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Autore: Makil_    04/07/2019    4 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



«Cinghia» fiatò sommessamente ser Dayn. «È lui, poco ma sicuro.»
Il rumore dei pesanti passi, attutito dalla possanza delle pareti delle Celle Rosse, poteva essere avvertito se schiacciato completamente l’orecchio contro la fredda parete della prigione.
«Dove hai sviluppato così finemente il tuo udito?» domandò incuriosito patres Steffon, la seta dell’abito sgualcita, seduto sul pavimento lastricato all’angolo della cella.
«Ci sono cose che un falconiere deve saper sviluppare se non vuole che i suoi uccelli volino via da lui.»
Ser Mark, nell’altro lato della cella, la schiena poggiata contro la robusta parete grigia, si stava grattando via il fango dai palmi. Lui e ser Dayn si erano ripresi quanto prima, dopo una lunga settimana di permanenza là sotto, e lo avevano fatto nel migliore dei modi. Ser Mark giurava però di non ricordare nulla del momento della sua cattura, né del luogo in cui era stato acciuffato. Le uniche memorie che la sua mente riusciva a suggerirgli erano immagini di stalloni imbizzarriti che gli correvano attorno, a detta sua, e di cavalieri vestiti di cuoio che lo additavano e gli sputavano in faccia. Era stato un bel trauma per lui, quel risveglio tanto differente dai soliti, e aveva realizzato solo molto tardi la sua condizione di prigioniero. Aveva addirittura provato a pizzicare violentemente le sue guance e la sua pelle, come con l’intento di risvegliarsi da un brutto incubo. Ma, ovviamente, ser Mark non aveva fatto altro che ingigantire i suoi lividi e le sue ferite, sparsi ormai in ogni zona del suo corpo, più vigorosi di una radice appena fuoriuscita dal terreno.
«E non è solo» mormorò Bartimore. Lui di certo non era un falconiere di professione, ma sapeva riconoscere bene quando quattro passi non erano invece due.
«Ha ragione». Ser Mark si fece guardingo e alzò il capo. «Chi arriva?»
«Cinghia e Cargo» fece ser Dayn. «Giuro di poterne sentire il respiro e l’alito fetido.»
«Faresti meglio ad allontanarti dalle sbarre, Dayn» gli disse Steffon. «Nessuno dei due accoglierebbe bene la tua sfrontata curiosità.»
Quei due carcerieri a cui erano stati affidati erano uomini crudi e corpulenti, senza un solo pelo sulla lingua, ma tanti sul petto e sulle gambe. Cargo, quello che si occupava personalmente di loro, aveva una bocca spropositatamente larga, tanto che a volte si dannava della sua incapacità nel tenere a freno la lingua. Era questo, forse, che facilitava il lavoro di Dayn e che gli consentiva di avvertire i suoi bisbigli e i suoi respiri rauchi anche a cento piedi di distanza ogni volta che l’uomo si avvicinava. Dopotutto, le Galere Rosse, benché fossero piene di prigionieri, sapevano far mantenere loro un silenzio tombale, più rigido delle sue stesse purpuree pareti.
Ogni notte e quasi sempre alla stessa ora, Bartimore poteva giurare di sentire il rumore dello scricchiolio delle ossa di coloro che erano stati condannati a dormire sul gelido lastricato; il movimento rabbioso delle unghie sulle pareti degli uomini a cui era toccata la stessa loro sorte, o ancora lo stridere dei denti di tutti quei prigionieri che meno di ogni altri sapevano mantenere la calma. Nel mezzo della notte, i suoni più macabri non erano gli schiocchi delle cinghie di Cinghia né i pesanti tonfi dello scudiscio di Cargo, dei sassi di Bord o della correggia di cuoio di Zobo, ma i lamenti dei condannati che si contorcevano nelle loro celle, sfogando la loro furia sulle loro stesse membra.  In effetti, nella notte, persino le pareti riuscivano a divenire imponenti inquisitori: le grate si trasformavano in aguzzini gelidi e senz’anima, e gli amici potevano divenire nemici con la stessa rapidità dell’emissione di un sospiro.
Per fortuna, però, Bartimore poteva contare sull’onestà e sulla bontà degli uomini con cui condivideva la cella: uomini che ormai erano come fratelli per lui.
I passi macabri e pesanti dei carcerieri iniziarono a farsi sempre più forti, finché non scomparvero per lasciare il posto alla grossa e grassa figura di uno solo dei due sorveglianti: Cargo.
«Prigionieri» tuonò la grossolana figura dell’uomo dal volto burbero dall’altro lato delle sbarre. «È l’ora della cena.»
Cargo veniva tutti i giorni alla stessa identica ora, con le mani farcite di indumenti per i nuovi prigionieri, piatti con appena un briciolo di cibo e con tutte le sue immancabili armi di tortura a tenergli compagnia. Tra tutte queste, la più fastidiosa era anche quella che più maneggiava con destrezza: il suo lungo scudiscio di cuoio che, tra un ammonimento e l’altro, sapeva far vibrare con una forza dannatamente disarmante e spaventosa, producendo rombi in grado di sfidare il più tenebroso dei tuoni.
Era difficile dire che ora fosse là sotto, nelle Galere Rosse di Ockswert, poiché il sole e la luna non potevano mai essere osservati dalle profondità a cui erano stati relegati. Pur tuttavia, un piccolissimo anfratto sul tetto permetteva talvolta alla luce di farsi strada nella piccolissima cella in cui erano confinati, rendendo più facile capire in che momento della giornata fossero. Bartimore aveva imparato a capire molte cose osservando il comportamento dei carcerieri, le parole di Cargo e la luce esterna. Al momento, per esempio, poteva affermare con chiarezza che fosse più o meno l’ora dell’ultima cena dei prigionieri, momento in cui i carcerieri terminavano il loro lavoro e andavano a dormire nelle loro celle sotterranee. Il chiarore delle stelle, che sibilava appena dalla fessura nel tetto, confermava la sua ipotesi.
«Uomini». Cargo afferrò una delle sbarre con la sua destra possente e strinse la mano attorno al freddo acciaio. «In piedi. Immediatamente». Le parole di Cargo sapevano essere pungenti: quell’uomo non aveva neppure un briciolo di sentimento.
Ghignando qualcosa, il carceriere afferrò un solo unico piatto e lo fece passare dalla fessura presente sotto alle sbarre. La porzione di cibo doveva bastare per tutt’e quattro e, che lo desiderassero o meno, dovevano mangiarlo obbligatoriamente, pena una scudisciata dritta sul volto e tre sulle dita di ogni mano.
Cargo aveva portato un piatto diverso dal solito: una piccola montagna di piselli crudi, attorniata da un paio di patate sbucciate con noncuranza, un pesce dalla lisca già in vista e un tozzo pezzo di pane.
«Cargo». Steffon richiamò l’attenzione del carceriere, la voce incolore e il volto distrutto. «Possiamo avere un po’ d’acqua?»
«No». Il tono del carceriere non ammetteva replica.
«Per favore…»
Il tonfo della scudisciata dal macabro aguzzino riecheggiò lungo tutto il corridoio principale. La sbarra colpita vibrò a causa della forza impiegata dal carceriere. Cargo avvicinò la faccia alle sbarre. «La prossima volta sui denti.»
Il carceriere era un uomo dalla fronte alta e i capelli bianchi sulle tempie. La barba grigia per nulla curata si estendeva su metà della pelle cascante del suo viso. Bart non sapeva dire se avesse più peli sulle guance, sotto al collo o dentro al naso e alle orecchie. Da quando lo aveva conosciuto, Cargo non aveva osato cambiare anche solo minimamente il suo vestiario: grezza cappa di cuoio strappata appena cinta ai fianchi, biancheria intima in perfetta vista, una spessa collana ad anelli di acciaio che pareva essere pronta a strangolarlo e una fila di denti ingrigiti e sporchi quanto il suo animo.
Patres Steffon non arretrò né si lasciò impaurire dal colpo. «Cargo, guardaci» gli ordinò poi. «Guardaci e dicci cosa vedi di noi.»
«Prigionieri» rispose lui. Il carceriere non possedeva neppure un briciolo di intelletto; era tutto forza e niente cervello. «Uomini che pagano per la loro colpa.»
«Uomini che hanno fame, sete e tanta voglia di cure e assistenze. Cargo, te ne prego, dacci un po’ d’acqua e…»
Lo scudiscio s’infranse nuovamente sulle grate. «Ti ordino di stare zitto. Il cibo ce l’avete e vi basta. Continua a parlare e ti uso come bersaglio, prigioniero.»
«Ma Cargo,». Steffon si avvicinò alle grate ed afferrò una delle sbarre con la sinistra. Utilizzò invece l’indice destro per indicare i suoi amici. «Guarda ogni mio compagno e poi guarda anche me, vedrai uomini distrutti e sanguinanti. Ser Mark ha bisogno di cure mediche… o morirà! Cosa faresti se qui, al nostro posto, ci fosse tua madre?»
Cargo avvicinò la sua faccia paonazza a quella esile di Steffon. «Mia madre è morta» sussurrò. «E se la nomini di nuovo tu andrai a farle compagnia all’inferno.»
Patres Steffon stava rischiando davvero grosso, ma il suo piano gli era stato spiegato già un paio di volte. Il grosso e flaccido Cargo aveva un pozzo al posto della bocca, un buco enorme che era causa della sua inclinazione al pettegolezzo e alla petulanza. Steffon avrebbe giocato proprio su questo per estrapolare al carceriere quante più informazioni possibili sul conto di Ockswert; notizie che avrebbero potuto salvarli tutti, a detta dell’esperto, malgrado nessuno di loro sapesse in che modo.
C’era quasi sempre freddo per quei poveri condannati all’interno delle Galere Rosse, che forse erano chiamate in quel modo proprio per deridere la mancanza dell’opprimente calore che gravava all’esterno. Nell’intricato ammasso di cunicoli sotterranei del palazzo di Ocskwert, si mormorava tra un carceriere e l’altro che la freddezza delle sbarre era in grado di far tremare i condannati più di ogni altra cosa.
Nonostante tutto ciò, però, Bartimore si sentiva pervaso da un senso di calore fin troppo assillante, e il nervosismo gli faceva ribollire facilmente il sangue sulla fronte. C’erano momenti del giorno in cui Bartimore diveniva addirittura irruente e fastidioso, momenti nei quali il giovane pargolo di Sette Scuri tremava sul letto di paglia della cella per l’arsura. A detta di Steffon, il suo insolito comportamento era da rimandare alle ferite che gli erano state inferte a Roshby, e alla febbre che queste gli avevano causato.
Tutto quel sentire tuonare Cargo stava facendo venire un doloroso mal di testa a Bartimore, la cui vista era già abbastanza annebbiata dal dolore.
«Cargo». Steffon continuò a dar corda al carceriere. «Sai che sono un esperto, non è così? Noi uomini dell’Accademia sappiamo bene dove risiede il frutto della conoscenza, l’essenza e la potenza del denaro. Ho le mie ricchezze anch’io, devo ammetterlo, e anch’io ho servito uomini potenti. I miei amici potranno confermarti che sono tutt’ora un esperto di Ardua Scogliera. Ora che Ortys Wysler è deceduto io potrei sottrarre alla sua famiglia ogni suo denaro e consegnarlo a te, Cargo. Diverresti ricco fino al midollo e potresti permetterti il lusso di comprare ogni genere di cosa tu desideri possedere; dall’amore fino ad un intero castello.»
«Non mi interessano queste cose». Lo scudisco saettò di nuovo sull’acciaio e Steffon lo schivò per poco: arretrò e si posizionò di nuovo sulle sbarre.
«Pensaci, Cargo, pensaci. Potresti diventare ricco sfondato, avere una nave, tredici carrozze, una torre… uno scudiscio nuovo, magari! Ma se fai del male a me o ai miei compagni, io saprò cosa fare quando sarò fuori da questo posto. Mi basterà mettere una parolina nell’orecchio di un mio superiore e tutto ciò che ti appartiene ti sarò sottratto: scudiscio compreso.»
Lo stesso scudiscio di cui l’esperto parlava tanto schioccò contro di lui colpendolo sullo zigomo. «Morto, sei morto.»
Steffon si massaggiò la zona colpita. «Valgo molto più da vivo che da morto, Cargo, riflettici. E per te ci vorrebbe un cervello al tuo pari… ecco, quello non potresti comprarlo neppure vendendoti come schiavo.»
Il burbero carceriere non resistette un secondo di più. Un sonoro tonfo metallico preannunciò l’apertura della cella, la cui grata fu mandata a sbattere contro la fredda parete di pietra. Come fosse un gigante, Cargo si avventò contro Steffon e lo afferrò per il collo, lo sbatté contro la parete e gli puntò contro il suo grosso pugno. In quell’istante gli altri tre si fiondarono su di lui e lo circondarono.
«Fermo!». Steffon mise avanti le mani, per la prima volta tremanti. «Cargo! Cargo, basta così. Forse ho osato troppo.»
Cargo afferrò lo scudiscio e glielo scaraventò sei volte sulle mani aperte. «La ricchezza non salva la pelle» disse. «Quell’uomo là dentro è ser Carwen Vreyn, figlio del castellano di Dartstorm». Cargo indicò la cella che si apriva esattamente di fronte alla loro «E a lui è toccata una sorte peggiore della vostra, anche se il suo oro era più di quello tuo. Sai dove lo trovarono? Ser Walifer mi ha raccontato che si nascondeva nella garitta vicino all’ingresso di Ocskwert, mandato dalla Signora dei Merletti a spiare le nostre operazioni di guerra: dannato spione schifoso! Ser Ventrefloscio gli mozzò il piede sinistro e il Falso Esperto diede la sua sentenza. Sai cosa gli fecero? Ah, una disgrazia davvero crudele! Aveva guardato troppo, e per questo gli cavarono via un occhio. Aveva sentito troppo, e per questo gli conficcarono un sasso nell’orecchio destro. E aveva parlato troppo, prigioniero, e per questo gli cucirono le labbra con l’ago e lo spago.»
Bartimore rabbrividì. “Quale pessimo sovrano userebbe ancora il metodo della legge del taglione per applicare la propria autorità sui prigionieri?”
Steffon mandò giù un grumo di saliva. «Che cosa vuole questa Signora dei Merletti?»
Cargo parve assumere un’aria sapiente, posò il frustino alla cintola e lasciò la presa sul collo di Steffon, che tastò immediatamente con entrambe le mani la parte stretta dal carceriere.
«Quello che vuole è riprendersi Ockswert» grugnì Cargo. «Il nostro signore si è rifugiato qui qualche anno fa. Anzi, ora che ci penso bene, sono passati esattamente due anni da quando sono stato costretto a spostarmi in queste celle… sì, ecco, ora ricordo, è stato nel mezzo della prima ribellione. Sai, esperto prigioniero, il nostro signore ha avuto allora il primo problema con la sua Signora dei Merletti.»
«Che genere di problema?». La domanda di Steffon racchiudeva in sé molta curiosità. Spentasi la tensione attorno a loro due, ser Dayn e ser Mark abbassarono la guardia e tornarono a sedersi per terra.
«Un problema di poco conto, all’inizio. Anzi no. Non ricordo bene come sono andate le cose, ma se non sbaglio è stata la Signora dei Merletti a combinare la prima discussione. Mi è stato detto che la Signora dei Merletti tradì Roscart Wargrave nella loro stessa camera, e il mio signore dunque andò su tutte le furie quando scoprì di avere un bel paio di corna sotto ai capelli. La storia andò avanti per un bel po’, e i due smisero di amarsi in poco tempo. A corte non si faceva altro che mormorare, e mormorare, e mormorare. Bisbigli che diventavano presto nuove minacce per la salute di tutt’e due i signori, che presto finirono per non potersi più vedere. Iniziarono a dormire in stanze separate, a mangiare in tavole diverse, a dividersi addirittura la fortezza. In breve tra i due non ci fu più un saluto né una parola, e da amici, amanti e sposi, finirono per diventare nemici pronti ad infangarsi con pale e spranghe che non mancavano di sbattersi sui denti.
«Ad un certo punto, poi, prima che Roscart scendesse in guerra, fu costretto a sostenere una rivolta contro il suo stesso popolino che, arrabbiato a causa della poca importanza che riceveva, finì per prendersela contro il castello di Giardino Fiorito. Fuori dalla sua fortezza, là a Giardino Fiorito, nel momento in cui uscì, perse la sua dignità. La Signora dei Merletti ordinò di sbarrare ogni accesso al marito e comandò alla sua guardia reale di abbattere gli uomini di Roscart Wargrave. A lui non fu più permesso di entrare nella sua casa. Dovevi vedere come me la ridevo io, così tanto e così forte che il suo Bennor mi fece pure questo». Cargo scostò la manica della sua cappa di cuoio mettendo in mostra uno spaventoso marchio impresso sulla pelle, raggrinzita ed incartapecorita nel punto in cui un anello sembrava averlo sfiorato.
Steffon contrasse le labbra come inorridito dalla vista. «Cosa ti ha causato ciò?»
«Il fuoco, prigioniero. Ti dico che l’incubo fu bruttissimo quel giorno di due anni fa. Ti dico che tutto il pomeriggio e tutta la notte si sono viste fiamme alte quanto un bastione di pietra. Il popolino infiammava le proprie abitazioni svuotate per ripicca, gli uomini Wargrave bruciavano i possedimenti della signora per odio, e la signora bruciava ciò che apparteneva a Roscart per rancore. Pareva di essere all’inferno quel giorno, dannazione! Cadaveri, cadaveri e ancora cadaveri. Uomini fatti a brandelli lungo le strade, corpi bruciati di animali mischiati a quelli di uomini e cavalieri. C’erano morti ovunque, prigioniero, e io non ero ubriaco.»
«La tua ferita…»
«Una cosa da niente che io porto con immenso piacere: me la sono meritata». Il carceriere si esibì in un sorrisino mellifluo e piegò il braccio come a mostrare la sua forza. «In confronto a quello che faranno a voi, poi è proprio niente di niente. Comunque, quando la Signora dei Merletti cacciò Roscart dalla sua stessa rocca, facendola circondare giorno e notte da cavaliere della sua scorta privata, il mio signore fu costretto a fuggire via con trenta dei suoi uomini, qualche membro del popolino ed il suo castellano. Ancora oggi, dopo due anni, i due sposi si beccano a distanza, punendosi a vicenda e facendo morire per loro i loro stessi uomini. La Signora dei Merletti dice di volere Ockswert per poter consolidare il suo dominio sulla corona Wargrave, mostrando il suo diritto di nobile, mentre Roscart pretende di riavere indietro il suo regno e la sua dignità d’uomo.»
«Ci sono leggi chiare all’Accademia, e una di questa dice che la signora di un regno…»
«Con le leggi dovresti tapparti la tua fogna di bocca». Cargo riafferrò lo scudiscio. «Ora mangiate queste schifezze e fatela finita. La Cagna dei Merletti è ancora affamata.»
«Ma noi non abbiamo nessuna colpa!». Questa volta a tuonare fu ser Mark, colto da un improvviso impeto di rabbia. «Al diavolo voi e il vostro problema! La vostra guerra non ci appartiene! Volete sforzarvi a capirlo?»
Lo scudiscio sibilò sferzando l’aria e si schiantò sulla faccia di ser Mark, che cadde violentemente sulla schiena. «Colpa ne avete eccome!» imprecò Cargo. «Ma vi sentite, donnette? Confessate!». Lo scudiscio si schiantò verso ogni direzione, sulle pareti e contro le mani di nuovo alzate di Steffon. «Confessate!». Un altro colpo, sempre più forte colpì la parete. «Solo la confessione vi salverà. Umiliatevi come avete fatto umiliare Roscart Wagrave e forse sarete liberi, prigionieri!»
Così facendo e dicendo il carceriere si allontanò dai quattro tenendo alta la sua arma, rigidamente contratta e pronta a schioccare ancora contro di loro, e si fece strada nel corridoio buio dopo aver duramente serrato l’ingresso della loro cella.
«Steffon». Ser Mark si avvicinò al compagno massaggiandosi la guancia arrossata, un filo bianco sottile impresso sulla pelle in prossimità del colpo. «Stai bene?»
Il patres si tastò più volte la base del collo e le dita delle mani, il corpo compresso e schiacciato contro la parete di pietra. «Sto bene» fece. «Voi, piuttosto… vi ha fatto del male?»
I tre scossero la testa.
«Non dovevi farlo, Steffon» mormorò ser Mark. «Quell’uomo è un pazzo schifoso. Presto o tardi ci farà male, davvero male… e non riusciremo mai a sostenere così un processo.»
Bartimore non riusciva a seguire il filo logico dei discorsi: tutto quel parlare e tutti quegli assordanti rumori prodotti dal frustino di Cargo lo avevano confuso a tal punto da costringerlo al lettino. Le tempie gli pulsavano, la nuca gli faceva male come fosse stata appena colpita da un bastone. Ogni giuntura del suo corpo doleva e lui tremava ora per un freddo penetrante, consapevole però che esso fosse inesistente.
Il giovane cavaliere portò la sinistra alla fronte e tastò i lati della testa con le dita: iniziò a massaggiare il cranio.
«…e lui può rivelarci molto… fate fare a me… amici… ecco… vi dico che…»
Le parole di Steffon stavano iniziando a risuonare lontane dalla sua mente. In breve gli si offuscò completamente la vista, lasciando spazio ad una fredda barriera bianca e grigia, come se la cella fosse stata improvvisamente ricoperta da una spessa coltre di nebbia. E gli stessi agghiaccianti nugoli bianchi lo avvolsero da capo a piedi all’istante, facendolo ricadere di peso per terra. Il tonfo del suo cranio battuto sul robusto pavimento fu l’ultimo suono che Bartimore avvertì prima perdere completamente i sensi nel bel mezzo di tutto quel disorientate vapore.
Fu strano precipitare in quell’ammasso di luce. E fu strano sognare di un sogno mai sognato prima.



♣ Angolo d'autore ♣
La forzata prigionia ha messo i nostri con le spalle al muro: ser Mark e ser Dayn, che già versavano in una complicata situazione, ora sono ridotti allo stremo delle loro forze. La stessa sorte è toccata al giovane ser Bart, a quanto pare. Che pensate della loro malattia d'animo e di corpo? Cosa credete sia successo a Bart e come pensate possano riprendersi - se lo faranno - tutti? 
Conosciamo, in questo capitolo, la figura del carceriere Cargo: come ritenete questo personaggio? E che giudizio date ai suoi modi di fare? Pensate sia obbligato a comportarsi in questo modo? 
Per finire, che ne pensate del piano di Steffon, ossia spulciare tra le informazioni in possesso di Cargo per vincere con l'eloquio i suoi avversari? Credete che potrebbe riuscirci? 
Insomma, ditemi tutto ciò che pensate e non mancate di porre domande in caso di dubbio: dopotutto la carne sul fuoco è molta... e già qui abbiamo una prima anteprima di cosa potrebbe essere successo tra i due signori separati in divorzio. Esponete pure le vostre teorie!
Un grazie a tutti e un abbraccio... al prossimo aggiornamento, con un capitolo molto particolare! [giovedì 11 c.m]
Makil_
   
 
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