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Autore: antigone7    19/07/2009    1 recensioni
È venerdì sera e come tutti i venerdì sera siamo, noi soliti cinque più il ragazzo di Audrey, seduti al solito tavolo del solito bar, aspettando che il solito Dave ci porti le solite cose da bere e si sieda con noi.
Siamo Delia, Matt, Audrey con Phil, David, Josh, e io, Jude.
Se te lo stai chiedendo, sì, sono una ragazza. Immagino che il mio nome ti abbia tratto in inganno, ma in realtà mi chiamo Judith, come quell’eroina ebraica che per salvare il suo popolo sedusse e poi tagliò la testa a Oloferne e bla bla bla, esatto. Tutti però, o quasi tutti, mi chiamano Jude come, per restare nell’ambito “paragoni famosi”, Jude Law o come quello di “Hey Jude” dei Beatles, con la piccola differenza che loro sono individui di sesso maschile, io femminile, ecco.

Sei amici, un locale e qualche venerdì sera di troppo...
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Marie's and surroundings'
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2. Josh e il suo dannato intuito



Josh ed io ci conosciamo da quand’eravamo alti meno di un metro. Le nostre mamme diventarono amiche seguendo assieme un corso di cucina mediorientale, alla fine del quale organizzarono una cena per far conoscere le rispettive famiglie e dare prova di ciò che avevano appena imparato.
Io e Josh ci vedemmo la prima volta lì, all’età di quattro anni: lui con quei capelli mori, mossi e scompigliati, gli occhi blu e l’aria da finto timido, io con un appariscente vestito a righe blu e gialle, e lo sguardo nero poco socievole. Mia madre, Greta, e la sua, Christine, ci presentarono e ci lasciarono a giocare assieme. Dopo qualche titubanza, sparimmo nel cortile posteriore della casa di Josh e quando tornammo eravamo ricoperti di fango fino ai capelli e molto soddisfatti.
Da quel giorno continuammo a vederci abbastanza spesso, con le nostre famiglie o al parco giochi vicino a casa di entrambi, e inventammo un sacco di nuovi modi per divertirci. Perlopiù prediligevamo i giochi alla fine dei quali eravamo sporchi e stanchi morti, pronti a tornare a casa per farci sgridare di santa ragione dalle nostre povere mamme.
Con l’inizio della pubertà ci allontanammo: alle medie non frequentavamo la stessa scuola e le nostre famiglie avevano avuto un piccolo litigio per motivi che compresi solo più avanti. Inoltre, Josh si era realmente instupidito, come tutti i ragazzini di dodici anni, mentre io cominciavo ad avere un po’ più di cervello e a responsabilizzarmi, come alcune ragazze a quell’età.
Ricordo di averlo davvero odiato per un po’. Lui girava con un gruppo di amici zucconi e ormonati che comunicavano emettendo più che altro grugniti e parolacce, io mi ero facilmente trovata una nuova migliore amica, Sadie. A lei piaceva Josh, anzi, aveva una vera e propria cotta per il mio amico e arrossiva fin sopra le orecchie ogni volta che lo vedevamo per strada. Io, invece, lo trovavo un vero idiota: ricordavo il bambino simpatico e sveglio con cui andavo sulle altalene, e mi sembrava che il nuovo lui non avesse niente a che fare con quello vecchio e divertente.
Eravamo giunti al punto che, se ci incontravamo per strada, lui, con i suoi amici, mi prendeva in giro, e io lo insultavo neanche tanto di nascosto. Per fortuna, causa litigio tra famiglie appunto, non eravamo più costretti a passare del tempo assieme.
Dopo questi tre o quattro anni di odio profondo ci ritrovammo, a quattordici anni, nello stesso liceo pubblico, per la precisione vicini di armadietto. Quando lo scoprimmo ci guardammo inorriditi ed esclamammo all’unisono un “NO!” esasperato, per poi decidere di comune accordo che avremmo finto di non conoscerci e che saremmo rimasti il più distante possibile l’uno dall’altra per evitare di scannarci.
Quel giorno, il primo di liceo, ero già triste e sconsolata perché Sadie si era trasferita a Manchester e potevamo sentirci solo via mail o via posta, quindi rivedere anche Josh fu un brutto colpo. Fortunatamente conobbi subito Audrey e nelle due o tre settimane successive parlando con lei insultai Josh in tutte le lingue del mondo e in tutti i modi possibili.
Ad un certo punto accadde l’inimmaginabile. Un giorno, tornando da scuola a piedi, vidi la zazzera scura di Josh in lontananza: era seduto sull’altalena di un parco giochi che si trova circa a metà strada tra le nostre due case, un posto dove ci incontravamo abitualmente anni prima per giocare. Sembrava piuttosto giù di tono.
La mia prima reazione fu quella di pensare un accorato “ben gli sta!”, per poi sentirmi subito in colpa. Superandolo a testa bassa, allora, mi giustificai con me stessa pensando che non erano affari miei, che io e Josh non ci parlavamo civilmente da anni, che eravamo incompatibili, che non potevo farci nulla. Ma, tutto sommato, sono una persona dal cuore generoso – o forse solo una pazza suicida? – quindi, spinta dai morsi della mia coscienza autolesionista, dovetti tornare indietro e sedermi sull’altalena di fianco alla sua.
Me lo ricordo ancora come se fosse ieri. Mi sedetti lì pronunciando un saluto appena accennato a cui lui rispose in egual maniera, e poi non dissi più niente: non una domanda, una forzatura, un tentativo di rimembrare i bei vecchi tempi, un insulto per ricordargli il nostro odio, nemmeno uno sguardo di sbieco, niente. Rimanemmo entrambi in silenzio per almeno venti minuti, a dondolarci piano e ad ascoltare il cigolio triste delle altalene, finché Josh non tirò faticosamente su col naso e parlò.
“I miei si stanno separando, mio padre va a vivere con un’altra donna,” disse.
Non risposi, non sapevo cosa dire, così lui aggiunse: “non ho voglia di tornare a casa, adesso”, e io gli dissi semplicemente che non doveva farlo per forza, che potevamo stare lì a parlare un po’ oppure andare a prendere un gelato e passeggiare. Josh sorrise debolmente e mi ringraziò, dopodiché passammo tutto il pomeriggio assieme, come un tempo. Scoprii che anche lui si sentiva piuttosto solo, molto più di me in realtà: non aveva più amici perché con quelli di prima non si trovava per niente bene, i suoi genitori non lo badavano e suo fratello maggiore era scappato dall’altra parte del paese per evitarsi quella brutta situazione.
Non mi ha mai chiesto scusa per il suo comportamento negli anni precedenti e io non l’ho fatto con lui, ma sapevamo da subito che non sarebbe stato necessario: le persone cambiano e a volte si allontanano definitivamente, ma noi capimmo che avevamo ancora tempo e voglia di stare vicini.
Da quel punto in poi, ci volle davvero poco per divenire migliori amici: ci confidavamo, andavamo al cinema, ci spalleggiavamo di fronte alle difficoltà, ci capivamo al volo senza bisogno di parole, ridevamo per ore e ore per motivi stupidissimi, litigavamo e tornavamo subito a cercarci, troppo orgogliosi per domandare scusa ma troppo deboli per restare a lungo separati l’uno dall’altra.
Eh sì, non è mai stato un rapporto semplice e tranquillo il nostro, ma piuttosto combattuto e complicato, soprattutto i primi tempi del riavvicinamento, ma anche durante gli anni successivi. Spesso lo odiavo solo per il fatto che mi pareva stesse sempre lì a studiarmi, a giudicare i miei comportamenti, finché non capii che lo faceva, e lo fa tutt’ora, semplicemente perché mi vuole bene ed è il suo modo di dimostrarmelo: morbosamente forse, ma con un affetto più che sincero. Litigavamo in continuazione – capita spesso anche oggi, in realtà – per le nostre divergenze d’opinione su ogni argomento esistente, tranne quelli veramente importanti, sui quali in genere ci troviamo d’accordo: non parlo di discussioni veloci e indolori, parlo di guerre mondiali in piena regola che potevano anche finire con insulti e urla.
Una buona parte delle persone del nostro liceo era convinta che fossimo troppo vicini per non essere cotti a vicenda dell’altro: credevano tutti che presto avremmo coronato il nostro amore iniziando una relazione felice, ma era solo strano per loro vedere un ragazzo e una ragazza così amici, così complici, senza confusioni sentimentali. Eravamo così.
Ancora adesso Josh è l’unica persona che riesce a capire il mio stato d’animo con uno sguardo o una telefonata. Non ci vediamo più tutti i giorni, perché frequentiamo due università diverse, ma stiamo insieme quasi ogni fine settimana e ogni tanto lui prende la macchina e passa a trovarmi al mio campus.
Non avrei mai dovuto innamorarmi di lui, perché è il mio migliore amico. Lo so bene. Eppure, è difficile.
Josh è alto, moro, coi capelli mossi sempre spettinati, e ha degli occhi blu stupendi. È divertente, testardo, orgoglioso, disordinato, incostante con le donne, bello, ironico, perspicace, dolce, appiccicoso, attivo, disorganizzato, puntualissimo, geloso, fedele e premuroso.
È un agglomerato di contraddizioni. È sempre pronto a scherzare, anche con il fuoco a volte, ma sa essere serissimo nelle situazioni che lo richiedono. Frequenta un sacco di gente ed è corteggiato da una lunga serie di ragazze, ma poche di queste persone lo conoscono realmente. È schietto con chi ama, negligente con il resto del mondo. È estremamente intuitivo con gli altri, ma poco attento a ciò che capita a lui.
Potrei andare avanti all’infinito a descriverlo.
È il mio migliore amico.
Non voglio perdere una delle cose più belle della mia vita.
Ho sentito per la prima volta che qualcosa non quadrava tre mesi fa, quando Nick, con cui stavo da qualche settimana, mi ha lasciata per un’altra e Josh è corso a consolarmi. Non lo vedevo da quindici giorni e, quando ho aperto la porta e lui mi si è fiondato addosso abbracciandomi, ho pensato tra me e me che perdere un coglione per rivedere il mio migliore amico era uno scambio più che vantaggioso. Mi ha sussurrato “Batuffolo, mi dispiace”, chiamandomi col soprannome che mi ha appioppato per via dei miei capelli, e io ho sentito più di un brivido percorrere la mia schiena. Lui ha pensato che avessi freddo e mi ha stretto ancora di più. Risultato: ho passato i giorni successivi a domandarmi che cavolo fosse successo per poi liquidare il tutto spiegandolo con un mio bisogno d’affetto.
Ci sono stati altri episodi del genere in queste ultime settimane ed io da brava scema ho sempre fatto finta di nulla. Finché non sono scoppiata.
L’altra notte ho sognato che io e Josh stavamo assieme. Nel sogno era come se fosse normale: eravamo in spiaggia a ridere e scherzare con i nostri amici, a un certo punto lui si chinava su di me e mi baciava, bello come non mai. Assurdo. Mi sono svegliata con una mano sulla bocca e gli occhi lucidi.
Il sogno mi ha portato a dover ammettere una cosa impensabile: sono innamorata del mio migliore amico ed è troppo tardi per tornare indietro. Rivederlo stasera non ha fatto altro che confermare ciò che pensavo.

Sto ancora guardando le stelle, persa nei miei pensieri malinconici, quando sento qualcosa che mi si appoggia sulle spalle.
“Ah sei tu. Mi hai fatto prendere un colpo,” dico guardando Josh che si siede accanto a me.
“Ho pensato avessi freddo,” risponde e mi accorgo che mi ha portato la giacca.
Me la infilo. “Grazie.”
Scrolla le spalle e mi osserva, così sono costretta a puntare nuovamente lo sguardo al cielo.
Sento comunque i suoi occhi fissi su di me, preoccupati e confusi, ma non gli chiederò né come faceva a sapere dov’ero né perché è venuto a cercarmi. Conosco già entrambe le risposte.
“Free,” mi chiama abbreviando il mio cognome, Freeland, “che hai?”
“Niente,” rispondo di nuovo troppo in fretta.
Sbuffa e prende a carezzarmi i capelli. “Dai, dimmelo.”
So che così continueremo ad oltranza, perché lui non si arrenderà facilmente. Ma non posso dirgli la verità.
“Sono un po’ giù,” mormoro incassando la testa fra le ginocchia.
Che schifo, mi sento una lagna. Volevo che smettesse di toccarmi i capelli, mi stava destabilizzando, e almeno ci sono riuscita.

“Perché?”
“Boh.”
“Quando sei triste tu hai sempre un motivo,” ribatte lui, pragmatico e saccente, “anche se è solo un po’ di mal di testa.”
“Ho le mestruazioni…” invento in fretta sperando di ingannarlo.
Ride. “È impossibile, le avevi anche due settimane fa.”
Sbarro gli occhi, colpita. E lui come fa a ricordarselo?
“Che fai adesso, mi controlli il ciclo?” gli chiedo stupita voltandomi di nuovo verso di lui.
Alza le spalle, sorridendo e facendomi perdere un battito. Diamine, ho sbagliato a guardarlo. Ora sono presa da una sorta di incapacità a parlare decisamente non normale, per fortuna ci pensa lui a rompere il silenzio.
“Sapevo avresti inventato questa scusa, sei banale!” mi insulta allegramente.
“Banale?”
“Mh-mh,” annuisce con la testa il bastardo.
“Io?”
“Proprio tu.”
Sapessi la verità, Josh… Altro che banale.
“Bene,” scandisco fingendomi più offesa del reale. “Bene. Ne terrò conto, Parker. Ne terrò conto quando dovrò banalmente scrivere il mio testamento.”
“Ecco, vedi?” continua lui con aria saputa. “Sapevo anche che avresti avuto questa reazione da permalosetta. Sei banale!”
Stiamo scherzando entrambi, lo so, ma mi si stringe leggermente il cuore a pensare che Josh riesce sul serio a prevedere le mie risposte e le mie reazioni, come se fosse nato per capirmi e leggermi le emozioni dagli occhi.
Torno seria e lo guardo di nuovo, pur sapendo che non mi farà bene.
“Non sono banale, idiota. È che mi conosci. Sai bene che se ci fosse qualcosa di grave te l’avrei già detto.”
Cavoli, sono stritolata dai sensi di colpa a dovergli mentire guardandolo in faccia, ma non ho altra scelta.
Stringe un po’ gli occhi – non lo fa apposta, è la sua espressione quando sta ponderando una proposta o sta, come in questo caso, cercando di capire se sono sincera – fissandomi a lungo come per leggere qualcosa dalla mia espressione. So di essere come un libro aperto per lui, ma non devo cedere o abbassare lo sguardo perché equivarrebbe ad ammettere che gli sto nascondendo qualcosa. Alla fine, come previsto, l’immensa fiducia che ripone in me ha la meglio e decide di credermi sulla parola: lo capisco quando sorride di nuovo e mi dà un buffetto sulla guancia.
“Ok, scema.”
L’ho scampata bella stavolta. Mi alzo proponendo di tornare dagli altri per concludere la serata e Josh mi segue. Mi sembra che farfugli qualcosa come “asociale” e “lunatica”, così quando stiamo per rientrare gli do un bello spintone, e se lo merita tutto: mi ha già insultato abbastanza per oggi!
Lui reagisce ridendo, mi prende per un braccio e mi tira a sé, immobilizzandomi, per poi pizzicarmi il fianco, gesto che mi fa squittire e saltare, dandogli per sbaglio una testata sul mento.
Josh mi lascia e si porta una mano sul viso, imprecando. “Ahia!”
Gli sposto la mano con la mia per vedere cosa ho combinato. “Ti ho fatto male?”
“Insomma…”
“Beh, te la sei cercata! Sai come reagisco, quello è il mio punto debole per il solletico!” gli ricordo, imbronciandomi.
Lui fa una smorfia. “Tenti di uccidermi e poi dai la colpa a me, tipico.”
Ci guardiamo in cagnesco per qualche secondo, dopodiché scoppiamo entrambi a ridere, complici. Senza che io mi accorga di ciò che sta per fare, Josh mi si avvicina e mi dà un bacio sulla tempia, al quale le mie viscere reagiscono con una decisa capriola, infine si gira e torna verso la porta della cucina.
È riuscito a farmi tornare il buonumore in un paio di minuti. Ma come fa? Un po’ lo odio per questo, per come sa prendermi, per come riesce a capirmi.
Mi giro per chiudere a chiave la porta del giardinetto e sospiro senza farmi vedere.
Vorrei che restasse tutto esattamente così com’è. Senza le farfalle allo stomaco quando lo vedo, però.







Eccomi di nuovo.
So che in questi primi due capitoli non è successo un granché, ma mi servivano per far entrare in scena i personaggi e dare un'idea degli equilibri esistenti tra loro. Quindi mi scuso e prometto che già dal prossimo capitolo ci sarà molta più azione. Anche perché, l'ho già detto, la storia non arriverà ai dieci capitoli, perciò comincerà presto a entrare nel vivo.
Poi, sono perfettamente cosciente che la trama che si sta delineando è banale, trita e ritrita, e probabilmente potrete già indovinarne gli sviluppi, ma è una storia che ho scritto per puro divertimento, per intrattenermi e fare un po' di esercizio sullo stile, giocando sui cliché che troviamo sempre nei teen drama americani. Quindi mi farebbe comunque piacere leggere qualche commento - anche negativo - a questo mio lavoro.
Non vi tedio oltre, se mi verrà in mente altro lo dirò la prossima volta, cioè presumibilmente di nuovo fra tre giorni.
Grazie e a presto!


  
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