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Autore: AdhoMu    12/02/2019    7 recensioni
["Principenny" Clearwater / Charlie Weasley (et Percy Weasley)]
"Weasley.
Patronimico riferito ad antichissima famiglia magica inglese, appartenente al rinomato gruppo delle Sacre Ventotto. I suoi membri sono tradizionalmente affiliati alla Casa di Grifondoro e presentano un biotipo ben preciso, costituito da capelli rossi, pelle chiara e lentigginosa ed occhi di colore variabile fra il celeste e il nocciola."
Ah: e sono anche maledettamente numerosi, aggiungerei io.
E pure fascinosi, accidenti a loro.

Dodici caselle. Dodici draghi.
Riusciranno Penny e Charlie a recuperarli tutti prima della Battaglia Finale?
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Antonin Dolohov, Charlie Weasley, Filius Vitious, Penelope Clearwater, Percy Weasley
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7, Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
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7. Sotto le ceneri.

Flores. Corvo.
Graciosa. Terceira. São Jorge. Pico. Faial.
São Miguel. Santa Maria.
Verdi eppur petrose briciole di terraferma distribuite nel mare, come scagliate da mano distratta. Onde color blu intenso, quasi viola, coronate da creste di spuma bianca come pizzo.
Orizzonte infinito.
La vista dalla finestra del Dragão Boreal, la piccola pensione in cui eravamo alloggiati – proprio sull’isola recante il nome del Santo Uccisore di Draghi - era assolutamente superba.
Non appena avevo messo piede sulle Azzorre, me n’ero perdutamente innamorata.

Al nostro arrivo fummo ricevuti dal Consiglio degli Anziani al gran completo.
- Vi aspettavamo a dicembre – ci disse un vecchio mago dai lunghi capelli bianchi e dalla pelle olivastra.
- Abbiamo avuto dei contrattempi – si scusò Charlie, affrettandosi poi a stringere la mano ai venerandi streghe e stregoni, subito imitato da me.
Tutti loro si dimostrarono estremamente affabili e molto, molto accoglienti nei nostri confronti. Già da molti anni gli Azzurri delle Azzorre erano una specie di drago considerata a forte rischio di estinzione ma, data la criticità della situazione internazionale, era stato deciso che uno degli esemplari supertiti sarebbe venuto con noi per darci man forte nella nostra battaglia.
La prima notte la passammo a casa Vaz, ospiti di una famiglia che, analogamente a molti altri isolani impegnati nella salvaguardia degli Azzurri, discendeva dagli Algos, gli stregoni che avevano abitato l’arcipelago prima dell’arrivo dei portoghesi.
Maria Amália (Malú) Vaz, la matriarca, era uno degli esponenti di spicco del Consiglio; con lei vivevano sua figlia Maria Isabel (Mabel) e le tre bambine di questa: Maria Zélia (Mazé), Maria Teresa (Maitê) e Maria do Amparo (Mapá). Il marito di Mabel, João Moraes Salgueiro, aveva preso il mare l’anno prima e non aveva ancora fatto ritorno. Fu estremamente complicato tenere a mente i nomi e i volti di tutte quelle Marie (perché diavolo dovevano chiamarsi tutte così?!) dagli occhi di ossidiana e dai lunghi capelli scuri ma, dopo qualche giorno, riuscii finalmente a destreggiarmi con più abilità.
La mazzata la ricevemmo in differita, la prima sera, subito dopo cena.
- E dunque domani andremo a vedere gli Azzurri? – stava dicendo Charlie mentre, aiutato da me, si dava da fare per lavare i piatti. Le donne Vaz avevano protestato a gran voce ma noi avevamo insistito, dicendo loro che intendevamo contraccambiare la loro squisita ospitalità.
Io lo osservai ridacchiando sotto i baffi.
Ormai lo conoscevo bene e sapevo interpretare i segnali: Charlie non stava più nella pelle, letteralmente scalpitava, perché quei draghi oceanici erano davvero rarissimi e neppure lui ne aveva mai visto uno dal vivo.
La risposta di Mabel smorzò immediatamente l’entusiasmo.
- Gli Azzurri non ci sono – borbottò la strega, riponendo con cura una zuppiera appena lavata nella credenza.
Charlie rimase immobile per un secondo; poi sbatté le palpebre e la guardò stranito.
- Non... non ci sono?
- No. Certo che no.
- Oh. E perché mai, se posso chiederlo? – m’intromisi io, rischiando seriamente di far cadere il piatto che stavo asciugando.
Oh, e perché accidenti non c’erano?
Ed era
così ovvio, poi, che non ci fossero?
Avevamo fatto tanta strada per...?

Malú ci restituì un’occhiata ovvia in fondo alla quale brillò, per un istante, una lucina furbesca.
- Sono al largo, sui faraglioni – disse infine l’anziana strega. – In questa stagione se ne stanno per conto loro: torneranno soltanto quando sarà il momento di deporre le uova, lassù, sull’isola di Corvo!
Io e Charlie ci guardammo sconcertati.
- Ah, ecco. Quindi, si stanno...
- Esattamente, giovanotto. Si stanno accoppiando: è una cosa normalissima!... Non c’è mica nulla da arrossire.
Mazé, la più grande delle bambine, si lasciò sfuggire una risatina argentina, divertita dall'esitazione di Charlie. Non provocata evidentemente, come forse pensarono le donne Vaz, dalla cosa in sé, quanto piuttosto dall'aver toppato alla grande i calcoli tempistici della tabella di marcia.
- Oh, beh. Ma certo – rispose lui, assumendo un’aria seria. – E quindi, ad occhio e croce, tornerebbero...
- Agli inizi di marzo.
- Ma... marzo?! Ma è fra un sacco di tempo! – esclamai io, esterrefatta. – Manca più di un mese!...
- Menina – mi ammonì Malú, severa, nel suo portoghese dal suono gutturale – a impaciência só traz besteiras.(*)
- Ma noi...
- Ciò che i draghi stanno facendo in questo momento è più importante di qualsiasi altra cosa – Mabel mi fece un cenno definitivo con la mano. – Se davvero vi interessa vederli, dovrete aspettare.
Beh, non avevamo molta scelta.
E così, semplicemente, aspettammo.

Il nostro soggiorno alle Azzorre si rivelò tutt’altro che noioso.
Io e Charlie passavamo le giornate impegnati in passeggiate esplorative, durante le quali spesso ci spingevamo in angoli remoti di quell’arcipelago strabiliante.
La bellezza dei paesaggi, che ammiravamo divorandoli con gli occhi, ci lasciava puntualmente a bocca aperta: incastonate come vividi smeraldi nel misterioso mare dai riflessi blu cupo, le isole ci incantavano con le punte aguzze dei loro vulcani, con i laghetti tondi accomodati nei crateri spenti, con i villaggi di bianche case intonacate a calce che si stagliavano sullo sfondo verde dei boschi e dei filari di vite.
Chiacchieravamo, io e Charlie, ci facevamo compagnia, per la prima volta tranquilli da quando ci conoscevamo e, addirittura, un po’ straniti dalla quiete impostaci dalla nostra pausa forzata. Per la prima volta dopo mesi e mesi di trasferte, perennemente sballottati qua e là e costantemente in fuga, assaporavamo con calma tutte le sfaccettature di un’ esistenza placida, che ci consentiva di comportarci come due giovani normali, di quelli che hanno il tempo di svegliarsi tardi, trascorrere insieme le giornate, oziare e anche – perché no? - divertirsi.
In brevissimo tempo avevamo fatto amicizia con la maggior parte delle famiglie di Calheta, il porticciolo in cui abitavano le donne Vaz e sul quale si affacciavano le finestrelle azzurre del Dragão Boreal. La gente del posto, abituata al viavai comportato dal vivere in quel crocevia degli Oceani che sono le Azzorre, era abituata ai forestieri; di solito, però, i magimarinai e i visitatori di passaggio si trattenevano al massimo per due o tre giorni di fila. Cosicché io e Charlie, costretti per forza di cose a prolungare il nostro soggiorno, venimmo ben presto ‘adottati’ da un buon numero di fieri isolani che, a colpi di sardina abbrustiolita e di delizioso riso bianco, si disputavano la nostra presenza in sala da pranzo.
Una volta al giorno, avevamo preso l’abitudine di sciogliere i draghi.
Il Consiglio degli Anziani ci aveva messo a disposizione un isolotto poco lontano da Calheta, facilmente raggiungibile tramite smaterializzazione ma astutamente schermato da incantesimi respingidrago che non permettevano ai nostri rettili di volare o nuotare al di fuori di un determinato perimetro.
- Poverini, sempre chiusi qui dentro - aveva commentato Maitê un paio di giorni dopo il nostro arrivo, quando aveva visto la nostra bizzarra collezione. La bambina aveva circa tre anni ed era un tipino attento, taciturno e follemente innamorato dei draghi e così, per farle piacere, le avevo mostrato il contenuto della Scatola.
- Già - le avevo risposto io, giocherellando con la versione mignon del vivacissimo Finn. – Sarebbe proprio bello poterli fare uscire un po'.
A risolvere l'impasse ci aveva subito pensato la lungimirante Malú, che ci aveva prontamente fornito una soluzione.
- Ilhota da Gaivota - aveva decretato, seria. – È proprio il luogo che fa per voi.
Io e Charlie ci recammo all’Isolotto del Gabbiano il giorno seguente, seguiti a ruota da Maitê. Forti folate di vento ci schiaffeggiarono in pieno viso mentre, con estrema cautela, sollevavamo il coperchio della Scatola Portadraghi e svegliavamo i suoi occupanti.
- Engorgio!
Uno dopo l’altro, li riportammo alle loro normali dimensioni; vederli distendere le code, stirare le zampe, ondeggiare i colli e sbattere le ali fu assolutamente esaltante.
Volarono a lungo quel giorno, veloci come saette, sparando in giro fuoco, fiamme, vapori, sbuffi e ruggiti. A fine pomeriggio, accettarono di farsi ricatturare solo quando promettemmo loro che, il giorno dopo, avrebbero ricevuto in dono una nuova razione di libertà.
Insomma: la nostra permanenza forzata alle Azzorre si rivelò tutt’altro che monocorde, ed io e Charlie la trascorremmo in un mix di meraviglia e gratitudine, facendoci assorbire dalla bellezza dei luoghi, dalla gentilezza degli abitanti, dalla soddisfazione di vedere felici i nostri amici squamosi e dalla consapevolezza di riconoscerci ogni giorno più affiatati.
Sempre più vicini, sempre più in sintonia; sempre più pronti ad indovinare i reciproci pensieri e a spenderci in gesti spontanei e un po’ esitanti: sfiorarci le mani, stringerci i gomiti, tirarci indietro a vicenda le ciocche di capelli sferzati dal vento, sorriderci, fissarci per qualche attimo in più del necessario.
Pensare l’uno all’altro nella solitudine delle nostre notti.
E fare sogni che, definitivamente, sarebbe stato assai meglio tradurre in realtà.
La capitolazione fu inevitabile.
Com’era prevedibile, il raggiungimento di un’inedita tranquillità fece sì che ciò che era rimasto a covare pazientemente sotto le ceneri per tanto tempo potesse finalmente divampare in fiamma viva. Ragion per cui, da un certo punto in avanti, io e Charlie finimmo per trascorrere la stagione degli amori degli Azzurri delle Azzorre dedicandoci pressapoco alla medesima cosa - ma astenendoci scrupolosamente dalla questione riproduttiva (no: non era davvero il momento).
Però forse sarà meglio che, su quest’ultima appagante attività, io spenda qualche parola in più.

Il Sereia Verde era, senz’ombra di dubbio, il luogo che preferivo frequentare quando avevo voglia di un po’di sana baraonda.
Gestito da Maria de Fátima Moraes Salgueiro, cognata di Mabel, era un locale magico unico nel suo genere: all’interno della casa di pietra intonacata di bianco, infatti, funzionava uno dei più antichi e conosciuti ritrovi dei magimarinai di tutto il mondo.
Chi si trovava di passaggio alle Azzorre non poteva certo esimersi dal fare una capatina sull’Isola di Faial per bersi un goccetto al Sereia Verde; proprio per questo, laggiù, ci si trovava di tutto, vi si potevano udire le lingue più disparate e vi si ascoltava un ottimo fado.
Giocoforza io e Charlie, curiosi come eravamo, cominciammo a recarci alla taverna quasi tutte le sere: prima un giorno sì e uno no; poi, un giorno sì e l’altro pure. I racconti che si ascoltavano in quei paraggi erano fra i più esagerati e bizzarri che avessimo mai sentito; adoravamo sederci accanto ai membri di un equipaggio appena sbarcato e, un bel bicchiere di vinho verde a levitarci accanto, gustarci le cronache epiche di coloro che si disponevano a tenere banco.
Qualche volta, per ingannare il tempo, gli avventori proponevano passatempi ludici.
Scacchi magici, domino a effetto-cascata (nel senso che, assieme alle tesserine, cadevano tutti), gobbiglie, carte autorimescolanti e cose simili, ovviamente, ma anche giochi basati sulla fantasia e sull’immaginazione.
Uno dei più gettonati era quello dell’Isola Deserta, piuttosto famoso anche fra i babbani e incentrato sulla fatidica domanda: “che cosa ti porteresti dietro in caso di naufragio?” E c’era chi rispondeva una pagnotta, chi una barchetta, chi addirittura un cuscino, chi la bacchetta magica, chi cose che è più educato non ripetere (ma che, puntualmente, suscitavano l’ilarità generale).
Io, quella sera fatidica di metà febbraio, mi ero molto attardata.
Durante il giorno io e Charlie ci eravamo spinti fino a Corvo, l’isola più distante di tutto l’arcipelago ma che io, dato il nome, avevo avuto fin da subito una voglia matta di visitare. La scalata delle pendici del vulcano Caldeirão ci aveva dato del filo da torcere ma noi, determinati a raggiungere la vetta senza magia, non avevamo desistito, venendo alla fine ripagati da una vista eccezionale.
E mentre ce ne stavamo lassù, seduti fianco a fianco sul bordo della caldera, qualcosa era accaduto.
Charlie guardava lontano, lo sguardo rapito da tanta bellezza.
- Tutto bene, Weasley? – gli avevo chiesto, ridacchiando piano nel vederlo così imbambolato.
- Il mondo è così bello, Penny – mi aveva risposto lui con semplicità. – A volte, sai, quando mi trovo in posti come questo mi verrebbe voglia di... di dimenticarmi della guerra e delle sue brutture e di rimanermene qui per sempre.
Io lo avevo fissato in silenzio, senza sapere bene che cosa dire, mentre lui cercava le parole adatte per proseguire:
- Lo so che è sbagliato, ma... ma...
Gli avevo preso la mano e avevo intrecciato le dita alle sue.
- Non c’è alcun bisogno di giustificarsi, Charlie – avevo mormorato, carezzandogli il dorso della mano col pollice. – La tua è una considerazione del tutto umana.
E allora lui aveva lasciato andare la mia presa, mi aveva circondato le spalle col braccio e aveva posato la guancia sulla mia fronte, senza smettere di guardare lontano. Eravamo rimasti così per un lungo tempo finché il sole, in viaggio verso ovest, non si era inabissato nel mare dinnanzi ai nostri occhi.
Poi, un secondo prima di partire per tornare a Calheta mentre, già in piedi l’uno davanti all’altra, ci apprestavamo a prenderci per mano per smaterializzarci, Charlie aveva dato un passo e mi aveva carezzato il viso, per poi depositare sulle mie labbra un bacio morbido, inatteso e alquanto intenso, che il mio povero cuore aveva accolto con la perdita di un battito.
E così una volta a casa io, ancora lievemente intontita da quel suo sapore inconfondibile che mi si era insinuato dentro con prepotenza, ero stata irretita dal richiamo di una calda e profumata vasca da bagno, nella quale mi ero trattenuta ben più del dovuto a riflettere, intessere congetture e formulare pensieri assolutamente inappropriati, la mente fissa su quel suo allettante figurino che, ogni volta, rischiava seriamente di farmi ammattire (questi rudi domatori di draghi dall’aspetto boschivo sono la perdizione delle ragazze per bene, si sa).
Inevitabilmente finii per fare molto tardi cosicché, quando in seguito varcai la soglia del locale, il gioco dell’Isola Deserta era in pieno svolgimento.
Ero un po’ nervosa, non lo posso negare, perché sapevo quanto Charlie non fosse tipo da fare le cose tanto per farle e quindi mi domandavo se, alla fin fine, la serata avrebbe preso la piega che tanto avevo desiderato. Certamente sarei stata pronta a buttarmi e, bando alla timidesse, a darmi da fare in prima persona perché ciò accadesse ma, ben presto, realizzai che non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.
Lo compresi non appena i nostri sguardi si incontrarono.
Charlie mi sorrise vedendomi entrare, ed io capii subito che mi stava aspettando perché, contrariamente al solito, si era posizionato accanto al bancone in modo da poter tenere d’occhio la porta. E, dall’occhiata che mi rivolse, intuii anche che il mio ritorno alle vecchie abitudini gli era assai gradito: non essendo costantemente costretta ad una comoda praticità, per grande gioia mia ed evidentemente anche sua (e forse anche dei magimarinai, ma non importa), ero finalmente riuscita a riesumare la mia batteria di abitini celesti che tanto amavo indossare.
Io gli sorrisi di rimando, soffermandomi un attimo ad ammirare il suo bell’aspetto che quella sera, probabilmente a causa del bacio pomeridiano che ancora mi bruciava a fior di labbra, mi parve più irresistibile del solito.
I suoi riccioli ramati rilucevano sotto i coni di luce delle lampade posizionate al di sopra del bancone; la pelle del viso e delle braccia, abbronzata dal sole e punteggiata di efelidi, presentava un colorito che gli donava moltissimo e che contrastava con la maglietta bianca dal taglio semplice ma efficace, perfetta per mettere in risalto il suo bel fisico asciutto e massiccio, i muscoli delle braccia e le spalle ampie, contrappuntanti con la vita snella che tanto mi turbava. Sul suo polso un po’ squadrato spiccava il grosso braccialetto di cuoio, identico a quello che portavo io e grazie al quale ero stata subito etichettata (non proprio a ragione, in effetti, ma mai mi sarei sognata di smentirlo) come 'domatrice di draghi'.
Attraente come sei, Charlie Weasley pensai, coprendomi istintivamente la bocca con la mano per reprimere un risolino forse un po’ troppo ammiccante dovrebbero rinchiuderti ad Azkaban per lesa moralità pubblica.
- E tu, gringo dai capelli di fiamma – esclamò in quel momento un vivace magimarinaio greco all’indirizzo di Charlie – che cos'è che ti porteresti sull’Isola?
Lui abbozzò un sorriso, senza smettere di guardarmi.
- C’è una sola cosa che vorrei davvero – rispose quindi, alzando la voce in modo da farsi sentire da tutti e, soprattutto, da me. – Un lungo sorso di acqua chiara. Per placare la sete.
E così detto, sempre senza staccare gli occhi dai miei, Charlie attraversò la sala e mi venne vicino, sorridendomi a labbra strette.
Non mi diede il tempo di reagire alle sue parole, delle quali io, da brava Corvonero perspicace qual ero, avevo immediatamente compreso il significato (neanche troppo) recondito: non era di un generico sorso di acqua potabile che Charlie aveva sete, bensì di un tipo di Clearwater ben preciso e, nella fattispecie, dotato di riccioli biondi, sorriso incerto e iridi castane leggermente dilatate, incastonate in un paio di occhi sgranati.
Occhi che chiusi istintivamente quando mi sentii catturare dal suo abbraccio solido, per poi spalancarli di scatto quando le sue labbra affondarono con forza nelle mie, per la seconda volta nel giro di poche ore, cstringendomi a piegarmi all'indietro.
Un bacio, un altro, un altro ancora.
Tutto intorno a noi brindisi e accenni d'applausi, tintinnare di bicchieri, chiacchiere, brandelli di racconti mirabolanti, note di fado, immagini vorticose, luci e penombra.
All’interno della nostra bolla, però, una calma arroventata.
Suoni ovattati, vista annebbiata; l’aroma delle sardine alla brace smorzato in lontananza.
Occhi negli occhi; l’udito sintonizzato sulle frequenze dei nostri sospiri; l’olfatto inebriato dagli aromi di Charlie (sì: di Charlie, e non già di un Weasley generico) e di Penny; il reciproco gusto sulla punta delle rispettive lingue; l'intera epidermide protesa nella brama del contatto.
Le mie braccia attorno al suo collo, per impedirgli di ritrarsi.
[Pausa].
Un sorriso, una domanda pronunciata col fiato corto, quasi senza staccare la bocca dalla mia:
- Ci vieni sull'Isola Deserta con me, Principenny?
Una risposta mordicchiata (e oh, per Priscilla, quanto mi mancava quel soprannome):
- Puoi scommetterci.
La proposta indeclinabile:
- E fuori di qui?
Subito seguita da risposta ovvia-che-più-ovvia-non-si-può:
- Assolutamente sì.
Uscimmo in fretta dal locale tenendoci per mano, senza voltarci indietro.
Appena fuori, subito dopo che avevamo oltrepassato la soglia, Charlie si fermò di scatto e mi tirò per il braccio, accostandomi a sé e intrappolandomi in un abbraccio vigoroso. Sotto la leggera stoffa della maglietta percepii la tensione dei suoi muscoli contratti, che carezzai lentamente, con un sospiro, la fronte accostata alla sua e le palpebre socchiuse.
- Non farmi aspettare, fadinha (**) - rantolò lui al mio orecchio, la voce deliziosamente arrochita dalla stessa bramosia che io stessa provavo. - Non oggi, non ora.
Non ne avevo la minima intenzione.
Avevo capito che cosa mi stava chiedendo di fare e così, in un battibaleno, avevo già provveduto a materializzare entrambi sulla soglia della mia cameretta al Dragão Boreal. Dalla parte giusta della soglia, per essere precisi: e cioè all'interno. Charlie si fermò un attimo e staccò le labbra dalle mie per guardarsi rapidamente intorno, giusto il tempo di riconoscere il loco e compiacersi per l'intraprendenza del mio gesto.
Dopodiché, passò all'attacco.
Mi piacerebbe, a questo punto, narrarvi di un incontro all’insegna del romanticismo e della delicatezza, ma non lo posso fare. Mentirei spudoratamente, se lo facessi.
Perché quella nostra prima volta, avvenuta all’interno di una stanzetta foderata di legno con vista sull’Oceano tempestoso, fu marcata dalla stessa veemenza furiosa dei cavalloni che flagellano le coste nei giorni di burrasca.
Così fu, né meno né più.
In preda alla più completa ed irrazionale follia, ci scagliammo letteralmente l’una sull’altro. La mia delicata vestina di raso celeste, io credo che me la strappò letteralmente di dosso con quelle sue zampacce da orso perché, in seguito, non fui più in grado di recuperarla, neppure con i punti magici; quanto invece al mio completo di seta rosa cipria un po’ spiegazzato, devo dire che l’effetto fu esattamente quello della volta precedente perché Charlie, con gli occhi scuri che gli brillavano nella penombra, mi posò le mani sui fianchi e mi fece descrivere una lenta giravolta, per poi ordinarmi con voce affannosa:
- Fatti vedere.
Gli afferrai l’orlo della maglia e gliela tirai su, costringendolo ad abbassarsi per far passare la testa e le braccia.
- Anche tu – sbuffai, sfregandogli adagio le mani sulla pelle delle spalle, delle braccia, del petto e di quel suo strabiliante addome fidiano. E non mi fermai lì. Ispirata dall’incantevole visione del suo fisico celestiale seguii i solchi dei muscoli messi in risalto dalla penombra e portai le dita ancora più in basso, fino far scivolare i polpastrelli dentro il girovita dei pantaloni, laddove la pelle si fa più sensibile e reattiva. Al mio tocco Charlie espirò rumorosamente e mi si spinse contro, rivelandomi esplicitamente la pressione propompente della sua virilità, impaziente di essere liberata.
Lo accontentai subito: sapevo quello che volevo; lo volevo da morire e non me ne vergognavo affatto.
Con un paio di gesti rapidi gli slacciai la spessa cintura di cuoio per poi abbassare furiosamente, tutto in una volta, pantaloni e boxer, che lui scalciò via; il suo corpo sodo era caldo e levigato sotto le mie dita, ed io non potei fare a meno di percorrerlo in lungo e in largo, socchiudendo gli occhi, inebriata da quel contatto così divinamente sublime. Nel frattempo sentivo le sue mani ruvide scivolare su di me e carezzarmi la pelle, indugiando in carezze tanto audaci da farmi mugolare piano; e andammo avanti così per una manciata di estenuanti minuti finché, con una certa ammiccante malagrazia, Charlie mi rovesciò all’indietro, facendomi cadere sul letto ancora sfatto.
Non perse tempo ad affrontare bottoncini e laccetti: per quello ci sarebbe voluta una buona dose di pazienza e di tempo che lui, in quel momento, non possedeva di certo. Si limitò a liberarmi con uno sbuffo delle mie seducenti culottes di pizzo color cipria, per poi tuffarsi in avanti e schiacciarmi con tutto il suo peso contro il materasso.
Io ero pronta.
Più che pronta in realtà: non aspettavo altro da molto, troppo tempo ormai.
Spostai le gambe da sotto di lui, schiudendole appena per fargli posto, per poi stringere le ginocchia intorno ai suoi fianchi asciutti, spronandolo come un’amazzone il puledro; lui mi si sfregò contro per un lungo attimo, facendomi mozzare il respiro e spalancare gli occhi e scongiurarlo di agire (ti prego, Charlie, per tutti i Diademi di Priscilla!), e poi si spinse in avanti con forza, in un movimento unico, fluido, cercando in profondità il centro del mio essere.
Oh, Charlie.
Così fiero e spavaldo e allegro e generoso.
Così buono.
E impetuoso, focoso, irruente e determinato.
Capace di rendere la realtà di gran lunga migliore di qualsiasi immaginazione.
E se non è magia questa, cos’altro lo è?

Era bravo davvero, proprio come avevo sospettato.
Forse anche un po’ meglio, in effetti.
Mentre il sonno sopraggiungeva, però, facendo calare il suo velo setoso e cangiante sulle nostre membra allacciate, la mia mente fu attraversata da un ultimo pensiero.
Pensai che non sarebbe stato giusto confrontare ciò che Charlie mi aveva regalato quella notte con quanto avevo fintanto posseduto. Perché la Penny di prima era una persona diversa da quella attuale: troppo giovane e immatura, forse, per comprendere appieno ciò che faceva e desiderava. Per vent’anni avevo condotto un’esistenza da principessina delicata rinchiusa in un castello di cristallo, del tutto incapace assumere il ruolo di protagonista della sua stessa vita.
La Penny di adesso, al contrario, era cresciuta abbastanza da poter finalmente dare, con assoluta consapevolezza, il giusto valore e il dovuto nome alle cose. Non aveva bisogno di cavalieri che la difendessero dai draghi quanto più, forse, di un cavaliere assieme al quale difenderli, i draghi. Perché evidentemente, oltre al sublime piacere fisico, alla bramosia mordace, all’attrazione delirante che provavamo l’uno nei confronti dell’altra, c’era dell’altro.
C’erano i mesi che avevamo trascorso insieme, c’era quello che ci eravamo detti e ciò che ci eravamo visti fare.
C’erano le sfide che avevamo affrontato, c’erano i piani che avevamo tracciato; c’erano il supporto e la sicurezza che avevamo offerto e trovato l’uno nell’altra.
C’era il modo in cui eravamo giunti a conoscerci reciprocamente, ad accettarci e a piacerci con tutti i nostri pregi e difetti.
Quella era la grande differenza.
Se fosse accaduto prima, se fosse accaduto in agosto, poco prima che Dolohov si presentasse alla Riserva dei Lungocorni costringendoci alla fuga, non sarebbe stata la stessa cosa.
Sarebbe stato certamente bello, indimenticabile, importante.
Ma non sarebbe stato meraviglioso.

Post-Scriptum:
Riemergo dopo giorni di isolamento pressoché assoluto, messa ai ceppi dal Dottorato. Fra una catalogazione e l’altra, ho avuto modo di distrarmi un filino con questa roba qua.
Ringrazio anzitutto Ems che mi ha dato modo di speculare parecchio sulle Azzorre quando ho compilato la scheda di Maitê (sì: proprio lei!), la mia OC che partecipa alla sua interattiva Dragon Trainer.
Riguardo invece il capitolo:
Bhaw. Per una volta eviterò di farmi troppi trip e pubblicherò così com’è, a cuor pseudoleggero. Ormai ho accettato (quasi) serenamente il fatto di non poter fare di meglio e quindi... pace amen e evviva l’amour!...
E poi, da brava piantagrane quale sono, mi sento di aggiungere: godetevela ragazzi, ché immense grane sono in arrivo.
(*) Ragazza, l’impazienza fa fare solo sciocchezze.
(**) Fatina. Immagino sia il soprannome che gli azzorriani hanno subito affibbiato a Penny.
   
 
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