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Autore: Makil_    11/07/2019    3 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



Non ci sono più pareti attorno al suo corpo e il sole è finalmente tornato a splendere nel cielo.
Tutt’attorno a Bartimore si estendono file di muretti bassi popolati da viticci profumanti e freschi, colmi della sfarzosità di grandissime quantità d’uva. Il sole coi suoi raggi illumina tutto quel bene rendendolo più invitante del normale.
Bartimore è fermo al centro di un incrocio su una strada spoglia, rinsecchita dal cocente calore dei raggi solari, seduto su un masso circolare dalla superficie scabra. Nella mano stringe un pugnale sporco e grondante di sangue ancora fresco. La pelle del braccio è completamente attaccata alla superficie calda della pietra.
Il vento ulula il suo nome facendolo rabbrividire, nonostante il clima torrido del posto. «Bartimore, Bartimore, Bartimore, Bartimore!». A destra a sinistra ci sono due stradine scoscese che risalgono dalle pendici delle colline poco più lontane.
Ed è esattamente sulla stradina di destra che una figura austera, rigida come se scolpita nel bronzo, arranca a brevi passi. Il sole copre a lungo la sua figura, ma l’ombra vigorosa che crea sulla strada riesce a far capire a Bart chi sia: Dalton Kordrum, perfettamente sistemato e curato come dovesse partecipare ad un importante udienza privata, lo sta raggiungendo. Dal suo petto sgorga molto sangue, e Dalton tiene entrambe le mani pressate sulla ferita, come a voler arrestare la fuoriuscita della sua rossa linfa vitale.
«Padre!». Bartimore è colto da un’improvvisa gioia nel rivederlo, ma quando fa per balzare giù dal macigno circolare si rende conto di essere attaccato al sasso. “Che vuol dire tutto ciò?”. Bartimore non riesce a spiegarsi come sia possibile una cosa del genere.
«Bartimore» pronuncia ancora il signore di Sette Scuri. «Ti senti felice ora che sono morto, non è così? Mi hai deluso Bartimore». Dalton gli cammina contro. «Avevi un compito da rispettare, e hai miseramente fallito.»
Bartimore inizia a piangere sommessamente. «Dalton… padre… io…». Preferirebbe ricevere una sfilza di pugni sul volto piuttosto che sentire quelle parole. Da Dalton, per giunta.
«Tu non sei un vero cavaliere» gli dice con violenza. «Tu non sei neppure il mio vero figlio.»
«Lo so» risponde lui tra un singhiozzo e l’altro. «Padre…»
«Padre disgraziatamente di un figlio mai stato mio ed ingrato per giunta. Il tuo amore è odio per me». La sentenza di Dalton Kordrum è agghiacciante come lo spiffero del vento invernale sibilante tra gli anfratti umidi di una caletta sempre baciata dal sole.
Dalton Kordrum si avvicina al masso su cui è legato Bartimore, lo sguardo totalmente perso nel vuoto, come incapace di riconoscere chi ha di fronte. Nella mano sinistra stringe violentemente un grosso ceppo scuro appena sradicato dal suo fusto.
«Ho messo onore nel strappare il braccio di questa pianta». La voce del signore di Sette Scuri non è mai stata tanto cupa. «Ma gli ho fatto male comunque». Dalton getta il suo ceppo ai piedi della roccia.
Bartimore lo fissa, perché altro non può fare. «Dolore… padre… mio signore…». Quando mai lo aveva chiamato così?
«L’onore è dolore». Le membra di Dalton Kordrum sbiadiscono fino a divenire l’ombra della sua stessa figura.
Bartimore si guarda attorno, scruta oltre la presenza dei bassi muretti che fanno da contorno a quella drammatica scena. E nel dolore tenta in tutti i modi di asciugarsi le lacrime che ormai gli solcano il viso, tenta di strappare la sua pelle in modo tale da sollevarsi e mettersi sulle due gambe. Le forze sembrano essergli venute meno proprio ora, come se il suo corpo sia stato adeguatamente prosciugato di ogni impulso.
A quel punto è un fruscio a comunicare un’altra presenza a Bartimore. I goffi e pesanti passi preannunciano l’arrivo di un corpo possente, talmente grosso da essere costretto a tirare su i piedi dal fango in cui rimangono sotterrati. Ben prima che il giovane ser legato alla roccia giri la testa verso la strada di destra, l’acre odore del sangue e del vino gli lasciano intuire di chi si tratti.
«Ortys» sussurra Bartimore. «Ortys… tu… ti prego Ortys… abbiamo bisogno di te.»
«I morti sono destinati ad essere dimenticati» ruggisce Ortys senza neppure badare a lui. Il gigante di ferro di Ardua Scogliera si posiziona di fronte alla roccia. Le sue callose e possenti mani reggono due enormi ceppi ripieni di anelli piccoli e grandi. Li scaglia per terra con noncuranza e poi rialza rapidamente lo sguardo. «E un uomo che cavalca senza meta è destinato a perdersi nel mondo.»
La possanza di Ortys inizia a svanire tutto ad un tratto, come se le radici di quei ceppi ormai morti siano tornate in vita sotto ai piedi del nobile signore e, per discreta vendetta, abbiano richiesto il corpo del loro assassino.  
«Ortys no!» urla Bartimore. La voce tenta di strozzarlo nel giro di pochi istanti, ritorcendosi contro di lui.
Solo a quel punto Ortys Wysler sembra accorgersi della sua presenza ed inizia a fissarlo con un’espressione incolore, vuota… un atteggiamento tipico dei morti.
«Avresti dovuto scavare una fossa per me, fottuto cavaliere di Fondocupo. Avresti dovuto ridare le mie armi ai miei famigliari. Volevo che mia moglie piangesse per me, che mia madre sapesse dove trovare la tomba di suo figlio. Tu, fottuto cavaliere di Fondocupo, hai dato un letto di morte al tuo onore e non lo hai concesso invece a me.»
Non è vero! Ortys, ti prego!”. La voce gli si è ormai solidificata all’altezza della gola, come un piatto congelato dal freddo. Se prima non poteva essere visto, ora non può essere neppure sentito.
«L’onore è rancore». Un gelido e pungente refolo di vento spazza via anche il tetro e ciclopico fantasma di Ortys Wysler, lasciando al suo posto un vuoto incolmabile. Il cuore di Bartimore geme di dolore.
Un’altra figura si sposta sulla strada a sinistra, il volto celato sotto ad uno spesso cappuccio di lana grigia, a dispetto dell’opprimente calore che incombe sul territorio. Quell’uomo cavalca un destriero nobile e sonnecchiante.
Lenticchia” pensa di farfugliare Bartimore. “Amico mio, te ne prego… almeno tu…”
Il cavallo e l’anziana figura ingobbita del suo padrone si fermano di fronte al macigno a cui Bart è relegato. L’uomo scosta di poco il cappuccio dai lineamenti del volto, permettendo di farsi baciare dal sole, accarezzare dal vento e dallo sguardo di Bartimore.
Il devoto Baricald non è affatto come Bart lo ricorda. Il suo volto è pieno di macchie solari, spruzzato qua e là di nero e grigio, le rughe sempre più profonde e spesse. Sul lato destro del petto tiene un ingrigito tascapane pieno di chissà quale oggetto.
«Le promesse valgono più dei gioielli.» pronunzia delicatamente. «E il tempo non guarisce le ferite.»
Sporco traditore, tu hai ingannato me ed…”. Non gli è concesso spingersi oltre.
Il devoto estrae qualcosa dal tascapane – un ceppo notevolmente contorto – e lo getta ai piedi della roccia, facendolo ricadere su quello già presente e appartenuto a Dalton Kordrum.
«L’abbandono è impresso col sangue nel tuo cuore» dice. «Tua madre è stata ingiusta con te, quasi quanto io lo fui con i miei compagni». Il devoto tossisce. «Le tue sono colpe grosse quanto le nostre.»
Io non sono la causa di tutte le vostre disgrazie. Io vi ho voluti bene, io ho combattuto per voi, ho intrapreso viaggi ed imprese per voi. Io vi ho rispettati fino all’ultimo, anche quando avrei dovuto urlarvi contro.”
«L’onore è colpevolezza». Lasciando una daga tre volte girata in una ferita sanguinante del giovane cavaliere, il devoto si dilegua in una nube di polvere insieme a Lenticchia, ormai totalmente ignorante della presenza del suo vero padrone.
Voi siete tutti morti!”. Bartimore intuisce che a Baricald non deve essere finita bene, ma non si capacita della sua presenza in quel posto, né di tutta quella lunga serie di persone che si stanno affollando nelle strade coi loro ceppi sottobraccio. Il giovane cavaliere appeso alla roccia inizia a tremare di terrore. Paura.
Alla sua sinistra è già arrivata un’altra figura tarchiata, abbastanza robusta e dai lineamenti facciali spigolosi. Il suo petto è in parte trafitto da una lunga e scura alabarda che gli oltrepassa il cuore e fuoriesce dalla schiena, come pronto per essere arrostito sulle braci ardenti. Si tratta di un ser che è stato un nemico ed un compagno per Bartimore, ma lui non può che riconoscerlo come perdente. Le fiamme bruciano ancora negli occhi scuri e remoti di ser Konrad e lui, come il resto degli ospiti, ghermisce un robusto ceppo con le due mani.
«Dov’eri quando bruciavo, cavaliere disonorato e bandito razziatore?». La domanda si sparge nel terreno, viene assorbita dal vento e dal sole. «Non ho ricevuto una sola preghiera dalla tua bocca infame. Avrò la mia vendetta, se non l’ho avuta già.»
Bartimore lo osserva a lungo. In realtà ciò che vorrebbe fare è strangolarlo e costringerlo a perire ancora una volta, ma le poche forze e il suo completo attaccamento alla superficie della roccia non glielo consentono. Forse è un bene in quella circostanza.
Il cavaliere dell’antica scorta di Ortys Wysler manda il suo ceppo a rotolare con gli altri due del suo dipartito signore. «L’onore è distruzione.»
Le spire del fuoco avvolgono il corpo macilento del cavaliere, assorbono la sua essenza e ne dissipano l’odio. In breve ser Konrad evapora come una goccia d’acqua lasciata per troppe ore sotto al sole cocente d’estate.
Ormai conscio di quello strano gioco di ombre, Bartimore volta a destra la faccia. Le lacrime gli rigano gli zigomi, ricadano sulla roccia accaldata e, scontrandosi con la sua superficie, iniziano a sfrigolare come olio bollente, finché il giovane ser non riesce a staccare braccia, gambe e corpo da quel macigno opprimente. Tira un sospiro di sollievo, ma le lacrime non riescono più a fermarsi.
La figura snella che gli si pone di fronte dopo aver percorso la stradina di sinistra è la giovane ragazzina bionda di cui Bartimore soffre persino nel pronunciare il nome. “Esmerelle”.
Esmerelle, la bellezza di due occhi a cerbiatto colorati da splendente e luminoso blu cielo, contornati da un’espressione unica e allo stesso tempo imbarazzante, riesce a farlo cuocere più del calore soffocante del sole. Quella ragazza ha del potere che infatua il ser, su questo il dubbio non esiste più.
Bartimore le si getta contro con meraviglia, stupito dalla sua presenza, piangendo lacrime amare e tentando di riattivare la sua salivazione. La parola non vuole tornare.
«Mi hai tradita Bartimore». Esmerelle è dura nel suo parlare. «Hai tradito ogni mio sogno, ogni mio desiderio. Tu non mi hai mai voluta, tu non mi hai mai amata.»
Come puoi dire questo?
«Ho avuto occhi, ma mi sono stati tolti. Ho avuto una pelle fine, ma mi è stata tolta. Ho avuto uno scheletro, ma mi è stato tolto. Ho avuto amore, ma mi è stato tolto.»
«…amore». La calda essenza di quella parola riesce a sciogliere il nodo possente alla gola di Bartimore.
«Non più» risponde secca l’anima bionda di Esmerelle. «L’onore è odio.»
La ragazzina estrae un pugnale dalla cintola. Il freddo acciaio luccica sotto al sole prima di conficcarsi in pieno petto di Bart, dritto contro il suo cuore. A sanguinare, però, al posto di Bartimore, è la stessa Esmerelle. Lui l’afferra, prova a chiuderle la ferita al petto, ma il sangue si fa strada ovunque, fuoriesce da ogni orifizio. In breve, il cadavere della ragazzina si ritrova ricoperta di una spessa coltre di sangue scuro.
«Amore…» mormora Bart. «Cuore…» Può fargli così male? «Onore… onore… onore…»
I morti sono sicuramente più forti del suo onore, più di tutto il suo dolore, più di tutte le sue lacrime. Il suo cuore non può continuare a reggere qualcosa di simile. Onore, onore, onore… onore!
Non ha saliva sulla lingua, non ha tenacia nel cuore, non ha più uno scopo per il quale decidere se vivere o morire. Sa di essere spacciato ora, così vulnerabile in quel luogo solitario, solo e senza emozioni. Onore, onore, onore… onore! Tutta colpa del dannatissimo onore!
I fiumi che solcano le sue guance sono ormai totalmente in piena e sul punto di inondare ogni lineamento del giovane ser. La rabbia sa ingigantirli. Anche il rancore ci riesce, e persino l’odio. Ma l’onore… chissà cosa può fare l’onore contro tutti quei sentimenti contrastanti nel suo animo.
Cosa può l’onore contro l’odio e per di più contro l’amore? Amore ed onore… onore, onore, onore, onore! Le sue lacrime non sono poi così tanto onorevoli come sembrano.
Onore, onore, onore! Lo percepisce, lo avverte chiaro: una fiamma nel più arido deserto, una fiaccola sul picco più gelido di una montagna.
L’onore che al tempo stesso è salvezza e distruzione. Due fiamme opposte, dannatamente mortali. Nessun uomo si serve dell’una senza prima assaporare la tossica essenza dell’altra. Ma chi, tra gli uomini, conosce il rischio che si corre nel perseguire una vita con onore? Il rischio di cadere nella fiamma vivida, di perdere l’equilibrio, di smarrire il percorso e con questo il senno, e precipitare nella voragine di fiamme che esso rappresenta?
Salvezza, distruzione. Due vie. Due fiamme. Ora è tempo di scegliere. Onore, onore, onore
Il vento torna ad ululare qualcosa nel mezzo di quel luogo solitario. Soffi e sospiri remoti echeggiano in tutto il territorio circostante alla roccia: «Sveglia… sveglia… sveglia…»



♣ Angolo d'autore ♣
Un capitolo piuttosto introspettivo, che ci catapulta nell'inconscio di Bartimore e che, forse, ci permette di cogliere meglio aspetti del suo carattere che in altri casi difficilmente ci sarebbero mostrati. Allegoria di ciò che al momento il ragazzo sente in cuor suo, il percorso che cerca di rappresentare il sogno non è di difficile interpretazione. Cosa vi è parso del tutto? In che modo potrà influire sul suo comportamento, se potrà farlo?
Ricordavate i vari personaggi apparsigli? E cosa pensate possano voler rappresentare per lui, nel sogno?

Il nostro Bartimore è sempre stato un cavaliere molto devoto all'onore... ma ora che questo li ha condotti tutti per due volte alla dannazione, credete che la sua idea potrà cambiare? 
Insomma, fatemi sapere tutto quello che pensate. Io vi ringrazio per essere sempre qui con me e con la mia storia, e vi comunico che - per qualche settimana, causa un viaggio - non potrò rispondere in tempi brevi alle vostre recensioni. 
Ci sentiamo presto, [giovedì 18 c.m.]
Makil_
   
 
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