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Autore: Makil_    18/07/2019    3 recensioni
Il fuoco del conflitto arde ancora, più vivo e forte che mai.
A Pantagos, gli esuli scampati al massacro più violento dell'ultima decade si affannano a vivere con i loro fantasmi: tra essi, respira ancora ser Bartimore di Fondocupo, la colombella di Sette Scuri che da formica si accinge a divenire un leone.
Intrighi, macchinazioni e inganni sono ora alla portata di chiunque: la pace sembra quasi un dono irrealizzabile, l'odio vive ancora aggrappato al mondo dei mortali e la guerra è ancora tutta da giocare.
[Atto secondo de "Il cavaliere e la fanciulla bionda", di cui si consiglia caldamente la lettura]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie di Pantagos'
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Glossario della terminologia relativa alla storia (aggiornamento continuo):

Patres/Matres: esperti, uomini e donne sapienti indottrinati da studi all’Accademia. Ogni regno ne possiede tre, ognuno dei quali utile a tre impieghi governativi.
Accademia: ente di maggiore prestigio politico a Pantagos, vertice supremo di ogni decisione assoluta. Da essa dipendono tutti i regni delle regioni del continente, escluse le Terre Spezzate che, pur facendo parte del territorio di Pantagos geograficamente, non  sono un tutt’uno con la sua politica. Il Supremo Patres è la figura emblematica della politica a Pantagos, al di sopra di tutto e tutti.
Devoti: sacerdoti del culto delle Cinque Grazie (prettamente uomini), indirizzati nello studio delle morali religiose alla Torre dei Fiori, nelle Terre dei Venti.
Fuoco di Ghysa: particolare sostanza incolore e della stessa consistenza dell’acqua, la cui unica particolarità è quella di bruciare se incendiata.
Le Cinque Grazie: principali divinità protettrici del sud-ovest di Pantagos, proprie di molti abitanti delle Terre dei Venti e della Valle del Vespro. Tale culto prevede la venerazione di quattro fanciulle e della loro madre. 
Tanverne: enormi bestie dotate di un corpo simile a quello di giganteschi rettili, abitanti il territorio di Pantagos.
Y’ku: titolo singolare dell’isola di Caantos, nelle Terre Spezzate, il cui significato è letteralmente “il più ricco”. Il termine “y’ku” s’interpone tra il nome e la casata nobiliare di un principe dell’isola, posto a determinare la sua ascendenza nobile.
Incantatori: ordine giurato unico del continente di Pantagos. Si tratta a tutti gli effetti di un gruppo di sapienti  in cui sono raggruppati guaritori, speziali, alchimisti e finanche stregoni – benché in molti, e nel popolino nello specifico, non credano a questo genere di arti. La sede degli incantatori è la Gilda degli Incantatori, altresì detta Tempio Bianco, sulla Collina di Burk, a Fondocupo. 
Castellano: figuro (molto spesso un esperto) incaricato di reggere, in vece del sovrano al quale è subordinato, un altro regno, un piccolo borgo o una cittadina appartenente all'uomo cui giura lealtà. 

Ossa di tanverna: vengono impiegate, fuse, nella creazione di gioielli d'importantissimo valore e armi, poiché molto robuste, lunghe, e spesso colme di essenze magiche o, addirittura, proprietà venefiche. 
Accolitoapprendista di grado infimo che accompagna ogni esperto votato legalmente all'Accademia al fine di apprendere da quest'ultimo e al tempo stesso essergli d'aiuto.
Fiore Rosso: morbo sopraggiunto a Pantagos dalle Terre Spezzate con l'avanzare della Guerra Grigia; la malattia si manifesta con delle macchie color vinaccio sparse indistintamente sul corpo in seguito ad un contagio che, nella maggior parte dei casi, è causa di morte.


 


 



«…Sveglia!». Il colpo perentorio dello scudiscio di Cargo rimbombò tre volte nella celletta. Il suono cupo e macabro dell’arma del carceriere fece sollevare a poco a poco la testa di Bartimore dal lettino. «Sveglia, prigioniero, è ora del pranzo! Sveglia!»            
Il grasso omaccione dalla pelle cascante e dilatata si posizionò tra lui e il resto della cella, lo scudiscio nella destra già pronto a scagliarsi sul suo zigomo. «Ho detto che è ora del pranzo. Fammelo ripetere un’altra volta e ti darò le legnate che ti toccano.»
Bartimore aveva così tanto mal di testa da non riuscire neppure a badare alle parole del carceriere: nonostante ciò decise di far del suo meglio per evitare di essere bersagliato dai colpi dello scudiscio.
«Qui c’è il tuo pranzo, prigioniero». Cargo gli lanciò una pagnotta tonda come un ciottolo.
«Non ho fame». La pagnotta rotolò ai suoi piedi.
«E io non ho voglia di starvi a sentire» replicò Cargo roteando lo scudiscio nella destra. «Eppure devo portarvi da mangiare. Qui c’è il cibo, ho detto.»
Non ci vogliono morti” intuì Bartimore passandosi una mano sul viso per massaggiare i suoi sfiniti lineamenti. Quanto aveva dormito? Un’ora, un giorno o una settimana?
Cargo si allontanò dalla loro cella canticchiando un motivetto del tutto insensato e privo di musicalità.
Ser Mark e ser Dayn erano seduti l’uno accanto all’altro nell’angolo sinistro della cella, poco lontani dal lettino di Bartimore.
«Cavaliere» mormorò ser Mark addentando la sua pagnotta. «Hai fatto sogni d’oro?»
Che sogni!”. «Non proprio d’oro ser Mark. Credo di non stare molto bene ultimamente. Per quanto tempo ho dormito?»
«Poche ore della notte e alcune del mattino, ser Bart». A rispondere fu Dayn, lo sguardo luccicante e gli occhi umidi. «Ma hai fatto tutta la notte a lamentarti nel sonno. Abbiamo chiesto che un incantatore venisse ad aiutarci, ma non abbiamo ricevuto altre visite che quella di Zobo e della sua correggia di cuoio… voleva che tu smettessi di smaniare… credevamo che tu… insomma, credevamo che tu non stessi affatto bene, ecco.»
«È per questo che Steffon ha deciso di fare qualcosa per noi. Ser Dayn è sul punto di ammalarsi. E il vaiolo nero ci preoccupa in queste condizioni. Insomma, Steffon doveva fare qualcosa…»
«Cosa?». Bartimore si guardò intorno: non c’era neppure l’ombra del giovane patres. Per un istante, le ombre tornarono ad offuscargli la vista e la mente. «Dov’è Steffon?»
«L’esperto ha deciso di confessare, Bartimore». Ser Dayn strappò coi denti un pezzo della sua pagnotta. «Mangiala finché è calda, potrà tornarti utile.»
«Non ho fame» ripeté Bartimore. «Confessare cosa?»
«Colpe inesistenti» rispose ser Mark masticando. Si passò un dito in bocca per togliere un pezzetto di pane rimasto incastrato tra i denti. «Colpe di reati che non abbiamo mai commesso.»
«Il processo…» fece Bartimore. «Non doveva esserci un processo?»
«Certo che sì» affermò ser Mark. «Ma se il presunto colpevole decide di confessare, questo diritto non può essergli negato neppure da sua alta signoria in persona il Supremo Patres.»
«Chi giudicherà la nostra colpevolezza?»
«Il castellano, quel Bennor Falso Esperto.»
«Non andrà mai a nostro favore. Steffon non doveva…»
«Steffon sa ciò che fa. Non è confessare il suo obiettivo, ma farsi ascoltare.» assicurò ser Mark mettendosi in piedi per sgranchirsi la schiena. «Cargo gli ha dato molto dritte negli ultimi giorni, vedrai che saprà sfruttare le informazioni più peccaminose del regno contro il suo protettore stesso. Vincerà sulle accuse, non ho dubbi.»
«E se dovesse perdere?»
«Allora saremo impiccati, giovane ser. Noi tutti insieme, s’intenda. La casa Wargrave riserva ai suoi prigionieri la pena dell’impiccagione: un rito che ancora oggi viene celebrato in molti altri posti del reame, ma da nessuna parte con cotanta fierezza. Ma, ripeto, noi non perderemo la causa. L’eloquio di Steffon ci salverà tutti. Tutti.»
Me lo auguro”. Bartimore si mise ritto sul lettino, le tempie pressate con gli indici di entrambe le mani. Quel giorno la cella era più scura e silenziosa del normale: non una sola fiaccola era stata accesa nei corridoi ancora semideserti, e non una sola povera anima era stata trasportata di forza giù per le scale che scendevano in basso, nel vero entroterra di quel luogo affatto confortante.
Quel pomeriggio ser Dalwar venne a far loro visita nelle Galere Rosse, con un arrivo che nessuno dei tre si sarebbe aspettato. Ser Dalwar aveva mantenuto una certa distanza dalle parole velenose di tutti i suoi compagni, ma ciò sicuramente non faceva di lui una persona onorevole. Eppure era l’unico, almeno fino ad allora, ad essersi ricordato di loro.
Il cavaliere reggeva una lanterna con all’interno un piccolo lumino nella sinistra, e si avvicinava con molta calma alla loro cella, accompagnato dal possente corpo di Cargo. Un rumore metallico, prodotto dai tre giri che la chiave del carceriere fece nella toppa, annunciò l’apertura della grata che li separava dal corridoio.
«Vi disturbo?». I lineamenti tozzi di ser Dalwar erano rischiariti dalla fioca luce del cero. Ser Dalwar era un uomo dai tratti piuttosto ordinari, il collo taurino e le spalle larghe. Il cavaliere doveva essere più vicino ai quaranta che ai cinquanta, ma non aveva peli sul volto e i suoi capelli crescevano grigi e lunghi sul capo. Quel giorno indossava un curato farsetto beige stretto attorno ai fianchi da una cintola scura, e un paio di brache del colore del cuoio.
«Non abbiamo molto da fare qui sotto» rispose ser Mark. «Una visita, una che non è fatta per farci del male, non può che farci piacere.»
Il visitatore alzò la mano destra aperta al cielo. «Sono disarmato, ser…ser?»
«Ser Mark.»
«…ser Mark» riprese ser Dalwar. «E non sono qui per punirvi. Sono del parere, piuttosto, che non debbano esistere prigionieri di guerra in battaglia.»
«Specie se quella battaglia non appartiene ai suddetti prigionieri» concordò ser Mark annuendo rapidamente. «Sì, siamo dello stesso parere, allora.»
Il ser fece segno a Cargo di lasciarli da soli, e tanto bastò al carceriere per arrancare lontano dal loro ingresso. Poi posò la lanterna sul pavimento lastricato. «Avete fame, per caso? O forse avete sete?»
«I miei compagni di cella non stanno bene: un po’ d’acqua non li aiuterà più di molto, e il cibo lo abbiamo. Insieme alle legnate, questo è qualcosa che i carcerieri non ci fanno mai mancare. Cos’è che vuoi, ser Dalwar?»
«Conosci il mio nome?». Ser Dalwar contrasse la fronte, mentre quella sua domanda risuonava più come una constatazione.
«Un prigioniero che non ha a cuore il motivo della sua accusa non può che protendere il suo udito verso le parole di chi fa silenzio. E tu, ser Dalwar, sei stato troppo silenzioso durante il nostro viaggio.»
«Strano» mormorò ser Dalwar. «Ricordo che non ti sei svegliato neppure un momento durante tutto il tragitto.»
«Si può ascoltare anche senza vedere, ser». Ser Mark si fece sfrontato. «Ma in questo posto in molti vedono senza ascoltare.»
«Mi costringi a contraddirti, ser Mark. Bennor si è dimostrato capace di ascoltare quanto avete da dire a vostra discolpa accettando il colloquio privato con il vostro compagno di cella. Ascolterà e vedrà. Ero con lui quando mi ha chiesto di uscire per accogliere il vostro… amico
«E ora sei qui» fece ser Mark. «Perché?»
«Perché a differenza di tutti gli altri non penso che voi siate colpevoli dei crimini di cui siete accusati.»
«E perché non vai a dirlo a tutti i tuoi compari? Cos’è? Un tranello?» domandò ser Mark. «Io e i miei due compagni siamo già cascati in un intrigo molti giorni fa, al torneo di Roshby… ci teniamo a non perdere la vita ora, in queste pessime condizioni.»
«Non è di me che dovete avere paura.»
«Noi non abbiamo paura». Bartimore si alzò in piedi.
«Meglio ancora, giovane ser. La paura è più tagliente di qualsiasi lama. Posso offrirvi da bere?»
No” pensò Bartimore, ma lo tenne per sé. Un po’ d’acqua non gli avrebbe fatto sicuramente male. Ma se fosse stata avvelenata? E se non fosse acqua sana o piuttosto fosse contaminata? Magari stavano tentando di illuderli inducendoli a confessare prima di assassinarli in modi che neppure potevano aspettarsi. Erano troppi i nemici in quel luogo, e tutti troppo enigmatici ed estranei ai loro costumi per poter essere considerati anche lontanamente loro amici. Ser Mark era sicuro che la pena dei Wargrave fosse davvero l’impiccagione?
«So già cosa state pensando». Ser Dalwar sfilò l’otre che teneva attaccata alla cintola, nella parte posteriore delle brache, la stappò con il pollice e mandò il tappo a rotolare sul pavimento. «Un sorso per garantirvi che non ho cattive intenzioni e che il veleno è ancora considerata un’arma immorale, anche dalle nostre parti». Il ser buttò giù un piccolo sorso di quello che sembrava essere vino rosso come il sangue, il cui colore scese a rigagnoli dai due lati delle sue labbra e colò giù lungo il collo.
«Vino?». Anche ser Mark se n’era accorto. «Vorrai ubriacarci forse?»
Ser Dalwar portò la borraccia sotto al naso di ser Mark. «Annusa ser, e dimmi cosa senti». Scosse un po’ il contenuto dell’otre.
«Sembra dolce…». Ser Dalwar continuò ad agitare. «Vino di ciliegia? Il sangue della Valle del Vespro…»
«…e in ottimo stato, aggiungerei. Una delle migliori annate mai portate qui a Nord. Sapete cosa si dice di questo vino?»
«Che sia un toccasana per la febbre, ser, chi non lo sa?»
«Per l’esattezza» mormorò ser Dalwar. «A me non serve poi così tanto, ma voi non rifiutatelo. Nessuno noterà che manca del vino lassù, ma in molti noteranno l’assenza di prigionieri qui sotto nel caso in cui qualcuno di voi dovesse rimetterci la pelle a causa di uno di questi beceri carcerieri.»
Liberateci, allora” pensò Bart. “E che le fiamme vi portino alla dannazione… tutti quanti!”
Ser Mark afferrò l’otre e ingollò un lungo sorso del suo contenuto. Staccò la bocca dall’anello, si leccò le labbra e guardò con un solo occhio all’interno dell’otre. Infine rivolse uno sguardo interrogatorio a quel cavaliere. «Perché ci stai aiutando, ser?»
«Gli stolti risponderebbero compassione: una prerogativa dell’essere umano» fece ser Dalwar piegandosi per riafferrare l’otre. «E così direbbero anche i bugiardi. Ma io non sono uno stolto né un bugiardo. A differenza dei soliti prigionieri, voi siete tutti cavalieri votati con molto buonsenso dentro quella zucca che i più hanno vuota. Ecco a te, ser… ser cavaliere… bevine un po’ anche tu… non sembri messo bene…»
Ser Dalwar fornì l’otre di vino a ser Dayn, il quale l’afferrò con entrambe le mani e portò il beccuccio alla bocca. Seguì un lungo sorso tipico di un uomo assetato e senza saliva.
«Risparmiamene un po’» fece Bart. «Ho sete anch’io.»
Ser Dalwar si fece riconsegnare l’otre e la portò a Bartimore, accovacciato sul lettino, le spalle contro l’umida parete di pietra scura. «Anche tu non sembri avere un ottimo colorito, ser giovane. Dovresti bere più di ogni altro.»
No” pensò Bart, ma non appena il contenuto dell’otre raggiunse le sue labbra non riuscì a contenere la sete e venne immediatamente meno alla sua ostinazione. In breve riuscì a tracannare tutto il vino a grandi sorsate. Chissà quando gli sarebbe ricapitato.
Ser Dalwar si fece riconsegnare l’otre vuota e la riattaccò alla cintola con un semplice gesto secco. «Ve ne porterò dell’altro, se lo desiderate…»
«E sia» fece ser Mark. «E ogni giorno lo gusterai per noi e prima di noi. Ma torniamo alla nostra domanda: perché ci stai aiutando?»
Ser Dalwar sorrise. «Voi mi servite vivi, messeri. Un cavaliere morto non vale nulla, mentre uno vivo ha sempre la capacità di usare una spada. Alzatevi e chiedete di confessare ciò per cui siete qui ora, proprio come sta facendo il vostro amico ricolmo di coraggio.»
«Cosa!?». Bartimore si alzò, vero, ma per imprecare ad alta voce. Quello doveva essere un pensiero personale, ma la sua bocca assetata si aprì più del dovuto. «Io non dirò mai ciò che volete sentirvi dire, sporchi assassini.»
«Mi stai dicendo che preferisci il cappio? Sì, effettivamente è un modo più rapido per guadagnarsi la tomba, non dico che non lo abbia pensato anch’io… ma forse non sapete che l’umiliazione capitale viene sempre prima dell’esecuzione qui ad Ockswert. A modo mio credo che sia meglio morire con dignità e con addosso qualcosa, anche un piccolo pezzo di straccio.»
«Dignità?» tuonò Bartimore. «Ci avete costretti a dormire qui sotto senza neppure poter sciacquarci la faccia la mattina. Ci avete costretti ad essere bersaglio di carcerieri violenti ed inutilmente forti. Non ci avete già umiliati abbastanza?»
«E vi garantisco che è nulla di fronte a quello che potrebbe essere l’umiliazione capitale. Per secoli i Wargrave di Giardino Fiorito hanno imposto sanzioni morali peccaminose ai loro prigionieri, costringendoli a denudarsi dinanzi a stalle di cavalli e a confondersi con le bestie, o piuttosto o rimanere legati ad una statua della città per tre giorni, senza abiti e cosparsi di miele nelle parti intime e sotto le ascelle.»
«E l’Accademia è al corrente di tutto ciò?»
«Se lo è? Ovviamente sì». Ser Dalwar contorse le labbra. «E tra l’altro l’Accademia è quanto mai gentile nei confronti del nostro buon signore Roscart: certo, i motivi sono ben discutibili. No, non si tratta di corruzione, ma la scaltrezza e la finta furbizia di Wargrave la dicono lunga su parecchi conti, ve lo assicuro. Certo è che Ockswert ha raggiunto, oggigiorno, uno splendore che mai avrebbe immaginato di poter avere.»
«Uno splendore che i tuoi signori stanno disseminando per strada, mi sembra». Ser Mark si alzò in piedi e andò a posizionarsi di fronte al cavaliere.
«Signori dell’inutilità e dell’ebbrezza, ser cavalier Mark, ecco perché sono così sciupati ora.»
«Fa’ attenzione, potresti essere punito con l’umiliazione capitale.»
«Non mi farebbe alcun effetto, ser Mark. E ascoltate il motivo di questa mia opionione: dietro questi abiti profumati e questa seta davvero poco sgargiante, si nasconde un fisico uguale in tutto e per tutto a quello di un generale, forse solo un po’ più nutrito ed in carne. Susciterei indignazione nel popolo, questo sì, ma a me non farebbe alcun graffio. Posso vantare – e quindi al diavolo le false modestie – di avere un corpo abbastanza compatto e lavorato, e non ho vergogna nel mostrare ciò che mia madre mi ha messo in mezzo alle gambe. Voi, piuttosto, così denutriti, sporchi e magri, prendereste la pena con la stessa superficialità? La gente vi sputerebbe addosso, vi tratterebbe con le stesse maniere cui si trattano i maiali. E sarete ricordati per sempre come delle larve prive di forza: figure lungi, insomma, dall’essere valorose. Non solo, tutti vi guarderebbero trattenendo i conati di vomito, qui sulla terra e poi, poco più tardi, anche da lassù, nel cielo.»
Ser Mark lo guardò allibito, mentre ser Dayn si contorceva all’angolo con le mani posate sullo stomaco, divorato da un dolore atroce alla pancia. Bartimore si mise in piedi accanto a ser Mark. Il movimento repentino non fu privo di un seguito disastroso: il sangue gli risalì rapidamente al cervello, costrinse Bartimore a tentennare coi piedi, rischiando la caduta, le mani poggiate sulla parete nera. In breve gli si annebbiò completamente la vista.
«Il giovane non sta bene» intuì vedendolo ser Dalwar. «E neppure quello lì». A quel punto indicò ser Dayn con il suo indice scarno. «E tu ser Mark morirai d’infezione se non rischierai di seguire quanto vi consiglio di fare. Fate ammenda, cavalieri, confessate colpe mai compiute e sarete liberi di tornare a respirare aria satura della luce del sole. Qui non posso dirvi altro.»
«Non abbiamo intenzione di aggiungere altro splendore alla vostra sporca cittadina corrotta! Ebbene, è ora che questa storia vada a farsi fottere! Non staremo qui a sentire ciarlare un cavaliere di questo regno ancora per molto. Nessuno starà qui a chinare il capo dinanzi a te: e questo lo dico io.»
«Non vi sarà fatto alcun male se…»
«Ah no? E ben detto, aggiungerei! Di male ce ne avete già fatto abbastanza, ser Dalwar. Credo sia il tempo di smetterla con questa farsa senza capo né piedi. Volete ucciderci? Fatelo e basta, senza ridurci all’osso e senza farci perdere l’ultimo briciolo della nostra dignità. Soffocateci, impiccateci, amputate i pezzi del nostro corpo o cos’altro volete amputare… ma non prendetevi gioco di noi neppure per un attimo. Siamo uomini, e come tali pretendiamo di essere rispettati.»
«E così è il rispetto che siete venuti a cercare qui al Nord. Direi che, se questo è quello che volete…» mormorò ser Dalwar abbassandosi per riafferrare la lanterna ad olio con la destra. Ci fu un rumore nel lontano corridoio delle gattabuie che sembrò destabilizzare il ser. «Allora è questo che avrete, messeri». Una conclusione inaspettata e colma di sussiego che rese il cavaliere molto più temibile di quanto invece non fosse.
Percorse a ritroso il suo cammino e quando uscì dalla cella di lui non rimase altro che l’odore aspro del fumo della lanterna: il sapore malsano dell’ingiustizia, dell’incertezza e del dubbio di cui le labbra dei tre cavalieri erano completamente sature.




♣ Angolo d'autore ♣
Il nostro giovane Bartimore si è risvegliato dal sonno: Steffon, nel mentre, è tornato a parlottare con il loro principale oppressore, Bennor, il castellano. Cosa pensate possa fare? Sarà ascoltato e porterà a termine il suo proposito?
Per quanto riguarda i nostri tre, invece, rimasti in cella, cosa pensate che possa capitargli? Come definite la loro situazione? 
Abbiamo poi il personaggio di ser Dalwar, che in molti avevano già notato leggermente diverso dalla combriccola di Wargrave. Cosa pensate desideri Dalwar? Quali sono i suoi propositi? Perché sta aiutando i nostri? 
Ditemi la vostra, insomma, sul personaggio e sulla situazione, nonché su tutto ciò che avete notato e di cui io non faccio qui menzione.
Grazie a tutti i recensori, a chi legge in silenzio e a chi mi segue con costanza. Un bacio e al prossimo aggiornamento [giovedì 25 c.m.]
Makil_



 
   
 
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