosi i capelli dietro le orecchie. Ci mancava anche questa, adesso. Spolverare tutte le mensole e i relativi ammennicoli. Finirò per l’anno prossimo, se mi dice bene, pensa lei, sbuffando come una locomotiva lanciata a tutta velocità. Quasi quasi mi ammutino, si dice, ché la vita non è fatta per passarla con lo straccio in mano; ma poi pensa che, col tempo da lupi che sta stringendo la città, non è che abbia poi molte alternative allettanti. E Ari di certo non metterà il naso fuori dalla sua tana, con tutta quell’acqua che sta venendo giù. Figuriamoci! Anche uno zuccone come lui, sa quand’è il caso di restarsene all’asciutto. Però, Nausicaä si chiede per quale motivo non l’abbia chiamata.
Avrà trovato occupato? Kostas sa essere davvero logorroico, quando non è lui a dover pagare le bollette, pensa Nausicaä arrendendosi. E sia. Si legherà un paio di strofinacci attorno ai capelli, tirerà giù tutti quei maledetti ninnoli e ninnolini, spolvererà tutto, spazzerà tutta la stanza e poi si regalerà un bel bagno. Uno di quelli caldi e senza fine, magari con una manciata di Sali al bergamotto nella vasca e qualche candela accesa qua e là.
E sta ancora pensando a come premiarsi – a come indorarsi la pillola – quando bussano alla porta.
Sulle prime, le pare di esserseli immaginati quei colpi. Un’imposta che sbatacchia al soffio del vento, o qualcosa che ruzzola giù per la strada. Ma poi i colpi riprendono, troppo rapidi e troppo cadenzati per essere solo il capriccio del temporale.
«Siamo chiusi!», grida, per l’irritazione e per superare lo scroscio della pioggia, ma non devono averla sentita, perché continuano a bussare come se volessero abbattere coi pugni la porta azzurro carico della taverna.
«Perché la gente non legge mai i cartelli?», si chiede lei, abbandonando lo strofinaccio in un angolo e dirigendosi a grandi passi verso l’ingresso del ristorante.
I colpi acquistano intensità.
«Arrivo, arrivo!», grida, stavolta innervosita da tutta quell’insistenza.  «Siamo chiusi. CHIUSI. In che lingua devo scriverlo?»
Un lampo illumina alle spalle la figura che si staglia nel riquadro della porta, sovrastandola colla sua mole. E lei si dà della stupida. Spalancare la porta senza prima guardare chi ci sia al di là. E meno male che ti ho raccontato la favola di Biancaneve fino alla nausea, sente borbottare la voce di Kostas. Poi, mentre ancora si sta chiedendo di che morte morirà – la strangolerà? L’accoltellerà? La? – la figura caracolla dentro, rivoli d’acqua a scorrergli sul cappellaccio, sulla mantella fradicia e sugli stivali. Si appoggia colle mani ad un tavolo, si lascia cadere di peso su una sedia – che protesta con un crac stizzito – e si libera del cappello.
«Dio, che tempaccio!»
Raccontami qualcosa che non so, pensa Nausicaä, le dita ancora strette attorno alla maniglia della porta.
«Aristoteles?», chiede. Non sa se essere più stupita o felice. Richiude la porta di scatto e si avvicina a lui. «Che ci fai qui?»
«Che ci faccio qui?» La squadra da sotto in su, come se le fosse spuntata una seconda testa. «Avevamo un appuntamento, o sbaglio?»
«No, no. Ma sta diluviando e…»
«Ecco perché sono venuto qui, invece che al solito posto. Ma che è successo? Dov’è tuo fratello? Dove sono tutti?», domanda, guardandosi attorno con fare spaesato.
«Al funerale di zia Urania. È… Era la sorella di mia madre.»
«Ah. Adesso capisco perché siete chiusi per lutto. Per un attimo m’era preso un colpo… Condoglianze.»
Lei si stringe nelle spalle.
«Zia Urania era malata. Meglio così, ha detto mamma. Ma adesso levati di dosso quella roba, o ti prenderai un malanno!»
«Me lo sono già preso», ribatte lui disfandosi della mantella. «Non avresti qualcosa di caldo?»
«Certo. Ti preparo subito un bel bagno…»
«Eh? No, no, non se ne parla. Devo partire tra meno di due ore.»
«Tutti i collegamenti via mare sono interrotti, e i treni circolano a singhiozzo.»
«Ah.»
«Levati quella roba di dosso», ripete lei, paziente, recuperando qualche straccio con cui asciugare il pavimento. Se Aristoteles non fosse stanco morto, troverebbe la situazione deliziosa. «Non credo andrai proprio da nessuna parte.»
Una sentenza. Così, Aristoteles si arrende. Si libera degli stivali, del maglione fradicio, della camicia ormai zuppa e si friziona i capelli con l’asciugamano che gli ha dato Nausicaä. Poi la guarda e le dice: «Proprio un bel casino…».
Lei annuisce.
«Potevi chiamarmi. Ci saremmo visti un’altra volta.»
«Te l’ho detto. Devo partire in missione», le ripete lui, paziente. Le ha spiegato a grandi linee della sia vita – fatte le debite omissioni, s’intende – e lei non ha mai chiesto di saperne di più. Essere una Bond girl in salsa tzatziki è sexy solo fino a quando si mantengono delle zone d’ombra, no?
«Sarà una cosa breve?»
«Non lo so. Davvero.» L’asciugamano sulle spalle, le scocca un’occhiata indecifrabile. «Due settimane. Tre al massimo. Almeno spero.»
Lei si stringe nelle spalle. «Portami un regalino», gli dice, appoggiata di schiena allo stipite della porta.
«Certo» le garantisce lui. Poi, come ricordandosi all’improvviso di qualcosa – qualcosa di importante, a giudicare da quanto ha sgranato gli occhi – si batte una mano sulla fronte, abbandona l’asciugamano e si mette a frugare nelle tasche della mantella. «Speriamo non si sia rovinato», dice, estraendo un pacchettino dall’aria spaurita e scalcagnata.
Quando si volta verso di lei, la trova a fissarlo con curiosità. «È per te», le dice. «Mi dispiace, ma con tutta quest’acqua…»
Le porge una scatolina dall’aspetto inequivocabile. Fa un rumore strano. Lei se lo rigira tra le dita, perplessa, nemmeno potesse scoppiarle tra le mani da un momento all’altro.
«Non morde. Tranquilla.»
Lei si sente una perfetta cretina. Sorride e si avventa sulla carta, che cede senza opporre troppa resistenza. Non è un anello, e nemmeno un braccialetto. Nella scatolina blu notte c’è un orologio d’argento, dal quadrante ovale di un bel blu cobalto e i numeri bianco perla.
«Ti piace?», le domanda lui, visibilmente confuso. «Non sto insinuando che arrivi sempre tardi, eh! È che l’ho visto e ho pensato a te e…»
«È bellissimo», dice lei.
Aristoteles riprende a respirare. «Tanti auguri!»
«Ma tu che ne sai?»
«Me l’ha detto un uccellino.»
«Chi?»
«Non si rivelano le fonti», le dice lui, sollevando l’indice.
È stata Melpomenê, la madre di Nausicaä, e se Kostas detesta Aristoteles dal profondo del cuore, la vedova Kalatzakis lo ha preso in simpatia. Perché ad Aristoteles piace il Kallistê. Gli piace la limonata che Melpomenê prepara con gli stessi limoni che ombreggiano la veranda della taverna. Quelli che ha piantato il marito di Melpomenê – uno per Kostas, uno per Nausicaä – prima di crepare sui monti appena fuori Atene.
«Grazie», mormora Nausicaä. «Mettimelo tu.»
E Aristoteles le si avvicina, slaccia il cinturino di metallo e lo allaccia attorno al polso della ragazza.
«Buon compleanno», le dice – le sussurra – tenendosi per sé un «Buon San Valentino» che sarebbe superfluo. Inopportuno. Le cose più belle sono quelle che non si dicono, che restano lì, in bilico sulla punta della lingua. E Aristoteles certe cose non può permettersele. Quando la tua vita appartiene ad Athena non hai più un momento per te. Non sai quando finirà, né se la prossima missione sarà l’ultima. Non si può tenere il piede in due scarpe. Aristoteles non appartiene al mondo di Nausicaä. Lei vive dentro una vetrina luccicante e lui può solo avvicinarsi e posare per un attimo – uno soltanto – le sue dita sul vetro pulitissimo che lo separa da lei, prima di riprendere il proprio cammino per le strade più buie e tortuose.
Nausicaä arrossisce. Avrà capito? Sorride, si alza sulla punta dei suoi piedini deliziosi e gli scocca un bacio mozzafiato.
«Grazie», sussurra, sorridendogli da sotto le ciglia scure. «Ma adesso devi proprio farti quel bagno caldo.»
«No, davvero», protesta lui. È già finito?, chiedono i suoi occhi. «Devo andare, io…»
«Fuori diluvia. I traghetti sono fermi. Tu non vai proprio da nessuna parte.»
«Ma non posso restare!»
«E perché?»
Aristoteles alza gli occhi al soffitto, come a raccogliere pazienza. «Perché sono un uomo, ecco perché», sbuffa, le mani sui fianchi - per sicurezza – e un sorriso stanco.
«Tranquillo. Te ne andrai domani mattina, prima dell’alba», ribatte lei. «E poi, stai tranquillo. Non ho alcuna intenzione di diventare un’altra tacca sul tuo bancone», e prima che lui possa replicare che no, lei non è una tacca, Nausicaä si volta e sale le scale, lasciandolo con un’espressione da pesce appena pescato che si chiede dove diamine sia finita tutta l’acqua.
Fuori, pensa lui, decidendosi a seguirla, l’armatura, la sacca da marinaio, il cappellaccio e la mantella abbandonati accanto ad una sedia. Aspetteranno.
 




 
Una ragazza li aspettava sul molo.
Una gamba a dondolare nel vuoto, l’altra come cuscino, fissava il volo dei gabbiani con aria assorta. La sirena della barca ruppe il silenzio del porticciolo, e lei si riscosse dai suoi pensieri. Si schermò gli occhi con un braccio e sorrise, una fila di denti bianchissimi ad illuminarle il viso. Stavros accostò e le lanciò un cavo di ormeggio che lei legò alla bitta in due mosse. 
Sua nipote, pensò Milo, notando come il loro profilo fosse lo stesso.
L’armatura brillava al sole, e se in un’altra occasione lo Scorpione avrebbe tratto conforto da quel riverbero dorato, adesso si sentiva a disagio. Fuori tempo massimo. Come un eroe uscito da un libro di leggende dimenticato sugli scaffali a prendere polvere, di quelli antichi e spessi di cui il Sommo Sion amava circondarsi. E il fatto che né Stavros né la ragazza avessero battuto ciglio vedendolo così bardato, acuiva questa sensazione di straniamento.
Un pesce fuor d’acqua, ecco cos’era, di quelli che boccheggiano e danno colpi con la coda chiedendosi dove sia finita tutta l’acqua. Con tutto il rispetto, Aphrodite, pensò Milo. E la voce di Aphrodite – Avanti. Non sai davvero fare di meglio? – gli risuonò nella testa con una precisione tale da fargli accapponare la pelle lungo le braccia.
«Fatto buon viaggio?», domandò la ragazza sorridendo, le mani sui fianchi e l’espressione rilassata.
«Al solito», rispose Stavros, il borbottio del motore che copriva la voce. «Abbiamo ospiti a pranzo», le disse, armeggiando con le cassette piene di pesci che lei gli porgeva. «Falli accomodare. Vado a vendere questi a Imerovigli e torno.»
E fu in quel momento che Milo si ricordò di avere una voce.
«Un momento. Dove siamo?», chiese, rivolgendosi a Stavros.
Il vecchio pescatore lo fissò come se fosse appena sbarcato da Marte e rispose: «Therasia. Quella è Agia Eirênê», indicando con un dito storto le case bianchissime attorno al porticciolo.
«Andiamo», disse Kanon, saltando giù dalla barca e avvicinandosi alla ragazza.
«No, noi andiamo con lui. Dobbiamo tornare ad Atene!», protestò lo Scorpione, scuro in volto.
Stavros gli scoccò uno sguardo truce.
«Se aspetto un altro po’, questo pesce non sarà buono nemmeno per la zuppa. Scendi e parlate di quello che dovete parlare, e lasciami fare il mio lavoro. Grazie.»
Milo sbatté le palpebre, poi percepì un cosmo caldo, ampio, sereno. Un cosmo d’oro. Non proveniva da Kanon, no, né dalle ossa secche di Stavros. Apparteneva alla ragazza, che aspettava sul pontile, imperturbabile, le mani sui fianchi ed un accenno di sorriso sulle labbra.
«Sei una di loro?», chiese Milo.
«Virgo. Athina», rispose, lo sguardo serio. E in quel momento Milo capì perché né lei, né Stavros avessero battuto ciglio di fronte ad un Santo di Athena nella sua sfolgorante armatura. «Da questa parte», aggiunse la ragazza, avviandosi verso il manipolo di case bianco calce che sembrava aspettarli con la pigra indifferenza dei gatti stesi al sole.
Kanon la seguì e a Milo non rimase che scendere dalla barca di Stavros, mormorare un «grazie» a mezza bocca all’indirizzo del pescatore ed accodarsi.
«Tu lo sapevi», sibilò a Kanon. Non era una domanda.
«Sapevo, cosa
«Di lei.»
«È la prima volta che la vedo.»
Ma davvero? «Ma sapevi che sarebbe stata presente. Giusto?»
«L’ho dato per scontato. Che qualcuno mi controllasse, dico. Stiamo pur sempre parlando di Athena», e Kanon si toccò le tempie con un dito.
Questa me la paghi, si disse Milo, mettendo in conto al gemello di Saga anche quest’ennesimo colpo di teatro.
Il percorso durò qualche minuto. Athina raggiunse una casa all’estremità dal villaggio, distante un centinaio di metri dall’ultima abitazione, aprì la porta azzurro carico ed entrò. Kanon la seguì e Milo chiuse la fila.
All’interno faceva fresco. La luce che filtrava dalle persiane accostate era sufficiente a mostrare un ambiente spartano, con un armadio massiccio a troneggiare su un lato, e un tavolo addossato alla parete opposta. Una tenda a righe verticali bianche e blu separava la stanza da un’ambiente più piccolo – quasi certamente la cucina – mentre una scala di legno scuro portava al piano superiore. L’unica nota femminile era data da un mazzolino di fiori rosa acceso, in un vaso al centro del tavolo.
«Accomodatevi», disse la ragazza indicando loro le sedie spaiate attorno al tavolo, prima di sparire dietro la tenda a righe.
Kanon si lascò cadere su una sedia verde scuro, Milo rimase all’impiedi.
«Che aspetti?» si sentì chiedere lo Scorpione.
«Voglio capire quello che sta succedendo», ringhiò basso Milo, mentre oltre la tendina si sentiva l’acciottolio di stoviglie ed una porta che si apriva e si richiudeva con un suono attutito. Athina rientrò nella stanza poco dopo, tra le mani un vassoio con una brocca di terracotta e tre bicchieri.
«Avrete sete», disse con semplicità, posando il proprio carico sul legno grezzo del tavolo.  Socchiuse le persiane e spostò il vaso coi fiori rosa acceso sul davanzale. Poi versò l’acqua nei bicchieri e ne porse loro uno a testa. C’erano delle fettine sottili di limone e qualche fogliolina di menta a galleggiare nell’acqua. E, guardando quel bicchiere, Milo si sentì la bocca riarsa, come se avesse appena attraversato il Sahara.
«Grazie», disse Kanon, prima di accostare le labbra al bicchiere e dare una sorsata generosa.
 Milo lo osservò. Prima ti siedi, prima inizieremo a parlare, prima potremo tornare al Santuario. Questo diceva la postura di Kanon, quella di un uomo paziente che sta per ricondurre alla ragione un monello riottoso. Milo strinse i denti ed in un clang metallico capitolò. Scostò una sedia e vi si lasciò cadere di malagrazia, un gomito sullo schienale a denotare impazienza. Fretta.
Afferrò un bicchiere e lo vuotò in un sorso.
«Grazie.»
Athina si accomodò e posò le braccia sul tavolo. «Mi spiace conoscervi in queste circostanze», disse, le parole attaccate le une alle altre.
«Dispiace anche a noi», ribatté Milo, pompando all’estremo il proprio dialetto, senza nascondere un sorrisetto spocchioso.
Isolani, pensò Kanon, trincerandosi dietro un’espressione atarassica.
«Sapete di noi donne?», chiese Athina.
«Oh sì», ribatté Milo. «Io, per esperienza diretta. Lui l’ho informato per sommi capi», aggiunse, indicando Kanon con un cenno del mento.
«Capisco», ribatté lei.
«Allora, questo ci permette di arrivare al sodo. Quante altre tue compagne salteranno fuori dal cilindro?»
«Sono anche le tue compagne, Scorpio», ribatté pacata Athina. «E se devo essere sincera, non lo so.»
«Non lo sai.»
«No, non lo so. In teoria, siamo dodici. In pratica, non so quante di noi abbiano ricevuto la chiamata.»
«La chiamata?»
«Sì. La mia maestra usava questo termine.»
«E possiamo sapere il nome del tuo maestro… della tua maestra, scusami, o è per caso coperto dalla sigé
«No, certo che no», replicò Athina. «La mia maestra era Asta, Santo d’Argento della Costellazione della Chioma di Berenice.»
«La generazione…»
«di mezzo. O generazione perduta. Sì.»
Athina concluse la frase di Kanon al posto suo. I due rimasero a fissarsi.
«Devi dirmi qualcosa, Kanon?», domandò Milo accavallando le gambe. «Perché io sono qui che aspetto di sentire tuuuuutto quello che sai, mio caro.»
«Quanto tempo abbiamo?» Kanon lo chiese ad Athina, l’espressione preoccupata di chi sa di essersi spinto troppo a largo, fidandosi delle acque calme e placide.
«Tutto quello di cui abbiamo bisogno», rispose lei, andando con lo sguardo dall’uno all’altro.
«Perfetto, ce lo faremo bastare», disse Milo guadagnando una posizione più comoda. Avvicinò la sedia al tavolo, si versò un altro bicchiere d’acqua e poi chiese: «Volete iniziare a raccontare, oppure devo inoltrare richiesta in carta bollata?».
 

A maggio il mondo è bello. Tutto nuovo. Invitante. Sprizza gioia da tutti i pori. E c’è quell’aria frizzante che invita a fare una passeggiata prima che arrivi l’estate e la città si trasformi in un forno ventilato brulicante di turisti. Così Nausicaä quella bella mattina – è il sedici del mese – si è alzata, si è vestita, ha pettinato i suoi lunghi capelli e si è passata un filo di lucidalabbra. Ha sorriso allo specchio, gli occhi un po’ cerchiati di stanchezza, come se si fosse appena ripresa da una malattia. Una di quelle lunghe e debilitanti, che ti costringono a letto per giorni. Mesi, nel suo caso. Sei.
Però, oggi Nausicaä s’è svegliata sentendosi bene. Stava bene. Ha mandato un bacio alla ragazza che la osservava dall’altra parte dello specchio ed è uscita dalla stanza.
«Vado a fare una passeggiata», ha detto a sua madre. Le è arrivata una risposta dalla cucina, lei non ci ha badato. «Non prendo le chiavi», ha aggiunto, prima di varcare la soglia ed uscire nel sole della mattina ateniese.
«Che bella giornata» ha detto – ha sospirato – prima di incamminarsi verso la città, le ruote del passeggino che a cigolare sulla discesa che porta a Plaka. E cammina cammina, Nausicaä si ferma in un posto che non conosce. Fuori città. In campagna. Che ore saranno?, si chiede, lanciando uno sguardo al polso. L’orologio non c’è. Poi ricorda di averlo accarezzato e lasciato sul canterano, accanto allo specchio.
Il sole sta tramontando. Saranno le sette? O le otto? Nausicaä scopre che non le importa. Milos dorme. S’è arreso. Alla fame, al sonno, all’essersela fatta addosso due, tre volte, senza che nessuno si preoccupasse di cambiargli il pannolino.
C’è un ponte, davanti a loro. Sotto, un volo di qualche metro su un fiume che scorre placido verso il mare. E Nausicaä è così stanca. E Milos è così bello, quando dorme. Sembra un bambolotto, ma più bello di quelli con cui giocava da bambina. Ha gli occhi azzurri – azzurrissimi – e le guance tonde e rosse come un paio di melucce. Puzza un po’ – e lei non si è portata dietro alcun ricambio – ma è tanto carino. Magari dormisse sempre così. Tranquillo. Arreso. Zitto. Per sempre.
Così Nausicaä avanza sul ponte, piano piano, le ruote del passeggino che cigolano stanche. Lei non le ascolta. Si ferma esattamente a metà della passerella. Prende in braccio suo figlio, gli accarezza i capelli e si avvicina al parapetto. È un muricciolo basso, a secco, dal cornicione largo abbastanza per salirvi sopra a cavalcioni, le gambe a penzolare nel vuoto, magari con una bibita tra le mani. Una lattina d’aranciata, per esempio. O del tè freddo.
Vi posa Milo, sale anche lei, si mette all’impiedi e prende il suo bambino in braccio. Non s’è svegliato. Meglio così. Non si accorgerà di nulla.
«Scusa», gli dice, accarezzandogli la testa riccioluta. «Scusami», gli sussurra all’orecchio. La sua pelle profuma di latte e talco. «Adesso passa tutto.»
Il vento della sera giocherella coi suoi capelli legati in una coda e le gonfia l’orlo del vestito. Le porta dei profumi caldi, di sale, mirto e zagare, l’alito dello Zefiro trasuda gioia di vivere e allegria in ogni refolo, ma Nausicaä non l’ascolta. Guarda all’orizzonte, senza vedere lo strapiombo sopra cui si stende quel ponte solitario. Non vede niente.
Chiude gli occhi. Prende fiato. E poi spicca il volo. Niente di troppo complicato o coreografico. Le basta fare un solo, semplice passo in avanti. Al resto, penserà la gravità. Basta lasciarsi cadere nel vuoto, il dolce peso di Milo tra le braccia e una scarpa che se ne resta rovesciata sul parapetto, mentre prima l’aria e poi l’acqua accolgono madre e figlio in un abbraccio confortante. Una carezza sulla pelle accaldata, e poi un tonfo liquido. L’acqua le fa il solletico sulle cosce.
Le maniche del vestito di Nausicaa si gonfiano, la gonna rosso ciliegia sale a scoprire le gambe come un paracadute che si gonfia al contrario. Fa freddo, sì, ma è solo un attimo. Mentre la coscienza sfuma – lei è accaldata e l’acqua è fredda e il suo fisico è provato – una mano le appare davanti. Una mano gigantesca, fatta d’acqua.
«Lascialo andare.»
Nausicaä si guarda attorno, cercando a chi possa appartenere quella voce. La luce del sole morente le arriva filtrata, una sfera sfocata e lontana, sopra la sua testa.
Ma cosa?
E sono bolle quelle che escono dalle sue labbra. Ossigeno in forma liquida che sale verso l’alto, verso il sole, verso la salvezza. Milo gli scivola contro il busto, come se l’acqua cercasse di separarli.
No. Lui è mio, protesta tra sé e sé Nausicaä, colle poche forze rimastele. Lo solleva e se lo sistema meglio contro il petto, come se lui fosse un tesoro preziosissimo, o la chiave d’accesso ad un mondo meraviglioso. Un mondo senza dolore, senza ansie, senza preoccupazioni. Un mondo in cui lei non ha paura di prenderlo in braccio, di cambiarlo, di dargli da mangiare. Un posto dove lui non piange. Un posto dove dormire per sempre. Nausicaä si lascia andare. Ha le scarpe da ginnastica ai piedi. I vestiti bagnati si fanno pesanti. Li trascinano giù.
«Se continua così morirete in due. Lascialo andare», ripete la voce, ma lei non vuole saperne, anche se il corpicino di Milo è diventato pesantissimo. Colpa della salopette di jeans, che s’è inzuppata, e del pannolino e.
Ma Nausicaä non ce la fa. Non ha il coraggio di abbandonare suo figlio. Che gli succederà, senza di me?, protesta, i polmoni che iniziano a bruciare e chiedono di tornare a respirare ossigeno in forma gassosa.
«Vivrà», le risponde la voce, tonante come il mare in burrasca. No. Non voglio andarmene da sola, insiste lei, in un ultimo impeto di volontà.
«Lascialo, ho detto.»
Non è una domanda. E le mani di Nausicaä si allentano, e Milo le scivola via dalle braccia, tra tutte quelle bolle che corrono verso l’alto.
Allora è vero. I neonati sanno nuotare, pensa Nausicaä mentre un fuoco liquido s’impossessa dei suoi polmoni e una mano gigantesca – una mano fatta d’acqua – accoglie Milo nel proprio palmo, e lo solleva verso l’alto, verso la luce, verso la salvezza.
E Nausicaä scivola giù, verso il basso, verso il fondo del mare che improvvisamente s’è aperto sotto i suoi piedi. Il ponte di pietra, il pergolato di limoni, il vento di maggio e Milo non ci sono più. Si guarda intorno, allungando in vano un braccio per afferrare suo figlio con la forza della disperazione. 
Chiunque tu sia, aiutami!, grida in una pletora di piccole bolle che salgono anch’esse verso la superficie. Ma Dio non le risponde. Ed è una forza estranea, come una mano gigantesca, quella che le si piazza all’altezza dello stomaco e la spinge verso il basso, verso il letto di un fiume che non le sembrava poi così profondo.
«Hai scelto», tuona quella voce possente, mentre la mente della ragazza si riempie di immagini incoerenti. Una spiaggia a mezzodì, col sole che riverbera allegro sulle onde. Una striscia di rena morbida, tagliata a scimitarra. C’è un cavallo che le viene incontro. Bianco come la luna, la criniera candida a veleggiare nella brezza che sale da ponente. Ha gli occhi neri, occhi grandi e dolci, in cui lei vede riflessa se stessa.
Portami con te, pensa Nausicaä, ma il cavallo sbatte appena le palpebre e la supera, andando al galoppo e lasciandosela alle spalle, come un relitto che il mare ha riportato a galla.
No, aspetta, pensa, ma qualcosa la sospinge indietro. Come una mano forte, una mano d’uomo. Una mano fatta di acqua e cosmo divino. Poseidone. Il Signore dei Sette Mari sta salvando il suo bambino e Nausicaä non si spiega il perché. Vorrebbe dibattersi, lottare, invece di colare a picco, come un’ancora gettata alla fonda. Ma quel fiumiciattolo, che sembrava scorrere placido verso l’Egeo è solcato da correnti impetuose. E Nausicaä si arrende. E se la sua mano molla la presa, quella di Poseidone è più veloce, più impetuosa e più distratta, forse, e le dita di Nausicaä si ritrovano a stringere l’acqua, mentre una forza sovrumana ed annichilente la trascina via.

 
Il soldato si chiamava Daniel e, nonostante gli anni passati all’ombra del Palladio, era più inglese di un piatto di fish’n’chips annaffiato da una pinta di birra chiara. «Sto eseguendo un ordine, signore», rispose, scattando sull’attenti, un palo al posto della spina dorsale e il martello ancora stretto nella mano destra.
«Ordine? Ordine di chi?», domandò Genki paonazzo.
«Del Nobile Gemini», rispose Daniel, come se fosse ovvio. Guardava il Santo dell’Orsa Maggiore come se fosse appena sbarcato da Marte, o da più lontano ancora. Una delle lune di Giove, ad esempio.
Il Nobile Gemini non aveva fatto in tempo ad avvisare gli altri. Non si era lanciata all’inseguimento, subito dopo avergli abbaiato di dare l’allarme?
Certo che sì, anche se a Daniel suonava strano che proprio Seiya di Pegasus, il paladino, il difensore indefesso di Athena, avesse dato di matto e si fosse dato alla macchia. Ma se le voci che circolavano all’ombra dei colonnati erano vere, se realmente era arrivata al Santuario la testa di Athena, allora, forse, non era poi un’ipotesi così campata per aria che Seiya di Pegasus avesse deciso di rompere gli indugi e pretendere quantomeno una spiegazione. Un nome. Una testa infilzata sulla picca più lunga.
«Il Drago e l’Unicorno gli sono corsi appresso per riportarlo indietro», gli aveva abbaiato Gemini, col suo marcato accento delle colonie. «Vado ad aiutarli. Tu dai l’allarme», e Daniel aveva obbedito all’istante, pestando a più non posso la campana col martello, fino a quando l’Orsa Maggiore non era apparso alle sue spalle chiedendogli conto e ragione del proprio comportamento.
No, il Santo dell’Orsa Maggiore non doveva saperne nulla.
«Il Santo di Pegaso ha disertato e il Santo dei Gemelli si è lanciato al suo inseguimento.»
Tombola, pensò Genki. Il dado era tratto. Ora dovevano solo attendere che il piano di Seiya andasse a buon fine. Athena, aiutaci, pregò Genki osservando uno stormo d’uccelli bucare l’azzurro del cielo.
«Continuo, signore?», si sentì chiedere dal soldato.
Genki abbassò lo sguardo su di lui. Scosse la testa.
«No. Ormai è tardi.» Pausa. «Io vado. C’è una riunione d’emergenza all’Arena», e, così dicendo, si avviò zoppicando verso la Scalinata delle Dodici Case.
 
 
 
«Ho un figlio.»
Aristoteles si lascia crollare sulla branda, le molle che protestano con un cigolio lamentoso. Avrebbero bisogno di un po’ d’olio, pensa Rémy, voltando la pagina de I tre Moschettieri con un dito, mentre l’altro, le mani nelle mani, osserva con sguardo perso la polvere sul pavimento.
«Ho un figlio», ripete e Rémy sa che deve voltarsi. L’altro ha un’espressione stravolta, come se qualcuno o qualcosa gli fosse passato sopra. Una mandria di elefanti, per esempio.
Un figlio. Rémy pensa che non c’è nulla di cui stupirsi. 
Succede, se non te ne lasci scappare nemmeno una, pensa, incrociando le caviglie e lasciando da parte il romanzo. «Io. Ma ci pensi?»
«Congratulazioni!», esclama, ché è questo che si fa in simili circostanze. Ci si rallegra, anche se si vorrebbe scappare a gambe levate fino ai confini della terra e oltre. Ma scappare non serve. Sì, in taluni casi la fuga è l’unica possibilità che ti resta, ma quando diventi padre puoi scappare quanto ti pare e piace, fino a consumare le suole delle scarpe. Un figlio è qualcosa che rimane. Che ti lega. C’è.

Scappare non serve. Puoi decidere – devi decidere – se ignorarlo o accettarlo, ma, anche in quel caso, si tratta di far finta che l’elefante nel tuo salotto non solo non esista, ma non si stia mangiando le tendine o la carta da parati.
Aristoteles ha lo sguardo bovino di chi ha appena ricevuto una mazzata tra capo e collo, e nemmeno contempla le possibilità a sua disposizione. Vuole solo mettere quanta più strada possibile tra sé e quella notizia terrificante. 
Ma se ha trovato il modo di raggiungerti fino al Santuario, dove pensi scappare, vecchio mio?

Così Rémy sistema il segnalibro, posa i Moschettieri e si alza.
«Un maschietto, eh?»
Scosta il baule ai piedi del suo letto, sposta l’asse ballerina del pavimento e ne tira fuori una bottiglia a metà di cognac.
«Notizie simili vanno festeggiate!», dice Rémy, trovando due bicchieri – spaiati – e riempendoli fino all’orlo.
Sì, una sbronza è quello che ci vuole. Non risolverà niente, ma l’alcol mette in corpo un’audacia impensabile. E la vita fa meno paura, dopo, quando riemergi dall’obnubilamento che ti regala un’inciuccata con tutti i crismi.
Aristoteles guarda con sospetto il bicchiere che ha di fronte, nemmeno fosse una provetta fumante e puzzolente.


«Congratulazioni, mon vieux!», gli dice Rémy. «Dobbiamo brindare!»
«Brindare?» Aristoteles osserva quel liquido ambrato come se fosse un oggetto sconosciuto e pericoloso.
«Sei diventato padre, sì o no?»
Aristoteles è terrorizzato, e Rémy lo capisce. C’è passato anche lui, qualche anno avanti, quando Fanchon gli ha detto di aspettare un pupetto. Notizie come queste ti cambiano la vita, c’è poco da fare. Hai voglia a dire «Congratulazioni!» e assestare pacche sulle spalle, quando i brindisi sono finiti restano la mamma ed il papà ad occuparsi di quei cosini urlanti. Niente più dormite fino a tardi, niente più libertà, niente più fughe romantiche. 
C’è bisogno di una bella sbronza, adesso, pensa Rémy, ficcando il bicchiere tra le dita di Aristoteles.
«Bevi, Ari.»
«Non hai capito…»
«Sì, invece», ribatte Rémy, «per questo ti dico che devi bere. Avanti», lo incita stringendogli le dita attorno alla ceramica del bicchiere. Aristoteles ubbidisce. «Brindiamo! A tuo figlio!!», e fa tintinnare i loro bicchieri, prima di prendere una sorsata.
Aristoteles lo fissa. Poi tracanna il cognac tutto d’un fiato.
«Allora. Come lo chiamerai?», chiede Rémy, ché è questo che si fa. Bisboccia. Sapere di essere diventato padre è una notizia terrificante, sissignore.
Con le donne sorridi, ti mostri felice – e forse lo sei, sotto sotto – ma la verità è che vorresti metterti ad urlare; e lo faresti, se solo quelle due paroline – «Sono incinta» –  non ti avessero risucchiato tutta l’aria dai polmoni. Ecco perché, dopo, ti trascini al più vicino bar e alzi il gomito oltre ogni decenza. Tu hai dato coraggio a lei, ti sei dimostrato forte, responsabile, la roccia a cui aggrapparsi. Ma a cosa ti aggrappi, tu?
Al coraggio che riposa nel fondo del bicchiere, alle volte.
«Milo.» Pausa. «La madre lo ha chiamato Milo.»
Lo ha chiamato. Quindi è già nato. «Quanto ha?»
«Sei anni.»

Cazzo. «E tu non…»
Aristoteles gli mostra il bicchiere e Rémy lo riempie; il cognac scivola in gola in un’unica sorsata.
«No.» Pausa. «Non lo sapevo. Di avere un figlio. Che lei fosse rimasta incinta…» È come se cercasse di convincere Rémy, e di riflesso se stesso, della propria innocenza.
«Ma perché s’è fatta viva solo adesso?»
Non è questa la domanda, ma è meglio procedere per gradi e avvicinarsi piano piano al nocciolo della questione. Se una donna vuole, ti raggiunge fino in capo al mondo, ma l’indirizzo di Aristoteles non è poi così semplice da reperire. E anche se Aristoteles fosse stato così imbecille da lasciarsi scappare il segreto che riposa dietro il muro dell’emporio di Rodrio, Panagiotis avrebbe negato fino alla morte e oltre. Quindi, il discorso diventa non tanto perché questa donna si sia rifatta viva dopo sei anni, quanto come diamine abbia fatto a trovarlo.

Aristoteles ridacchia.
«Bella battuta», dice, prima di passarsi una mano sul volto.
«Quale battuta?»
«Non si è 
rifatta viva lei», risponde Aristoteles. «L’ho scoperto io. Per caso.»
«Okay.» Rémy si siede sul bordo della propria branda e incrocia le gambe. «Spiegami.»
Aristoteles ci pensa su, come se avesse perso le parole e se le stesse cercando nelle tasche sformate dei calzoni; poi socchiude le labbra e dice: «Ti ricordi il mese scorso, quando il Sacerdote mi ha spedito ad Atene ad occuparmi di una certa faccenda?».
«Sì, e allora?»
«Allora, sono sceso a Plaka. In una certa stradina che arriva proprio ai piedi dell’Areopago.»
«E?»
«E io conoscevo quella maledetta strada. E la conosci anche tu. Lì, ci abitava lei.»
«Lei, chi?»
«Nausicaä.»


«Cosa c’entra la Generazione Perduta in tutta questa storia?»
La domanda di Milo cadde nel vuoto. Attese che l’uno o l’altra rispondessero, che gli fornissero una spiegazione, ma nessuno parlò. Allora Milo s’appoggiò allo schienale e incrociò le braccia. Ho tutto il tempo del mondo, pensò lo Scorpione, anche se era vero l’esatto opposto. Era accaduto qualcosa ad Athena, qualcosa che aveva attutito il suo cosmo splendente; Milo non riusciva a percepirla e questo, a dispetto del racconto di Kanon e della tranquillità con cui quest’ultimo si comportava, gli stava logorando l’anima.
Questa Athina era in combutta con Poseidone, oppure…
La ragazza ricambiò il suo sguardo. Milo optò per quell’oppure.
«La Generazione Perduta», disse Kanon, «è quella dei Santi d’Argento che abbiamo conosciuto da bambini. Boote, Altare, Reticolo, Ofiuco… Te li ricordi?»
«Sì», soffiò Milo. Erano caduti in servizio, si diceva. Uno dopo l’altro. Come mosche, si mormorava tra i corridoi del Santuario, nelle ombre che si allungavano tra le colonne che resistevano al tempo e alla storia.
«Bene. Forse non sono tutti finiti al creatore», aggiunse Kanon fissando Athina.
«No. La mia maestra è viva e vegeta, ma ha appeso la maschera al chiodo, se così si può dire.»
«E degli altri, che ne sappiamo?»
Athina si strinse nelle spalle. «Nulla. Almeno io. So, però, che lei aveva il vincolo della sigé per quanto riguarda il mio caso. È possibile che sia successo lo stesso per chi ha addestrato le altre.»
«Le altre?», domandò Milo.
«Dodici segni, per dodici armature. Sarebbe stato stupido credere che ci fossi solo io», rispose la ragazza. «In più, non hai battuto ciglio quando ti ho rivelato chi sono. Né tu, né lui», disse, indicando Kanon. «Quindi, l’unica spiegazione possibile è che voi abbiate conosciuto un’altra mia compagna. Chi?»
«Gemini», soffiò Milo.
«Gemini», ripeté Athina.
«Chi altri sapeva di te? Di voi?», domandò Kanon.
«Poche persone. Oltre alla mia maestra, Rémy di Boote, Aristoteles di...»
«Aristoteles?», sibilò Milo.
«Sì», rispose lei. «L’hai conosciuto?»
«Era» mio padre «il mio maestro. Non mi ha mai parlato di te.».
«Sigé», rispose Athina. «Ma sul perché anche lui fosse implicato in questa missione, non saprei davvero dirlo.»
«Tutto questo non ha senso», commentò Milo.
«Concordo», gli fece eco Athina.
«Okay. Procediamo con metodo», propose Kanon.
«Ossia?», chiese Milo.
«Ordine e pulizia. Facciamo ordine e puliamo il campo da tutte le ipotesi inutili.»
Gli altri due lo fissarono, poi annuirono. Non ho perso il mio tocco, pensò Kanon trattenendo un sorriso.
«Quello che sappiamo è che la Generazione Perduta era legata dalla sigé ad un progetto. Tu», disse, indicando Athina, «sai qualcosa che noi non sappiamo.».
«So che il Sacerdote ha imposto la sigé alla mia maestra.»
Il Sacerdote. Saga, pensò Kanon, assottigliando gli occhi. Lo sguardo di Milo gli stava trapassando il cranio. «Il Sacerdote», ripeté, come sovrappensiero. «È possibile che il Sacerdote volesse mantenere il riserbo sul tuo addestramento e che Aristoteles fosse coinvolto in qualche modo in questa missione. Magari, avrebbe dovuto addestrare qualcuno a sua volta.»
«No», disse Milo. «Non ne avrebbe avuto il tempo materiale.»
«Potrebbe aver addestrato qualcuno, dopo aver badato a te», obbiettò Kanon. «Non tutti sono teste dure, sai?»
Milo incassò. «Certo. Ma Aristoteles è stato tra i primi a cadere in servizio», replicò lo Scorpione. Quand’era stato? Quand’è che Aristoteles aveva lasciato il Santuario per non fare più ritorno? Il 1981? O poco prima? «Quindi, se ha addestrato qualcuno, deve averlo fatto prima di badare a me. Ma questo dipende…»
«Dipende, da che?»
«Da quale sia stato il Sacerdote che ha legato Aristoteles e gli altri con la sigè.» E sorrise. «Il Sommo Sion? Oppure, Saga?»
Kanon incassò a sua volta, poi ribatté: «Touché».
«A questo posso rispondere io», s’intromise Athina, il bicchiere vuoto tra le dita.
«Puoi?»
«Sì. Posso. Perché me l’ha spiegato Athena stessa.»
«Cosa?», replicarono in coro.
Athina si disse che quei due avrebbero formato una coppia artistica perfetta. Meglio degli Wham!, pensò. Sorrise, li guardò, e disse: «Athena è stata qui.».
«Quando?», chiese Milo.
«Qui?», domandò Kanon.
«È venuta lo scorso agosto. Sola. Faceva un caldo disumano, uno di quelli in cui sudi anche solo a pensare. È sbarcata qui col suo bel vestito bianco, fresca come una rosa, e mi ha detto che era un piacere conoscermi.»
«E tu?», chiese Milo. Kanon pendeva dalle sue labbra, incapace di spiccicare mezza parola.
«Io?!» Athina sgranò gli occhi. «E chi se l’aspettava?! Io stavo verniciando le imposte e lei si è presentata a sorpresa, come se fosse passata a trovare una vecchia amica.»
«E?», l’incalzò Milo, deciso a farle vuotare il sacco.
«E lei mi ha confidato che Gemini si era fatta avanti. Era uscita allo scoperto. Io non ne sapevo nulla. Né so che faccia abbia, questa Gemini, figuriamoci! Così, lei ha voluto sentire la mia storia. La mia versione dei fatti, potremmo dire. E io gliel’ho fornita.»
«Ripeticela.» Era un ordine, quello; Kanon lo sapeva bene, ma se ne infischiò. Non c’era tempo per i convenevoli.
«Non ho mai parlato con Gemini. Non abbiamo mai concordato di farci avanti. Il mio ordine era di aspettare sino a quando Athena stessa non mi avesse mandato a chiamare. Forse non sarebbe mai accaduto. Io dovevo solo attendere.»
Si alzò, andò in cucina e riempì la brocca con dell'acqua fresca. Tornò dai suoi ospiti, riempì i loro bicchieri, poi bevve.
«Il Sacerdote… Saga», si corresse Athina, «ha deciso di ricreare il cenacolo femminile. E siccome, dopo il tradimento di Aiolos, non ci si poteva più fidare di nessuno…»
«Ha imposto a tutti la sigé», concluse Milo con una smorfia.
«Esatto», disse Athina, annuendo.
«E la sigé delle donne. E la sigé dei bronzetti…» Milo scosse la testa. «La reggenza di Saga è stata piena di segreti più di un film di James Bond!»
«La reggenza di Saga?», domandò Kanon. Perplesso.
«Sì», gli rispose Milo, facendo un gesto con la mano, come a scacciare una mosca fastidiosa dal pane. «È così che l’ha definita Gemini. Reggen… Oh, cazzo!»
Milo cercò con lo sguardo Kanon. E si accorse come anche lui fosse arrivato alle sue stesse conclusioni.
«No», disse Kanon, allungando una mano davanti a sé, a proteggersi da quell’ipotesi. «No. Non è possibile.»
«Sì che lo è. E lo sai anche tu.» Milo decise che non gli avrebbe concesso quartiere. «Era tuo fratello, dopotutto. E una mela non cade troppo lontano dall’albero, giusto?»
Kanon inspirò a fondo un paio di volte, poi disse: «Sì. Ne sarebbe stato capace», concluse. «Ma nemmeno Saga avrebbe potuto trovarsi nello stesso posto contemporaneamente!»
«Lui, no. Ma il Sacerdote, sì.»
 





Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Grafica ® Francine.




Note:

Che la vita sia una stronza credo di avervelo detto non so più quante volte. Ad ogni modo, il capitolo è qui. Buona lettura.
   
 
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