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Autore: Luinloth    02/02/2019    3 recensioni
What If tra la terza e la quarta stagione.
Dopo aver salvato l’Uomo Giusto dall’Inferno, Castiel viene a conoscenza dei piani di Michael per scatenare l’Apocalisse e decide di ribellarsi. A causa della sua disobbedienza, privato per sempre delle sue ali e della sua grazia, viene scaraventato sulla terra dove, per sopravvivere, inizia a vendersi lungo la statale. I Winchester, ignari delle sorti decise per loro dal Paradiso e di come Dean sia stato riportato in vita, hanno abbandonato la vita da cacciatori e vivono in una palazzina anonima alla periferia di Lawrence. Una notte di pioggia Dean incrocia Castiel sulla sua strada e l’Inferno riemerge prepotentemente dai suoi ricordi sotto forma di due occhi blu.
Dal testo:
“Volevi parlare” – il moro lo interruppe, serafico – “Parla”
Ero all’Inferno e ho visto i tuoi occhi.
Non era decisamente un buon modo di intraprendere una conversazione.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bobby, Castiel, Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Quarta stagione
Capitoli:
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Disclaimer: storia scritta senza scopo di lucro, nessuno dei personaggi mi appartiene




Erano passate due settimane e Dean aveva iniziato a deviare per la 201 molto più spesso di quanto non volesse ammettere.

Aveva assistito – più o meno di sfuggita – a quattro risse, aveva quasi investito due ubriachi che attraversavano la strada a braccetto e aveva incrociato un numero imprecisato di prostitute che salivano e scendevano da utilitarie color topo o da orribili SUV dalle maniglie cromate, ma di Castiel nessuna traccia.
Avrebbe giurato di aver sognato tutto se non fosse stato per i suoi incubi, diventati sempre più frequenti – da due settimane andava in giro con un bel paio di occhiaie violacee da spiritato – e che ormai si focalizzavano sempre sulle stesse immagini: Alastair che gridava, luce bianca che pioveva sulla sua testa e due ali nere come il giaietto che si chiudevano su di lui.

Era quasi mezzanotte, era venerdì, e Sam lavorava fino a tardi.
Lui si era appisolato sul divano e si era risvegliato boccheggiando, la cicatrice che pulsava dolorosamente sulla sua spalla e la familiare sensazione di panico alla bocca dello stomaco.
Aveva rivisto per l’ennesima volta “Indiana Jones e l’Ultima Crociata” – indubbiamente il migliore della saga, nonché il suo preferito – e poi aveva guidato fino in città per dare un’occhiata al nuovo bar nelle West Hills che alla fine non si era rivelato niente di che, troppi liceali sbronzi alla seconda birra e troppe ragazzine in minigonna dalla vocetta stridula.

La 201 brulicava di vita miserabile: periodicamente – una o due volte al mese – la polizia faceva irruzione in qualche edificio, arrestava una dozzina di barboni o di spacciatori o di persone più o meno a caso, e la strada per un po’ diventava improvvisamente silenziosa, prima di riprendere dopo qualche giorno con le sue solite attività.

Schivò una bottiglia di vetro abbandonata in mezzo alla carreggiata e rallentò quel tanto che bastava a scorgere il volto di due ragazzi dai capelli neri che occupavano una panchina arrugginita, ma nessuno dei due era Castiel.
Il più giovane aveva un laccio emostatico legato sopra il gomito, e Dean distolse lo sguardo prima di cedere all’impulso di scendere dall’auto, assestare un paio di sberle a entrambi e trascinarli per le orecchie dai rispettivi genitori, molto probabilmente per rifilare un ceffone anche a loro.

Arrivò alla fine della strada, incerto sul da farsi: non aveva idea di cosa avrebbe potuto dire a Castiel una volta – e semmai – fosse riuscito a ritrovarlo. Il moro infatti dopo il loro primo e unico breve scambio di battute si era chiuso in un mutismo ostinato che aveva spiazzato Dean molto più dei flashback insanguinati che gli passavano davanti agli occhi.
Razionalmente, la cosa migliore da fare sarebbe stata convincerlo a rivolgersi a un qualche tipo di assistente sociale, a una casa-famiglia, a qualche centro di recupero specializzato, persino a una fottutissima parrocchia, purché abbandonasse per sempre quel covo di disgraziati.
Irrazionalmente, invece, tutto ciò che voleva fare era portarlo via con sé e baciarlo e adorarlo e farsi possedere da lui finché entrambi non avessero avuto più aria per respirare e anche se sapeva che era un’idea stupida, così stupida – convincerlo a venire via con lui – il solo pensiero di non rivederlo più gli provocava un senso di panico incontrollato.

Alla fine guardò l’orologio e imboccò una via laterale poco illuminata: questione di una mezz’ora, Sam avrebbe finito il turno e lui non voleva trovarsi di nuovo puntati addosso quegli occhi indagatori.
A suo fratello non era sfuggito l’intensificarsi dei suoi incubi negli ultimi giorni – figuriamoci – e la sua apprensione rischiava di arrivare a livelli mai raggiunti prima che Dean non aveva la minima intenzione di sperimentare.

Due automobili – troppo buio per riconoscerne il modello – sfrecciarono nella sua direzione facendo stridere le gomme sull’asfalto e obbligandolo a sterzare bruscamente per evitare di finirgli addosso: l’interno dell’abitacolo si riempì dell’odore acre della gomma bruciata.

“Pirati della strada!”
Percorse poche centinaia di metri, finché la luce giallastra proiettata dai fari dell’Impala non intercettò una figura umana riversa sul ciglio della strada.

Raggomitolato nel suo trench di due taglie di troppo, Castiel sembrava quasi dormire: un sottile rivolo di sangue gli colava dal sopracciglio, incrostandosi in una pozzanghera bruna sull’asfalto.

Respirava.

Aveva troppa paura che avesse qualche frattura o lesione interna per spostarlo.
Il motore dell’Impala era rimasto acceso e Dean aveva fatto del suo meglio per non vomitare contro la portiera ma adesso l’Inferno emergeva da ogni crepa della strada, l’odore di zolfo si mischiava all’umidità della notte e la sua spalla era in fiamme al punto che temette di sentire la carne sfrigolare come fosse su una graticola.

Davanti ai suoi occhi, nella più realistica allucinazione che la sua mente avesse mai partorito, dalla schiena di Castiel iniziarono ad allungarsi due ali nere. I fanali dell’auto ne proiettavano la gigantesca ombra sul terreno.
Riuscì miracolosamente a tirar fuori il cellulare per chiamare il 911, poi svenne.

Quando riprese i sensi – da lontano – si sentiva già la sirena dell’ambulanza.






“Lei è un parente?”

Avevano portato d’urgenza Castiel al pronto soccorso più vicino – lui aveva seguito l’ambulanza con il cuore che gli batteva nel petto alla stessa velocità di un martello pneumatico – lo avevano attaccato a una sacca di sangue e lo avevano chiuso in una sala operatoria lasciando Dean a languire su una poltroncina scolorita – e quantomai scomoda – per un tempo che gli era parso infinito.

“Un…parente?” – si stropicciò gli occhi con le dita. La macchinetta del caffè dell’ospedale era rotta e a quell’ora della notte – o del mattino, non ne era troppo sicuro – senza una generosa dose di caffeina lui non ricordava nemmeno come si chiamava.

“Sono ore che non fa altro che chiedere di un certo Castiel, signore, immagino si riferisca al ragazzo che abbiamo ricoverato un po’ di tempo fa in codice rosso”

L’infermiera era bassina, grassottella, e non dimostrava più di trent’anni: ciocche castane facevano timidamente capolino dalla cuffietta verde: gli sorrise incoraggiante.

“Se non è un parente, per conoscerne il nome, immagino sia un amico, un conoscente almeno”

Una voce gracchiante dall’interfono avvisò che un certo Dottor Foster era atteso con urgenza in cardiologia.

“Sì, cioè, no, no io… sono solo quello che l’ha trovato”

La donna parve accigliarsi un poco.

“Adesso è fuori pericolo, lo abbiamo stabilizzato e per il momento lo teniamo sotto osservazione” – si avvicinò, fin troppo cautamente per dovergli solo chiedere dell’assicurazione sanitaria – “Senta, signor…?”

“Jones”
“Bene. Signor Jones, normalmente non dovremmo dare alcun tipo di informazioni sui nostri pazienti ad altre persone che non siano i familiari più stretti ma…” – mentre parlava si mordicchiava il labbro inferiore. D’un tratto gli prese delicatamente la mano, invitandolo a seguirlo lungo il corridoio.

“Venga con me per cortesia”

Camminarono per un paio di minuti, fino a raggiungere quella che doveva essere la sala macchine del pronto soccorso. L’infermiera fece un cenno a un uomo in camice bianco, altissimo e secco come un chiodo – i due, uno accanto all’altro, formavano l’accoppiata più stramba dell’ospedale – il quale si accomiatò con straordinaria rapidità da un paio di tirocinanti dall’aria smarrita e li raggiunse stringendo tra le mani una cartellina beige.

“Dottore, il signor Jones”

L’uomo gli tese la mano.

“Molto piacere, io sono il primario, il Dottor Sewed”

Che cognome bizzarro.

“Lei è dunque un familiare di…Rita come ha detto che si chiama il ragazzo, Carl, Cas?”

“Castiel. A quanto mi ha detto, il signor Jones è soltanto quello che l’ha trovato e ha chiamato l’ambulanza, purtroppo” – Rita si grattò la fronte da sotto alla cuffietta verde.

Dean spostava il peso da una gamba all’altra, dondolandosi nervosamente sui talloni. Da quando l’infermiera gli aveva detto che Castiel era fuori pericolo, l’adrenalina che l’aveva tenuto sveglio e più o meno vigile fino a qual momento era andata lentamente scemando, e adesso aveva le ginocchia molli come gelatina e un bisogno tremendo di un letto, un divano o un pavimento dove poter riposare qualche ora.

“Ci siamo visti una sola volta” – balbettò – “So come si chiama, ma niente di più. Tornavo a casa in macchina e l’ho trovato sul bordo della strada”
Il dottor Sewed lo osservava con aria grave.
“Non sa dove abita? Il suo cognome, età, ha per caso un suo contatto, un numero di telefono?”
Dean scosse la testa.

“D’accordo” – il medico aprì e richiuse la cartellina beige un paio di volte, incerto.

“Sono passate quasi sei ore dal ricovero” – borbottò leggendo qualcosa da un foglio – “E non abbiamo ricevuto alcuna telefonata da parte di un genitore, di un coniuge o di nessun altro. Castiel – o almeno il ragazzo che lei chiama Castiel – non aveva con sé documenti, cellulare o effetti personali tramite i quali potremmo risalire alla sua identità. Abbiamo controllato le denunce di sparizione e allertato la polizia, ma non abbiamo trovato nulla. Ad essere sinceri, il suo amico sembra essere caduto dalle nuvole”

Estrasse dal fascicoletto una serie di lastre radiografiche e gliele porse.

“Signor Jones lei è l’unica persona che sembra aver mai avuto a che fare con Castiel e per quanto ciò che sto per fare viola terribilmente il mio codice deontologico e professionale, qui c’è qualcosa che dovrebbe vedere”

Dean non aveva mai studiato medicina e aveva appreso da John quel po’ di nozioni di primo soccorso necessarie a mantenerlo tutto intero durante e dopo una caccia: ad ogni modo non serviva certo una laurea per capire che le immagini dello scheletro proiettate sulla lastra non potevano appartenere ad un uomo normale.

Partendo dalle scapole fin quasi a metà della colonna vertebrale, c’erano delle ossa in più.

E a giudicare dalle loro estremità irregolari sembrava che qualcuno, quelle ossa, gliele avesse spezzate di netto.






Quando Castiel si svegliò, gli faceva male la testa. Gli faceva male la faccia, gli facevano male le costole e gli faceva male un’impressionante serie di parti del corpo che non sapeva nemmeno che gli umani avessero ma che in quel momento reclamavano tutta la sua attenzione.
Poi vide Dean Winchester seduto di fronte a lui e pensò di essere anche impazzito.

“Ehi… come ti senti?”

Allucinazioni uditive oltre che visive.

“Castiel?”

E chi è che gli aveva diminuito gli antidolorifici?

Con quello che gli parve il più grande sforzo della sua breve vita mortale, si issò sui gomiti ignorando le grida di protesta delle sue costole contuse; il rumore del monitor per l’elettrocardiogramma era snervante.

Bip, bip, bip.

“C-cosa ci fai qui?” – biascicò con voce impastata. Provò ad allungarsi verso l’apparecchio per la morfina ma qualcuno l’aveva spostato e ora era troppo lontano per raggiungerlo senza doversi alzare dal letto.
“Vacci piano con la morfina” – Dean gli porse un bicchiere con una cannuccia – “O quella roba ti friggerà il cervello”
Castiel mugolò qualcosa che assomigliava a una protesta.
“Ho qualche problema con la soglia del dolore” – afferrò il bicchiere con entrambe le mani e bevve un paio di sorsi: la ferita sul labbro si riaprì e riprese a sanguinare.

Bip, bip, bip.

“Giuro che troverò quei figli di puttana che ti hanno ridotto in questo stato e li farò a pezzi con le mie stesse mani”

Dopotutto Dean Winchester non era mai stato un grande amante dei giri di parole (né del concetto di giustizia della polizia federale).

Castiel sorrise – o meglio, provò a sorridere nel modo meno doloroso che gli permetteva una faccia mezza tumefatta – e sprofondò nuovamente tra i cuscini. Se quella era un’allucinazione, era la cosa migliore che gli fosse capitata da quando era stato cacciato dal Paradiso.

“Erano in tre” – mormorò, più a se stesso che al proprio interlocutore – “Sembravano ragazzini. Sono salito sulla macchina di uno di loro, ma c’era un’altra auto parcheggiata lungo la strada. Abbiamo accostato, avevo già il cellulare in mano quando gli altri due hanno aperto la portiera e mi hanno trascinato fuori. Ho provato a difendermi ma questo corpo umano è così… ”

S’interruppe di colpo, impallidendo.
Riprese il bicchiere cercando di dissimulare ma non aveva più controllo sulle proprie emozioni di quanto ne avrebbe avuto un bambino, e non riusciva a fingere di non essersi lasciato sfuggire qualche parola di troppo.

“Castiel?”

E Dean si accorgeva, sempre, di tutte le parole di troppo.

All’improvviso i loro occhi si ritrovarono a nemmeno mezzo metro di distanza: la morfina gli aveva rallentato i riflessi e quello spostamento repentino gli fece girare la testa.

“Castiel, accadono cose strane da quando ci siamo… incontrati: e credimi se ti dico che nella mia vita ne ho viste tante di cose strane

Vicino. Così vicino.
Gli mancava non poter più sentire i suoi pensieri, lui era l’unico umano con il quale l’avesse fatto più d’una volta. La mente degli uomini gli sembrava così ridotta prima, così monotona e piatta che non aspettava altro che uscirne, ogni volta che era obbligato a scandagliarne i recessi, figuriamoci volerci entrare di nuovo.

“Io non voglio farti del male ma ho bisogno di sapere, ho bisogno di capire” – Dean continuava a parlare, pacato, ma risoluto – “Altrimenti di questo passo, se non sono già impazzito, impazzirò di certo”

Si spinse ancora un po’ verso di lui: sentiva il suo respiro sottile sulla faccia.

“Sei stato all’Inferno? Sei stato all’Inferno quando c’ero anch’io?” – la sua voce s’incrinò – “Che cosa sei? Che cosa mi hai fatto?” – una grossa, solitaria lacrima gli rotolò lungo lo zigomo.

Castiel era stanco.
L’uomo per il quale era disceso negli abissi compiendo imprese degne d’un Arcangelo era davanti a lui, e lui si sentiva inerme. Gli faceva male la schiena: quel che rimaneva delle sue ali sembrava sul punto di voler bucare lo spesso strato delle cicatrici e spiccare il volo.

Era dolorante, spaventato – da quando aveva incontrato Haziel le sue parole avevano iniziato a rimbombargli nel cranio come un irrevocabile presagio di morte – e magari stava accadendo tutto solo nella sua testa, tra un po’ si sarebbe svegliato e non ci sarebbe stato nessuno seduto ai piedi del suo letto, nessun respiro sottile a infrangersi sulla sua faccia, solo il bip bip del monitor e l’apparecchio per la morfina troppo lontano dal letto.

E poi, cos’altro aveva da perdere?

Gli occhi di Dean erano di nuovo asciutti: sembrava passata un’eternità da quando quell’unica lacrima era precipitata sulle lenzuola.

Bip, bip, bip.

“Io sono quello che ti ha afferrato e che ti ha salvato dalla perdizione”




Grazie a chiunque abbia recensito/messo la storia tra le seguite/preferite.
Alla prossima settimana!

   
 
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