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Autore: Lady1990    09/06/2019    2 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Giovedì, spinto dall’impazienza, Regan decise di saltare le lezioni per andare al porto, perché non avrebbe resistito per ore in classe sapendo che il demone avrebbe presto colpito ancora. Non aveva mai mancato un giorno di scuola volontariamente, per di più senza dirlo Deirdre. Perciò, mentre la salutava dal vialetto, si sentì un po’ in colpa. Ma, riflettendoci, con tutte le bugie e i segreti, uno in più che differenza poteva fare?

Scrisse un messaggio a Roman e Derek dicendo che sarebbe rimasto a casa a studiare il rituale di esorcismo e che non voleva essere disturbato, a meno che non si trattasse di una questione di vita o di morte. Dopo aver ricevuto due messaggi di assenso, spense il cellulare e lo rimise in tasca.

Quando vi giunse, il porto era in pieno fermento, nonostante il brutto tempo. Il mercato del pesce pullulava di persone e i pescatori si tenevano impegnati alle proprie bancarelle o sulle barche, districando nodi nelle reti e dedicandosi a piccoli lavoretti di manutenzione generale.

Regan camminò a testa bassa lungo la banchina, in cerca del peschereccio che aveva visto nel suo sogno. Lo scovò dopo una decina di minuti. Il Pesce Ammiraglio era di medie dimensioni, con i fianchi dipinti di blu e la chiglia ricoperta di alghe. La scaletta che collegava la piattaforma al ponte contava otto scalini di metallo, che Regan salì senza esitare. Nessuno lo fermò o gli chiese cosa stesse facendo.

Appena poggiò i piedi sul ponte, si sentì pervadere da una sensazione strana. Fiutò l’odore dell’alcool e della disperazione. Sotto di essi, colse una vaga scia di puro terrore. Fu in quel momento che notò la bottiglia vuota vicino alla porta che conduceva sottocoperta. Giaceva sdraiata su un lato, stappata, e rollava avanti e indietro al ritmo delle correnti che scuotevano la barca. Poi puntò lo sguardo sulle funi arrotolate vicino ai suoi piedi: sembrava che qualcuno ci avesse lottato.

Deglutì il groppo d’ansia che gli si era formato in gola e avanzò verso l’entrata della cabina. Quando la sua mano sfiorò la maniglia, un’ondata di malessere gli provocò un conato. Fu difficile ricacciarlo giù. Prendendo ampi respiri di aria salmastra, aprì la porta e scivolò all’interno.

La stanza era immersa nella penombra. La luce del giorno filtrava a malapena dalle finestre. Di fronte ad esse c’era un tavolo, con sopra mappe e matite sparpagliate alla rinfusa. Regan vide anche un taccuino, lo stesso del suo sogno. Si avvicinò e lo prese. Sulla prima pagina c’era scritto il nome di Darren.

Il senso di euforia che provò nell’appurare di essere nel posto giusto durò una manciata di attimi, per poi venire sostituito dalla frustrazione. Il tanfo della paura lo investì non appena si accostò alla panca imbottita dove Jackson si era steso a riposare. Annusò il materiale e l’aria circostante, realizzando che l’odore che stava fiutando, alcool e disperazione, appartenevano all’uomo.

Allora comprese che era arrivato troppo tardi. Il sogno non era stato un sogno, ma una specie di raccapricciante reality show a cui aveva assistito in qualità di spettatore impotente. Non aveva idea di come avesse fatto a infilarsi nella mente di Jackson e a vivere i suoi ultimi istanti di vita attraverso i suoi occhi, ma era proprio ciò che era successo. Aveva anche visto i suoi ricordi, udito i suoi pensieri, sentito le sue emozioni.

Arretrò di un passo e strinse le mani a pugno. Ripercorse velocemente il sogno, o visione, dall’inizio alla fine. Si soffermò sui dettagli, per capire come mai il demone avesse scelto Jackson. Ma nessuna delle sue azioni, da quando aveva imboccato la strada verso il molo fino al peschereccio, era rilevante.

Rammentò che era stato alla Fondazione, guidato dal desiderio di parlare con la moglie del fratello. E lì cosa aveva fatto? Dopo essersene andato a zonzo tra i reperti, si era avvicinato alla donna e ai bambini, avevano discusso e, infine, lei se n’era andata, piantandolo in asso davanti a un tavolo con sopra… monete. Jackson aveva toccato delle monete. Erano state le sole cose con cui era venuto a contatto alla Fondazione.

Regan inspirò sonoramente. Percepì di essere giunto a una svolta. Non sapeva ancora bene come funzionava, ma era certo che una di quelle monete c’entrasse qualcosa. La gitarella che aveva in programma alla Fondazione assunse all’improvviso contorni più nitidi.

Abbandonò Il Pesce Ammiraglio di corsa, risalendo il mercato per tuffarsi di nuovo nel traffico cittadino. I piedi lo condussero a casa, mentre i pensieri volarono verso la Fondazione.

Poe si arrampicò su di lui nell’esatto istante in cui la porta si spalancò e si acciambellò sulle sue spalle facendo le fusa. Una musica allegra filtrava dalla fessura sotto la porta del seminterrato. Regan riconobbe la canzone, Why Me? dei Big Bad Voodoo Daddy, una delle sue preferite.

Per un attimo valutò l’idea di nascondersi in camera e riemergere nel pomeriggio, ma alla fine decise di scendere e dire a Deirdre cosa aveva fatto e perché. C’era solo una certa quantità di segreti che poteva tenere per sé, e aveva già raggiunto il limite.

La porta ruotò sui cardini con un cigolio. Regan oltrepassò la soglia in silenzio, accarezzando con due dita della mano libera, quella che non reggeva lo zaino, il pelo morbido di Poe, che non aveva ancora smesso di fare le fusa. Pareva un piccolo trattore. Scese lentamente le scale, svoltò a destra e raggiunse la stanza delle imbalsamazioni.

Deirdre era lì, occupata a rivestire il cadavere di un uomo anziano con abiti freschi di bucato. Il fantasma dell’uomo stazionava accanto al forno crematorio, lo sguardo fisso nel vuoto, abbigliato con una vestaglia da ospedale.

“Dove sei stato?” domandò la donna in tono neutro prima che lui potesse aprir bocca, senza distogliere gli occhi da ciò che stava facendo.

“Al porto. Il demone ha mietuto la settima vittima, un pescatore di nome Jackson.”

“Come lo sai?”

“L’ho sognato.” la scrutò incerto e tossicchiò nervoso, “Non sembri sorpresa di vedermi a casa a quest’ora.”

“La segreteria della scuola mi ha chiamata. Ho detto che eri malato.”

“Sei arrabbiata.”

“Ovvio che sono arrabbiata, ma non per il motivo che pensi. Non mi interessa che tu abbia saltato le lezioni: hai una media alta, puoi permettertelo. Sono arrabbiata perché mi hai mentito.”

Regan si morse un labbro con una smorfia colpevole e incassò la testa nelle spalle.

“Sono anche triste e confusa. Ho passato la mattina a chiedermi perché mai tu abbia sentito il bisogno di mentirmi, soprattutto su una cosa del genere. Sai che ti avrei coperto comunque, che ti avrei lasciato andare al porto a indagare se me lo avessi detto.”

Regan ingoiò il groppo che gli ostruiva la gola e avvertì gli occhi iniziare a frizzare.

“Mi dispiace.”

Deirdre finì di abbottonare la camicia del cadavere e lisciò le grinze della stoffa. Solo allora si voltò a fronteggiarlo. La sua espressione era colma di rancore e tristezza. Regan inspirò a fondo per resistere all’impulso di scoppiare in singhiozzi.

“Sei distante, negli ultimi tempi. Ancora di più da quando sei tornato da Athens. E le tue emozioni, le stesse che ti ho insegnato non a reprimere, ma a bandire, stanno riaffiorando. Le vedo riflesse sul tuo viso d'angelo come putride macchie infette, disgustose. Ed è grazie a loro che so che c’è qualcosa che non mi stai dicendo. Che non vuoi dirmi.”

“Molte cose, in realtà.” gracchiò Regan, sentendo i muscoli contrarsi in spasmi e il respiro accorciarsi.

Deirdre sospirò afflitta. Le sue spalle si afflosciarono, come se un grande peso le fosse piombato addosso. Si avvicinò a lui lentamente e sollevò una mano per posarla con delicatezza sulla sua guancia. Non si ritrasse al contatto con la pelle fredda, anzi, appiattì il palmo e la scaldò col calore che esso emanava.

“Il nostro rapporto funziona perché tra di noi non ci sono segreti, Regan. Perché ci accettiamo l’un l’altra per come siamo, difetti inclusi. Siamo una famiglia. Non ti ho forse sempre protetto? Non ti ho sempre ascoltato quando avevi dei problemi? Non ti sono sempre rimasta vicina, sia nei momenti belli che in quelli più brutti della tua vita? E ora, invece, vengo a sapere che mi hai tenuto nascoste ‘molte cose’. Non ti fidi più di me?”

Regan scosse il capo per negare. Certo che si fidava di lei. Ma Deirdre fraintese. Tolse la mano e indietreggiò di mezzo passo. Regan represse un guaito alla perdita di contatto e calore.

“Lo so di aver sbagliato.” mormorò Deirdre, “So che l’informazione che ti ho nascosto, quella su tua madre e la congrega Morgan, ti ha ferito. Ma ti ho anche spiegato i motivi per cui ho deciso di tacere. Non voglio pensare che la mia scelta sia la causa della tua perdita di fiducia in me. Sai che ti voglio bene, e sempre te ne vorrò. E non ho altri segreti da rivelarti, nessun altro scheletro nell’armadio. Ma che mi dici di te? Ti piace avere segreti? Ti piace averne con me?”

“No…” rantolò con voce rotta, lo sguardo basso e le spalle rigide.

Deirdre prese il gatto e lo depositò sul tavolo di metallo alla sua sinistra. Dopo aver spento la radio, tornò dal nipote e gli strinse i bicipiti tra le mani, studiando con attenzione la sua faccia.

“Uno di quei segreti riguarda per caso l’incendio a villa Morgan?” indagò pacata.

Il sussulto di Regan, lo sgranarsi dei suoi occhi e il pallore spettrale del suo incarnato furono la risposta che le serviva. Serrò le labbra e chiuse gli occhi. Trasse un profondo respiro per calmare il battito frenetico del suo cuore. Le mani sciolsero la presa e cominciarono ad accarezzare le braccia di Regan, in un gesto automatico di conforto.

“Sei stato tu?”

Dopo un secondo di esitazione, il ragazzo annuì.

“Perché?”

“Hanno tentato di uccidermi.”

“Legittima difesa, dunque.”

“Più o meno…”

“Che intendi?”

“Mi è…” deglutì, inspirò ed espirò, “Mi è piaciuto.”

Il moto delle mani di Deirdre si interruppe. Risalirono su, verso le spalle, tracciarono il profilo del collo e ripresero posizione sulle guance di Regan. Una lieve pressione lo convinse ad alzare la testa e incrociare il suo sguardo, privo di alcuna traccia di disprezzo.

“Se ti è piaciuto come dici, allora perché stai piangendo?”

Un singhiozzo sfondò la barriera dei denti e riecheggiò per la stanza.

“Avrei voluto non doverlo fare…” confessò, abbandonando ogni riserbo, e lasciò il proprio corpo libero di tremare, “Avrei voluto… che loro non… avrei voluto…”

“Cosa avresti voluto?” domandò Deirdre in un sussurro, pure lei con gli occhi lucidi.

“Che mi accettassero davvero. Che… che mi amassero. Ma loro- loro mi hanno tradito. Sheila mi ha tradito. Non volevo ucciderla. Non l’ho fatto. Ma l’ho fatto. C’era- c’era fuoco ovunque e- e io l’ho mandata in cucina. Il fuoco ha danneggiato i tubi del gas e… c’è stata un’esplosione. E Poppy, anche lei era con Sheila. Era stata gentile con me, non le avrei mai fatto del male, ma- ma le ho mandate in cucina e… e…”

Le sue ginocchia cedettero e cozzarono sul pavimento duro. Le sue braccia trovarono subito un’ancora nelle gambe di Deirdre e il suo viso elesse a nascondiglio le soffici pieghe del vestito rosa chiaro. Le spalle scosse da forti singulti, Regan si concesse di piangere. Affidò il suo dolore e tutto il suo smarrimento a sua nonna e rimise nelle sue mani il giudizio finale. Si stupì quando realizzò che non cercava comprensione o un modo per espiare i suoi peccati; desiderava solo che Deirdre lo punisse, che abbattesse su di lui un dolore fisico tanto forte da espellere quello che gli ruggiva nell’anima.

“Regan, il rimorso che provi significa che non ti è piaciuto. Forse hai sperimentato un breve delirio di onnipotenza nel togliere la vita a coloro che volevano farti del male, ma nel profondo non ti è piaciuto. Altrimenti, adesso non ti sentiresti così. Ho cercato di insegnarti a bandire le emozioni anche per evitare una situazione come questa, perché odio vederti soffrire. Ti guardo e mi si spezza il cuore, perché tu dovresti essere al di sopra di un simile dolore, degli affanni che caratterizzano l'esistenza di qualsiasi altro mortale. Eppure, eccoti qui, a piangere per vite che non si meritano le tue preziose lacrime. Provi rimorso, dici. Allora rispondi a una domanda: se potessi tornare indietro, lo rifaresti?”

“I-Io… non lo so, forse… forse solo una parte. Ucciderei solo Fiona. Lei lo meritava. Solo lei. Oppure...” si graffiò la cute e scosse la testa, emettendo versi a metà strada tra singhiozzi e risatine isteriche, “Sto mentendo. Ah ah! Sto mentendo! Lo rifarei. Tutto quanto. Non perché mi sia piaciuto, in realtà non ho provato niente mentre bruciavano, ma perché la loro morte era necessaria sia al completamento del mio piano che alla mia sopravvivenza.”

“Esatto. Ecco perché il senso di colpa è soltanto un immeritato peso di cui ti devi liberare. Hai fatto ciò che dovevi, fine della storia. Ma dimmi, chi è Fiona?”

“La Prima. Ha mandato lei i due vampiri ad ammazzare Shannon.”

Deirdre si coprì la bocca con la mano, fissando Regan dall’alto con aria scioccata. Riuscì a recuperare il controllo con estrema fatica.

“Okay. Ma perché non hai voluto parlarmi dell’incendio? Anche solo per… per sfogarti? Tenerti dentro tutta questa negatività, beh, guarda come ti ha ridotto.”

“Avevo paura.” ammise Regan e si arrampicò con lo sguardo sulla sua figura, fino a incatenare gli occhi ai suoi, “Temevo di perdere il tuo amore. Sono un assassino. Un mostro. Ho ucciso a sangue freddo. Chiunque nei tuoi panni mi caccerebbe via, mi ripudierebbe.”

Lei gli sorrise e cinse la sua faccia umida di lacrime con le mani: “Io non sono chiunque, Regan. Hai già dimenticato ciò che ho fatto per te? Ho o non ho coperto l’omicidio di quell’infermiera?”

“Non è la stessa cosa…” protestò debolmente Regan.

Deirdre sospirò e si inginocchiò sul pavimento freddo di fronte a lui.

“Ascoltami bene, leprotto. Quando ti ho adottato, sapevo che non eri come gli altri e non mi sono mai aspettata che tu lo diventassi. Sei speciale, lo sei sempre stato. Quando la tua parte vampira si è risvegliata, l’ho abbracciata insieme a te. Non ti ho abbandonato. Non l’ho fatto nemmeno quando hai ucciso l’infermiera. E sai perché non lo farò neanche adesso?” aspettò che Regan scuotesse il capo prima di proseguire, “Perché tu, Regan McLaughlin, sei mio. Mostro o meno, sei mio. Mio nipote. Mio figlio. La mia famiglia. O almeno l’unica famiglia che conta per me. Io ti ho scelto. Io ti ho voluto. E ti ho amato dal primo momento in cui ti ho tenuto tra le mie braccia. Potresti massacrare questa intera città, e io continuerei ad amarti. Non mi importa se sei un mostro. Mi importa soltanto che tu sappia di essere amato incondizionatamente, da me, una vecchia strega senza poteri buona solo a imbalsamare cadaveri. Mi importa che tu sappia che io ci sarò sempre per te. Qualunque sentiero imboccherai, sia esso della luce o delle tenebre, io rimarrò al tuo fianco a offrirti consigli, se li vorrai, e una spalla su cui piangere se ne avrai bisogno. Tutto il resto è insignificante cenere.”

Regan trattenne il fiato e boccheggiò. La guardò incredulo, incapace di processare le parole che aveva appena udito. Parole che lo avevano sia annientato che curato. Aveva sempre saputo di essere fortunato ad avere una come Deirdre e ora quella consapevolezza assumeva tutto un altro spessore. La donna che aveva davanti era perfetta. Se solo fosse stata quarant’anni più giovane, Regan l’avrebbe presa come compagna. Ma Deirdre non sarebbe mai stata la sua compagna, perché occupava già un posto molto più alto e importante: era la sua famiglia. E Regan sapeva che lo sarebbe rimasta fino al suo ultimo respiro.

“Nonna.”

“Dimmi.”

“Sono in parte demone.”

Deirdre si bloccò a fissarlo come se gli fosse cresciuta una seconda testa.

“Eh?”

“Mio padre, un tizio di nome Stefan Black… Fiona mi ha detto che era un demone.”

“Oh. Capisco.” disse con voce priva di inflessione.

“Sicura?”

“Suppongo che dovremo affrontare la questione, prima o poi, ma può aspettare. Hai altre gatte da pelare, al momento, non è così?”

“Hai ragione. A tal proposito, io e Roman ci intrufoleremo alla Fondazione domani notte, per trovare il portale da cui è uscito il demone. Credo si tratti di una moneta. L’ho vista nel mio sogno, quello sul pescatore.”

“Va bene. Promettimi solo di stare attento. Se avverti il pericolo, non fare l’eroe. Scappa e torna da me. Siamo intesi?”

“Okay. Lo prometto. Oh, c’è un’altra cosa…”

“Ti ascolto.”

“Nei mesi passati mi sono nutrito delle ragazze. Sai, le cheerleader. Alcune di loro.”

Deirdre serrò le labbra e assottigliò le palpebre: “Sanno cosa sei?”

“No. Ho usato il controllo mentale. Ho scoperto questa abilità intorno ad Halloween. Più mi nutro, più controllo ho su di esso. Grazie a quel potere, sono entrato nella cerchia dei popolari. E ho anche scoperto che più persone ho a disposizione per nutrirmi, meno sangue prendo da ognuna di loro. Non ho mai fatto del male alle ragazze, giuro. Le ho solo soggiogate in modo che non capissero cosa stavo facendo. Lo so che è sbagliato, davvero, ma le razioni che mi dai tu non sono più sufficienti a sostenermi. Non voglio chiederti più sangue, la tua salute ne risentirebbe, quindi non pensare nemmeno di offrirmelo. L’unica opzione che mi resta è, insomma, prenderlo altrove. Però smetterò, se tu me lo ordini.”

Deirdre rimase in silenzio per un minuto abbondante.

“Non ti ordinerò di smettere.” disse infine, “Vorrei solo che tu dirigessi la tua sete su bersagli meno innocenti.”

“Intendi… i criminali?”

“Non quelli dietro le sbarre, non avresti modo di arrivare a loro. Mi riferisco alle persone con una condotta non proprio esemplare che finora sono riuscite a evadere il mirino della polizia. Gli spacciatori, per esempio. O, in generale, le persone violente. I cacciatori sarebbero una preda perfetta…” gli scoccò un’occhiata obliqua, “Hai già provato con loro?”

“Con Derek, Gregory e Kevin. Il controllo mentale non funziona.”

“Uhm. E hai mai…” esitò e si schiarì la gola, “Lo hai mai usato su di me?”

“No. E mai lo farò.” dichiarò serio.

“Bene.”

“Andrò a caccia solo dei malviventi d’ora in poi, promesso.” le disse con un lieve sorriso, “Diventerò una specie di vigilante. Il Batman di Ashwood Port!”

“L’uomo pipistrello. Direi che è appropriato.” scherzò, “Adesso torniamo a noi. Voglio che prima di intraprendere la tua ‘missione’ di domani, mi presenti un piano d’azione dettagliato. E voglio che mi dici sempre dove sei e con chi, soprattutto di questi tempi. Quando le acque si calmeranno, ti ridarò la tua indipendenza. Fino ad allora, desidero essere informata di qualunque tua mossa.”

“Ricevuto.”

“Okay. C’è altro o abbiamo finito? Devo mettere il povero signor Finnegan nella bara.”

“No, è tutto. Perciò non… non mi punirai per quello che ho fatto? Sai, per i segreti, le bugie… l’omicidio di massa…”

“Hai ragione. Facciamo, mmm… niente dessert per un mese.”

Regan sbuffò una risata: “Dai, sono serio.”

“Anch’io. Regan, hai già realizzato i tuoi errori, e ti stai già punendo da solo. Non serve che io ci metta del mio.”

“Ma-”

“Niente ‘ma’. Sei maturo abbastanza per capire che ogni azione ha delle conseguenze. Promettimi solo che in futuro parlerai con me quando ti senti giù. E continua ad allenarti a bandire le emozioni. Se proprio non ci riesci, almeno impara a controllarle, a compartimentalizzare. Lo dico per il tuo bene, lo sai.” gli disse mentre si alzava e si spolverava il vestito, “Coraggio, aiutami col signor Finnegan, poi mangiamo qualcosa.”

“È già ora di pranzo?”

Dierdre guardò l’orologio a muro appeso sopra la porta: “Mezzogiorno e venti. Hai frignato per poco meno di due ore.”

“Un record.”

“No, il tuo record è stato quattro ore filate quando avevi cinque mesi. Le coliche non ti davano tregua, povero leprotto.”

Regan spinse la barella fino alla sala delle veglie, la posizionò accanto alla bara e, con l’aiuto di Deirdre, adagiarono il corpo all’interno. Dopo aver chiuso il coperchio, salirono di sopra e si sedettero in cucina a mangiare dei panini.

Regan le espose il piano per il rituale e discusse con lei alcuni passaggi. Deirdre approvò la sua idea di apportare delle modifiche, di modo che l’esorcismo funzionasse a dispetto della categoria e dell’origine del demone. Gli fornì pure qualche consiglio in merito agli ingredienti da usare.

“Per quanto riguarda il sacerdote, forse non sarà necessario chiamarlo.”

“Cioè?” domandò Regan.

“Tu sei in parte stregone, e ogni stregone è, nel senso più ampio del termine, un sacerdote. Attraverso incantesimi, rituali e la creazione di pozioni lo stregone rende omaggio alle forze superiori che governano il mondo.”

“Come un sacerdote.”

“Sì.”

“Figo. Ottimo, un problema in meno.”

“Lieta di essere d’aiuto.”

Approfittando della loro distrazione, Poe si sporse oltre il bordo del tavolo, una zampina protesa per rubare un’erba dall’odore invitante. Deirdre se ne accorse in tempo e gliela schiaffeggiò. Il gatto soffiò indispettito e, con la coda ritta, riuscendo in qualche modo ad apparire insieme offeso e padrone della situazione, fuggì in salotto per raggomitolarsi sul calorifero.

 
*

“Direi che siamo pronti.” dichiarò Regan, giocherellando con una piccola torcia.

Deirdre occhieggiò la sua espressione seria, quasi corrucciata, e strinse le labbra. Comprendeva la necessità di quella missione, ma non voleva dire che le piaceva. Troppe cose sarebbero potute andare storte, troppe variabili non erano ancora state vagliate.

Osservò Roman indossare il giubbotto e gli rivolse un sorriso mesto quando lui incrociò il suo sguardo. Deirdre gli era grata per la sua lealtà e disponibilità. Era chiaro come il sole che non avrebbe abbandonato Regan per nulla al mondo. La sua presenza smorzava un po’ della preoccupazione che le annodava lo stomaco. 

“Avete tutto il necessario?” chiese ai due ragazzi, che annuirono all’unisono, “Okay. Non mi resta che augurarvi buona fortuna. Promettetemi che farete attenzione.”

“Andrà tutto bene, vedrai.” la rassicurò Regan, avvicinandosi a lei per abbracciarla, “Saremo di ritorno tra un paio d’ore al massimo.”

“Vi aspetterò alzata. Non riuscirei comunque a dormire sapendo che vi stare recando spontaneamente nella tana del mostro.”

Regan le sorrise, dispiaciuto per lo stress che stava scaricando addosso. Intascò la torcia e fece cenno a Roman di seguirlo.

Deirdre richiuse la porta di casa dietro di loro e rimase a guardarli camminare lungo il vialetto dalla finestra del salotto, stritolando un lembo della tenda tra le dita. Poe saltò sul calorifero e si accucciò al suo fianco, cercando di consolarla con esitanti miagolii.

Le strade deserte erano illuminate dall’alone giallognolo dei lampioni. Siccome era da poco passata la mezzanotte, le finestre di molte case erano buie. Qua e là, simili a lucciole solitarie, alcune erano ancora rischiarate dalla luce di una lampada.

Vento gelido sferzava le loro guance, ma né Regan né Roman lo sentivano. Lungo il percorso, un paio di macchine sfrecciarono sull’asfalto, abbagliando le loro figure con i fari, ma nessuno si fermò a chiedere cosa stessero facendo due ragazzini fuori al freddo a quell’ora di notte.

Roman tuffò le mani nelle tasche dei jeans e diede un colpetto di gomito al braccio di Regan per richiamare la sua attenzione.

“Sei silenzioso.”

“Sono concentrato.”

“Puzzi di tensione. Mi stai facendo salire l’ansia.”

“Bene. Abbassare la guardia sarebbe un errore da principianti. Non stiamo andando a fare un’allegra scampagnata.”

“Lo so.” borbottò Roman, imbronciato, per poi inalare l’aria notturna a pieni polmoni, “Ripetimi che andrà tutto bene.”

“Andrà tutto bene. E se dovesse andar male, ti proteggerò con la mia vita.”

Il licantropo rabbrividì e scosse con veemenza il capo: “Non dirlo. Andrà bene. Ci copriremo le spalle a vicenda. Non siamo fragili umani.”

“Esatto. Tu hai artigli e zanne, io ho il fuoco. Ce la faremo.”

“Sarebbero di qualche utilità? Artigli e zanne, intendo.”

“Probabilmente no.” ammise Regan.

“Moriremo tutti.”

“Di pessimista ce n’è già uno nel nostro branco. Il posto è preso.”

“Tu non sei un pessimista, Regan, ma un pragmatico. Sei sempre pronto a tutto. Non ti butteresti mai giù da un dirupo senza un piano per uscirne vivo.”

“Allora fidati di me. Non moriremo stanotte.”

Roman lo scrutò in silenzio, poi sorrise. Si chinò per stampargli un veloce bacio sulla guancia e si tirò su ancor più velocemente, sfoggiando un leggero ghigno. Regan gli scoccò un’occhiataccia. Ma il lupo colse una punta di compiacimento nel suo odore, e questo tolse ogni credibilità alla sua espressione.

“Sono con te, alfa.”

I lineamenti di Regan si ammorbidirono. Distolse lo sguardo e lo puntò innanzi a sé, sulla sagoma imponente della Fondazione Sthenos.

Si fermarono dall’altro lato della strada per osservare l’edificio nella sua interezza. L’intonaco beige sembrava grigio visto da lì e le porte in legno massiccio somigliavano a inquietanti accessi verso una dimensione oscura. Le finestre erano occhi neri e impenetrabili, focalizzati su di loro come quelli rapaci degli avvoltoi, in attesa di vederli cadere nelle loro grinfie.

Roman deglutì: “Ultima chance per tirarsi indietro.”

“Ho già fatto la mia scelta.”

“Sicuro?”

“Sì. E tu?”

“So che me ne pentirò…”

Prima di scendere dal marciapiede, Regan si bloccò. Mordendosi il labbro inferiore, gli posò una mano su una spalla per invitarlo a ricambiare il suo sguardo e parlò con convinzione.

“Non sei costretto, Roman. Se vuoi, puoi restare qui a fare il palo.”

“Non ti lascerò andare là dentro da solo. Sto morendo di paura, lo confesso, ma abbandonarti nel momento del bisogno è una cosa che non farei mai. Sei il mio alfa. Significa che ti seguirò sino in capo al mondo. Lo farò anche se mi dovessi pisciare sotto a più riprese.”

Regan sbuffò una risata e gli assestò una pacca sulla schiena: “Spero che la tratterrai.”

“Ce la metterò tutta.”

“Sappi che, se ti verrà voglia di filartela con la coda tra le gambe, non ti biasimerò.”

“Non lo farò.”

Scivolarono verso la Fondazione sfoggiando disinvoltura, il passo cadenzato, le spalle rilassate e le facce cristallizzate in maschere imperscrutabili. Se qualcuno li avesse visti, con un po’ di fortuna e l’aiuto delle tenebre avrebbe pensato che fossero semplicemente due ragazzi che stavano tornando a casa, non due loschi figuri in procinto di compiere un’effrazione.

Giunti in prossimità dell’entrata, la ignorarono a favore della stretta stradina sulla destra, dove la luce dei lampioni non arrivava, e raggiunsero una delle finestre. Si acquattarono accanto a dei cespugli e si scambiarono un cenno affermativo.

“Pronto?” domandò Regan.

“Prontissimo.”

“Sei terrorizzato.”

“Tu no?”

“Solo un idiota non avrebbe paura.”

“Okay.” Roman deglutì, acuì l’udito per verificare che non ci fosse nessuno nei paraggi e mosse la testa verso la finestra, “Va’. Ti copro le spalle.”

“Pensavo che la regola fosse ‘prima le signore’.”

Il licantropo lo folgorò con uno sguardo.

Regan estrasse un paio di forcine dalla tasca dei pantaloni e iniziò ad armeggiare con la chiusura della finestra. Non appena udì lo scatto, rinfoderò le forcine e spalancò le ante. Scavalcò il davanzale con grazia felina e si accucciò sul pavimento, scandagliando i dintorni.

Il silenzio ammantava l’edificio, non un singolo suono sfiorò le sue orecchie. Il che era strano. Edifici vecchi come quello erano famosi per produrre sinistri scricchiolii, figli di fondamenta e tubature ormai datate.

Roman planò al suo fianco e accostò la finestra.

“Sei sicuro che si tratti di una moneta?”

“Sì e so dov’è.” mimò Regan con le labbra, per poi spronarlo a seguirlo.

Avanzarono a passi felpati, le orecchie tese a captare qualsiasi rumore sospetto. Uscirono nel corridoio, dove le ombre erano più fitte, ma le torce rimasero spente per una questione di sicurezza: chiunque avrebbe potuto cogliere il fascio di luce in movimento dalla strada e tutti sapevano che la Fondazione non aveva un guardiano di notte.

Regan fece strada attraverso le varie sale, stipate di teche di vetro con dentro reperti antichi. Al contrario di Roman, che studiò con cipiglio critico quelli che gli passavano accanto, Regan non aveva occhi che per il premio finale. Entrarono in una salettina contenente vasi e ciotole. Lì, a ridosso del muro sulla sinistra, Regan scorse il tavolo delle monete.

Ci si diresse spedito, Roman incollato alla sua schiena. Gli occhi del lupo erano gialli e rifulgevano come fari in contrasto con l’oscurità che li circondava.

Regan si chinò sul vassoio delle monete e vi puntò sopra la luce della torcia. Attento a non fare rumore, le toccò una ad una. Presto si rese conto che quella che stava cercando non era lì.

“Non c’è.” sussurrò allarmato.

“Come sarebbe a dire che non c’è?”

“Nella mia visione era qui, mischiata alle altre. Qualcuno deve averla rimossa.”

“Qualcuno o… qualcosa?”

Regan schioccò la lingua frustrato: “Non so dove possa essere. Dobbiamo setacciare ogni stanza.”

“Avevi detto ‘toccata e fuga’!”

“Non abbiamo alternative. Ci serve quella moneta.”

Roman si morse la lingua per trattenere un ringhio. Quando Regan si mosse, lo seguì a ruota senza obiettare, schiacciando in un angolo della coscienza il disagio che era strisciato nelle sue ossa.

Ispezionarono sia il primo che il secondo piano, ma non ebbero successo. La tensione che aleggiava su di loro non li stava aiutando a rimanere lucidi. E quel maledetto silenzio stava logorando i nervi di entrambi, tanto assordante che a stento udivano i rispettivi respiri.

“Non ci resta che il piano inferiore e il magazzino.” disse Regan.

“Come ti pare. Basta che ce la filiamo presto.” abbaiò Roman, pur mantenendo la voce poco più di un bisbiglio.

Regan si girò per lanciargli un’occhiata apprensiva: “Stai bene?”

“No. Questo posto mi fa venire i brividi.”

“Puoi andartene, se vuoi.”

Al quel punto, Roman emise un vero e proprio ringhio scocciato: “Ne abbiamo già parlato. Concentrati e trova questa cazzo di moneta.”

Regan annuì e riprese a camminare.

Giunti alla porta che conduceva agli uffici dello staff, la oltrepassarono e imboccarono le scale. Regan riaccese la torcia e la puntò sui gradini. Il buio era così denso che poteva quasi gustarlo sul palato. Scesero lentamente, i respiri corti per via dell’adrenalina.

Riemersero in una specie di scantinato. Non c’erano finestre laggiù, e il silenzio era ancora più opprimente. I due ragazzi deglutirono e si guardarono, scambiandosi un cenno di intesa. Proseguirono lungo il corridoio, affacciandosi oltre le porte che incontravano per controllare cosa ci fosse nelle stanze di cui erano guardiane. Non videro nulla di interessante.

Quando raggiunsero l’ultima porta in fondo al corridoio, si fermarono. Regan abbassò la maniglia, ma la porta rimase sigillata.

“È chiusa a chiave.”

“Usa le forcine.”

“Reggimi la torcia, puntala sulla serratura.”

Porse la torcia a Roman, si inginocchiò ed estrasse le forcine, mettendosi subito al lavoro.

I secondi passarono lenti, scanditi dai ticchettii provocati dalle forcine. Una goccia di sudore solcò la fronte di Regan, che l’asciugò con il polsino della felpa, senza accorgersi della stranezza dell’evento. Infatti, da quando si era risvegliato come vampiro aveva smesso di sudare; o meglio, accadeva quando era pericolosamente a secco di energie, per cui necessitava di almeno due bicchieri di sangue per rimettersi in sesto. Si umettò le labbra e le serrò in una linea retta.

“Ci sei?” chiese Roman.

“Quasi.”

All’improvviso, il lupo avvertì i peli sulla nuca rizzarsi e un formicolio gli attraversò la schiena. Si voltò di scatto, puntando la torcia sul corridoio, ma non vide altro che ombre.

“Roman!”

Si girò di nuovo e indirizzò il fascio di luce sulla serratura: “Sbrigati.”

In quel momento, la serratura emise un sonoro toc, che riecheggiò sulle pareti con la forza di un tuono. Regan si rialzò vittorioso e aprì la porta. All’interno scoprirono un ufficio ammobiliato in modo spartano. C’erano un tavolo, una sedia, una piccola libreria e i classici cassetti di metallo tipici degli archivi.

A Regan si mozzò il fiato quando individuò la moneta. Era adagiata sul tavolo, circondata da fascicoli e tazze trasformate in portapenne. Pochi centimetri sopra il tavolo, appeso al muro tramite un chiodo, c’era un calendario. La stampa che campeggiava sopra il mese di agosto ritraeva un paesaggio campestre illuminato da un sole accecante.

Cerca, trova il cerchio nascosto
Che giace nel buio sotto il sole d’agosto.

Si avvicinò cauto, un passo dopo l’altro, il cuore in gola. Protese una mano verso la moneta. Prima di afferrarla, esitò.

“Che stai facendo? Prendila e andiamocene.” lo esortò Roman in un sussurro concitato.

Regan ingoiò il groppo di ansia che gli ostruiva la gola e agguantò l’oggetto. Non percepì niente. Sembrava una semplice moneta. Fredda al tatto, ruvida là dove c’erano gli intarsi, ma tutto sommato normale.

Un fruscio li fece scattare sull’attenti.

Roman rivolse la luce della torcia sul corridoio buio e soffiò: “Lo hai sentito?”

“Andiamocene.”

Uscirono dall’ufficio richiudendosi dietro la porta e rifecero la strada al contrario, i sensi all’erta e i muscoli tesi fino allo spasmo.

Un movimento tra le ombre in fondo al corridoio li costrinse ad arrestarsi. Roman puntò la torcia innanzi a sé. Entrambi i ragazzi videro distintamente qualcosa muoversi per evitare il fascio di luce. Si impietrirono.

“Cos’era?” chiese Roman, la voce ridotta a un pigolio strozzato.

“Non lo so e non mi interessa. Al mio tre, corri verso le scale.”

Avendo l’attenzione puntata sulla sagoma indistinta in fondo al corridoio, Regan non registrò il movimento sopra la propria testa. Roman, invece, lo captò grazie all’istinto animale, ipervigile da quando erano entrati nell’edificio. Nel levare lo sguardo, un grido muto si arrampicò a razzo su per la sua gola e rimase incastrato lì.

La… cosa sul soffitto, che un tempo doveva essere una ragazza dai capelli neri, spalancò la bocca cucita nella grottesca imitazione di un urlo, la mandibola chiaramente dislocata per essere capace di aprirsi in quella maniera esagerata. Le orbite vuote erano fisse su di lui, due buchi neri scavati in una faccia cadaverica. Gli arti erano scheletrici, le ossa sporgenti esposte alla vista grazie alla sua nudità. Non aveva odore. Non respirava. Non faceva alcun rumore. Poteva benissimo trattarsi di un’allucinazione.

Roman fece appena in tempo a inspirare bruscamente prima di essere spinto via con violenza da Regan. La schiena cozzò contro il muro e un paio di vertebre scricchiolarono all’impatto. La torcia rotolò a terra con un frastuono simile a un tamburo di guerra.

Fu allora che si scatenò l’inferno.

Altri esseri, simili alla ragazza ma diversi nella statura e nel sesso, strisciarono giù dai muri e dal soffitto, gattonarono rapidi sul pavimento, come ragni, e convergerono verso Regan.

“Scappa!” urlò Regan.

L’ordine perentorio riverberò in ogni cellula del corpo del licantropo, spronandolo all’azione. Non ci fu modo di protestare, qualsiasi parola morì sulla lingua nell’esatto istante in cui il cervello interpretò il volere del suo alfa. Acciuffò la moneta che Regan lanciò verso di lui un momento prima che la mano di uno di quegli esseri la prendesse. Poi si voltò e corse verso le scale.

Nonostante il suo cuore e la sua mente gli gridassero di tornare indietro e lottare fianco a fianco, l’istinto del lupo era debole contro un ordine diretto di Regan. Le sue gambe lo condussero su per le scale, oltre la porta, attraverso le varie salette, in direzione della via d’uscita. La vista era appannata dalle lacrime, la trasformazione sobbolliva sotto la pelle. Udiva solo il ritmo del suo respiro e il martellare frenetico del cuore nel petto. La moneta era gelida nel suo palmo.

Non osò girarsi per vedere se lo stessero inseguendo. Continuò a correre a perdifiato finché non scorse la finestra da cui era entrato. Ci si gettò contro a tutta velocità, incurante del rumore o delle schegge di vetro che gli ferirono la faccia e gli avambracci. Atterrò sull’erba, si accucciò e piroettò su se stesso per fronteggiare la finestra. La sola cosa che scorse fu buio pesto.

Snudò le zanne e scandagliò con lo sguardo i dintorni. Un odore familiare gli stuzzicò le narici. Prima che potesse reagire, però, sentì la canna di una pistola venire premuta sulla propria nuca e il click della sicura che veniva rimossa.

Torse la testa di tre quarti per guardare dietro di sé. Lo sconcerto lo pervase quando si ritrovò faccia a faccia con Derek. L’espressione gelida del cacciatore lo pietrificò.

“Dov’è Regan?”

Roman scoccò un’occhiata alla finestra e riportò veloce lo sguardo su di lui, per non perdersi neanche un movimento.

“Perché non è con te?”

“Mossshtri. Ordinato… di… shcappare.” grugnì tra le zanne, faticando a riassumere il controllo del lupo.

A quelle parole, Derek si rianimò. Abbassò la pistola e, con un’agilità che poteva essere soltanto soprannaturale, compì un balzo per scavalcare il davanzale della finestra. Il buio lo inghiottì in un secondo.

Roman rimase impalato a scrutare con crescente angoscia il punto in cui la figura del cacciatore era sparita.

 
*

Regan ghermì per i capelli Joshua Pryce e lo scaraventò lontano dalle scale, per poi pararsi di fronte ad esse a mo’ di scudo. Un attimo dopo, Roman sfondò la porta e corse via, la moneta ben stretta nel pugno.

Regan non ebbe tempo di provare sollievo, perché Teresa Meyers avviluppò con braccia e gambe ossute il suo busto e gli artigliò la faccia. Si liberò e le sbatté il cranio sul muro. Si guardò intorno. Non mancava nessuno all’appello. Tutte e sette le persone scomparse erano lì, ridotte a grotteschi e inutili burattini. Il burattinaio doveva essere vicino.

Era chiaro che lo stessero aspettando. Regan non era caduto nella trappola come uno stupido, affatto, perché quella era una eventualità che, ad essere sincero, aveva etichettato come “altamente plausibile, se non direttamente certa”, benché non l’avesse esposta né a Roman né a Deirdre. Infatti, dal momento che sembrava condividere un qualche legame psichico con il demone, era ovvio che le sue mosse non lo avrebbero mai colto di sorpresa. Regan sarebbe rimasto sempre dieci passi indietro se non avesse imparato a rivoltare i pezzi della scacchiera a suo vantaggio.

Schivò l’assalto di Timothy Bruce piegandosi all’indietro all’ultimo secondo. Salì rapido qualche scalino, piroettò piantando i piedi sulla parete e si tuffò in avanti per colpire con una ginocchiata Rupert Gullon in pieno viso. Quello compì un volo di tre metri e atterrò con grazia sul pavimento. Regan lo vide distorcere i lineamenti in una smorfia raccapricciante, arrampicarsi sul muro senza esitare e strisciare sul soffitto per attaccarlo dall’alto. Questo mentre Evelyn Richardson e Lucy Hammond lo caricavano da destra e da sinistra.

Regan doveva ammettere che erano veloci e organizzati, oltre che più forti di quanto apparivano. Le poche volte che riuscivano ad afferrarlo e mandare un colpo a segno lo lasciavano sempre un po’ dolorante. Ma lui era molto più veloce, molto più letale, soprattutto quando le circostanze non gli imponevano di trattenersi.

Si scansò di lato, evitando per un pelo Evelyn. Afferrò un braccio di Lucy in una morsa d’acciaio che avrebbe rotto le ossa a chiunque, glielo torse e la scagliò lontano da sé. Si acquattò per darsi lo slancio e, prima che Rupert lo raggiungesse, fece una finta a destra. Saltò e gli sferrò un calcio nel plesso solare. La forza del colpo raddoppiò dal momento che Rupert si era gettato su di lui con altrettanta rapidità.

Regan frenò la caduta con una capriola e balzò di nuovo, atterrando sulla schiena di Teresa. Le cinse la testa con le mani e le spezzò il collo. Un rumore secco riverberò nel seminterrato. Lasciò la presa per occuparsi di Timothy, che stava strisciando verso di lui per sorprenderlo alle spalle. Lo bloccò con un pugno in faccia e un calcio nello stomaco. Nel mentre, torse il busto, le zanne snudate, e morse il polso di Joshua. Con le fauci ben assicurate alla carne dura e fredda, ruotò il capo e lo scaraventò contro un muro.

Approfittando di un momento di pausa, arretrò sulle scale. Lasciò che la magia fluisse libera nelle sue vene ed evocò il fuoco. Fiamme incandescenti ricoprirono le sue mani, risalirono le braccia e lo avvolsero da capo a piedi, senza rovinargli i vestiti.

Evelyn e Lucy, le più vicine, si rifugiarono nelle ombre; gli altri si tennero a distanza. Regan avrebbe potuto cogliere l’occasione, la via era libera, ma i suoi piedi rimasero fermamente incollati dove erano.

Un sibilo gli accarezzò le orecchie. Si voltò. Laggiù, in fondo al corridoio, di fronte all’ufficio in cui aveva trovato la moneta, si stagliava nitida la figura del demone. La sua testa era china, le spalle ingobbite per non battere contro il soffitto. Le gambe e le braccia erano stecchi neri e grinzosi.

Regan gli mostrò le zanne, avvertendo l’adrenalina scorrergli nelle vene. Il sibilo aumentò di volume. Regan ebbe l’impressione che migliaia di aghi gli stessero perforando i timpani. Stavolta, però, invece di raggomitolarsi in posizione fetale con le orecchie tappate, accolse il suono e lo usò come combustibile per il fuoco. Esso divampò con ferocia, scacciando via il buio e gli esseri che indossavano le facce delle persone scomparse. Notò che Teresa si era già rialzata come se nulla fosse successo, il collo torto in un angolo innaturale.

“Tutto qui? Sai soltanto sibilare?” lo sfidò.

Teresa si lanciò su di lui. Le fiamme l’aggredirono prontamente, ma le carni rimasero intatte. Non appena Regan se ne accorse, comprese il proprio errore. Digrignò i denti, agguantò Teresa per il collo e la mandò a sbattere con violenza sul muro opposto.

Non ebbe il tempo di valutare la prossima mossa, perché Rupert gli fu subito addosso, seguito a ruota da Evelyn e Timothy. Lucy gli artigliò una caviglia. Regan perse l’equilibrio e cadde di schiena sul duro cemento. Joshua gli salì sul torace.

Il fuoco non cessò un attimo di attaccare, incapace di accettare la propria futilità. Lingue incandescenti e impetuose lambirono quegli esseri, ma essi parevano non sentirle nemmeno.

A corto di altre idee, Regan decise di fare un tentativo e appellarsi all’unica persona che avrebbe potuto dare una svolta alla situazione. Sempre se non era in combutta con il demone.

“PETRA STHENOS!” ruggì mentre cercava di divincolarsi dalle grinfie dei suoi assalitori.

Il sibilo divenne assordante. Con la coda dell’occhio, Regan vide le sagome di decine di serpenti neri strisciare lungo soffitto, muri e pavimento verso di lui. Uno rizzò la testa a pochi centimetri dal suo polpaccio. Il fuoco si riflesse sulle squame del rettile come in uno specchio. Regan scalciò. Zanne aguzze baluginarono nel buio e, un secondo più tardi, infilzarono la carne, trapassando la stoffa dei jeans. Regan grugnì di dolore.

“Steno! Lo so che puoi sentirmi! Fermalo!”

A Regan occorse un po’ per realizzare che il sibilo che gli rimbombava nel cervello non era un sibilo. Si fermò per ascoltare meglio, incurante delle mani che lo immobilizzavano a terra, del demone che si avvicinava a passi lenti e del fuoco che andava pian piano esaurendosi assieme alla sua energia. Il demone torreggiò su di lui e protese una mano adunca verso la sua gola.

Regan chiuse gli occhi.

Li riaprì in quella che sembrava una minuscola cantina. Una lampadina dondolava sul soffitto. La timida luce giallognola, protetta da una sottile barriera di vetro, sfarfallò, emise un paio di ronzii e si spense.

Regan si issò sui gomiti e analizzò lo spazio circostante. Ci vedeva abbastanza bene a dispetto dell’oscurità. Su una parete c’erano degli anelli di ferro, a cui erano appese spesse catene che terminavano con altrettanto robuste manette. Il ferro, così come il pavimento e il muro, era macchiato di sangue. La parete opposta era coperta da degli scaffali di metallo, appesantiti da ciarpame di vario tipo. In alto a destra c’erano delle scalette di legno e una botola, mentre a sinistra, per terra, accanto a un tavolino di legno con sopra due sedie rovesciate, Regan notò vari scatoloni polverosi. Su uno di questi troneggiava il grammofono del suo sogno.

Un singhiozzo attirò la sua attenzione. In un angolo scorse una figura umana rannicchiata. Le curve del corpo lasciavano intendere che si trattasse di una donna. Un singulto scosse le sue spalle e un violento tremito le attraversò le membra.

“Steno?” la chiamò in un sussurro cauto e si mise seduto senza distogliere lo sguardo.

La donna rabbrividì e si spalmò ancora di più contro il muro. Alcuni singhiozzi ruppero il silenzio in rapida successione.

“Steno.”

Continuando a singhiozzare, lei sollevò la testa. Regan trattenne il fiato quando vide un viso dolce e pallido rigato di lacrime. I suoi occhi verde marcio, con le pupille verticali da rettile, erano gonfi e arrossati. La testa era calva, il cranio rotondo esposto alla vista. Sembrava emersa da un incubo.

Con voce roca e tremante, le labbra martoriate dai denti, Steno parlò: “Aiutami… ti prego…”

Regan tradusse le sue parole all’istante, benché fossero state pronunciate in una lingua che non sembrava affatto inglese. Ipotizzò che fosse greco, date le origini delle Gorgoni.

Steno si staccò dal muro. Appoggiò i palmi sul pavimento e avanzò di mezzo metro. Regan si accorse che il suo stomaco era incavato, la pelle sottile sulle costole sporgenti, quasi fosse denutrita. Le braccia cedettero e lei si accasciò con uno squittio. Biascicò una seconda volta la richiesta di aiuto.

“Come posso aiutarti, se non so cosa sta succedendo?” balbettò Regan in preda allo shock.

Realizzò in un secondo momento che nemmeno i suoni che uscivano dalla sua bocca somigliavano a quelli della sua madrelingua. Accantonò quel dettaglio e si concentrò sul presente. Non sapeva dove diavolo fosse finito, cosa fosse quella stanza, ma non era importante. Steno era lì, davanti a lui. Doveva approfittarne per accaparrarsi qualche risposta.

Di punto in bianco, il grido di Steno lo investì come un’onda d’urto. Regan strinse i denti e si tappò le orecchie quando un sibilo fortissimo gliele trafisse. Appena il suono si disperse, rialzò il capo e fissò la donna con occhi sbarrati.

“Cosa…?” boccheggiò sgomento e ricadde seduto con un tonfo, “Il sibilo… eri tu?”

“Aiutami…”

“Rispondi: eri tu? Il sibilo che sentivo, eri tu che urlavi?”

Steno annuì, nascose il viso tra le mani ed emise un lamento: “Ha p-preso i m-miei se-serpenti… ha preso… la mia… voce…”

“Conosci il suo nome?”

Lei gridò di nuovo. Regan, pur con le mani ben premute sulle orecchie, colse una sfumatura frustrata sotto lo spesso strato di disperazione di cui il sibilo era intriso.

“Non posso…” sussurrò quando si fu calmata.

“Perché?”

“Non vuole.”

“Okay. Va bene.” tentò di rassicurarla, ma l’ansia che emanava da ogni poro sottrasse credibilità alle sue parole, “Perché ce l’ha con me? Questo puoi dirmelo?”

“Tesssst.” sibilò, mentre la lingua biforcuta faceva capolino tra le labbra pallide.

“Test? Intendi, una prova? Mi sta mettendo alla prova?”

“Sì.”

“Perché?”

“Lo sai già. Lui sa che tu sai. Siccome lui lo sa, anche io lo so.”

Regan la scrutò in silenzio, la confusione scritta a chiare lettere in faccia.

“Tu sai perché.” reiterò Steno e sollevò la testa per guardarlo con occhi imploranti, “Volevo avvisarti…”

Regan rifletté velocemente: “Avvisarmi? Con le tue urla?”

“Lui mi usa. Fin dall’inizio, usa tutto di me.” gli disse tra i sibili, prostrata da una lotta interiore che la stava pian piano consumando, e cominciò a strisciare verso di lui, “Ma io riesco a usare lui, qualche volta. Lui se ne accorge sempre… trasforma il mio aiuto in inganno. Per tenerti lontano dalla verità. Ti ho detto dove trovare il portale…”

“La moneta? Tu mi hai detto…? La filastrocca! Eri tu? Come?”

“Io uso i suoi poteri per avvisarti. Lui mi scopre. Non ho ancora finito. Lui contorce la verità in menzogna, indovinelli ingannevoli. Posso solo aiutarti per qualche secondo.”

“Le visioni…”

Si astenne dal dirle che non si erano rivelate utili per niente. In fondo, aveva provato, poverina. La guardò macinare la distanza che li separava, la sua pancia e i seni strusciare sul cemento, i gomiti fare leva per trascinarsi in avanti. Il respiro che scivolava fuori dalla barriera dei denti era un fischio affaticato. Regan si costrinse a restare immobile.

All’improvviso, i muri emisero un lungo grugnito, come quello che producono le assi di legno quando si piegano sotto un peso più grande di quanto siano in grado di sostenere. Una ragnatela nera si diramò su di essi a partire dagli angoli. I fili seghettati si liquefecero e melma nera colò giù, simile a pittura sciolta.

Steno, avendolo ormai raggiunto, afferrò Regan per le braccia e lo guardò dal basso: “Tu sai chi è. Conosci già il suo nome.”

“No, non è vero.” negò Regan, i polmoni compressi in una prigione di panico crescente.

Lei si issò con il busto per portare la bocca al suo orecchio. Il suo alito fetido gli accarezzò il lobo, spedendogli brividi freddi lungo la spina dorsale.

Grida, grida ciò che è omesso: la canzone dell’abisso.”

Regan sentì la morsa in cui erano costrette le proprie braccia serrarsi ancora di più. Inspirò e digrignò i denti per non gemere di dolore.

“La canzone.” esalò a fatica, “Sì, ho presente. Ma come-”

Steno si contorse in un repentino spasmo e cacciò un grido disumano. La melma nera le sommerse i piedi, risalì su per le gambe, la schiena, le spalle, sino a divorarle la testa. Regan si liberò appena in tempo, prima che la melma che ora ricopriva le mani della Gorgone prendesse anche lui attraverso il contatto.

Un boato scosse le fondamenta della stanza. Le pareti si riempirono di crepe.

Un secondo boato inghiottì le urla strazianti di Steno.

Un terzo aprì un cratere nel pavimento.

Un quarto risucchiò Regan indietro, nel presente.

Riaprì gli occhi nel corridoio, circondato dalle tenebre. Una sagoma scura torreggiava su di lui, ma gli dava le spalle. L’ennesimo boato riecheggiò ovunque, assordandolo, seguito da un brevissimo lampo di luce.

“Regan!”

“Derek…?” gracchiò incredulo, spaesato e intontito dal rumore.

Una mano del cacciatore lo agguantò per il bavero del giubbotto e gli diede un forte strattone. Regan si ritrovò in piedi, leggermente barcollante. Derek lo spinse con decisione verso le scale, urlandogli dietro qualcosa. Non aveva smesso un attimo di sparare. Regan pensò distratto che le cartucce sarebbero finite presto a quel ritmo.

“Corri, cazzo! Ci sono addosso!”

Le parole di Derek finalmente filtrarono attraverso il muro di ovatta. I muscoli guizzarono e si rimisero in moto, guidandolo su per le scale, fuori di lì. Derek era poco dietro di lui, occupato a sparare a raffica per guadagnare tempo.

Si catapultarono oltre la porta. Derek la sbarrò immediatamente, aggiungendo il peso del proprio corpo per bloccarla. L’anta tremò sotto l’assalto degli esseri che la colpivano dall’altro lato per uscire.

Regan si fermò giusto qualche istante per riprendere fiato. Poi si tirò di nuovo su per puntare gli occhi sul cacciatore. Derek era pallido, la faccia contorta in una maschera di terrore. Sudore gli imperlava la fronte, su cui spiccava un taglio obliquo e sanguinante.

“Come… perché sei qui?”

“Il GPS nel tuo cellulare.” grugnì, impegnato a tenere a bada gli scossoni che si abbattevano con sempre più frequenza contro la porta.

“Mi stavi pedinando?!”

“Non è il momento! Al mio tre. Uno. Due…” si lanciò su Regan e gli afferrò il polso, “Tre!”

Corsero a rotta di collo attraverso le sale, incuranti delle teche che urtavano a loro passaggio e del frastuono che si lasciavano dietro. Era un miracolo che non fosse ancora scattato alcun allarme.

Prima che Regan potesse imboccare un altro corridoio, si sentì strattonare. Non ebbe modo di chiedere a Derek cosa volesse fare, perché un attimo dopo vide il vetro di una finestra venirgli incontro alla velocità di un fulmine. Le schegge di vetro gli ferirono la faccia e l’aria notturna gli penetrò nei polmoni con la veemenza di un pugno nello stomaco. Poi ci fu l’impatto sul duro terreno, che gli strappò un gemito. Infine, silenzio.

Derek fu il primo a riprendersi. Rotolò sulla pancia e si issò su mani e ginocchia. Scrollò il capo per scacciare i puntini neri che gli costellavano la vista. Mentre con una mano cercava la pistola sull’erba, i suoi occhi si incatenarono alla figura supina di Regan. Vide il torace muoversi su e giù, le palpebre sfarfallare per aprirsi. Il viso era pieno di graffi, che si stavano già rimarginando.

Dei passi in avvicinamento lo fecero irrigidire. Sollevò di scatto lo sguardo. Scoprì Roman accovacciato a pochi metri da loro, i lineamenti distorti da un orrore che Derek sapeva essere riflesso pure nei propri. Le iridi del licantropo erano gialle, ma le zanne e gli artigli erano scomparsi.

Roman adagiò un palmo sull’erba umida e si sbilanciò in avanti. In quel momento, Derek trovò la pistola. Non esitò a puntarla contro il lupo, la sicura rimossa e il dito sul grilletto. Un ringhio si spanse nell’aria. Ebbe vita breve, però, perché un secondo più tardi Roman si chetò e piegò confuso il capo. Derek ci mise un po’ di più per rendersi conto che la propria mano stava tremando.

Un grugnito distrasse cacciatore e licantropo dalla lotta di sguardi che avevano ingaggiato. Derek abbassò la pistola, mentre Roman si avvicinò a razzo per accucciarsi accanto a Regan.

“Ahi… merda, che male.”

Roman lo sollevò da sotto le ascelle e condusse un braccio dell’amico a cingergli il collo: “Ti tengo. Andiamo.”

“As-Aspetta… ce l’hai?”

Il licantropo estrasse dalla tasca la moneta e gliela mostrò.

“Okay. Andiamo.” disse Regan, afflosciandosi su Roman a peso morto.

“Sanguini dalle orecchie.”

“Sopravviverò.”

“Hey.” li chiamò Derek.

I due si voltarono. Entrambi esibivano le tipiche facce di qualcuno che desidera soltanto strisciare sotto le coperte e dormire per i prossimi cinque secoli.

“Di chi è stata la brillante idea di non chiamare il cacciatore, addestrato a combattere mostri sin dalla nascita, prima di entrare in un fottuto covo di, fammi pensare… oh, sì: mostri?!” abbaiò, stringendo i pugni lungo i fianchi, e li raggiunse in tre ampie falcate.

“Il tuo invito si sarà perso nella posta.” biascicò Regan, esausto sin nel midollo, “Senti, non ho le energie per litigare. Voglio solo tornare a casa.”

“Cosa cazzo erano quei… quei cosi? E che cazzo ci facevi laggiù?” continuò imperterrito Derek.

“Non ora.” rispose Roman, “Dobbiamo andarcene da qui.”

“Chi sei tu per darmi ord-”

“Derek. Per favore.” mormorò Regan.

Derek contrasse la mascella e trasse un profondo respiro per calmarsi. L’adrenalina gli scorreva ancora nelle vene, ma non tanto da offuscare il suo giudizio.

“Okay, vi porto io. Sono venuto in macchina.” dichiarò e marciò fino al fianco sinistro di Regan per prendergli il braccio libero e avvolgerselo attorno al collo.

Regan sospirò sconfitto. Permise ai due ragazzi di sorreggerlo durante il tragitto verso l’auto senza pronunciare una sola lamentela, il che fu un indizio più che sufficiente per far capire a tutti quanto fosse stremato. Riemerse dal torpore quando si sentì depositare sul sedile. Roman scivolò al suo fianco con movimenti agili, un braccio a circondargli la vita e la mano fermamente aggrappata alla pelle fredda sotto i vestiti, riluttante a interrompere il contatto fisico. Derek si mise al volante e accese il motore.

Se Regan fosse stato abbastanza lucido, avrebbe cercato di smorzare la tensione che aleggiava nell’abitacolo con qualche commento caustico o frecciatina tagliente. Ma siccome era a un passo dal cedere al richiamo del meritato pisolino che lo tentava da svariati minuti, non notò le occhiate torve, sature di tacite e terribili minacce, che si scambiarono Roman e Derek per tutto il tempo che impiegarono a raggiungere sani e salvi casa McLaughlin. Per fortuna, nessuno uccise nessuno.

Mentre stavano barcollando sul vialetto – cioè, Regan barcollava, Roman e Derek facevano del loro meglio per non soccombere al suo passo strascicato – Deirdre accese la luce in veranda e spalancò la porta. Agitò con urgenza le mani per invitarli a entrare e i tre ragazzi inciamparono in casa con sospiri di sollievo.

Regan venne abbandonato sul divano, mezzo sdraiato, con la schiena sui cuscini e le gambe penzoloni. Deirdre corse in cucina a recuperare un bicchiere e ci versò dentro il sangue di una delle siringhe che conservava in frigo. Fatto ciò, si precipitò in salotto dal nipote e gli accostò il bicchiere alle labbra. Regan bevve avidamente.

“Cos’è successo?” indagò Deirdre, per poi scrutare Derek con aria sospettosa, “E lui cosa ci fa qui?”

“Abbiamo trovato il portale e il demone ci ha attaccati.” rispose Roman.

“Ve l’avevo detto!” lo interruppe, “Ma voi ‘noooo, fidati, Deirdre, andrà tutto a meraviglia’! Tzè. Dilettanti. Comunque, lui che c’entra?” insisté, additando il cacciatore.

“Ho salvato i loro culi.” disse Derek con una scrollata di spalle, come se fosse ordinaria amministrazione.

“Ne dubito.” proferì Deirdre, squadrandolo dall’alto in basso con palese sdegno.

“Si è messo a sparare come se fossimo nel Far West. Ha tenuto a bada il demone per qualche secondo.” intervenne a quel punto Regan, la voce gracchiante e gli arti ridotti a gelatina, “Non che ne avessi bisogno. Avevo tutto sotto controllo.”

“Certo. Perché infatti non ti ho trovato svenuto alla base di una pila di mostri umanoidi che cercavano di mangiarti.” sbuffò Derek.

“Non ero svenuto, oh mio valoroso cacciatore, ma in trance.”

“Ah, ora si chiama così?”

“Non sai distinguere una trance da un normale svenimento? Non ve lo insegnano al corso per diventare macchine assassine?”

“Prego, Regan, non c’è di che. Piuttosto, quello che voglio sapere è perché non mi hai chiamato. Sono addestrato per questo, ti ricordo. Ti avrei guardato le spalle. Non me la sarei data a gambe al primo sentore di pericolo, come ha fatto il nostro lupacchiotto.”

“Non avevo scelta!” Roman ringhiò, ponendosi sulla difensiva, e dopo un attimo si girò a guardare Deirdre, ansioso di spiegare, “Regan mi ha ordinato di scappare con la moneta e io ho ubbidito.”

“Bravo cucciolo.” lo schernì Derek.

Roman snudò le zanne e gli ringhiò in faccia.

“Moneta?” domandò Deirdre.

“Il portale.” rispose Regan, “Roman, mostragliela.”

Roman trasse un ampio respiro per calmarsi. Infilò una mano nella tasca dei jeans ed estrasse la moneta, consegnandola alla donna. Deirdre la prese e se la rigirò tra le dita. Aggrottò le sopracciglia, alquanto perplessa.

“Che ne pensi?” le chiese Regan.

“Non percepisco nulla di strano.”

“Già. Sembra una semplice moneta antica.”

“Questi simboli…”

“Faremo delle ricerche.”

Deirdre sospirò. Riportò l’attenzione su di lui e si sedette al suo fianco, la moneta dimenticata sul tavolino basso di fronte al divano.

“Sei esausto. Per oggi direi che può bastare.”

Roman e Derek aprirono subito la bocca per protestare, ma Deirdre li zittì con un gesto brusco della mano.

“Andate a casa, voi due. È molto tardi.”

“Ma il demone-”

“Roman.” lo interruppe Regan, fissandolo dal basso con sguardo implorante, “Va’ a casa. Ci sentiamo domani. Anche tu, Derek.”

Cacciatore e licantropo esitarono, entrambi combattuti. Alla fine, Roman esalò un sospiro arreso e annuì. Derek, seppur scontento, seguì il suo esempio.

Deirdre li accompagnò alla porta e diede a Roman la buonanotte. Derek non venne calcolato di striscio. Quando tornò in salotto, si riaccomodò accanto a Regan. Affondò le dita tra i suoi riccioli corvini e gli spostò alcune ciocche dalla fronte pallida. Poco dopo, intonò una dolce canzone a labbra strette.

Regan si godette le sue carezze e il suono della sua voce, lasciandosi cullare finché non avvertì le energie risalire pian piano. Riaprì gli occhi precedentemente chiusi e li puntò su di lei.

“L’ho vista, nonna.”

“Chi?”

“Steno. Mentre ero in trance.”

“Cosa? Come? Che ti ha detto?”

“Non se la sta passando bene.”

Le raccontò tutto ciò che la Gorgone gli aveva rivelato, premurandosi di non tralasciare alcun dettaglio. Le informazioni che erano trapelate erano a dir poco preoccupanti.

“Un test? Ma… perché?”

“Non lo so.”

Deirdre mugugnò soprappensiero: “Quindi era lei. Il sibilo… le visioni…”

“Sì.”

“Sembra che sia dalla tua parte.”

“Non direi. Vuole solo sopravvivere, e io sono l’unico che sta cercando di fare qualcosa di concreto. Se mi aiuta, è perché desidera essere salvata. Dopotutto, il demone sta usando i poteri di Steno contro la sua volontà, mietendo le vite di persone che lei non toccherebbe mai, come donne e bambini. Al suo posto, anch’io vorrei liberarmi il prima possibile, con ogni mezzo, a qualsiasi costo.”

Deirdre si trovò d’accordo. Gli occhi le caddero sulla moneta.

“Hai capito come ha scelto le sue vittime?”

“Proprio come pensavamo: devono essere persone colpite da un lutto da sette giorni.”

“Ma allora perché non ha preso anche le loro famiglie?”

“Perché le vittime sono state le uniche a toccare la moneta. Teresa è andata alla Fondazione con i suoi genitori, ma solo lei l’ha toccata. Stessa cosa per gli altri. È stato l’atto di toccare la moneta a disegnare un bersaglio sulle loro anime. Nient’altro.”

Deirdre restò in silenzio ad osservare la moneta per un minuto buono, quando, all’improvviso, il suo corpo venne attraversato da un brivido. La sua schiena si raddrizzò e i suoi occhi si sbarrarono.

“Regan… tu l’hai toccata.”

“Beh, sì.”

“Oggi è sabato. La mezzanotte è passata da un pezzo, ormai.”

“E?”

Deirdre si girò a guardarlo con espressione atterrita, il battito cardiaco alle stelle: “Athens. L’incendio. È successo sette giorni fa.”

Regan si pietrificò. Dire che il tempo si fermò in quell’esatto istante non sarebbe un’esagerazione. Il suo cuore smise pure di battere, mentre il sangue gli si gelò nelle vene. Deglutì.

“Non… non vuol dire che…” si tirò su a sedere, gli occhi puntati sulla moneta, che rifulgeva di bagliori sinistri sotto la luce irradiata dalla lampada del salotto, “Insomma, mi ha già attaccato una volta. Posso… posso sconfiggerlo ancora. Giusto? E poi, la prima volta che mi ha attaccato non ne aveva motivo, non avevo subito alcun lutto. È stata una provocazione…”

“Un test.”

“Un… test.” ripeté Regan in un bisbiglio incredulo.

Deirdre si alzò di scatto e marciò fuori dalla stanza.

“Nonna, dove vai…?”

“Torno subito.”

Dopo un paio di minuti, Deirdre ricomparve con in mano uno scrigno di legno e un coltello affilato. Si sedette sul divano e si mise immediatamente al lavoro, intagliando rune protettive su tutti i lati dello scrigno, all’interno e all’esterno. Poi prese la moneta e ce la chiuse dentro.

“La infilerò in un contenitore pieno di erbe che respingono il male, in soffitta. Circonderò il contenitore di cristalli e inciderò altre rune sul pavimento, per sicurezza.” spiegò.

“Dici che funzionerà?”

“Non ne ho idea. Quello che so è che per ventiquattro ore veglierò su di te. Se il demone arriverà, lo combatteremo insieme.”

“No. Non voglio che tu ti metta in mezzo. È pericoloso.” si oppose Regan.

“E io non ti lascerò gestire da solo questa cosa.” sancì categorica e gli rivolse un’occhiata che non ammetteva repliche.

“Okay… grazie.”

“Non dirlo nemmeno.”

“Nel frattempo cosa facciamo?”

Deirdre ci pensò su, poi afferrò il telecomando e accese la televisione. Poe scelse quel momento per farsi vivo e appallottolarsi sulle sue ginocchia.

“Ci guardiamo Chicago?”

Regan le sorrise e annuì. A metà del film si ricordò dell’impegno che aveva preso con Lorie.

“Oggi andrò con le ragazze a fare shopping.”

“No, resterai a casa.”

“Dovrei essere al sicuro durante il giorno, il demone ha sempre attaccato di notte. In più, sarò in un luogo affollato.”

Deirdre rifletté. Il ragionamento non faceva una piega.

“E poi tu devi lavorare. Non puoi sorvegliarmi ininterrottamente.” aggiunse Regan.

La donna sospirò sconfitta e assentì: “Ma se succede qualcosa, chiamami subito.”

“Promesso.”

Poe sbadigliò, profondamente annoiato.









 
  
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