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Autore: _Lightning_    29/06/2019    4 recensioni
Thanos è stato sconfitto e la metà scomparsa dell'universo è tornata, andando a rioccupare i vuoti di cinque anni d'assenza. Anche Peter Parker è tornato, nonostante a volte si senta ancora su Titano e non sia certo che il costume di Spider-Man o le vesti di adolescente del Queens gli appartengano ancora. Ad aiutarlo sul suo nuovo cammino di supereroe c'è almeno Tony Stark - vivo per miracolo, anche se segnato da cicatrici insanabili.
Mentre il mondo tenta di rimettersi in marcia, coloro che lo hanno salvato vengono messi di fronte alle conseguenze delle proprie azioni: i superumani sono un aiuto o una minaccia? Non è forse vero che hanno contribuito a sconvolgere il mondo ben due volte?
Una nuova tempesta si addensa all'orizzonte, e Peter sembra destinato a trovarsi nell'occhio del ciclone...
Dal Capitolo IX: "Zona Negativa"«Parker, non te lo ripeterò: lascia perdere.»
«Altrimenti che fa? Mi toglie di nuovo il costume?» Peter allargò le braccia con aria di sfida.
«Non hai più quindici anni,» ribatté freddamente Tony. «Se non sei in grado di seguire le mie direttive, sei fuori.» Indurì le labbra in una piega severa. «E questo non è un bel momento per essere "fuori".»
Genere: Azione, Drammatico, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'As if it never happened'
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Spider-Man: Back In Black

 

§

 

Capitolo II

Ingranaggi in movimento




“Should I stay or should I go?
If I go there will be trouble
And if I stay it will be double
So, ya gotta let me know
Should I stay or should I go?

[Should I Stay Or Should I go? – The Clash]

 

 

 

14 Aprile, Midtown High School Of Technology

Il corridoio era animato dal vivace chiacchiericcio del cambio dell’ora, oltre che dallo scalpiccio di centinaia di scarpe da ginnastica che si affrettavano sul pavimento di linoleum consunto. Peter si sforzò di non concentrarsi troppo su quel sottofondo basso e costante, che alle sue orecchie suonava sempre in primo piano e impossibile da escludere del tutto. S’impegnò ad abbassare il volume attorno a sé, quasi stesse girando la manopola di una vecchia radio: era un metodo che ormai padroneggiava abbastanza bene… un po’ meno nei momenti di stress, quindi si rassegnò a sopportare quel fastidioso ronzio residuo nei timpani che non gli riuscì di attutire completamente.

Come gli capitava spesso, ebbe un’esitazione minima di fronte al suo vecchio armadietto, un semplice passo trattenuto che si sforzò poi di completare per raggiungere quello che gli avevano riassegnato. Inserì in modo meccanico la combinazione e lasciò vagare lo sguardo nel piccolo cubicolo metallico, quasi del tutto spoglio nonostante l’anno scolastico inoltrato.

Per l’ennesima volta, si ripromise di appendere sul fondo almeno quel piccolo poster del Millennium Falcon che giaceva inutilizzato a casa in un cassetto. Sapeva che avrebbe ulteriormente rimandato la cosa, come gli innumerevoli piccoli gesti quotidiani che sembravano non trovare più spazio nella sua vita, ma, come ogni volta, si disse che il giorno dopo l’avrebbe fatto davvero – nonostante al momento abbellire il proprio armadietto non fosse esattamente in cima alla lista delle sue preoccupazioni.

Chiuse l’anta sovrappensiero, col senso di ragno che formicolava, e dovette trattenere l’istinto di balzare con una capriola sul soffitto quando voltò la testa e si ritrovò un paio d’occhi scuri e a mandorla a un palmo dalla faccia.


«Cavolo, Ned!» sbottò in un sibilo, suscitando un largo sorriso sornione sul volto del suo amico. «Ti ho detto mille volte di non avvicinarti di soppiatto!» lo rimproverò, ficcandosi sottobraccio il libro e il quaderno di chimica che aveva appena recuperato.

«“Di soppiatto”,» Ned mimò in aria le virgolette e si accodò a lui lungo il corridoio, zigzagando tra la fiumana di studenti chiassosi. «Ero lì da
almeno due minuti. E meno male che sei…»

«Zitto,» lo anticipò Peter, tappandogli la bocca con la mano libera in un riflesso consumato, anche se con una prontezza e una punta d’ansia del tutto nuove.

Ned, per quanto non negasse la sua buona volontà di “uomo sulla sedia”, non era molto discreto. Aveva perso il conto di tutte le volte che aveva messo a repentaglio la sua identità segreta e, nella situazione attuale, si sentì ancor più sulle spine al pensiero che potesse inavvertitamente lasciarsi sfuggire qualcosa, anche solo un minimo dettaglio che avrebbe potuto raggiungere le orecchie sbagliate.

Ispezionò rapidamente i dintorni, con pochi, veloci scatti degli occhi allenati, ma non captò nulla di strano. Il ronzio acuto nelle orecchie persisteva, il suo senso di ragno taceva, se non per quel pigolio incessante di fondo che da mesi non riusciva a collocare, e tutto ciò che vide furono volti annoiati di coetanei diretti alle proprie lezioni. Non si soffermò sulla sovrabbondanza di facce nuove, o troppo diverse da come le ricordava, e si decise a concedere di nuovo la facoltà di parola a Ned.


«Che ti prende? Tutto bene?» chiese subito lui, con inaspettata acutezza, e Peter aumentò un poco il passo, attraversando l’atrio e scoccando come sempre un’occhiata straniante alla bacheca invasa di volantini di persone scomparse.

«Sì,» rispose poi, senza girarsi e guadagnando un po’ di distacco da lui sulle scale. «Sì, benissimo, davvero,» aggiunse, rendendosi conto di essere stato troppo laconico, per i suoi standard.

Ned non se la bevve e continuò a tallonarlo.

«Su, cosa c’è? Ieri sei sparito tutto il giorno e adesso sembri su un altro pianeta!» insistette Ned, e a quelle parole Peter percepì un brivido fugace lungo la spina dorsale.

«Per fortuna sono ancora sulla Terra,» lo rimbeccò, involontariamente brusco.

Ned non se la prese a male, anche se si accigliò appena, e continuò anzi ad incalzarlo.

«Ho capito: sei in missione,» affermò, con aria saputa e dandogli di gomito non appena rientrò nel suo raggio d’azione.

«No! No, non sono in missione,» si schermì lui, desiderando in cuor suo di esserlo davvero e di avere una scusa preconfezionata per il suo comportamento anomalo. «Anzi, forse sono in pausa,» buttò lì poi, assecondando l’impulso illogico della propria bocca in cerca di una via d’uscita.

Ned quasi inciampò sui suoi stessi piedi, fissandolo a occhi sgranati e bocca spalancata.

«Che vuol dire “in pausa”?» esalò, sconvolto.

«Che vuol dire “in pausa”?» ripeté Peter, retorico, allargando le braccia con fare ovvio.

Fece per riprendere il tragitto verso l’aula a pochi metri da loro, ma Ned lo superò di scatto, piazzandoglisi davanti a mo’ di barriera. Peter inchiodò nei suoi passi, un’espressione insofferente a segnargli il volto, e desiderò di potersi rimangiare la sua affermazione. Non sapeva neanche da dove fosse scaturita, né se dovesse darle peso; di certo, adesso non sarebbe riuscito a svicolare dalla discussione in modo indolore come avrebbe voluto. O forse, in fondo, aveva
davvero bisogno di parlare con qualcuno.

Trattenne un sospiro all’incostanza dei propri pensieri e una fitta di impulsi gli mandò fugacemente in tilt i sensi, suscitando una smorfia sulle sue labbra.

«Non puoi andare in pausa,» dichiarò Ned, sistemandosi rumorosamente lo zaino in spalla quasi a ribadire quell’affermazione.

«Perché no?» indagò Peter, con lieve sorpresa e una punta d’irritazione.

«Ci siamo già giocati Iron Man e Capitan America, se te ne vai tu chi rimane?»

«Un mucchio di gente,» replicò lui, corrugando le sopracciglia. «E poi, in teoria, abbiamo di nuovo un Capitan America,» puntualizzò, incrociando le braccia e stringendo la stoffa del suo maglione.

«Dai, non è la stessa cosa,» sbuffò Ned, in tono incredulo. «Vuoi mettere col vero Steve Rogers? Insomma, quell’uomo è una leggenda, non si può sostituire!»

«Sì, beh, fa strano anche a me,» commentò, decidendosi infine ad aggirare l’amico e ad entrare in aula. «Ma non sta a noi decidere, quindi che senso ha discuterne?» concluse, scrollando le spalle a far scivolar via quell’argomento di cui, sinceramente, era stufo di sentir parlare.

La notizia ufficiale risaliva appena alla settimana prima, ma lui aveva avuto l’onore e l’onere di osservare a distanza i lunghi, movimentati, ed estenuanti preparativi che avevano portato all’annuncio pubblico del ritiro di Steve Rogers dal ruolo di Capitan America. La faccenda aveva coinvolto quasi costantemente un Tony ancora debilitato e per qualche motivo molto restio ad occuparsi della faccenda. Per il suo mentore, i giorni successivi alla conferenza stampa erano stati un vero girone infernale di telefonate e udienze con gli alti vertici del governo, e in un paio d’occasioni Peter aveva scorto persino il Segretario Ross a zonzo per il Complesso.

Dopo gli eventi del giorno prima e la riluttante conferma strappata a Tony a forza di tacos, non gli era difficile tracciare un collegamento tra quel passaggio di testimone – o scudo – e l’improvvisa convocazione del suo mentore alla Casa Bianca. Bucky era una personalità controversa, e non trovava strano che l’opinione pubblica non lo vedesse di buon occhio come successore di Steve.

«Dicevo per dire,» bofonchiò Ned, un po’ risentito per la sua reticenza. «Stark che ne pensa?»

«Mah…» Peter si sedette di peso a un banco nell’ultima fila, con aria svogliata, e Ned si appropriò di quello accanto. «Non si è opposto.»

Ci rifletté su ancora un istante, col mento affondato nel palmo e lo sguardo rivolto all’esterno, mentre rievocava la fatidica conferenza stampa a cui si era trovato suo malgrado a partecipare come spettatore. Nel corso di quelle tre ore, Tony aveva spiccicato sì e no una decina di frasi, tutte stringate e tagliate con l’accetta, in contrasto con la sua inclinazione a divagare e pretendere per sé i riflettori di turno. Ricordava chiaramente che alla fine, nel vederlo stringere la mano di Bucky per congratularsi, aveva avuto l’impressione che indossasse una delle sue prime armature, vista la pesante rigidità con cui aveva teso il braccio – ed era quello sano.

Raramente aveva visto un sorriso più falso e costipato di quello che era balenato sul volto del suo mentore in quel frangente, e gli occhi schermati dalle lenti scure erano rimasti freddi. Vista la sua decennale esperienza nel fabbricare smaglianti sorrisi di circostanza su misura, era un atteggiamento che gli dava da pensare
.

«Ma non ne sembrava entusiasta,» aggiunse quindi, ad esternare quel dettaglio sul quale finora non si era soffermato più di tanto, ma che adesso gli aveva fatto emergere un vistoso punto interrogativo in testa, come ieri alla Casa Bianca.

Aveva provato a chiedere cautamente spiegazioni a Tony sulle dinamiche della scelta di Bucky, ma lui aveva dirottato questione prima nel suo solito modo sfuggente, e poi con un atteggiamento stranamente brusco che l’aveva fatto subito desistere.

«Vedi? Capitan America non si cambia: la pensiamo allo stesso modo, noi geni,» annuì Ned con un sorrisetto soddisfatto, rimediandosi un leggero spintone da parte di Peter. «Comunque, dovrebbero cambiargli nome… una roba tipo Iron Fist o, che so…» cominciò a rimuginare poi, ma Peter aveva smesso di ascoltarlo, con lo sguardo di nuovo perso oltre la finestra.

Dal giorno prima gli sembrava che, al tramestio di fondo dei suoi pensieri e al mormorio soffuso del mondo circostante, si fosse aggiunto un cigolio spiacevole, di troppi ingranaggi arrugginiti che si rimettono contemporaneamente in moto dopo un lungo periodo di inattività, col rischio di incepparsi ad ogni ticchettio stentato. Per quanto cercasse di individuarli non riusciva a vederli con chiarezza, né tantomeno a intuire la loro funzione o il meccanismo in cui erano inseriti, e non sapeva prevedere se ne sarebbe davvero rimasto schiacciato.

Serrò di riflesso i pugni e gli spara-ragnatele premettero rassicuranti sui polsi.

«Peter!» Ned gli diede un colpetto sul gomito, facendolo sobbalzare. «Guarda che non mi sono scordato. Che vuol dire che vuoi prenderti una pausa?»

«Uh, non è nulla di definitivo, solo…» espirò seccato, non sapendo in realtà come formulare quel pensiero che lo divorava dal giorno prima. «… sto pensando di andare al MIT,» buttò fuori d’un fiato, rilassandosi di colpo nel dire quella mezza bugia. «E… e se andassi al MIT dovrei lasciare New York per qualche anno,» aggiunse, cercando di farla passare come un’affermazione noncurante.

Prevedibilmente, Ned fece tanto d’occhi.

«Serio? È per questo che ieri hai incontrato Stark?» indovinò poi, assottigliando lo sguardo.

«S-sì,» colse la palla al balzo lui. «Voleva solo… capire le mie intenzioni, magari darmi qualche dritta,» mentì ancora.

«Huh-uh, chiaro. Lui ha preferenze?»

«Non si è espresso. Credo che non voglia influenzarmi,» rispose, stavolta con sincerità.

Tirò le labbra, sentendo un piccolo vuoto allo stomaco nel costruire quella pila instabile di bugie dietro la quale cercava di nascondersi da un futuro che gli sembrava troppo vicino e allo stesso tempo irreale. Una chimera informe che lo aspettava al varco dell’età adulta, ghignando tra sé perché si era fatto attendere più del dovuto.

«Tu volevi riamere qui e andare alla NYU,» osservò poi Ned, strappandolo a quei pensieri. «Come mai hai cambiato idea?»

«Non ho ancora cambiato idea,» scosse la testa Peter, chinandosi a prendere il quaderno dal sottobanco. «Sto solo… valutando la situazione. E perché ti interessa?» chiese, aggrottando le sopracciglia e tornando a fissarlo interrogativo.

«Beh, sei il mio migliore amico, certo che mi interessa!» si scandalizzò lui, quasi offeso. «E poi, se ti trasferirai, sentirei la mancanza di un certo ragno di quartiere,» aggiunse sottovoce, con fare cospiratorio, e di nuovo gli occhi di Peter scattarono a controllare l’aula che si andava man mano riempiendo.

«Ma figurati,» proferì, in un filo d’aria appena udibile. «Non se ne accorgerebbe nessuno, forse solo J. J. Jameson che rimarrebbe senza lavoro,» masticò tra i denti, e Ned alzò gli occhi al cielo con scherno. «Se mi assentassi di nuovo per cinque anni si dimenticherebbero tutti di me. Io… io non sono Capitan America, o Iron Man,» asserì, volgendo i palmi verso l’alto in un gesto nervoso, ma stavolta cercò lo sguardo di Ned, che si era fatto più cupo.

«Senti, io non so come abbia reagito la gente cinque anni fa, quando…» scosse ripetutamente la testa, e Peter serrò le labbra, sentendo una morsa alla gola nel ricordare che anche lui era sparito, al tempo. «Ma nessuno potrebbe mai dimenticarsi di Spider-Man,» concluse poi, con un gesto definitivo del capo.

Peter forzò un sorriso a quelle parole, che alle sue orecchie suonarono come un cigolio particolarmente acuto e sgradevole.

 

 

14 Aprile, Prachya Thai, Queens


«Hai intenzione di porre fine alle sue sofferenze, prima o poi?»

Zia May additò con le bacchette il raviolo che stava rigirando nel piatto da cinque minuti buoni, e Peter si affrettò ad afferrarlo e a cacciarselo in bocca.

Si sforzò anche di mandarlo giù con gusto, nonostante al momento avesse lo stesso sapore e consistenza di un bolo di cartapesta.

«Tu e Ned avete di nuovo mangiato fuori pasto?» sospirò May senza lasciarsi ingannare, prima di scuotere la testa e tornare al suo larb.

«Sì, uh, avevamo bisogno di… di zuccheri e abbiamo esagerato coi Pop-Tarts, ma dovevamo finire il progetto entro oggi, sennò chi lo sente il signor Harrington. E abbiamo fatto anche una simulazione d’esame,» raccontò in fretta, sperando che parlare a raffica come sempre potesse distogliere May dalla sua insolita indifferenza verso il cibo thailandese.

Il suo piano B era di lanciarsi nella dettagliata descrizione degli argomenti appena studiati, che avrebbe dovuto farla desistere da ulteriori indagini.

«State veramente prendendo tutto troppo sul serio,» sentenziò lei, fissandolo con un misto di dissenso e materna preoccupazione.

«Per niente,» la contraddisse lui, raddrizzandosi sulla sedia. «Dobbiamo recuperare il programma, prendere tutte A e ottenere la lode, altrimenti…»

«Pete, non credo che l’esame di maturità possa essere più difficile di quello che fai con Tony e Banner in laboratorio,» commentò lei, arcuando le sopracciglia in modo eloquente.

Lui si limitò a masticare in silenzio l’ultimo raviolo, scoccando un’occhiata un po’ nauseata al piatto di nasi goreng che lo attendeva subito dopo. Ignorò di proposito l’osservazione di May, sicuramente guidata dalle migliori intenzioni, ma comunque ingenua: in sede d’esame non gli avrebbero certo chiesto la formula del suo fluido per ragnatele o di costruire un reattore arc.

E ultimamente lui, Ned e MJ erano davvero oberati di progetti, relazioni e compiti supplementari per recuperare i quattro mesi d’assenza a inizio anno. Il preside Morita, in accordo con le direttive nazionali, aveva dato agli “scomparsi” la possibilità di scegliere se riprendere le lezioni direttamente l’anno successivo senza ripercussioni sulla carriera scolastica, o se provare a sostenere comunque la maturità concentrando il recupero in quel secondo semestre. Un’eventuale bocciatura non avrebbe comunque influito sul loro curriculum e, nonostante Peter fosse tornato a scuola con un mese di ritardo aggiuntivo rispetto ai suoi compagni, si era messo d’impegno a salvare il salvabile.

Una sorta di mossa suicida, considerando quanto la prospettiva dell’università lo terrorizzasse. A volte provava la tentazione di farsi bocciare di proposito, così da avere un altro anno di quieta vita da liceale in cui adagiarsi, ma sapeva che così avrebbe irrimediabilmente deluso sia May che Tony. E li aveva delusi già troppe volte, per quanto lo riguardava.


May scelse quel momento per tirare in ballo la questione che Peter aveva già messo in conto di sentirsi piombare tra capo e collo quella sera:

«A proposito, cosa voleva Tony, ieri?» lo interpellò, quasi casualmente.

Continuò ad occhieggiare sospettosa il suo cibo ancora intatto, spingendolo a prenderne almeno un paio di bocconi.

«Pensavo che te l’avesse già detto Happy, mentre eravate a cena,» ribatté, prima di tradirsi con scuse contraddittorie.

Non riuscì a sopprimere una sfumatura un po’ acida nella voce e fissò lo sguardo nel proprio piatto. May contrasse impercettibilmente le palpebre, ma non commentò.

«Harold mi ha detto che Tony ti avrebbe aspettato a Washington, ma quando ho chiesto spiegazioni direttamente a lui, ha temporeggiato per dieci minuti e poi non mi ha detto nulla. Lo sai com’è fatto,» concluse, con uno svolazzo perentorio delle bacchette.

Peter soffiò aria dal naso: sì, lo sapeva, com’era fatto Tony. Cavargli di bocca una risposta sensata quando non era in vena di darla era uno dei compiti più ingrati, infruttuosi ed estenuanti che potesse immaginare.

«Quindi? Che avete fatto a Washington?»

«Uh, nulla di che. Gli ho fatto compagnia per… impegni noiosi, roba burocratica. Poi siamo andati da Taco Bell,» sorrise lui, alzando le spalle.

Prese nota dello sguardo di affilato rimprovero di May, che iniziava a mal sopportare il suo amore per il cibo spazzatura e che probabilmente sapeva tramite Pepper quanto Tony dovesse prestare attenzione alla propria dieta, così si affrettò a continuare:

«Insomma, niente d'interessante. Era un po’ che non mi vedeva, voleva solo che lo aggiornassi su… sulla scuola e le ronde… e il FEAST, mi ha chiesto come andava e se avevi bisogno di aiuto per… per gestirlo, cose così,» aggiunse con un sorriso esagerato, cercando di accattivarsi sua zia dirottando il discorso su un tema che lo annoiava a morte ma che avrebbe forse ammorbidito lei.

«Ah-ha.» Lo sguardo di May si fece penetrante, per niente impressionata. «Peter, se tu e Tony mi state di nuovo nascondendo qualcosa, ti giuro…»

«No!» scattò Peter, in modo estremamente colpevole. «No, davvero, stai tranquilla, non è nulla di…»

«… che non la passerete liscia, stavolta.»

«… importante. E non l’abbiamo passata liscia neanche la prima volta!» osservò poi, suscitando un lampo di soddisfazione sul suo volto, che assunse tratti vagamente malefici al ricordo della leggendaria lavata di capo che li aveva investiti quando aveva scoperto di Spider-Man.

«Su, sputa il rospo, prima che tu mi costringa a disturbare Pepper per sapere cosa diavolo sta architettando suo marito,» lo incalzò infine, con quel tono da “non te lo chiederò un’altra volta”.

Peter si lasciò ricadere sconfitto contro lo schienale.

«È per l’università,» disse, sfruttando prudentemente la versione un po’ raffazzonata che aveva rifilato a Ned.

Era un pessimo bugiardo, ne era cosciente: avrebbe fatto meglio a non perdere il filo delle sue stesse menzogne e mezze verità.

«Ti sta facendo pressioni per il MIT?» indagò May, scrutandolo attenta da dietro gli occhiali.

«Cos- no! No, certo che no, perché dovrebbe?» sbottò Peter, sentendosi colto in fallo, con l’irrazionale ansia che fosse in qualche modo venuta a sapere della sua conversazione con Ned.

«Sembra convinto da… da anni che ti iscriverai lì,» tentennò appena May, sfuggendo il suo sguardo per un istante.

«Beh, si sbaglia, perché non l’ho mai detto,» replicò lui di getto, risentito da quella presupposizione.

Odiava quando sua zia e Tony parlavano di lui dietro le quinte. Si rendeva conto che probabilmente doveva essere così, avere dei genitori, ma era un aspetto di quella stramba collaborazione tra i due di cui avrebbe volentieri fatto a meno. Soprattutto considerando che avevano avuto molto tempo per parlare in sua assenza, e probabilmente Tony sapeva molte più cose di lui di quanto avrebbe ritenuto opportuno come diretto interessato. Quella realizzazione gli rimescolò i pensieri con una ventata di fastidio mista a timore.

«Peter, stiamo solo parlando,» lo rimbrottò May, con fare leggermente più severo. «Nessuno vuole obbligarti a fare nulla.»

Peter gonfiò appena le guance, trattenendo uno sbuffo silenzioso, e impegnò i successivi secondi a tracciare ghirigori tra i chicchi di riso con una bacchetta.

Aveva già intuito dalla breve chiacchierata al Columbus Circle che, rinunciando al MIT, avrebbe senza dubbio spezzato il cuore a Tony. Non avevano mai parlato esplicitamente della scelta, ma era ovvio che covasse un affetto non troppo velato per quel luogo, e Rhodes gli aveva confermato in più di un’occasione che la maggior parte dei bei ricordi adolescenziali dell’amico erano legati al campus.

In un certo senso capiva quanto gli avrebbe fatto piacere vederlo percorrere le sue stesse orme, ma vi erano sicuramente motivi più pratici alla base di quella sua preferenza. Certo, negli ultimi tre mesi Tony si era rivelato molto più sentimentale di quanto ricordasse, complice probabilmente la paternità, ma rimaneva comunque un uomo pragmatico, che di rado agiva senza una ferrea logica di fondo.

Vista la delicatezza della questione, dubitava che il suo premere per il MIT, arrivando addirittura a parlarne con May, fosse frutto di una semplice deriva nostalgica. E la conversazione del giorno prima continuava a punzecchiarlo come uno spillo molesto, ricordandogli che tutte le sue decisioni erano adesso ancorate tramite fili sottili a dei delicati equilibri che ancora non comprendeva del tutto.


«Non mi dispiacerebbe andare al MIT,» disse, costringendosi a usare un tono di voce pacato e noncurante. «Ma dovrei lasciare New York, e…» esitò, per poi limitarsi a indicare col mento la TV alle spalle di May, che mostrava appunto un servizio su Spider-Man.

La sera prima aveva fatto trovare davanti alla porta del 112° distretto della NYPD sette aspiranti rapinatori impacchettati in una carta regalo di ragnatele. Andava piuttosto fiero del proprio operato, cosa che non si curò di nascondere del tutto e che portò sulle sue labbra un sorrisetto trattenuto e un po’ impacciato.

May voltò brevemente la testa verso lo schermo, per poi tornare a rivolgersi a lui con occhi luminosi, anche se non si espresse apertamente. L’attività di Spider-Man continuava a tenerla in apprensione ogni notte, ma Peter sapeva che era stata felice di vederlo indossare di nuovo il costume dopo i primi due mesi di rifiuto categorico. Gli sembrava che avessero trovato un compromesso abbastanza buono sulla questione, che ormai era parte integrante delle vite di entrambi.

«E dovresti lasciare il tuo…» May fece un gesto esplicativo con la mano, facendo per completare la sua frase e interrompendosi nel notare il cameriere che si avvicinava per recuperare i piatti vuoti, «… lavoro,» concluse, neutralmente.

Peter annuì cauto, giocherellando con l’orlo della tovaglia e attendendo di essere di nuovo soli.

«Sì, o… o andare in trasferta,» proseguì poi, dubbioso per quella metafora. «Ma ti lascerei qui,» aggiunse, mordendosi il labbro inferiore.

«Non devi preoccuparti per me,» lo rassicurò subito May. «È una tua scelta, e poi non ti trasferiresti in Texas o in California. Saresti a tre ore di macchina da qui e sono sicura che Tony sarebbe in grado di regalarti un jet o di costruirti un’armatura, se servisse a farti tornare a casa più spesso,» puntualizzò ironica, con una sicurezza che gli scaldò il cuore, anche perché sapeva che Tony l’avrebbe fatto senz’ombra di dubbio.

«Lo so, lo so, ma…»

Si concesse un gesto spazientito, con le parole che gli sfuggivano.

«Non sono ancora sicuro, proprio per… per il lavoro,» sottolineò, ricacciando indietro il resto che premeva per uscire, come una mano prepotente che cercava di spintonarlo in avanti per farlo cadere. «E a Tony dispiacerebbe se me ne andassi interrompendo il “tirocinio”,» disse, mimando delle decise virgolette a mezz’aria, «ma gli dispiacerebbe ancor di più se rinunciassi per principio a una buona università,» formulò, pensando di non essere poi molto lontano da un’interpretazione corretta, anche se basata su presupposti diversi.

Tony era preoccupato per la sua sicurezza, non per la sua istruzione. In quel momento, i dilemmi accademici erano solo il fanalino di coda di una lunga serie, ma non aveva intenzione di puntare i riflettori su problematiche che non riusciva ancora a inquadrare lui stesso.

May notò la sua espressione e si pronunciò in un lieve sospiro comprensivo, allungando poi una mano a sfiorargli con dolcezza una guancia.

«Non devi decidere adesso. Concentrati sulla scuola, dai il meglio di te in tutto ciò che fai, come sempre, e non metterti fretta,» lo rassicurò, con un sorriso gentile. «Il resto verrà da sé. Non importa quello che è successo: hai tutto il tempo del mondo,» concluse incoraggiante, e forse con un lieve scintillio lucido negli occhi.

Peter annuì contro il suo palmo, accogliendo l’impressione che quel mondo fosse un po’ meno cupo e complesso, con zia May a sostenerlo assieme a lui.

«E adesso andiamo via di qui… prima che il cameriere mi chieda di nuovo il numero,» concluse lei, ricomponendosi in fretta e roteando gli occhi al cielo con fare teatrale.

Si alzò con rinnovata energia, dopo aver lasciato i soldi sul tavolo.

«Già… non vorrai far ingelosire qualcuno,» commentò Peter a mezza voce alle sue spalle, in una battuta che gli uscì per una volta spontanea e priva di astio.

«Peter!» lo riprese lei, girandosi di scatto con un misto di imbarazzo e sorpresa.

Lui si limitò a sogghignare sotto i baffi, affrettandosi a imboccare l’uscita.

 

 

15 Aprile, Jamaica, Queens


Era difficile “muoversi in punta di zampe” con uno sgargiante costume rosso-blu addosso e la naturale inclinazione ad essere attratto da ogni reato, illecito e situazione losca gli si parasse davanti, rifletté tra sé e sé Peter quella sera mentre si spostava da un palazzo all’altro in velocità, godendosi il fischio del vento nelle orecchie e la sensazione di vuoto allo stomaco ad ogni ampia oscillazione appeso alle sue ragnatele.

Quella notte in realtà stava procedendo senza eventi degni di nota: stava pattugliando la zona di Jamaica e Jamaica Hills, e finora aveva dovuto solo fermare un conducente brillo e riconsegnare un paio di portafogli smarriti ai legittimi proprietari. La frequenza radio della polizia di zona chiacchierava in sottofondo, con qualche chiamata ed emergenza minore di cui gli agenti si erano occupati con prontezza, e lui continuò a volteggiare pigramente seguendo la griglia regolare delle strade, con le luci dei lampioni che scorrevano rapide sotto di lui in nastri luminosi.

Gli era sempre piaciuta New York di notte, ma ultimamente quello era l’unico momento in cui riusciva a guardarla senza angosce sommerse, forse perché il buio celava le brutture più evidenti che si era lasciata dietro la Decimazione, ancora ardue da cancellare. Inspirò a fondo la fresca aria notturna attraverso la maschera e la buttò fuori assieme a quelle considerazioni, da cui fu strappato del tutto quando l’acuta sirena di un antifurto raggiunse le sue orecchie.

Karen gli segnalò subito l’origine, ovvero un negozio di liquori a meno di un chilometro da lì. Accelerò e si affrettò a svoltare l’angolo in velocità, mettendo rapidamente a fuoco la vetrina rotta in questione. L’allarme s’interruppe in quel mentre, e Peter si appollaiò sul lampione di fronte al negozio, vedendo così due tipi incappucciati intenti a far razzia di bottiglie.

Si schiarì rumorosamente la voce, ed entrambi i criminali alzarono di scatto la testa; uno dei due gli puntò contro una pistola.


«Ehi, signori Delinquenti, non è educato entrare senza bussare!» li riprese in tono severo, strappandogli subito l’arma di mano con una ragnatela.

Questi si affrettò a mettersi a tracolla il borsone con la refurtiva, mentre l’altro sfoderava a sua volta una pistola; Peter saltò giù dal suo trespolo, togliendosi dalla linea di tiro e facendo risuonare a vuoto lo sparo, per poi disarmarlo con un calcio ben assestato sul polso.

«Dovreste…» cominciò, schivando un montante e ricambiando con un gancio, «… imparare…» continuò, scartando di lato, «… un po’…» proseguì, assestandogli un colpo sul fianco, «… di buone maniere!» concluse, mandandolo definitivamente al tappeto con un calcio laterale.

Lo ancorò al suolo con una buona dose di ragnatele, lasciandolo a dimenarsi inutilmente. Si piantò quindi le mani sui fianchi, un po’ a corto di fiato, e spedì un proiettile di ragnatele al secondo malvivente in fuga alle sue spalle senza neanche guardare, inchiodandogli il piede all’asfalto e spedendolo bocconi per terra.

«Uff… ma cosa vi costava arrendervi subito?» commentò, rimediandosi una trafila di insulti molto coloriti che lo convinse a tappare la bocca a entrambi con un po’ di innocua ragnatela-scotch. «Dovreste ringraziarmi, così evito solo che vi accusino anche di disturbo della quiete pubblica!» concluse, spiccando già in una corsa e trovando un appiglio su un palazzo vicino per riprendere a oscillare lungo il tragitto della sua ronda.

Per qualche minuto si godette la tranquillità notturna, soddisfatto del lavoro appena svolto, finché un crepitio di statico non si insinuò nella frequenza della polizia.

«Quelli sulla 91ª sono opera tua?»

Una voce femminile conosciuta risuonò d’un tratto nel suo auricolare, e un largo sorriso si allargò sul volto di Peter.

«Buonasera, Yuri,» esordì, impegnandosi a camuffare leggermente la voce per renderla meno squillante. «Ancora sveglia?»

«Sempre sveglia, di solito a causa tua. E per te sono sempre il Capitano Watanabe,» puntualizzò fermamente. «Allora?»

«Beh, sono l’unico spara-ragnatele in città… quindi direi che, sì, sono opera mia,» confermò lui con malcelato compiacimento.

«Bene, Spider-Cop, se sei ancora in zona magari hai voglia di dare un’occhiata anche ai vecchi magazzini sulla 93ª, vicino alla ferrovia,» gli riferì la donna, stringata e pragmatica come sempre.

Peter prese lo slancio, fece una mezza capriola a mezz’aria e spedì una ragnatela alle sue spalle, compiendo una rapida inversione di marcia mentre Karen già gli segnalava il percorso più rapido tra i palazzi per raggiungere la nuova destinazione.

«Subito, capo,» disse, percependo il mezzo sospiro dall’altra parte della comunicazione per quell’appellativo. «E che succede di bello, laggiù?»

«Ci hanno segnalato “movimenti sospetti” nell’area di carico e scarico. Probabilmente si tratta di merce rubata o contraffatta… è un po’ che teniamo d’occhio la zona,» lo informò lei, che dal rumore del vento di sottofondo doveva essere in auto. «Io per ora sono impegnata a Rego Park con quel racket di armi russo,» aggiunse, con una punta di durezza che gli fece quasi provare pena per i russi.

«Ricevuto, ti informo se scopro qualcosa.»

Peter chiuse la comunicazione, diminuendo gradualmente la velocità man mano che si avvicinava all’obiettivo. Era raro che Yuri lo contattasse, anche se le lasciava sempre aperta la frequenza radio: di solito si limitava a redarguirlo come da copione per la sua ingerenza nelle operazioni della polizia, ma di tanto in tanto gli affidava qualche incarico mediamente rilevante quando era occupata altrove.

Gli piaceva pensare che si fidasse di lui, in barba alla disapprovazione della NYPD per Spider-Man e alle accese invettive radiofoniche di Jameson. Si chiese di sfuggita quanto queste sarebbero diventate aspre dopo l’annuncio pubblico dell’Atto di Registrazione. Chissà se a quel punto Yuri sarebbe stata ancora così disposta a collaborare con lui.


Scacciò quei pensieri nel momento in cui arrestò la sua avanzata e si accovacciò su un tabellone pubblicitario antistante i magazzini ormai in disuso, su cui campeggiava il volto tondeggiante di Campbell, candidato alle elezioni comunali. Molti lampioni erano spenti, o più probabilmente rotti di proposito, e il cortile interno era recintato da una rete di filo di ferro arrugginita e squarciata in più punti. Il lotto adiacente era occupato da uno sfasciacarrozze, coi cumuli di automobili che bloccavano alla vista l’uscita sul retro del magazzino. Un posto perfetto per traffici illeciti, rilevò Peter, individuando anche un furgone nero e sospetto tra le pile di metallo contorto.

Focalizzò l’udito sull’area in questione ed escluse il borbottio del traffico qualche traversa più in là, assieme al pigro sferragliare dei pochi treni merci notturni sui vicini binari; prese nota dei lucernai sul tetto dell’edificio, da cui avrebbe potuto avere un’ottima visuale all’interno.

«Karen, modalità ricognizione,» mormorò, attivando il visore termico e perlustrando i dintorni.

«Una traccia di calore rilevata,» lo informò l’IA, proprio mentre la individuava anche lui, davanti all’uscita sul retro. «All’interno della struttura rilevo altri cinque operativi.»

In un angolo della sua visuale apparve il feed sgranato delle telecamere interne riattivate da Karen, che gli confermò appunto la presenza di cinque uomini, intenti a scoperchiare delle casse con un piede di porco e a ispezionarne il contenuto, in modo decisamente poco legale.

«Ottimo. Primo obiettivo: il palo,» concluse Peter, con un formicolio trepidante che lo attraversò preannunciando lo scontro imminente.

Balzò con una ragnatela ben piazzata sul tetto del magazzino e poi si lasciò cadere a candela sullo sfortunato sesto membro del gruppo, che, più che fare la guardia, sembrava intento a gustarsi la sua sigaretta senza un solo pensiero al mondo. Pochi istanti dopo lo trascinò sul tetto con una ragnatela a mo’ di pesce preso all’amo. Lo lasciò lì, imbozzolato e ridotto al silenzio, mentre lui si affacciava dagli ampi lucernai nell’ambiente sottostante.

L’unica luce proveniva dalle torce degli individui ancora intenti a rovistare nelle casse; erano a volto scoperto, tutti ben piazzati e probabilmente armati. Chiunque fossero, non si stavano preoccupando troppo di essere scoperti… il che voleva dire che erano o molto inesperti, o molto sicuri di sé. In ogni caso, non poteva rischiare un cinque contro uno diretto.

Forzò silenziosamente la chiusura arrugginita di uno dei lucernai e scivolò all’interno, proseguendo poi carponi sul soffitto, invisibile al buio, fino a portarsi direttamente sopra di loro. Cambiò con un piccolo movimento del polso il tipo di ragnatela e la puntò verso i malviventi, senza però trattenersi dal richiamare la loro attenzione:

«Ehi, ragazzi!» esclamò, e cinque torce scattarono in alto all’istante, illuminandolo a giorno. «Dite cheese!» finì, lasciando partire la granata-web.

Il micro-ordigno impattò proprio in mezzo al gruppetto, ed esplose sparando una ventata di ragnatele in ogni direzione; tre avversari furono inchiodati al muro, uno a terra e l’ultimo contro un mucchio di casse. Peter si lasciò cadere con leggerezza a terra, assicurandosi che nessuno di loro fosse in grado di muoversi, e ignorò le loro vivaci proteste miste a insulti per sbirciare oltre il bordo di una delle casse scoperchiate.

I suoi occhi si assottigliarono nel vedere quelle che, a una prima occhiata, riconobbe come confezioni di metadone. Fece un passo indietro, notando solo ora il logo della Oscorp impresso sulla cassa.

Subito si sentì i palmi sudati, assieme a uno spiacevole pizzicore sul retro del collo, come se quel ragno l’avesse appena morso di nuovo. Trattenne l’impulso di grattarsi ed esaminò invece le altre casse aperte, tutte marchiate Oscorp: contenevano merce innocua, perlopiù fusti di vernice a uso industriale, ed erano intonse; le altre, con tutt’altro tipo di contenuto, erano state caricate su un muletto per essere trasportate sul furgone all’esterno.

Un’analisi più approfondita rivelò un’altra partita di medicinali, stavolta codeina, e una di… gas lacrimogeno? Peter prese in mano una delle bombolette: sembrava del tipo solitamente in dotazione alla polizia, e Karen confermò la sua analisi. 
Peter tamburellò pensoso sul bordo della cassa e scoccò un’occhiata obliqua agli uomini ancora immobilizzati e stranamente docili, per poi decidersi a chiamare Yuri. Lei rispose al secondo squillo:

«Hai risolto, Spider-Cop?»

«Uh…» Peter esitò, fissando nervoso il contenuto della cassa. «Sì, sì, niente di più semplice, ma… c’è qualcosa che dovresti vedere.»

«Ovvero?»

«Credo che questi tizi stessero derubando voi, cioè la NYPD, oltre che la Oscorp.»

«La Oscorp?»

La voce di Yuri si fece leggermente più acuta, cogliendolo di sorpresa.

«Uh-huh, la merce rubata è loro…» si guardò attorno, individuando un paio di container sul fondo anch’essi col logo della multinazionale. «… è tutto loro, qua dentro.»

«Arrivo subito.»

 

 

«Prima di tutto, quello che ti dirò adesso rimane tra noi due, è chiaro?» esordì Yuri, non appena ebbe finito di esaminare le casse divelte, voltandosi a guardarlo a braccia incrociate.

I cinque criminali erano già in manette sul furgoncino blindato della polizia, diretti con tutta probabilità a Ryker’s. Peter si accigliò, ma annuì comunque.

«Va bene, capo. Sono bravo a mantenere i segreti,» aggiunse, con tono fermo e un’esitazione che tremolò solo nei suoi pensieri.

«Possiamo parlare come persone normali?» lo riprese lei, inclinando all’indietro la testa per inquadrarlo seduto sul muro a un paio di metri d’altezza.

«Uh, sì… giusto.»

Peter scivolò a terra con lieve impaccio, cercando di assumere una posa sicura di sé. Gli riusciva difficile farsi prendere sul serio così: quando era in una postura normale si sentiva un qualunque adolescente del Queens vestito per Carnevale, e aveva l’impressione che chiunque riuscisse a intuirlo. S’impegnò a rimanere impettito e a tenere il mento alto, in modo quasi sfacciato, e ringraziò che la maschera celasse la sua espressione ben poco convincente.

Yuri, dal canto suo, riusciva a incutere timore nonostante fosse un palmo più bassa di lui e relativamente mingherlina; compensava con l’aggressivo giubbotto di pelle e con il calcio della pistola che sporgeva dalla fondina da spalla, che, appaiati al suo cipiglio spesso severo e agli occhi stretti, facevano rimpicciolire la maggior parte dei criminali che le capitavano a tiro. Lo squadrò da capo a piedi, per poi arrivare direttamente al punto della questione:

«Questo magazzino appartiene a Wilson Fisk,» esordì, facendo irrigidire di riflesso Peter. «È molto probabile che anche gli uomini che hai catturato lavorino per lui… e il fatto che ci sia merce della Oscorp in un suo magazzino non è rassicurante.»

Peter strusciò un piede a terra, riflettendo rapidamente.

«Mmh, Osborn non è esattamente famoso per essere… irreprensibile,» formulò cauto. «Potrebbe essere d’accordo con Fisk.»

«Di questo sono sicura,» ribatté Yuri, con improvvisa veemenza. «Sono anni che cerco di incastrare Fisk come Kingpin e ho sempre avuto il sospetto che Osborn coprisse i suoi illeciti e lo sostenesse nel traffico di droga.»

«Beh, abbiamo appena trovato una pista, no?» commentò Peter, accennando alle casse di medicinali e alle granate. «Questo, più che un furto, sembra un rifornimento a beneficio di Fisk.»

«È un collegamento labile… non possiamo provare che quegli uomini fossero di Fisk. Lui e Norman Osborn passerebbero entrambi come vittime di un banale furto con scasso, e sfrutteranno a loro vantaggio il fatto che parte della merce era destinata alla polizia offrendosi di collaborare con noi,» osservò logicamente Yuri, scutendo appena la testa.

Peter si passò una mano sul collo, cedendo all’urgenza di sfregare il fantasma del morso di ragno nonostante fosse scomparso da anni. Parlare della Oscorp lo metteva in agitazione. Lo faceva sentire come se avesse un debito da estinguere con qualcuno che non si era mai guadagnato le sue simpatie, e verso il quale non era neanche certo di dover essere grato. Scosse la testa, riscuotendosi:

«Anche se sono “coperti” e questa era un’operazione concordata, mi sembra comunque strano che siano stati così… distratti,» osservò, cercando di ragionare e ripensando all’impressione che aveva avuto nel vedere all’opera quei delinquenti. «Hanno agito da principianti… Kingpin usa solo professionisti,» continuò, osservando attento la reazione di Yuri, che con suo sollievo sembrava concordare.


«Sì, e per questo penso che sia stata una disattenzione voluta,» sentenziò, di nuovo con fermezza dettata da un decennio d’esperienza sulle strade di New York. «Abbiamo ricevuto la soffiata di quest’operazione tramite un informatore anonimo. Fisk voleva che noi ci mettessimo sulle tracce di Osborn. Voleva che sospettassimo un’alleanza con lui, ovvero con Kingpin.»

Peter si trattenne dal chiedere esplicitamente il perché, temendo di risultare troppo ingenuo. I giochi di potere non facevano per lui: era un supereroe di quartiere, il suo compito era salvaguardare la gente comune. Spesso gli riusciva difficile ampliare la visuale, ma ultimamente si trovava costretto a farlo troppo spesso; quei suoi diciassette anni mal contati iniziavano ad andargli stretti in un mondo troppo adulto.


«Incastrarlo non sarebbe controproducente?» chiese quindi, mascherando solo in parte la propria perplessità.

«Norman Osborn vincerà quasi certamente le elezioni,» profetizzò Yuri, come se fosse un dato di fatto. «Evidentemente, Kingpin non lo vuole come sindaco e punta a infangarlo.»

«Anche se lo sostiene pubblicamente?»

«Dovresti sapere meglio di me che la maschera pubblica è diversa da quella privata, Spider-Man,» lo rimbeccò lei, senza asprezza ma con una nota d’ironia.

Peter incassò in silenzio, limitandosi ad annuire nel percepire più nettamente il peso nel petto che lo opprimeva da un paio di giorni ogni volta che si parlava d’identità segrete e maschere.

«Osborn è una personalità forte, oltre che narcisista e votata ai propri interessi. Kingpin preferirà piazzarci una sua marionetta…»

«... Campbell,» dedusse Peter, voltandosi a guardare il cartellone elettorale che si intravedeva da uno dei finestroni.

«Probabile,» annuì Yuri con un'alzata di spalle, forse senza ritenerlo un fattore così rilevante.

«E… cosa suggerisci di fare per spedire entrambi in ferie a Ryker’s per qualche decennio?» chiese lui, col solito tono gioviale che gli usciva spontaneo quando indossava il costume.

Yuri indurì i lineamenti, assottigliando pensosa gli occhi.

«La polizia ha le mani legate e troppe mazzette di quei due in tasca… se agissi su iniziativa personale mi troverei trasferita a Oyster Bay, o peggio, e assemblare una task force sarebbe controproducente e attirerebbe troppo l’attenzione…» ragionò a raffica, quasi tra sé.

«Beh, io attiro già l’attenzione, e in effetti sono una specie di task force,» ribatté lui d'impulso, con più sicurezza di quanta sentisse. «Quindi, se per ora indagassi per conto mio…»

Lo sguardo di Yuri si fece interessato.

«… avresti molta più libertà di movimento di noi e potresti raccogliere più informazioni per conto nostro,» concluse, incrociando le braccia e affinando gli occhi. «Sì, avrebbe senso,» concordò, senza sbilanciarsi troppo e lanciandosi di riflesso un’occhiata alle spalle.

«Affare fatto, allora?» propose Peter, tendendole d’istinto la mano.

Yuri lo scrutò così intensamente che per un momento credette che riuscisse a vedergli attraverso la maschera.

«Affare fatto. Adesso sei ufficialmente Spider-Cop,» concluse con un accenno di sorriso, accettando l’offerta con una stretta decisa.

Peter si sentì quasi schizzare il cuore dal petto per la trepidazione, e si aprì in un largo sorriso sotto la maschera.

Poco più tardi, fissati i dettagli dell'operazione, sfrecciava di nuovo nel cielo notturno dopo aver accampato una scusa su alcuni impegni urgenti – rivelare che il coprifuoco di zia May fissato alle due stava per scadere avrebbe minato la sua credibilità – e per la prima volta in tutti quei mesi si sentì veramente e in tutto e per tutto Spider-Man, impegnato a proteggere la sua città. L’università, i cinque anni di buco, l’Atto di Registrazione: tutto scivolò per un istante in secondo piano; diventò minuscolo, come se lo stesse guardando dalla cima di un grattacielo che solo lui poteva raggiungere.

Quella notte si rigirò a lungo nel letto, con un misto di ansia e aspettativa che continuava ad assestargli delle schicchere elettriche lungo le sinapsi impedendogli di addormentarsi. Eppure, l’euforia per quella nuova missione era disturbata da un subdolo, strisciante presentimento di fondo che gli serrava le viscere, ricordandogli che, forse, adesso non stava procedendo esattamente “in punta di zampe” come gli aveva consigliato Tony.

Anzi, aveva la netta impressione di essersi appena piazzato proprio tra le ruote dentate di quel meccanismo difettoso.



 




 
Note:

La scelta di Bucky come nuovo Capitan America è oculata e non intesa come una ripicca verso Endgame; anzi, trovo che Sam sia molto più indicato di lui sotto tutti i punti di vista. Detto questo, Bucky è canon nel fumetto e il tutto troverà spiegazione in seguito.
– Si presuppone, come in tutte le mie storie, che gli unici a sapere i fatti della Siberia siano le persone presenti nel bunker all'epoca, e che Tony non abbia rivelato la cosa a nessuno, se non Pepper e Rhodey.


Note Dell'Autrice:

Cari Lettori:
ammetto che un po' fremevo per pubblicare questo capitolo (pure perché oggi a Roma si festeggiano San Pietro e Paolo e mica potevo rimandare, visto che qui c'è il San Peter de noantri).
Spero che la lettura non sia risultata troppo pesante, vista l'abbondanza di dialoghi e nuove informazioni, ma mi serviva un capitolo col quale gettare le basi per alcuni temi della storia. Ho volutamente dosato i dettagli, optando per rivelarli a poco a poco, piuttosto che fare spiegoni su spiegoni, limitandomi a quelli strettamente necessari. Comunque, da qui in poi si entra nel vivo ;)

Ringrazio immensamente tutti coloro che hanno commentato gli scorsi capitoli, ovvero
T612, Miryel, shilyss e _Atlas_, che si beccano un abbraccio enorme anche se fa un caldo disumano <3 Grazie infinite anche a tutti coloro che seguono silenziosamente e/o hanno aggiunto la storia tra le preferite/ricordate/seguite <3 Non siate timidi e fatevi avanti, ogni commento è gradito e apprezzato! <3

Detto questo, vi aspetto al prossimo capitolo, che spero di pubblicare presto... sessione e caldo permettendo :')
Sayonara,

-Light-
   
 
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