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Autore: blackjessamine    05/05/2019    5 recensioni
Ufficio Misteri, 31 dicembre 1998: mentre l'anno della guerra e della pace vive i suo ultimi minuti, un gruppo di Indicibili scopre che una Soglia altro non è che un passaggio, e che dove si può andare avanti, si può tornare indietro.
Un grosso cane nero – apparentemente molto debole, ma innegabilmente vivo – viene estratto dalle macerie di un arco di pietra.
E mentre l'anno della morte e della rinascita volge al termine, i rimpianti si fanno leggeri, pronti ad essere spazzati via dalla speranza di una seconda possibilità.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andromeda Black, Harry Potter, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace, Da Epilogo alternativo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Pas de Deux '
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Capitolo 14
Margherita Bianca


 Budapest si srotolava come un nastro di raso punteggiato del verde luminoso delle chiome degli alberi oltre il finestrino appannato del tram numero cinque.
Era una giornata luminosa e piena di un vento che già sembrava voler anticipare la primavera ancora lontana, e il tram che lentamente avanzava verso la zona nord, allontanandosi di pochi isolati dal corso del Danubio, era quasi vuoto. 
L’ora di pranzo era ormai passata da un pezzo, e lo stomaco di Alhena, seppur provato dall’attraversamento dei confini nazionali tramite Passaporta, cominciava a reclamare un po’ di attenzione. La ragazza, però, si limitò a trarre un profondo sorso d’acqua dalla bottiglietta di plastica che aveva acquistato a un infernale aggeggio meccanico babbano nella sala d’attesa della stazione: mantenersi idratati era un ottimo metodo per contrastare lo scompenso da Passaporta Internazionale, aveva scoperto. 
Una voce metallica e a malapena udibile annunciò la fermata successiva, e Alhena si concesse di chiudere gli occhi: il viaggio l’aveva spossata come poche altre volte le era accaduto. 
È più difficile attraversare lo spazio in pochi istanti quando abbiamo validi motivi per restare, era solita dire Emerenc. 
Osservando le vie della città che, fino a qualche mese prima, Alhena s’era convinta sarebbe stata la sua casa e la sua nuova patria, la ragazza non poté fare a meno che ripensare alle vaste distese d’erba tenera e verdissima che, con lo sciogliersi della neve, avevano illuminato la campagna del Dorset. Le sembrava di averlo ancora sotto i piedi, quel terreno umido e morbido, addolcito dalla bruma dell’alba e dai suoi passi ancora carichi di sonno. 
“Ho una Passaporta per Budapest fra tre ore e mezzo”.
Sirius era rimasto in silenzio, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, stringendosi appena nelle spalle. Il suo viso sciupato, che nell’ultimo giorno e mezzo sembrava essere ringiovanito di almeno dieci anni, si era rabbuiato appena, ma non aveva fatto obiezioni. Nessun commento, nessuna protesta, nulla.
“Me ne sono andata da lì come una ladra…non ho nemmeno avvisato che mi sarei assentata dal lavoro per un po’. È arrivato il momento di rimettere davvero le cose in ordine”.
Sirius non l’aveva nemmeno guardata, quando lei aveva pronunciato queste parole.
Quella Passaporta Alhena l’aveva prenotata il giorno stesso in cui aveva saputo la data del processo di Sirius: comunque fossero andate le cose, era troppo tardi ormai per continuare a fuggire. Alhena era troppo grande, troppo stanca per una vita fatta di case abbandonate da un giorno all’altro e risposte mai date. Budapest era stata la città del suo dolore, la città che l’aveva accolta e protetta, le aveva insegnato a camminare di nuovo, le aveva ridato fiducia e sorrisi. Meritava qualcosa di più che una valigia riempita di corsa. 
Perché lo avesse detto a Sirius soltanto quella mattina, Alhena non se lo sarebbe saputo spiegare.
Forse perché, durante la piccola festa che Molly aveva organizzato alla Tana, lei e Sirius non avevano parlato affatto. Non avrebbero potuto farlo, non con tutti quegli occhi felici che non li lasciavano mai. Solo quando Arthur, tutto orgoglioso, aveva portato Sirius nel giardino sul retro, mostrandogli ciò a cui aveva tanto lavorato – i resti della sua motocicletta erano stati pazientemente aggiustati e assemblati in un esemplare, se non somigliante all’originale, certamente molto interessante – Alhena era riuscita a chiedergli se, prima o poi, lui l’avrebbe portata a fare un giro con quel lucido esemplare di meccanica babbana azionato a magia. Desiderio che fu esaudito quella notte stessa, quando guidarono a lungo nel silenzio della campagna, fino a quando non sperimentarono una piccola ma astuta modifica installata da Arthur: Incanto di Materializzazione Estesa, per poter smaterializzare motocicletta e centauri in un sol colpo. Utile, ma potenzialmente rischioso, dal momento che comparire all’improvviso in mezzo al traffico avrebbe potuto causare qualche incidente, oltre ovviamente a mandare a quel paese lo Statuto Internazionale di Segretezza. Per fortuna, i sentieri attorno all’Uccello Vermiglio non erano particolarmente battuti. 
Alhena avrebbe potuto parlare a Sirius della sua intenzione di tornare a Budapest allora, mentre indugiavano sulla soglia del cottage, ma non lo aveva fatto. Perché ormai, anche se non avevano quasi parlato, anche se non avevano nemmeno cercato di capire che cosa fosse successo tra di loro, entrambi sapevano che era solo questione di tempo perché le loro mani si sfiorassero di nuovo, e perché le loro bocche si trovassero, e i loro corpi smaniosi parlassero al posto loro.
Fare l’amore con Sirius, dopo due anni in cui Alhena aveva creduto di poter ritrovare le sue carezze soltanto in sogno, fu come tornare a respirare l’aria di casa. I loro corpi avevano riconosciuto l’attrazione che li legava ben prima che loro riuscissero a comprenderlo razionalmente, e il sesso per loro era sempre stato un linguaggio molto più comprensibile di tanti altri. Quella notte ci fu l’incertezza della separazione subito spazzata via dalla riconoscenza istintiva con cui i loro corpi avevano saputo ritrovare linguaggi comuni e comportamenti consueti. Assieme all’irruenza istintiva era arrivata poi una tenerezza tutta nuova, fatta di carezze un po’ incerte e sussurri e baci che asciugavano lacrime. 
E ora Alhena era di nuovo a Budapest, e ricordava solo lo sguardo cupo di Sirius che si era illuminato appena quando lei, a un passo dalle fiamme verdi del suo camino, gli aveva promesso che sarebbe tornata presto. 
Le era sembrato soprattutto di fuggire dalle spiegazioni che, lo sapeva, prima o poi avrebbero dovuto interrompere quello strano idillio che si era creato. E una parte di sé non poteva fare a meno di ammettere che, a onor del vero, il suo precipitarsi a Budapest senza neanche una spiegazione fosse davvero l’estremo tentativo di scappare.

 
***

L’Ospedale Szent Jànos Kòhràz era situato in un edificio di recente costruzione in una zona signorile e tranquilla della città: villette circondate da rettangoli verdi, parchi pubblici e volti sereni. 
L’interno dell’edificio, nonostante la perfetta pulizia, nonostante le pareti bianche arricchite da dipinti graziosi, nonostante i volti sorridenti del personale indaffarato, conservava quella vena angosciante di dolore e solitudine che caratterizza qualsiasi ospedale, magico o babbano che fosse. 
Più consapevole che mai di quanto la lingua ungherese suonasse ostica e del tutto scorretta sulle sue labbra inglesi – era straordinario quanto fosse facile perdere l’abitudine a certi suoni, anche dopo poche settimane trascorse in patria – Alhena fece del suo meglio per ottenere qualche informazione sensata dalla giovanissima infermiera che sedeva dietro una grande scrivania ingombra di documenti e pratiche. Ci fu bisogno soltanto di un leggero Confundus sussurrato a mezza voce per convincere la ragazza che, sì, Alhena aveva già fornito i suoi documenti ed era una parente di sangue del paziente, prima di ottenere il permesso di raggiungere la stanza 27 del corridoio al terzo piano, ala D.
La stanza era piccola ma luminosa, con una grande finestra dalle veneziane in plastica azzurra sollevate per lasciar entrare la luce del primo pomeriggio.
C’erano tre letti, ma soltanto uno era occupato dalla figura composta di un uomo col busto sollevato da numerosi cuscini. L’uomo leggeva concentrato le pagine di un vecchio romanzo tascabile dalla copertina lisa, ma quando sentì il rumore dei passi di Alhena sulla soglia, voltò appena il capo, e sorrise.
Lo stomaco di Alhena si strinse in un nodo di compassione e paura: il viso di Imre era pallido e scavato, e i suoi luminosi occhi chiari sembravano enormi e stranamente infantili, su quel viso sciupato. L’uomo indossava un’ampia vestaglia di flanella che gli cadeva larga sulle spalle esili: sembrava che anche un soffio di vento avrebbe potuto spezzarlo. Il cenno della mano con cui la invitò a entrare, però, conservava la stessa eleganza contenuta di sempre.
“Gyermek! Ma che sorpresa, vieni!”
La voce di Imre era un sussurro roco, ma fu con sollievo che Alhena constatò che, rispetto a quel flebile ansimare che le aveva parlato al telefono qualche tempo prima, le forze di Imre sembravano essere triplicate. 
Alhena accostò al letto una sedia di plastica dallo schienale rigido, facendo attenzione a non urtare il trespolo della flebo, e sorrise allo sguardo di bimbo su un viso di vecchio che la scrutava attentamente.
“Imre, come stai?”
L’uomo gettò attorno a sé uno sguardo pieno di malinconia, sollevando appena le spalle. 
“Ho vissuto giorni migliori, ma il peggio è passato. Tra qualche giorno mi rimandano a casa”.
Alhena lo fissò a lungo, incapace di decidersi se essere felice per le sue dimissioni o preoccuparsi: Imre le sembrava ancora così debole, così fragile, che forse avrebbe preferito saperlo ancora al sicuro sotto lo sguardo di medici che sapessero prendersi cura di lui al meglio. 
“Bene. Ascolta, Imre, ho pensato che potremmo chiamare un Guaritore… insomma, giusto per darti un’occhiata. Magari la magia potrebbe esserti utile…”
Imre scosse appena il capo, divertito. 
“Bambina, ti preoccupi troppo. Qui dentro mi hanno rimesso in sesto, e del resto c’è poco che possiate fare anche voi contro la vecchiaia”. 
Imre non aveva mai avuto paura della magia, e, quando era stato necessario, si era sottoposto con curiosità ed entusiasmo agli incantesimi di sua moglie. Se ora rifiutava ogni approccio magico, significava che c’era davvero poco che la magia potesse fare.
Alhena cercò di sorridere e mostrarsi serena, ma non riuscì a evitare quel terribile pizzicore agli occhi. Fu Imre a sorriderle col suo nuovo sguardo di bambino, carezzandole una mano con la sua mano sottile e sciupata.
“Non fare così. Sto davvero meglio, per ora, e ti assicuro che ho intenzione di continuare a stare meglio per molto, molto tempo. Lo sai che non ti mentirei mai su questo, sì?”
Alhena annuì. No, Imre non le avrebbe mai mentito sulle sue condizioni di salute, questo lo sapeva. Ciò non escludeva il fatto che nessuno, dottore o Guaritore, poteva conoscere il futuro con tanta certezza.
“Come sta Emerenc?” si sforzò di cambiare discorso Alhena.
“Oh, il solito. Ha rischiato di farsi bandire dall’ospedale dopo aver litigato con tutti i dottori. È andata via da poco, di solito torna verso le quattro”.
“Bene. Allora la aspetto qui”.
Gli occhi troppo grandi di Imre la scrutarono a lungo, prima di annuire.
“Va bene. E ora fammi ricordare cosa significa essere giovani: tu come stai?”
“Io…” Alhena si affannò a cercare le parole adatte per descrivere tutto ciò che aveva provato negli ultimi giorni, senza riuscirci. Alla fine, si limitò a bisbigliare:
“Ho mantenuto la mia promessa. In gran parte, almeno… sono tornata qui perché in Inghilterra è andato tutto bene”.
“Lo so”. 
Il sorriso di Imre, ora, era vagamente divertito. In risposta allo sguardo confuso di Alhena, l’uomo le fece cenno di aprire il cassetto bianco del suo comodino, dove Alhena trovò una copia un po’ sgualcita della Gazzetta del Profeta. 
“Di solito ci arriva sempre con un giorno di ritardo, ma oggi la consegna è stata puntualissima”. 
Sirius si era sbagliato: la grande fotografia in bianco e nero che riempiva la prima pagina ritraeva l’abbraccio fra lui e Harry Potter, naturalmente.
“Sirius Black: libertà, infine”.
L’articolo che accompagnava la fotografia era lungo e dettagliato, e prometteva di proseguire con ulteriori approfondimenti a pagina 3, 4 e 9.
“Io sono tornata qui, ma sono solo di passaggio… dovevo rivedervi, ovviamente, e dovevo sistemare alcune cose, ma credo… credo che il mio posto sia in Inghilterra”.
“So anche questo”, mormorò Imre, sorridendo dolcemente. Le sue dita scarne sfogliarono velocemente il giornale fino ad arrivare all’articolo di approfondimento a pagina nove: “Cacciatrice di dote, manipolatrice o vecchia fiamma?”, il tutto corredato da una fotografia piuttosto eloquente del lungo bacio che lei e Sirius si erano scambiati davanti a tutti. Le figure nella fotografia erano uno stretto intreccio di braccia, e Alhena non poté fare a meno di ripensare a come avesse avuto voglia di piangere dalla gioia, quella mattina, quando aveva davvero capito che no, non si trattava di un sogno particolarmente realistico, ma il respiro che le solleticava il collo era davvero quello di Sirius. C’erano altre due foto più piccole: una ritraeva lei e Sirius di spalle, in mezzo alla folla dei Weasley, le dita intrecciate, che si allontanavano assieme verso la nuova libertà di Sirius. L’altra, invece, era una fotografia che Alhena non ricordava nemmeno fosse mai stata scattata: attorno alla statua della saggia Priscilla erano radunati in bell’ordine una mancata di giovani con indosso le divise di Hogwarts e sorrisi smaglianti. La fotografia, che doveva essere la riproduzione di una stampa, recava in basso una scritta a mano appena leggibile: Sala Comune di Corvonero, diplomati 1990. In un cerchietto rosso, Alhena poté riconoscere il suo viso di diciottenne, e la sua risata appena messa in ombra dalla bellezza ammaliante di Stacey O’Malley, in piedi sul gradino del basamento della statua alle sue spalle, il mento posato sulla sua testa.
Com’era stata felice, in quei giorni. Giovane, convinta di avere il destino nelle sue mani. Convinta di poter voltare le spalle a passato e futuro, convinta che Hogwarts e la sua famiglia e i legami che la imprigionavano sarebbero scomparsi non appena si fosse gettata definitivamente nel mondo babbano senza più voltarsi indietro. Convinta che lei e Stacey, nonostante le differenze sempre più evidenti, sarebbero state per sempre amiche, anche quando Alhena avrebbe calcato i palcoscenici di tutta l’Europa e Stacey sarebbe riuscita a fare carriera, pur iniziando come semplice segretaria della divisione egizia della Gingott. 
Niente era andato in quel modo, naturalmente. 
“A quanto pare, questa signorina Mosquitos ha ipotizzato che tu e il signor Black avreste potuto conoscervi già durante la resistenza, avendo entrambi militato nell’Ordine della Fenice, ma ha preferito scartare quest’ipotesi in favore di una tua presunta sete di ricchezza combinata con la tua capacità di manipolare il signor Black durante la sua degenza in ospedale. A quanto pare, gli avresti fatto il lavaggio del cervello quando era più debole solo per mettere le mani sul patrimonio dei Black”.
Alhena fu riportata alla realtà dalla voce divertita di Imre: l’uomo si era sempre detto estasiato dalla capacità dell’informazione magica di concentrarsi solo sui dettagli di minor conto all’unico fine di lavorare di fantasia.
“È perché non date abbastanza importanza alla letteratura. Se solo leggeste più romanzi, non avreste bisogno di fantasticare a questo modo”, ripeteva sempre lui. 
Inaspettatamente, Alhena scoppiò a ridere. Gli ultimi mesi erano stati così difficili, pieni di incertezze, di passi falsi, di equilibri che parevano impossibili da mantenere, che la sola idea di vedere il suo rapporto con Sirius ridotto a un assurdo pettegolezzo era così surreale da non riuscire nemmeno a irritarla. 
“Lui ti vuole bene, vero?”
Imre era tornato improvvisamente serio. E Alhena, nonostante sapesse che niente sarebbe stato semplice, che ci sarebbero state ancora difficoltà, e discorsi lunghi e inconcludenti, silenzi imbarazzati e incomprensioni, lasciò che la sua risposta salisse spontanea alle sue labbra.
“Mi vuole bene, sì”.
“E tu gliene vuoi”.
Non era una domanda, quella di Imre. E non servivano puntualizzazioni: Alhena lo sapeva, anche se non se lo erano mai detto e forse avrebbero continuato a non dirselo per molto tempo. 
“Adesso ho un motivo in più per guarire… ho sempre voluto tornare in Inghilterra. E ho sempre voluto fare la parte del genitore geloso di chiunque sfiori la sua bambina…”
Risero insieme di gusto, questa volta: Imre non sarebbe mai, mai stato credibile in un ruolo del genere.

 
***

La settimana che Alhena trascorse a Budapest fu benedetta da un sole fuori stagione, un clima mite capace di mostrare l’aspetto più dolce della città.
Furono tanti i pomeriggi che la ragazza trascorse seduta accanto a Imre, il viso rivolto verso il sole e i piedi affondati nell’erba del minuscolo giardino di casa Szeredàs. Alhena aveva deciso di dedicare le sue mattine ai piccoli compiti che si era prefissa – dare ufficialmente le dimissioni, chiudere il suo magro conto in banca, placare la rabbia del proprietario di casa versandogli con noncuranza una cifra quasi pari a ciò che avrebbe speso continuando ad abitare lì per tutta la durata del suo contratto d’affitto – e trascorrere i pomeriggi e le serate seguendo i ritmi lenti della convalescenza di Imre. 
Forse avrebbe potuto tornare a dormire nel suo appartamento in via Pétersy, ma aveva preferito accettare il divano letto nella stanza degli ospiti degli Szeredàs. Ormai si muoveva per le vie di Budapest con la leggerezza dell’ospite, con la noncuranza di chi è solo di passaggio, e tornare a vivere in quella che, in fondo, non riusciva più a considerare una casa le sarebbe sembrato di cattivo auspicio. 
Emerenc, nonostante la sua maschera fredda, era stata felicissima di rivederla, e lo aveva dimostrato comandando Alhena a bacchetta, obbligandola a seguire gli stessi ritmi calmi e lenti di Imre e coccolandola come se anche lei fosse convalescente. 
In un certo senso, Alhena aveva davvero la sensazione di essere appena guarita da una brutta malattia, e di aver bisogno di recuperare le forze prima di affrontare l’entusiasmante ma certo complesso ritorno alla vita. 
La fine di quella settimana sospesa sembrava non arrivare mai, eppure arrivò, e sorprese Alhena con una pioggerella sottile che bene si intonava al suo stato d’animo. 
Salutare gli Szeredàs fu difficile, e solo con un grande sforzo riuscì a trattenere le lacrime davanti agli occhi piccoli e socchiusi di Emerenc e a quelli grandi, da bambino cresciuto, di Imre. 
Alhena avrebbe potuto restare con loro ancora qualche ora – in barba ai prezzi esorbitanti delle Passaporte Internazionali, aveva deciso di fare le cose in grande, e acquistarne la versione di lusso, questa volta: niente code al Ministero, ma solo una saponetta rosa da tenere in tasca, così da poter partire comodamente ovunque si trovasse e arrivare direttamente nel suo salotto a Dublino. Invece, decise di salutare Imre ed Emerenc con un paio d’ore di anticipo, e, armata di zaino, si diresse ad affrontare l’ultimo compito del suo breve soggiorno.

L’appartamento di via Pètersy era esattamente come lo aveva lasciato: ordinato, impolverato e mezzo vuoto.
Il guinzaglio di Marmellata era ancora appeso al gancio dietro la porta, accanto al suo giaccone invernale. Le tazze di tè che Bill aveva preparato erano ancora sporche nell’acquaio, e c’era il volantino con le offerte del supermercato di quartiere poggiato sul tavolo del salotto.
Ignorando la puzza di chiuso che appesantiva l’aria, Alhena attraversò una ad una le piccole stanze, in cerca di oggetti che avrebbe voluto riportarsi a casa: nei mesi che aveva trascorso lì, non aveva accumulato molti oggetti degni di nota, ma qualcosa trovò comunque. Riempì il suo zaino con alcuni abiti estivi, il piccolo dizionario ungherese – non ne avrebbe avuto bisogno, in Inghilterra, ma se n’era comunque affezionata – e alcuni libri. Raccolse dalla scrivania la piccola cornice d’argento che conteneva la fotografia di suo fratello Hector a undici anni, raggiante mentre mostrava ad un’Alhena che a stento gli arrivava al ginocchio la sua bacchetta nuova di zecca. Quella stessa bacchetta, spezzata in due, Alhena l’aveva già portata in Inghilterra e custodita gelosamente nel cassetto della sua scrivania.
Fare i bagagli si rivelò in realtà un’operazione molto più veloce di quanto si sarebbe aspettata, e così, ignorando la nuvoletta di polvere, si lasciò cadere sul vecchio divano ricoperto di stoffa gialla.
Quando ormai Alhena stava cominciando ad annoiarsi, un indistinto scalpiccio di passi e voci calcate invase la tromba delle scale.
Qualcuno urlava, un uomo e una donna, e i passi si avvicinavano al pianerottolo, e in mezzo a quelle voci rabbiose Alhena distinse un suono acuto. Il pianto di un neonato.
Doveva essere la bambina di Margit, la sua ormai ex vicina di casa.
Alhena, felice di poter rivedere quella buffa ragazza con cui tanto era andata d’accordo, senza nemmeno prestare attenzione alla rabbia che venava le voci urlanti si caricò lo zaino in spalla, e uscì sul pianerottolo.
Margit le dava le spalle, la sua lunga treccia scura tutta spettinata, e cercava di aprire la porta di casa sua bilanciandosi tra un grosso borsone sulle spalle e un fagottino di stoffa verde che piangeva a tutti polmoni fra le sue braccia.
Dietro di lei, le mani affondate nelle tasche di un giaccone rosso, c’era un uomo alto, robusto, le guance screziate di un rosso paonazzo e gli occhi assottigliati.
“Muoviti, scema, non sai nemmeno aprire una porta?” la apostrofò l’uomo con voce fredda, senza fare nemmeno un gesto per aiutare la ragazza con il borsone e la bambina. 
“Scusami, Ivàn”, mormorò Margit con un filo di voce. Non c’era traccia dell’insolenza vivace che Alhena ricordava in quella ragazzina impertinente.
“Margit, hai bisogno una mano?”
Alhena aveva parlato con voce chiara, lentamente e in inglese.
Margit e Ivàn si voltarono di scatto verso di lei: gli occhi di lui i ridussero a due fessure sospettose, mentre quelli di Margit si allargarono in un moto di sorpresa.
Alhena trattenne a stento un’imprecazione: sulla pelle chiara sotto l’occhio sinistro di Margit fioriva un brutto livido viola e giallastro.
“Chi cazzo è questa?” abbaiò, in ungherese, Ivàn.
Margit tornò ad armeggiare con più foga con la serratura, avendo finalmente la meglio. Lasciando passare l’uomo, che entrò in casa senza degnare più di uno sguardo né Alhena né Margit, la ragazza lanciò uno sguardo sfuggente ad Alhena, e disse solo:
“Oh, ciao. Sei tornata, mi fa piacere… devo scappare, ora”.
E mentre già la voce di Ivàn si levava in un rimbrotto rabbioso, la ragazza si richiuse la porta alle spalle, lasciando Alhena sola sul pianerottolo scuro.
“Ne ho le palle piene di sentire tua figlia frignare, non puoi fare qualcosa, cazzo?”
Anche attraverso la porta sottile, le parole di Ivàn arrivarono ad Alhena come uno schiaffo in piena faccia.
Senza nemmeno pensare, Alhena estrasse la bacchetta e, con un movimento rabbioso, costrinse la porta dell’appartamento dirimpetto al suo ad aprirsi.
Nel piccolo e disordinato salotto, Ivàn era mezzo sdraiato su una poltrona, mentre Margit, in piedi nell’angolo opposto, cullava disperatamente una figuretta dai pugni minuscoli che si aprivano e chiudevano freneticamente, il faccino congestionato e gli occhi serrati in un pianto ostinato.
Margit fu la prima ad accorgersi di Alhena, ma non parlò: si limitò a guardarla con i suoi occhioni spalancati, terrorizzati, scuotendo disperatamente la testa.
Alhena la ignorò. 
Attraversò il salotto con passo veloce per raggiungere la ragazza e la bimba, e solo allora Ivàn si accorse di lei.
“Ancora tu? Ma che cazzo vuoi?”
Alhena lo ignorò.
“Margit, puoi fare un salto da me? Ho bisogno del tuo aiuto”, improvvisò Alhena. Non sapeva cosa fare – o meglio, lo stomaco le diceva solo di Schiantare quell’uomo – ma l’istinto le suggeriva innanzitutto di allontanare Margit e la bambina da quella casa, e poi di pensare.
“Non… ho un po’ da fare, ora. Magari domani?” pigolò Margit con una vocina sottile sottile, così diversa dalla risata sguaiata che Alhena conosceva da fare male. 
“Senti, Miss, perché non impari a bussare?”
Ivàn si era alzato, e fissava con puro odio Alhena. Probabilmente l’uomo era abituato a ottenere reazioni spaventate a quel suo comportamento, ma non poteva sapere che Alhena, per quanto pesasse quanto un suo braccio, teneva le dita ben salde attorno all’impugnatura della sua bacchetta. 
“Chiedo scusa, ma ho bisogno di parlare con Margit”, replicò asciutta Alhena, frapponendosi fra l’uomo e Margit e guidando con una mano la ragazza verso la porta.
“Margit ha da fare, Miss. Vero che hai da fare, amore?”
Ivàn calcò quell’ultima parola come se fosse una minaccia, e Margit si arrestò. Poi, come colta da un’ispirazione improvvisa, la ragazza raddrizzò le spalle e sollevò il mento:
“Sì, ho da fare. Devo aiutare la mia amica”.
Alhena provò un moto di orgoglio per la piccola ribellione di Margit.
Mentre il collo taurino di Ivàn si imporporava e alle sue labbra affioravano improperi, un forte calore si diffuse attraverso la tasca dei pantaloni di Alhena.
La saponetta rosa, la Passaporta che l’avrebbe riportata a casa, stava pulsando.
Alhena agì senza minimamente pensare alle conseguenze.
Si cacciò una mano in tasca, stringendo saldamente la Passaporta, e con l’altro braccio circondò Margit e la sua bambina in un abbraccio di ferro che, sperò, sarebbe stato sufficiente a tenerle ancorate a sé attraverso l’Europa. 







Note:
Sì, in effetti la storia si sarebbe potuta chiudere anche con lo scorso capitolo, ma in realtà l’idea originale era di arrivare da un’altra parte. E tutto quello che ho scritto fino ad ora avrebbe potuto concentrarsi in giusto quattro-cinque capitoli, ma non sia mai, eh. 
Comunque, lo scopo di questa avventura folle nel campo del What-if? era dare finalmente un lieto fine a Sirius e Alhena, ma questo benedetto lieto fine voglio anche godermelo un po’, ecco, non relegarlo a baci-abbracci-fine.
Forse questo repentino ritorno di Margit vi sembrerà un po’ improvviso e forzato, ma è da circa un anno e mezzo che il suo personaggio mi gira in mente, quindi per me è stato come ritrovare una vecchia conoscenza. 
Ora la smetto di sproloquiare, giuro. 
Solo, se qualcuno avesse voglia di farsi due risate con una storia molto stupida e molto breve su Alhena e la sua amica Stacey, ne ho parlato in "Piccoli problemi di cuore"..
   
 
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