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Autore: Eje    21/07/2009    1 recensioni
Sono fantasmi attraversati dai secoli. Immobili e mutevoli, per questo eterni.
Sono illusioni concrete in una realtà di cui non fanno parte; inganni eterei dei loro stessi ego.
Sono la vita nella morte, l’infinito nel finito; contraddizioni della contraddizione stessa.
Sono ogni cosa ed insieme il nulla di tutto.
Genere: Drammatico, Generale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I. ALBA






“Quando ancora nessun dio si era manifestato,
nè i nomi pronunziati, nè i destini decretati,
allora gli dei si crearono fra loro.”


Enûma Eliš, XIII-XII secolo a.C.







L’ombra netta della parete viene vinta dal diramarsi sottile e lento della luce. In silenzio, con la testa abbandonata contro il pavimento, osserva la lotta di contrasti scivolare sui muri, fino a raggiungere il suo viso. Fino ad esplodere inghiottendolo, annullando il buio denso che delinea lo spazio attorno.
Stringe gli occhi costringendosi a fissare la finestra. Odia la mattina. Odia il riprendere della vita, lo scorrere fluido delle persone. Perché quando succede, quando la notte svanisce vinta dal sole, ricorda chi è. Dov’è.
Già immagina i passi del guardiano lungo il corridoio, il lento masticare che accompagna ogni suo movimento; regola la cintura prima di aprire il cancello, sistema il berretto, carezza appena la fodera della colt e poi bussa. Due colpi netti, sterili; un rumore metallico, una sbarra che si apre.
- Eliot, fuori. Colazione.-
Questa è la sua vita. La sua seconda vita, a voler ben guardare.
Un’ alternanza meccanica di azioni, scandite da un preciso intervallo di tempo.
Ma se ce una cosa che non riuscirà mai a sopportare è che qualcuno a cui fatica addirittura dare un volto, organizzi la sua esistenza, pretendendo di assorbirlo in un sistema senza senso, che non sembrava avere un fine, se non quello di automatizzarlo.
Ecco perché, dopo la chiamata del guardiano, rimane immobile, a terra. Ed ecco perché, dopo circa mezz’ora, i passi dell’uomo inequivocabilmente più pesanti, si avvicinano ancora alla sua stanza.
- Eliot, ti consiglio di uscire e in fretta, se non vuoi passare un'altra ora al reparto lavori forzati...-
Vorrebbe pregarlo di farlo.
Lavori forzati.
Qualcosa che lo aiuti a concentrasi su sensazioni concrete; fatica, muscoli tesi, gocce di sudore che ti scavano la pelle.
Forse così, quella sensazione di soffocamento che lo investe all’alba cesserebbe.
Troverebbe un appiglio magari, un modo veloce ed indolore per smettere di pensare, di scivolare in un mondo senza uscita, né spazio. In cui il tempo sembra divorarlo, lasciandolo totalmente vuoto.
- Eliot! Mi hai sentito?!-
Con un sospiro, il ragazzino si porta una mano al volto, sfregando gli occhi ancora semichiusi.
- Se ti agiti così ti verrà l’ulcera, capo. -
Ignora la risposta del guardiano; infondo anche se provasse ad ascoltare, lo stridere di quel peso opprimente contro l’anima gli impedirebbe di farlo veramente. L’unica cosa che è in grado di sentire è il boato del vuoto che si fa strada dentro e fuori di lui.
Sta cadendo.
- Ho capito, ho capito... Certo che la pazienza è proprio il tuo forte!-
Sta cadendo e nessuno se ne accorge. Nessuno lo sa.
Perché non c’è nessuno.
Si alza da terra, lasciando che il suo sguardo corra per la stanza, sulla branda gelida, lungo le inferiate dell’unica finestra. Con movimenti lenti si toglie la canotta, infilandosi la solita tuta arancione.
Anche se è rinchiuso in un edificio blindato di dieci piani, con millecentoventicinque telecamere di sicurezza. Anche se quasi ad ogni angolo può incrociare uomini in divisa, armati.
Anche se in quel posto ci saranno come minimo altre trecento persone con la sua stessa tuta.
In realtà è solo.
Quando fa scattare il meccanismo della porta e lascia che il corridoio lo inondi, vorrebbe gridare aiuto. Ma non può farlo.
La faccia tirata del guardiano, in una frazione di secondo, gli occupa tutta la visuale. Due occhi sottili si piantano nei suoi. - Devi imparare a darti una mossa ed essere più rispettoso, stronzetto.-
Che gli venga da ridere a quelle parole è più che comprensibile. Essere rispettoso. Perché?
Di quella che ci si ostina chiamare “vita” non ha più nulla in mano. Niente di niente.
Cosa vuole che gliene importi di essere rispettoso?
Quel “qualcosa” a cui non riesce dare un nome non fa altro che trascinarlo sempre più in profondità. Ed è strano come possa farlo, mentre lo riempie e lo svuota contemporaneamente. Entrando dentro di lui, invadendo il suo animo, sembra volerlo fare scoppiare e nello stesso istante, svuotarlo.
Ecco perchè sente il bisogno sfrenato di toccare, di sentire, per convincersi di esserci ancora. Di essere ancora “vivo”.
La luce delle vetrate che danno sul cortile, lo attraversa di colpo come un fantasma, avvolgendo la sua ombra sino a schiacciarla del tutto.
- Eliot, oggi è giorno di visita. Quindi cerca di non fare cazzate se non vuoi finire peggio del solito.-
Il guardiano lo squadra impettendosi, cercando di recuperare in postura, quei quattro centimetri che li separano in altezza.
Non lo ascolterà nemmeno questa volta e forse anche lui lo ha capito, ma ugualmente ripete il solito sermone.
Ognuno li ha un ruolo a cui deve attenersi, che lo facciano per scelta o per obbligo, non fa alcuna differenza.
Quel che conta è la parte, l’azione in sé.
Muoversi a ritmo con il mondo, in sintonia con miliardi di altre persone; globuli che schizzano nelle vene come automobili sulle strade, il tuo corpo è un piccolo universo inglobato in altri sempre maggiori.
Ci credeva; prima di avvertire quel peso.
Di sentire il vuoto riempirlo e il nulla farsi sostanza dentro di lui.
Prima di capire che i suoi occhi stavano guardando a qualcosa che non si può vedere; una dimensione sospesa che brucia.
A volte pensa di essere pazzo.
Gli capita quando si accorge di come la percezione che ha del mondo diventi in ogni istante più distorta, più labile. Vorrebbe prendersi a schiaffi, convincersi che è tutto in incubo; ma subito quel peso torna a pressarlo.
Non ha forma, né odore. Non ha suono se non un boato persistente che sembra risuonare in un antro vuoto; ma c’è. E lo cerca.
Lo sfiora, lo rincorre e si fa rincorrere senza mai darsi pace. Come un serpente che si mangia la coda, un circolo senza fine.
- Eliot! Dannazione mi ascolti?!- Il guardiano è a pochi centimetri dalla sua faccia; il pugno a mezz’aria.
Con un movimento lento, ma efficace si scansa scendendo gli ultimi scalini. – A dir la verità... No. -
Ora può avvertire distintamente la sagoma della colt premere contro la propria spina dorsale.
-Allora vedrò di essere catturare meglio la tua attenzione...-
La presa sul suo braccio si fa più salda, tanto da far male. Il guardiano lo trascina lungo il corridoio. Un deambulatorio senza tempo, dove tutto congela a contatto con la luce serica che trapassa le vetrate come fossero burro. Affilata e impalpabile sguscia negli anfratti delle stanze, tagliando ogni cosa con una dedizione invidiabile.
Altri uomini in divisa li accolgono all’entrata della mensa. Qualcuno lo spintona verso l’ingresso; qualcuno gli fa scivolare un vassoio tra le mani. Mentre lui cade sempre più in basso.
Il vassoio scorre sui binari metallici del bancone e il vuoto guadagna altri centimetri, la cuoca riempie la tazza di latte e sono altri sette; i cereali, il cucchiaio e si arriva ai venti.
Quando si siede urtando il gomito di un altro ragazzo è già precipitato di altri trenta.
Facce, occhi, bocche che si muovono senza alcun senso; ogni esistenza “viva” sembra scorrergli addosso come acqua, gocce che si infrangono nel nulla.
- E che cazzo! Possibile che non ascolti mai!-
Nel momento in cui si volta, la faccia asciutta di Harris sembra quasi un allucinazione. Deve essergli seduto accanto da un po’, ma è la prima volta nell’arco della mattinata, che sente distintamente la sua voce.
- Non urlare. Stavo ascoltando. – In realtà vorrebbe vomitargli in faccia quello che ha appena ingoiato, ma si trattiene. Ignora il dolore allo stomaco e la nebbia sottile che gli appanna la vista.
- Non è vero. Sei il solito stronzo e basta. Ed io che sto qua a raccontarti di queste cose, che se mi sentono rimango dentro altri dieci anni come minimo!-
- Non ti obbliga nessuno a raccontarmele.-
Il vuoto, è sempre più fitto. Il peso sempre più soffocante.
- Fanculo. Visto? Sei uno stronzo.-
Harris ha sedici anni; tra due mesi sarà trasferito presso il Carcere di Glen Cove per scontare altri cinque anni. Ha padre americano e madre portoghese, un fratello di sette anni più grande e spaccia droga dall’età di undici anni. Ed è li, di fronte a lui, nel suo metro e ottanta di altezza; ma è come se non ci fosse.
Il suo corpo sembra essere invisibile, un controluce sfocato da contorni blandi, anch’essi persi in quel vuoto infinito.
- Detto da uno condannato per stupro...-
Quando le parole scivolano oltre le labbra, la sua voce si gonfia sino ad esplodere nel baratro; vorrebbe urlare più forte, ma non ci riesce.
- Che figlio di puttana che sei...-
Ecco.
È appena precipitato di un altro metro.



Gli occhi si aprono di scatto; il fiato è ancora incastrato in gola. Le retine, disperate, bevono avide l’immagine tersa del soffitto nero, tanto concreta da fare improvvisamente male. Cerca di regolarizzare il respiro, di sentire il freddo della notte sulla pelle. Sfiora le lenzuola con i polpastrelli tremanti alla ricerca di una sensazione puramente materiale a cui aggrapparsi; la strada più sicura per tornare alla realtà.
Eppure l’intensità del sogno è ancora padrona; la testa rimbomba di suoni forti e voci inesistenti in un silenzio tangibile.
Ormai la paura che quei sogni possano rincorrerla è svanita, assieme a molto altro; ma l’angoscia di una vita che non le appartiene rimane impressa sulla pelle, come un marchio indelebile. Come una maledizione a cui si è coscienti di non poter fuggire.
È da quattro mesi che sogna.
Prima dormiva e basta, un sonno vuoto, buio, come la sua stanza. Dieci anni senza sogni, né incubi.
Ora, invece, si sveglia stanca; satura di un esistenza che non è le appartiene, che grava senza alcuna ragione sulla sua anima. Perché si sforza di trovare una spiegazione in quella vita che vede scivolarle davanti, cerca una ragione, un nodo -anche minuscolo- per sciogliere la matassa.
A Loro non ha ancora detto niente; ma è conscia del fatto che sanno. Sanno senza bisogno di chiedere, di essere informati. Sanno, e basta.
Aziza porta una mano davanti agli occhi, le dita le si allungano scarne, spiccando sullo sfondo nero come se non le appartenessero. Ormai sente più propria quella stanza, la dimensione omogenea che la circonda, che il suo corpo. Si sente immensa, a volte, parte integrante delle pareti immobili, del silenzio, del buio. Si sente il buio.
Il suo corpo è entrato a far parte di quell’ entità inanimata ed assieme pulsante che la racchiude, il suo unico conforto materiale. Per questo non si riconosce; dimentica di avere due occhi, due orecchie, una bocca. Ed ogni volta ricordarlo fa male e bene allo stesso tempo. Come quei sogni.
Non conosce le persone che sogna, non sa niente di loro se non quello che vede. E non sa se ciò che vede possa contenere un minimo di veridicità; non sa se crederlo o meno il frutto scomposto della sua disperazione.
Eppure quelle immagini sembrano molto più di fantasie inconsce; sono immerse in una consistenza troppo viva, equilibrata, per essere solo dei falsi. Ed è come se ad ogni sogno si sgranasse un protagonista; un ragazzo a cui ancora non saprebbe dare un volto, rinchiuso in una prigione molto diversa dalla sua.
Aziza sospira piano, puntellando i gomiti sul letto prova ad alzarsi.
Forse avrebbe dovuto chiedere spiegazioni al numero Cinque; ma tutti quegli anni rinchiusa in una prigione di nulla l’hanno segnata troppo perché si affidi spontaneamente ad uno di Loro.
Ancora fatica a credere a ciò che le ha detto, il dubbio che possa essersi preso gioco di lei permarrà sempre; ma il fatto che sia venuto a trovarla, superando la guardia degli Altri con le sembianze del numero Diciotto, le da speranze. “Lui” che ai suoi occhi si è sempre distinto, unico fra tanti a non contendersi la sua anima.
Rabbrividisce.
Il ricordo dei primi giorni, costretta in quel luogo da catene invisibili a cui non sapeva dare spiegazione, è ancora tremendamente nitido nella sua mente. Così come il desiderio di scappare, lontano.
Eppure quando provava a strisciare fino alla porta, combattendo una stanchezza pressante che le rubava il respiro; quando provava ad aprirla, si ritrovava immobile nell'identico punto da cui era partita. Il corpo non rispondeva più ai suoi comandi e tutto scivolava via, lasciandola senza alcun appiglio, mentre la realtà scemava nel nulla.
Era una prigione dell'anima quella in cui si trovava segregata, ma all'epoca non lo sapeva ancora. Credeva che sarebbe impazzita; eppure le cose andarono diversamente.
Sopportando l’angoscia di un futuro districato nel buio, resistendo ad ogni tortura, è divenuta la più indifferente tra gli uomini, avvicinandosi al Loro essere.
Tuttavia non può dire di avere soppresso completamente le proprie emozioni, la rabbia, l’odio, quelli non li dimenticherà mai.
E questo perché lì fuori, all’aria aperta, c’è un altro numero. Il primo che ha incontrato. L'essere che la catapultò nell’universo di sofferenze a cui è crocifissa. Profondamente diverso dal numero Cinque ed insieme così identico; solo due emanazioni diverse della stessa coscienza. Diversi per numero; diversi per ideali, ma votati entrambi al rispetto dello stesso “volere”.
Stringe le mani attorno alle braccia in un impulso nervoso. Scivola sul margine del materasso tirandosi in piedi, immergendosi nel buio fitto della stanza.
Vorrebbe dissolversi, appartenere a quell’ antro oscuro con ogni fibra del suo essere, completamente. Per sempre.
Solo così riuscirebbe a scavalcarli, ad andare oltre, superando ciò che la costringe umana.
Ed è proprio nell’istante in cui prega le pareti di inghiottirla che la porta nascosta nel buio si apre.
La luce fioca, ma pungente della prima alba sfonda l’ingresso nero.
La prima cosa che Aziza avverte, dopo, è un pianto sommesso; qualcosa a cui non è più abituata da anni.
Singhiozzi sottili che sembrano venire trascinati nella stanza, singhiozzi che appartengono ad una dimensione lontana, di cui anche lei, un tempo, faceva parte.
Preceduta dai gemiti, una figura densa pare imporsi nella stanza contro la proprio volontà, spaesata.
Eppure non è questo a turbare Aziza.
Sono le due forze etere, che scivolano nell’ombra plasmandola con la propria essenza, ad attirare la sua totale attenzione.
Accompagnati dalla luce affilata che squarcia l’oscurità di netto, insinuatasi come veleno nella stanza, avanzano senza alcun respiro, senza alcun movimento.
E basta meno di un attimo per capire che sono loro a costringere quel pianto nella stanza. Sono loro l’energia invisibile che impone i movimenti a quella figura instabile.
Sembra che tu non sia meno agguerrita del solito, Aziza
La voce fresca, limata ed insieme totalmente neutra, che in realtà è mero pensiero, attanaglia l’aria rovesciandosi come un mare in piena contro di lei.
A quanto pare è solo il tuo corpo a soffrire, mentre la tua mente continua a lottare.
In una manciata di secondi, senza nemmeno darle il tempo di poterlo sospettare, entrano nella sua mente.
Sondano ogni anfratto della sua coscienza, veloci, prendendola alla sprovvista.
Cercano il suo odio; quell’incessante desiderio di resistenza animato dall’odio più puro.
Sanno trasformarla in un libro aperto che aspetta solo di essere sfogliato, assimilano ogni sentimento, ogni pensiero come nozioni sterili, senza comprenderli veramente. Questo è il più terribile dei loro poteri.
Aziza sente distintamente il sangue gelarsi nelle vene, mentre uno sguardo di luce e nulla le attraversa l’anima. Un respiro ghiacciato, più leggero dell’aria, ma comunque violento, guizza nei meandri della sua coscienza; divorandola.
L’unica cosa che può fare è rimanere immobile. Non deve pensare a niente; dimenticarsi della stanza buia, dell’aria e del cielo, dimenticarsi della vita, della morte.
Deve cancellare ogni cosa, di se, del resto. Di Valian. Non può lasciare per nessuna ragione che scoprano di “lui”.
- Combatto, com’è ovvio che sia. - Quando la sua voce risuona tra quelle quattro mura, lo spazio sembra dilatarsi, conformandosi ad essa, assecondandola.
Ed è esattamente quello che ci siamo sempre aspettati da te.
In un bagliore improvviso, il primo le si para di fronte. Un movimento che in realtà non c’è mai stato ed Aziza viene accecata da uno sguardo vitreo troppo simile a quello del numero Cinque, ma anche sottilmente diverso per sfumature che, ormai, è in grado di cogliere appieno.
Un viso terso, modellato sommariamente tra luce e trasparenze. Il volto del numero Nove.
La sua inclinazione alla provocazione è sempre stata più viva che negli Altri, modula la voce in toni meno piatti, quasi per lasciarsi distinguere apposta. Per farle un favore.
- Mi rammarico allora, di non potervi sorprendere quanto sapete fare voi...- Rimanere fredda, adeguarsi al loro essere è stata la prima cosa che ha imparato. Con un gesto del capo, ancora tremendamente umano, indica la figura in lacrime, accovacciata a terra.
Il volto del numero Nove si tende appena, conquistando una maggiore concretezza. Avanti Aziza, ancora non hai capito quant'è inutile mentirci? Sapevi bene che ne avremmo portato un' altro.
Il cuore della donna perde un battito.
I sui occhi vagano nella stanza ancora in ombra; vorrebbe porsi delle domande, ora. Ma non può.
Il suo unico pensiero deve rimanere il nulla.
Si morde il labbro, rifiutando ogni sensazione o ricordo; come è abituata a fare da anni cerca affannosamente il vuoto. Soffoca le immagini concentrandosi solo sul buio che le si annida dentro.
Poi, improvvisamente, “lui” continua.
Credi davvero che non sapessimo che il numero Diciotto te ne parlasse?
Il numero Diciotto. Questo vuol dire che ancora non sanno la verità.
- Pensavo che se lo avreste saputo, non lo avreste permesso - Cerca di scolpirsi nella mente le proprie parole. Deve crederci lei stessa, con ogni fibra del suo essere, prima di sperare di poterli ingannare. Era indifferente che tu lo sapessi o meno. Il numero Diciotto voleva vederti per conto del numero Cinque. Ma come sai la tua anima appartiene al numero Tre, per questo vi abbiamo controllato.
Alle sue parole, Aziza perde la percezione di ciò che la circonda. Il buio, la stanza, sembrano appartenere ad un'altra dimensione, un altro tempo. Mentre l’eco di frasi sconnesse le devastano la mente.
Immagini feroci si accavallano senza un ordine, sfocando una sull'altra. Urla, echi di domande strozzate rincorrono risposte troppo immense, troppo crudeli per essere anche solo ascoltate.
Il numero Tre.
Il suo unico, vero, carnefice. L'essere che l’ha costretta a tutto quello; che l’ha distrutta.
A causa sua si è ritrovata a perdersi tra illusioni materiali in grado di scavarle l'anima giorno dopo giorno. Sezionandola come un oggetto inanimato; convincendo lei stessa di essere tale.
Un sorriso sfuggevole si materializza sul viso del numero Nove. Non credevo che certe cose ti sconvolgessero ancora in questo modo.
A quelle parole la donna avverte chiaramente la tentazione di abbandonarsi nell' odio più disperato; ma la paura che possano percepire altro riguardo al numero Cinque si fa improvvisamente impellente.
Il comprendere come Valian abbia dato fondo alle sue potenzialità, per non permettere che pur controllandoli si accorgessero di qualcosa, le inietta una forza che non credeva di poter possedere.
- Questo non è un problema tuo.- Sibila, concentrandosi sulle sue stesse parole, caricandole di gradazioni incisive come solo gli umani possono fare.
Indubbiamente. Direi che è il tuo più grande problema, dopo dieci anni, pensavo che avresti cominciato a crescere.
La donna lo fissa soltanto; rimane in piedi come una statua, un blocco unico, inflessibile. Dietro di lei il buio sembra volerla stringere, sino ad inglobare dentro sé.
Sa che dovrebbe lasciarsi i ricordi alle spalle, evitare di riviverli così intensamente, di sentirli sulla pelle. I sentimenti che ne derivano sono la prima arma che le ritorceranno contro. Ma al solo sentir parlare del numero Tre, i suoi propositi svaniscono, sciogliendosi in un acido invisibile.
- Non so come farei senza i tuoi preziosissimi consigli, numero Nove...-
Il sorriso che sfuma sul viso di “lui” è quanto di più inumano si possa immaginare.
Non avresti più le facoltà d'intendere e di volere, senza i miei consigli.
La stanza sembra accartocciarsi, le pareti fremono percorse da una forza impalpabile.
In un tempo troppo breve per essere calcolato, il numero Nove scivola lontano da lei, accanto al suo compagno. Un entità semi-invisibile, amalgamata ancora alla luce flebile dell'alba, che striscia famelica nell'oscurità della stanza.
L'essere umano invece, rimane a terra, tremante. Abbandonato tra buio e luce, vibra di una fragilità così mostruosa che accorgersene è quasi doloroso.
Aziza ha l'impulso di abbracciarlo, di confessargli tutta la verità: ridotto in quello stato non ce la farà mai, dovrebbe versare quante più lacrime può ora, perchè quando il tempo passerà non sarà nemmeno in grado di piangere. Non sarà nulla, nessuno.
Se lo desideri Aziza, puoi occupartene tu. Il numero Nove adora scherzare o, almeno, fingere di farlo. Dev'essere passato molto tempo dall'ultima volta che hai parlato ad un essere umano.
La donna non risponde, incastra lo sguardo tra le pieghe della coperta scura che cinge quel corpo minuscolo, spaesato.
Incantata quasi, dal lieve respiro che si muove appena nell'aria, sempre più sconnesso e agitato.
Ora ti lasciamo, Aziza. Cerca di non essere troppo cruda con lui. Le ultime parole si dissolvono in bagliori serici, scorrono lontane, oltre la porta d'ingresso, fuori. Dove lei non può arrivare, dove non può vedere.
La luce si richiude su se stessa, il buio torna a brillare della propria oscurità, dilatandosi, colmando ancora ogni anfratto, ogni angolo; sino a raggiungere il corpo estraneo che ne occupa lo spazio.
La donna rimane sospesa, solo per un istante, tra realtà ed illusione; poi lentamente, si volta verso quel respiro flebile e gli si accosta con delicatezza, con il timore di spezzarlo.
- Tu... capisci la mia lingua?-
Il corpo rannicchiato smette di sussultare, ma non alza lo sguardo, non pronuncia alcuna parola.
In un altra situazione, Aziza si sarebbe comportata in modo diverso; ma sono passati troppi anni e lei ha scordato la fragilità umana.
Non sa come gestire quel silenzio spaesato, né tanto meno sa sostenerlo. È di certezze, di concretezza che ha bisogno, ora.
Con uno scatto improvviso si china su quel corpo, ne afferra un braccio sottile, spogliandolo della coperta. Prima che il panno tocchi terra un gemito scomposto stona nel silenzio sacrale della stanza, l'umano torna a fremere, singhiozzando alla sua vista. Ed è solo in quell’istante che la donna si accorge di avere di fronte una ragazzina. Una bambina quasi.
Aziza rimane ferma, attonita; ascolta il tempo stridere attorno alle loro due entità, unite dalla presa salda della più vecchia. Un circolo senza fine, una simbiosi che per qualche istante risuona di echi lontani, nostalgici. Mentre tutto il resto trema.










NOTE: Sono profondamente grata a chi ha letto e commentato e mi scuso per il tempo –infinito- impiegato a postare questo capitolo. Avevo sospeso la mia “produzione artistica” data la tonnellata di studio in vista dell’esame di maturità…
Per il secondo capitolo la cosa dovrebbe essere decisamente più veloce essendo “tecnicamente” già pronto...
Ringrazio in anticipo, tutti quelli che leggeranno e vorranno lasciare una recensione anche per questo capitolo.
  
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