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Autore: SSJD    01/04/2019    6 recensioni
"Ho cercato di sottolineare che nelle nostre vite il caso può avere un'influenza sorprendente e, se posso offrire un consiglio al giovane operaio di laboratorio, sarebbe questo: non trascurare mai un'apparizione o un avvenimento straordinario. Può essere - di solito lo è, in effetti - un falso allarme che non porta a nulla, ma potrebbe d'altra parte essere l'indizio fornito dal destino per portarvi ad un importante progresso."
Primo classificato al contest “Ero lì quando…” indetto da Ghostmaker sul forum di EFP.
Genere: Slice of life, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Novecento/Dittature
Capitoli:
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Capitolo II
 
 
 
Gli mostro una delle facce più perplesse del mio repertorio e subito si affretta a precisare:
“La targhetta riporta il vostro nome. Io sono il Dott. Fleming…
“L-lo-lo s-s-so… A-an-anche v-voi a-avete la t-targhetta, f-fu-fuori dal-la p-porta.” Lo interrompo mostrandogli a mia volta un sorriso.
“Già, strano modo di conoscersi, non credete? Da dove è meglio cominciare secondo voi?” mi domanda lasciandomi un po’ perplesso.
Mi sta trattando come se fossi un professionista delle pulizie e sapessi esattamente dove e come mettere mano alle sue cose.
Volto lo sguardo verso il disastro che ho combinato per poi riportarlo sul suo ansioso di sapere come procedere e gli dico:
“Bu-butti-amo t-t-tutto, dot-dot-tore?”
Scoppia in una risata genuina, che mi sorprende: ho sempre pensato che l’umorismo inglese fosse pessimo e che difficilmente capiscano una battuta.
“Buona idea! Aspettate, vi do dei guanti. Avete un cesto per la spazzatura abbastanza capiente?” mi domanda mentre, a sua volta, si infila dei guanti bianchi in gomma.
No, non ce l’ho un secchio.
Mi guardo intorno e vedo sotto al lavandino una scatola di cartone, che pare essere vuota.
Vado a prenderla. Dentro ci sono vecchissimi articoli di giornale e riviste scientifiche di ogni genere.
“In effetti dovrei dare un’occhiata anche a quella roba. Se vi chiedo di rimanere oggi ad aiutarmi a fare un po’ di pulizia in questo vecchio laboratorio, sarebbe un problema per voi?” mi domanda un po’ scoraggiato dalla mole di lavoro che dovrebbe altrimenti affrontare da solo.
“N-No… S-so-solo do-dovrei a-avv-avvviiisare mia mo-moglie.”
“Naturalmente! Prego, potete usare il mio telefono. Avete il telefono a casa, immagino.” Dice mostrandomi l’apparecchio nero a lato della scrivania, fortunatamente salvo da schizzi di liquido rosso.
“N-no, m-ma la n-nostra v-v-vicina, s-sì.”
Prendo il ricevitore e compongo il numero sulla tastiera.
Un paio di squilli e risponde la voce dell’anziana signora, che da anni vive nell’appartamento a fianco al mio.
“Buongiorno Mrs. Smith, avrei urgente bisogno di parlare con mia moglie. Le spiacerebbe andare a chiamarla?”
L’anziana donna mi dice di aspettare qualche istante e lascia il ricevitore sul tavolino a fianco del telefono.
Mi volto per confermare con un sorriso che fra poco sarò libero da impegni, ma la faccia del dottore è quasi allucinata.
“C-cosa?” gli chiedo.
“Ma pensavo balbettaste! Che cosa bizzarra!” esclama per spiegarmi la sua perplessità.
“S-so-solo c-con c-chi n-non ho m-mai p-parlato.” Spiego, per poi continuare con mia moglie giunta all’altro capo della linea: “Cara! Mi fermo tutto il pomeriggio all’università!”
“È successo qualcosa?” mi domanda spaventata.
“No! Aiuto un dottore a sistemare e ripulire il suo laboratorio, non ti preoccupare! Vengo per cena, va bene?” la informo.
“Sì, certo. Ti amo.” conclude abbassando il ricevitore.
“Incredibile.” Sento dire da Mr. Fleming, mentre ripongo il ricevitore sulla sua base, appena sopra ai tasti coi numeri.
“C-cominciamo?” gli domando cordialmente. Sicuro domani rimarrà scioccato quando sentirà che è veramente così la mia balbuzie.
Appena conosco qualcuno vado in crisi totale e inizio a balbettare in un modo assurdo.
Tempo qualche ora, non appena riesco a sentirmi a mio agio, passa tutto.
Non so se con il dottore sarà altrettanto facile: gli ho distrutto mezzo laboratorio. Penserà che non è propriamente il caso di darmi troppa confidenza.
Come non capirlo.
“Direi che possiamo fare così, io prendo le cose che si sono sporcate sulla scrivania e verifico velocemente se si possono gettare o meno. Poi ve le passo in modo che possiate metterle in quel cartone che avete recuperato. Gli articoli che ci sono dentro metteteli su quella sedia, vicino alla porta. Per favore.”
Iniziamo a lavorare e lo osservo mentre meticolosamente scrive una lista in cui descrive il contenuto di tutte le provette che è costretto a buttare.
Sono estremamente imbarazzato per questa incresciosa situazione.
Vorrei chiedergli molte cose del suo lavoro, ma questa dannata balbuzie mi fa impazzire. Ma la mia curiosità di più.
Mentre ripone l’ennesima provetta non rovinata nel contenitore in legno, lo osservo, respiro profondamente, mi concentro e domando:
“Mi s-spiegate che l-lavoro f-fate? S-se potete?”
Termina di scrivere l’appunto che stava prendendo sulla provetta appena abbandonata e depone il pennino nel calamaio davanti agli appunti.
Si volta e sorridente mi dice:
“State migliorando, la vostra parlata si sta facendo più fluida. Non ho mai sentito parlare di balbuzie temporanea. C’è sempre da imparare. La curiosità è la base della scienza, quindi la vostra domanda è del tutto lecita. Sapete cos’è la biologia?”
“S-studia le cose v-vive?” chiedo non proprio sicuro che sia la risposta giusta.
“AHAH, beh, potrei dire che è una definizione un po’ generica, ma di base corretta. Io sono un medico. Mi occupo di curare i pazienti futuri.” inizia a spiegare.
“F-Futuri?” gli domando perplesso.
“Vedete. Io non lavoro all’ospedale. Sono un ricercatore di nuove medicine, che in futuro potrebbero salvare la vita a molte persone. Per farlo ho dovuto imparare anche la biologia e un po’ di chimica.” Precisa.
“Ques-te pro-vette co-ntengono medicine?”
“No, muffe, funghi, parassiti e batteri, in realtà.”
‘Ah! Ora capisco il tanfo nauseante che c’è in questo laboratorio…’ penso evitando di esprimere il mio disgusto per il suo lavoro.
Prende un Petri in parte sporcato di liquido rosso e mi fa segno di passargli un panno, in modo da poterlo ripulire.
Lo fa con cura, per poi alzarlo in modo tale da mostrarmelo meglio:
“Osservate il contenuto. Vedete questa massa giallo paglierino? Questa è una colonia di batteri. Una colonia è come una grandissima famiglia. Se questi batteri dovessero entrare in un corpo umano, ne provocherebbero sicuramente la morte in pochi giorni, tanto sono pericolosi. Io cerco un fungo, o una muffa che inserita nello stesso Petri, assieme ad un numero limitato di batteri, ne limiti la crescita o li elimini del tutto… questo sarebbe anche meglio. Capite?” mi spiega lentamente, come se cercasse di volta in volta parole non troppo scientifiche e complicate per permettermi di capire meglio.
Rivolgo lo sguardo alla scrivania, sulla quale giacciono ancora in ordine sparso parecchi dischi di Petri.
Ad un’occhiata veloce, direi che finora non deve aver avuto abbastanza fortuna. Tutti i dischetti sembrano avere lo stesso colore di quello che mi ha appena mostrato.
“Ca-pisco. Avete m-m-mai t-t-trovato qu-qualcosa che li di-strugge?” chiedo curioso di capire se l’entusiasmo con cui mi sta spiegando le cose abbia almeno un fondamento derivante da esperienze passate.
“Sì, qualche anno fa scoprii che i liquidi, che il nostro corpo produce, sono in grado di distruggere moltissimi tipi di batteri. Dentro questi liquidi c’è una sostanza, che ai tempi nominai Lisozima, che è molto potente, in grado di distruggere tantissimi batteri. Sfortunatamente agisce però solo su quelli che all’uomo non farebbero comunque niente. Ma io non mi sono arreso. Mi è stata data la possibilità di continuare il mio lavoro e intendo farlo fino alla fine. Sono sicuro… che le mie teorie sulle muffe e sui funghi siano corrette. Ho letto alcuni articoli, di alcuni anni fa. Un certo dottor Burton riuscì ad isolare delle muffe con azione battericida. Devo riuscirci anche io. Questo è il mio lavoro.” Conclude indurendo di gran lunga i tratti del viso e mostrandomi un’espressione serissima.
Solo in questo momento ripenso ai miei genitori, morti entrambi di tubercolosi, durante la prima guerra mondiale e accosto questo pensiero a ciò che il dottore mi ha detto all’inizio del suo discorso, quando accennava al fatto che il suo lavoro riguarda pazienti futuri. Solo ora capisco a cosa si stesse riferendo.
Mi inumidisco le labbra e mi sforzo di dire la cosa giusta:
“È uuuun l-l-lavoro i-i-importante!”
‘Che cosa stupida’ penso.
“Tutti i lavori lo sono, purché siano onesti.” Afferma più pacatamente rispetto alla leggera agitazione che ho notato prima.
Si volta di nuovo verso la scrivania e si rimette al lavoro.
“Avete figli?” mi chiede poco dopo, cambiando completamente argomento.
“Q-Quattro.” Confesso.
“Che meraviglia! Io ne ho uno. Si chiama Robert. Ha quattro anni ed è un discolo…
Si interrompe, osserva attentamente un altro paio di provette, frapponendole fra sé e un raggio luminoso che filtra dalla finestra, per poi cestinarle nella scatola di cartone, che abbiamo deciso di usare come pattumiera.
Sono affascinato da quest’uomo. Ha una corporatura robusta, sicuramente praticherà qualche sport. Non ha per niente l’aspetto del pallido e gracile studioso, sempre con la testa piegata sui libri.
D’altra parte però, la sua professionalità nel lavoro, che sembra svolgere con passione e dedizione, lo rende, ai miei occhi, molto rispettabile.
“Cosa fate nel tempo libero, Mr. Cohen?” mi chiede cambiando di nuovo argomento e distraendomi dai miei pensieri.
“N-non n-ne ho m-molto, Ve-ramente.” Affermo imbarazzato per poi impormi di essere un po’ più socievole e chiedere: “V-Voi?”
“Passeggiate, più che altro. Al momento sono ancora iscritto come membro ufficiale della squadra di tiro al piattello del Saint Mary Hospital… Titolo per il quale vado particolarmente fiero, visto che mi ha consentito fortuitamente di iniziare ad impegnarmi seriamente in questo lavoro. Ho lavorato con il dottor Wright, lo avete mai sentito nominare?” mi domanda mentre continua a sistemare i Petri che via via gli passo ripuliti dal liquido arancio.
“A-vete un art-ticolo s-scritto da lui, t-t-t…
“Tra quelli che vi ho fatto spostare sulla sedia?” mi interrompe finendo per me la frase.
Mi incupisco. Non mi piace essere interrotto. E tanto meno che qualcuno finisca per me le frasi.
Si volta per capire il mio improvviso silenzio e mi guarda in volto.
Deve aver capito di aver sbagliato e subito si scusa con un sorriso:
“Perdonatemi. Sono… ero sovrappensiero. Non succederà più. Ad ogni modo avete visto correttamente. Ho parecchi suoi articoli che riguardano le vaccinazioni e il lavoro che abbiamo svolto assieme in ospedale… Oltre ad aver vinto molti tornei di tiro al piattello. Di quelli però temo di non avere nessun riferimento scritto. Mi dovrete credere sulla parola.” Afferma.
“C-certo. Alcune im-im-imprese aaaa-ndrebbero r-ricordate ne-negli an-nali!” ribatto con sarcasmo, per fargli capire che ho già scordato quanto appena accaduto.
“Mi prendete in giro?” mi domanda girandosi nuovamente verso di me.
“Certo!” riesco a dire senza nemmeno balbettare. Grande conquista, per me.
“AAAHH! Siete davvero di compagnia. Pranzate con me più tardi? Vi posso offrire un quasi commestibile pasto alla mensa dell’università?” mi domanda allegro.
“No, g-grazie. D-dopo ciò c-che ho v-visto qui st-st-stamattina, p-preferisco andare a c-casa mia a m-mangiare. P-perché n-non venite? Mia m-moglie cu-cucina be-nissimo… N-niente fu-nghi, pr-promesso…”
“Perbacco! È come ricevere un invito a nozze! Siete certo che non sia un disturbo per vostra moglie? Le avete detto che sareste tornato stasera per cena, sicuro non vi aspetterà per pranzo, tantomeno con un ospite!”
Giusto, non vorrei farla arrabbiare, in effetti.
“P-posso usare di nuovo il telefono?” gli chiedo cortesemente.
 
Passiamo un paio di ore a chiacchierare, mentre lavoriamo con molto impegno per sistemare il laboratorio. Il dottore è una persona molto piacevole, colta e di compagnia. Mi racconta che, a differenza di me, non è nato a Londra, ma in Scozia, dove ha passato l’adolescenza, prima di trasferirsi in Inghilterra. Mi conferma che da giovane faceva molti sport, ma che ora sono già parecchi anni che pratica solo il tiro al piattello.
Quando gli chiedo come ha iniziato a studiare biologia, si incupisce un pochino e mi risponde che alla morte di un suo carissimo zio ricevette in eredità la somma necessaria per iscriversi all’università.
Mi racconta che aveva scelto chirurgia, ma il suo amico Wright l’aveva convinto a deviare i suoi studi verso la batteriologia e allo studio dei vaccini.
“D-d-doveva aaam-mirarvi mmmmol-tissimo p-p-per p-p-pro-porvi di cam-biare da c-c-chirurgia a s-ss-chi-schifezzologia…” lo prendo di nuovo in giro.
“Un chirurgo salva una persona per volta, un batteriologo, se trova il vaccino giusto, può salvare milioni di vite tutte assieme.” È la sua risposta sempre accompagnata da un sorriso.
Prende in mano una nuova provetta e inizia ad analizzarne il contenuto, ma poi si interrompe e si mette pensieroso a guardare fuori dalla finestra.
C’è aria di pioggia, come sempre.
Fa un sospiro e mi spiega che durante la Prima Guerra Mondiale lui e Wright vennero mandati in Francia, in un ospedale da campo. Mi racconta con rammarico l’incubo che fu costretto a vivere: i pochi chirurghi che c’erano facevano l’impossibile per salvare vite umane, arrivando necessariamente ad amputare arti dilaniati da bombe o colpi di mitragliatore. Tentavano miracoli e molte volte ci riuscivano, ma la percentuale delle persone che moriva per infezioni era ancora altissima.
Mi spiega che furono lui è Wright a trovare il modo per ridurre le morti per infezioni batteriche, ottenendo un grande applauso dall’intero mondo scientifico, una volta finita la guerra.
Si volta verso di me e, incurvando le sopracciglia in uno sguardo triste, commenta:
“Magra consolazione, sapere di aver scoperto qualcosa di utile per la prossima guerra.”
Il suo pensiero mi lascia quantomeno pensieroso.
Possibile che tutto il suo lavoro abbia come unica applicazione quella di salvare soldati da ributtare sul campo di battaglia?
“E s-se n-non c-ci f-f-fosse una p-p-prossima guuuerra?” Gli chiedo con un mezzo sorriso.
“Ci sarà per sempre una guerra su questo pianeta. Ma spero che le scoperte che ho avuto la possibilità di condividere con Wright, possano essere disponibili a tutti e non solo ai soldati dell’esercito. Voi siete stato in guerra?” Mi domanda.
Lascio cadere le due provette che mi ha dato da gettare nello scatolone e con la mano sinistra alzo la gamba del pantalone mostrandogli che, dal ginocchio in giù, il mio arto è di un leggerissimo e costosissimo puro mogano.
Batto un paio di volte le nocche sul legno, che risuona nella stanza come un piacevole tamburello e lo guardo negli occhi sorridente.
“Oh buon Dio! È stata una granata?” mi chiede preoccupato.
“No, u-u-un c-c-carro b-b-bestiame mi ha-a-a in-in-inves-tito da p-p-piccolo…” spiego.
“Mi dispiace” dice osservando l’arto finto, prima di proseguire: “Vi hanno curato con molta professionalità. Se il mio parere di medico può consolarvi.” Conclude con fare esperto.
“Sì, lo so. Mi haanno oooperato al S-s-s-aint M-Mary!” dico orgoglioso, sapendo di fargli cosa lieta.
Sorride.
Lo imito risistemandomi il pantalone per riprendere a lavorare.
 
***
   
 
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