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Autore: blackjessamine    27/03/2019    4 recensioni
Ufficio Misteri, 31 dicembre 1998: mentre l'anno della guerra e della pace vive i suo ultimi minuti, un gruppo di Indicibili scopre che una Soglia altro non è che un passaggio, e che dove si può andare avanti, si può tornare indietro.
Un grosso cane nero – apparentemente molto debole, ma innegabilmente vivo – viene estratto dalle macerie di un arco di pietra.
E mentre l'anno della morte e della rinascita volge al termine, i rimpianti si fanno leggeri, pronti ad essere spazzati via dalla speranza di una seconda possibilità.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Harry Potter, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pas de Deux '
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Capitolo 11
Astri nella notte
 
 
 
 
 
“Non ci provare nemmeno, gyermek. Ti aprirò la porta soltanto quando il tuo sarà un bagaglio fatto di certezze e serenità. Quello che devi fare a casa è molto più importante che preparare il brodo a un vecchio brontolone”.
La voce di Imre Szeredàs era poco più che un sussurro roco, un debole soffio di vita che sembrava ancora aleggiare nella cornetta del telefono caduta sul grembo di Alhena. La ragazza chiuse gli occhi, lasciando che Marmellata si sistemasse meglio sulle sue gambe.
Gli Szeredàs non telefonavano spesso, preferivano scrivere. Eppure, quella sera Emerenc l’aveva chiamata da Budapest, e col suo tono più burbero e scostante si era informata sui suoi pasti e sulla regolarità del suo sonno. Quando Alhena aveva domandato come andassero le cose a Budapest, la donna l’aveva interrotta bruscamente, evitando di rispondere alle sue domande e continuando a spostare l’attenzione su questioni di infima importanza. Fu solo adoperando una grande dose di pazienza e perseveranza che Alhena riuscì a farsi dire che no, le cose non andavano benissimo: i polmoni di Imre stavano sopportando peggio del solito il freddo dell’inverno, e a poco erano servite le pozioni di Emerenc. L’uomo era stato ricoverato in un ospedale babbano, e nonostante Emerenc avesse assicurato con forza che i medici si dicevano del tutto fiduciosi, Alhena non poté fare a meno di riconoscere nella voce della donna una vena di paura così fuori luogo, nella bocca di una persona tanto forte, che un brivido gelido l’aveva paralizzata sul posto.
 
Che gli Szeredàs non fossero più dei ragazzini, questo Alhena lo sapeva bene. Eppure, la loro presenza salda e costante, anche quando lontana, era sempre stata una roccia luminosa per Alhena, una certezza vaga cui lei si era sempre affidata: dopo essere stata raccolta dalla strada come un cagnolino bagnato e spaventato, Alhena aveva sempre avuto la certezza che in quella coppia avrebbe trovato aiuto e protezione. La dolce saggezza di Imre unita all’affetto brusco di Emerenc erano cose di cui la ragazza non aveva mai dubitato.
Sentire Emerenc così scossa, ora, l’aveva semplicemente raggelata.
La paura era scivolata come un refolo d’aria gelida da un capo all’altro del telefono, evidente nonostante tutti i non detti, e doveva aver raggiunto il letto d’ospedale di Imre, che aveva insistito per poter parlare con Alhena. L’uomo aveva parlato con tono calmo e sereno, aveva rassicurato la ragazza che entro pochi giorni sarebbe tornato a casa come nuovo, ma la sua serenità non era riuscita nemmeno per un secondo a nascondere quanto la sua voce fosse debole.
Il terrore gelido che aveva assalito Alhena l’aveva spinta a dire, senza nemmeno fermarsi a riflettere, che si sarebbe subito recata all’Ufficio Trasporti del Ministero: con un po’ di fortuna, avrebbe trovato una Passaporta Internazionale che l’avrebbe ricondotta a Budapest entro il mezzogiorno del giorno successivo.
Non aveva riflettuto, non aveva fatto piani: sentiva solo che, dopo tutto quello che gli Szeredàs avevano fatto per lei, il minimo che lei potesse fare era correre da loro quando stavano male.
Ma Imre era stato categorico: aveva ribadito, questa volta con un po’ più di forza, che sarebbe guarito presto, e aveva minacciato Alhena di non dare il permesso ai medici di farla avvicinare alla sua stanza, se solo si fosse azzardata a tornare senza aver prima chiuso tutte le questioni in sospeso che l’avevano riportata a Dublino. Questioni che – lo sapevano tutti anche se nessuno aveva avuto il coraggio di dirlo – non si sarebbero concluse prima del processo del 28 febbraio, quel processo che tutta la stampa nazionale sembrava attendere con trepidazione.
A nulla erano valse le proteste di Alhena: Imre era stato irremovibile. L’aveva rassicurata che, quando le cose si fossero calmate, l’avrebbe volentieri accolta a casa per qualche giorno, o, ancora meglio, avrebbe fatto con piacere una piccola vacanza a Dublino, ma al momento il posto di Alhena non era l’Ungheria.
 
Marmellata le leccò con circospezione una mano, fissandola con i suoi occhioni caldi: l’animale sembrava aver capito che qualche cosa non andava nel verso giusto, per la sua bipede priva di pelliccia, e cercava di rassicurarla come meglio poteva: col calore del suo corpo.
Alhena si massaggiò la fronte, cercando di tenere a bada quel mal di testa martellante che l’aveva assalita alle tempie, e minacciava di espandersi.
Aveva bisogno di dormire, quella era la verità.
Di dormire, e di poter pensare in pace, senza sentirsi lacerare il cuore all’idea di prendere una qualsiasi decisione.
Non poteva restare a Dublino mentre Imre giaceva in un letto d’ospedale, ma al tempo stesso, se fosse tornata in Ungheria prima di dare un punto di svolta al passato che l’aveva richiamata in patria, probabilmente non avrebbe più avuto il coraggio di rimettere piede sul suolo patrio.
 
Alhena alzò il capo, e fu con sgomento che si accorse che la stanza era piombata nella penombra.
Il sole era tramontato dietro le tendine di pizzo ormai flosce, e Alhena non si era neppure resa conto di quanto tempo avesse passato seduta a coccolare il suo cane e a fissare la cornetta del telefono ormai muto.
Non aveva mangiato, e non aveva per niente voglia di alzarsi da lì e mettersi a litigare con un fornello che non faceva altro che restituirle piatti troppo crudi o troppo cotti, troppo salati, troppo pesanti o insapori.
Le venne quasi da ridere: quando era con Sirius, si comportava da perfetta nutrizionista, preoccupandosi che l’uomo mantenesse uno stile di vita perfetto, ma quando era sola tornava ad essere l’adolescente che saltava i pasti per poi farsi venire il mal di pancia a forza di Cioccorane.
Di nuovo, era stata la danza a rimettere ordine nelle sue abitudini.
Al contrario di tante compagne che si affamavano per non appesantire nemmeno di un grammo le proprie linee, Alhena aveva imparato che a stomaco vuoto si non si danzava. E con lo stomaco pieno di Cioccorane nemmeno. E lei voleva danzare.
Si guardò i piedi scalzi, quei piedi che ormai portavano solo i segni di vecchie ferite. Quei piedi che quasi non ricordavano più cosa significasse riempire delle scarpette da punta. Sospirò: non era mai stata tanto brava da pensare davvero di basare la sua vita sulla danza, e ormai era vecchia e fuori forma. Sapeva che non sarebbe mai stato per sempre, ma tornare a vivere in quella casa dove da ragazzina aveva respirato il balletto dalla mattina alla sera le riempiva il cuore di nostalgia per una vita che, forse, se le cose fossero andate diversamente, avrebbe potuto avere.
“Stiamo diventando nostalgici, eh?” mormorò, senza mai smettere di grattare la pelle sottile dietro le orecchie di Marmellata. Il cane si limitò a sistemarsi meglio sulle sue gambe, soddisfatto delle attenzioni ricevute.

 
***
 
Un improvviso scampanellio fece sobbalzare Alhena, strappando un guaito indignato a Marmellata.
Senza nemmeno fermarsi a riflettere, Alhena si ritrovò a stringere saldamente fra le mani la bacchetta, mentre andava ad aprire. L’unica persona che si degnasse di farle visita a Dublino era Bill, e lui preferiva usare il camino.
Quando aprì la porta, Alhena trattenne a stento un’esclamazione: Sirius era ritto in piedi sulla soglia, le braccia abbandonate lungo in fianchi con una disattenzione inquietante, e gli occhi vuoti. I capelli spettinati gli mettevano in ombra il viso, ma quei tizzoni scuri che aveva al posto degli occhi, quello sguardo febbrile, folle, era fin troppo familiare.
Per un attimo, Alhena credette di avere davanti l’uomo che l’aveva osservata dalla prima pagina di tutti i giornali ai tempi della sua evasione, quattro anni prima.
“Che cosa è successo?”
Sirius si lasciò trascinare in casa senza emettere un suono, apparentemente sordo alla preoccupazione nella voce di Alhena.
“Sirius! Stai bene?”
Neanche le feste di Marmellata lo scossero.
Sirius se ne stava lì, immobile, a fissarla con quello sguardo che sembrava portarsi addosso tutto il peso del mondo.
Alhena lo fece avvicinare al fuoco, e accese la luce con un colpo di bacchetta, senza mai distogliere lo sguardo da Sirius.
“Che cosa…”
“Posso stare qui? Per un po’?”
La voce di Sirius era un ringhio basso e minaccioso, un suono che fece gelare il sangue nelle vene di Alhena.
“Sirius, siediti, per favore. Mi stai spaventando”.
Alhena si avvicinò all’uomo, che rimase immobile a fissarla con quello sguardo vuoto.
“Sto bene”, sussurrò poi, e Alhena colse nel suo fiato un sentore di alcool.
“Hai bevuto? Sirius, non credo che tu dovresti bere, i Guaritori dicono che…”
“Si fottano, loro e tutte le loro regole del cazzo. Cosa ci sto guadagnando nell’ascoltarli?”
Alhena osservò le gote di Sirius colorarsi di rosso, mentre la rabbia faceva contrarre un muscolo nella sua guancia.
“Che cosa stai dicendo? Ci stai guadagnando la salute, e…”
“Sai quel che me ne importa”.
Sirius le voltò le spalle, fissando ostinatamente lo sguardo nel fuoco.
Alhena fece un respiro profondo, cercando di tenere a bada quel cerchio alla testa che le impediva di pensare lucidamente e la preoccupazione che le rodeva lo stomaco.
“Mi vuoi dire che cosa ti prende?”
“Che cosa mi prende?” sbottò Sirius, con una vena di freddo sarcasmo nella voce.
“Mi prende che vi preoccupate tutti di quello che mangio e di quanto peso, ma non vi rendete conto che tutto questo non ha senso.”
Alhena rimase in silenzio: si era sempre aspettata una reazione simile da parte di Sirius, che fino a quel momento aveva accolto con fin troppa condiscendenza tutto ciò che il destino gli aveva riservato. Ma ora che la bomba sembrava sul punto di esplodere, Alhena avrebbe voluto solo scappare: era stanca e spaventata, aveva bisogno di raccogliere le sue idee, e non era in grado di fronteggiare quello che sarebbe uscito dalle labbra di Sirius.
“Ho parlato con Harry, questo pomeriggio. Ho scoperto di non essere l’unico Black ad aver ricevuto un Ordine di Merlino alla Memoria.”
Regulus.
Alhena sentì il cuore mancarle un battito: dopo la guerra, quando i primi processi avevano ristabilito la verità dei fatti, il nome di Sirius e di Regulus Black era rimbalzato di bocca in bocca. Gli astri nella notte, la decenza nell’orrore, i fratelli che avevano dato la vita per una causa che non li aveva mai riconosciuti. Quando era stato conferito loro l’Ordine di Merlino alla Memoria, Alhena aveva ricevuto dal Ministero un invito ufficiale a presenziare alla cerimonia – c’era la mano di Kingsley, dietro quel cartoncino listato a lutto.
L’aveva bruciato senza nemmeno finire di leggerlo.
“Mi dispiace, Sirius…”
Alhena ricordava quanto Sirius avesse sofferto per la sorte di quel fratello scomparso nel nulla, distrutto – così credevano – da un’ideologia che aveva corrotto anche lui.
“Quindi anche tu lo sapevi”.
La voce di Sirius era una fredda coltellata ammantata di disprezzo.
“L’ho saputo, sì”.
“E nemmeno tu hai pensato che forse, così, io avrei voluto sapere che mio fratello non era il mostro che mi ero costretto a credere che fosse, vero?”
Alhena trasalì. La rabbia nella voce di Sirius era inequivocabile.
“Non te la sarai presa con Harry per non avertelo detto subito, voglio sperare!”
Sirius si voltò finalmente a guardarla, un sorriso sprezzante a deformargli il viso.
“No, posso capire che abbia avuto altro a cui pensare. Ma credevo che tu… che almeno tu potessi capire, visto quello che hai sempre detto dei tuoi fratelli… ma no, a te importa solo che io faccia quelle stupide passeggiate, vero?”
Improvvisamente, il mal di testa che aveva tormentato Alhena parve come stringersi in una morsa di fuoco. Una morsa di fuoco che subito scese ad annebbiarle la vista, mentre una rabbia intensa e inaspettata si impadroniva della sua mente.
Come osava Sirius presentarsi all’improvviso a casa sua in uno stato pietoso, come osava spaventarla a quel modo per poi rinfacciarle cose di cui di certo non aveva colpe, permettendosi addirittura di usare i suoi fratelli contro di lei?
“Scusa tanto se il mio primo pensiero va alla tua salute, visto che ti ho già visto morire una volta!”
Alhena non avrebbe voluto urlare, ma era stato un istinto più forte di lei.
Ignorando completamente il guaito spaventato di Marmellata, Alhena fece un passo verso Sirius, che ora la stava guardando come un animale che studia la preda prima di attaccare.
“Smettetela di rinfacciarmi tutti la mia morte! Sono vivo, ma nessuno fa niente per farmi sentire davvero tale. Vi comportate tutti come se dovessi cadere morto da un momento all’altro, mi parlate come se fossi un malato terminale, e non fate altro che rinfacciarmi il dolore che ho causato morendo! Non ci pensate mai, vero, che io avrei preferito vivere?”
Sirius invece non aveva gridato. Aveva ringhiato le sue accuse con un tono di voce basso e minaccioso, le braccia distese lungo i fianchi, i pugni stretti in una morsa fremente.
“Noi chi, Sirius? Noi chi? Io e Harry? Perché, se non ci fossi arrivato, Harry era solo un ragazzo quando tu sei morto. Per lui sei stata la cosa più simile ad un genitore, e lui ha dovuto convivere col senso di colpa, convinto di essere stato la causa della…”
“Lascia Harry fuori da questa storia!” l’urlo di Sirius, questa volta, non fece altro che risvegliare nella mente di Alhena l’immagine che si era fatta di lui quando credeva ancora alla sua colpevolezza. Il pazzo, l’assassino spietato, il folle capace di qualsiasi cosa.
“Va bene”, sibilò lei, senza arretrare di un passo. “Va bene, non è di Harry che vuoi parlare. Di chi, allora? Chi è che ti sta rinfacciando qualcosa? Andromeda, che ha pianto di gioia quando ha saputo che almeno tu eri vivo? Molly Weasley, che non ha mai smesso di vegliare su Harry e su te, nonostante tu l’abbia sempre trattata a pesci in faccia? Chi, Sirius?”
Le domande retoriche di Alhena andarono a posarsi sulla rabbia di Sirius come polvere esplosiva nel fuoco.
“Perché sei qui, Alhena? Perché continui a tormentarmi, perché mi perseguiti con le tue belle preoccupazioni e l’aria fresca e le visite mediche se poi nemmeno ci provi, ad avvicinarti a me?”
Un dolore sordo, uno strappo nel petto.
Alhena sentì le lacrime di rabbia salire a inondarle gli occhi, ma le respinse con un gesto risoluto.
“Io non ci provo nemmeno? Immagino tu sia troppo concentrato su te stesso per cercare di immaginare che cosa abbia significato per me accettare che tu non saresti più tornato, vero? Immagino sia troppo difficile per te accettare che anche altri al mondo stiano soffrendo, no?”
Nel pronunciare l’ultima frase, la voce le si ruppe.
Era di nuovo una bambina che rischiava di scoppiare a piangere, una bambina con una mente piccola piccola e una rabbia tanto grande da sommergerla e governarla completamente.
Alhena annegava, in quell’inferno rosso fatto di dolore e paura.
Non c’erano ancore, non c’erano più punti di riferimento. Lei era solo un brandello di rabbia che si aggrappava con tutte le sue forze alle poche grida che le restavano in gola. Parole a cui non credeva, ma che bastavano per farla sentire ancora legata al presente.
“Brava, dammi di nuovo tutta la colpa. Tanto sono io quello immaturo, quello che pensa solo a sé stesso. Sono io quello irrazionale, quello che non pensa prima di agire o di parlare, no? Sono quello troppo egoista per essere abbastanza sensibile, sono quello che non capisce, sono…”
“Piantala!”
Alhena aveva gridato di nuovo, asciugandosi le lacrime con un gesto brusco.
“Smettila! No, tu non capisci, perché tu non hai idea di che cosa abbia voluto dire perderti, non ne hai idea!”
Alhena vide una vena pulsare sulla fronte di Sirius, mentre lui serrava i denti.
“Non ne ho la minima idea perché tu non me lo dici. Non me lo hai mai detto, e continui a non dirmelo. Tu con me non ci parli. Fai la commedia di starmi vicino, ma appena io provo ad avvicinarmi… appena provo a capire… sei solo un muro di ghiaccio. E io ti sto dando tempo, lo sai che ti sto dando tempo, ma tu non ci stai nemmeno provando…”
Ogni parola di Sirius era un pugno nello stomaco.
Le giornate passate insieme, le conversazioni prive di uno scopo, e il suo fuggire ogni volta che Sirius cercava di parlarle davvero… il senso di colpa, come una mareggiata cupa, salì ad avvolgere tutta Alhena.
“Io sono qui! Sono qui, anche se a Budapest ero felice. Sono qui anche se Imre sta male, ho lasciato qualsiasi cosa per essere qui, e tu mi accusi di non provarci nemmeno?”
La voce di Alhena era più acuta del normale. Le sue erano scuse patetiche, lo sapeva anche lei, ma non riusciva a risolversi ad andare oltre, ad abbassare le difese.
A tendere davvero una mano verso Sirius.
“Nessuno te l’ha chiesto. Io non te l’ho chiesto. Non ti trattengo. Tornatene a Budapest, tornatene ad essere felice, vai dove ti pare, ti giuro che non ti biasimerei. Non sei qui per me… credi davvero che mi serva a qualcosa stare tutti i giorni assieme a te, se tu nemmeno riesci a guardarmi negli occhi? Se quando ti sfioro per sbaglio mi guardi terrorizzata, come se fossi un mostro che ha cercato di violentarti?”
Non urlava, ora. Sirius non urlava, mentre la trafiggeva con quel suo sguardo vuoto.
Quel suo sguardo morto.
Alhena strinse con forza le braccia al petto, cercando di trovare qualcosa da dire. Qualcosa che non fosse dettato da quella rabbia che ormai non la sosteneva nemmeno più, qualcosa che potesse cancellare l’ultima mezzora e riportarli ad essere quelle due figure che sapevano camminare assieme.
Quella fu un’esitazione di troppo.
Quando Alhena si decise a reagire, Sirius le aveva già voltato le spalle, marciando a passo deciso verso la porta.
“Sirius!”
La sua schiena appena un po’ curva che si allontanava, la sua mano che si posava sulla maniglia…
“Aspetta!”
La porta che si apriva nel buio della sera, e Sirius che in quel buio ci scivolava, silenzioso e implacabile, senza guardarsi indietro.
“Sirius!”
Una porta chiusa.
Nient’altro.
Alhena si riscosse, corse verso la porta, la spalancò sulla strada buia e silenziosa, chiamando il nome di Sirius, invano.
Lui se n’era andato, aveva attraversato quella porta ed era svanito nel nulla, e Alhena si ritrovò a gridare il suo nome, gli occhi annebbiati e l’immagine di un velo nero che ondeggiava mosso da un vento impercettibile ben chiara nella mente.
Corse lungo la strada, incurante dei babbani che avrebbero potuto vederla, corse e pianse, il petto stretto in una morsa gelida che non riusciva a tenere a bada.
Sapeva che era solo panico, che non c’era niente di cui dovesse preoccuparsi, che stava solo esagerando, ma non riusciva a darsi pace.
Giunta in fondo alla via, si lasciò cadere su una panchina, tremando.
E prima che potesse riflettere razionalmente, tutta la sua determinazione si ritrovò concentrata su una destinazione: fu con decisione che costrinse il suo corpo tremante ad attraversare lo spazio, gettandosi in quel soffocante strazio che era la Smaterializzazione.
 
***
 
Aria, infine.
Aria fredda ad aprirle i polmoni, mentre respirava l’odore umido della terra contro cui il suo viso era premuto. La spalla su cui era caduta le doleva, ma ciò che la riportò alla realtà fu l’acuto bruciore alla mano sinistra.
Alhena, barcollando appena, si rialzò in piedi, e alla luce della bacchetta si accorse che il palmo della sua mano era coperto di sangue.
Si era Spaccata.
Una Spaccatura lieve, giusto qualche strato di pelle, come se fosse scivolata e avesse sfregato la mano contro il pavimento liscio, ma si era Spaccata.
Avvolgendo alla meglio la mano dolente in un fazzoletto, Alhena si guardò attorno: per lo meno, non aveva sbagliato destinazione.
Cercando di respirare nonostante il nodo di dolore e angoscia che ancora le appesantiva il petto, Alhena non rivolse nemmeno uno sguardo al panorama che la circondava, non uno sguardo al cielo limpido e trapuntato di stelle, nemmeno una briciola di attenzione alla piana ancora in parte coperta di neve.
Con passo deciso, sentendo il cuore martellare nelle tempie ad ogni passo, raggiunse la porta di legno del piccolo cottage rotondo che le stava davanti, e prese a martellarla di pugni, ignorando il sordo pulsare alla mano sinistra.
Il silenzio che ottenne in risposta non fece altro che aumentare l’agitazione che la pervadeva, costringendola ad aumentare l’intensità del suo bussare.
Niente.
Sirius non aveva intenzione di parlarle, a quanto pareva.
Ma lei aveva bisogno di vederlo, di sapere che stava bene, che si era solo Smaterializzato, che non aveva attraversato alcun…
“Hei!”
Alhena si voltò di scatto, la mano ancora sollevata davanti a sé.
Sirius era a una ventina di metri da lei, le mani affondate nelle tasche, lo sguardo cupo.
Stava bene, quindi.
“Tu!”
Alhena non cercò nemmeno di riflettere.
Lasciò che le sue gambe corressero verso l’uomo che la fissava, immobile, mentre lacrime di sollievo, paura e rabbia le bagnavano di nuovo il viso.
“Che cazzo pensavi di fare, eh?”
Sirius rimase fermo, senza reagire alle sue urla né alla sua corsa minacciosa.
“Azzardati a fare ancora una volta una cosa del genere, e giuro che non mi vedrai più, mai più!”
Quando finalmente si trovarono a un passo di distanza, Alhena non si sottrasse allo sguardo impassibile di Sirius, che la guardava con un sopracciglio appena sollevato con in un moto di irritazione.
Smack.
Alhena si ritrovò a fissare sorpresa la sua mano sulla guancia di Sirius, l’impronta rossa del suo sangue sulla pelle spenta dell’uomo.
Lo aveva colpito senza nemmeno rendersene conto, e ora stava gridando con quanto fiato aveva in gola parole che nemmeno riusciva a distinguere, sottolineando ogni frase con una spinta al petto dell’uomo.
Gli occhi di Sirius brillarono, folli e minacciosi, e poi ci furono solo le sue mani grandi strette attorno ai suoi polsi sottili, e la ferma determinazione con cui Sirius le impedì di continuare a colpirlo.
“Lasciami andare!” gridò Alhena, cercando di divincolarsi, invano.
“Lasciami, Sirius, o giuro che…”
“Tra un secondo”.
La sua voce era un mormorio basso e contratto, come se Sirius stesse impiegando tutta la sua determinazione per trattenersi.
Si ritrovarono a fissarsi, ansimando, mentre Alhena continuava a cercare di liberarsi i polsi.
“Lasciami dire una cosa, prima di continuare a prendermi a sberle”, mormorò di nuovo Sirius, e la sua voce era un ringhio basso e continuo, il ringhio di Felpato.
“Tu mi conosci. Lo sai che posso dire cose che non penso. E io conoscevo te… due anni fa… e so che potevi dire cose che non pensi. Ora so solo che questa sera stavo male, e l’unica cosa che sono riuscito a fare è stato venire a cercare te. E forse ho sbagliato, perché avevo promesso di darti tempo, ma sono anche sicuro che fosse l’unica cosa giusta che potessi fare”.
Alhena diede un ultimo strattone per liberarsi, e questa volta Sirius la lasciò andare.
Continuò a fissarla, le braccia lungo i fianchi, il viso sporco di sangue non suo e un’espressione strana, quasi rassegnata in volto.
Alhena si sentiva svuotata.
Non c’era più rabbia, non c’era più paura, ma solo quel singhiozzo che a stento riusciva a trattenere.
“Non lo fare più”, si ritrovò a mormorare, e Sirius le voltò le spalle.
“No, non ti imporrò più la mia presenza”.
Sirius fece qualche passo lontano da lei, lontano dal cottage, e Alhena non riuscì più a trattenere i singhiozzi.
“Sei un idiota! Non devi più scomparire davanti ai miei occhi, non azzardarti a uscire di casa e svanire nel nulla, mai, hai capito?”
Sirius si voltò di colpo, un’espressione stupita in volto.
“Cosa?”
Quello stupore, quegli occhi spalancati Alhena avrebbe voluto cancellarli con un altro schiaffo.
E invece, mentre Sirius tornava sui suoi passi, la ragazza si ritrovò a singhiozzare apertamente, e ad affondare il viso nella stoffa fredda del suo maglione, stringendolo a sé come non credeva più possibile fare.
Sirius esitò a lungo, prima di ricambiare l’abbraccio, ma quando lo fece fu con un gesto deciso, come se avesse vinto ogni resistenza.
Singhiozzò a lungo, Alhena, stretta in quell’abbraccio convulso. Singhiozzò quando sentì braccia magre di Sirius accarezzarle la schiena, e singhiozzò ancora più forte quando le labbra di lui si posarono lievi fra i suoi capelli.
Si tennero stretti su quella distesa di terra e neve, si tennero stretti senza dire nemmeno una parola, consapevoli di non essere mai stati così vicini come durante quella lite.  
“Io non me ne vado, ragazzina”.
Un mormorio roco, accompagnato da dita contratte che scavavano sentieri disperati fra i suoi capelli.
“Non me ne vado”.
 
 
 
 ***





Note:
Recentemente ho riletto i primi capitoli dell’”Ordine della Fenice”, e lì, in effetti, Sirius dimostra di sapere diverse cose su Regulus (sapeva che era morto molto giovane dopo aver cercato di “uscire” dai ranghi di Voldemort). Ne “La danza delle spade”, chissà perché, avevo fatto comportare Sirius come se in realtà non sapesse nulla della sua sorte, se non che ad un certo punto Regulus era scomparso. Per questo motivo la reazione di Sirius al racconto di che cosa esattamente ha fatto suo fratello è fin troppo caricata.
E sì, insomma, per i soli lettori di “Adagio” questo potrebbe sembrare un grosso passo indietro, ma in realtà la relazione fra Sirius e Alhena è nata proprio così, fra urla e improperi. Non potevo lasciare che si comportassero da persone adulte e mature troppo a lungo.
   
 
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