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Autore: WallisDennie    26/08/2019    3 recensioni
Magnus/Alec, accenni di altre coppie | ElisadiRivombrosa!AU | Earl!Magnus, Butler!Alec.
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In seguito alla morte del padre, Alec Lightwood diviene maggiordomo alla tenuta Bane, preso a servizio per la sua onestà e per il carattere fedele e coraggioso. La contessa Bane lo considera quasi un figlio, ma un dolore pesa sull'anziana donna: il figlio Magnus, arruolatosi nell'esercito, è lontano da casa da ormai otto anni per dimenticare le ferite di un amore non corrisposto.
Sullo sfondo di un complotto ordito da nobili ai danni del re, il ritorno di Magnus scatenerà una catena di eventi che stravolgerà le vite di ognuno dei personaggi, ma soprattutto, il cuore di un giovane ragazzo dagli occhi blu.
Un amore pieno di insidie, forse impossibile, che li spingerà ad affrontare le paure, i pregiudizi e anche i sentimenti.
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Liberamente ispirato alla serie televisiva di Cinzia TH Torrini, con i meravigliosi personaggi di Cassandra Clare, in un esperimento che mi ha fatto piacere scrivere.
Buona lettura!
Genere: Drammatico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo quinto.
 
 
 
 
 
Villa Bane.
 
 
Magnus fece ritorno alla tenuta galoppando rapido tra le campagne.
Una volta raggiunte le scuderie, chiamò forte il nome di Simon.
Il ragazzo giunse dinnanzi a lui con un’espressione smarrita e il fiato corto, ma non fece in tempo a parlare che si ritrovò un sacchetto di monete tra le mani.
« Porta queste al carcere e fai in modo che Alexander venga rilasciato »
Simon impallidì.
« Io, signor conte? Non mi ascolteranno mai » ribatté, con voce incerta. « Venite con me »
« No. Io mi recherò alla caserma » spiegò. « Come ufficiale dell’esercitò di Sua Maestà, seppure in congedo, mi farò rilasciare un’autorizzazione di scagionamento »
« Allora vi accompagnerò e poi andremo- »
No.
« Simon » tuonò il conte. « Farai come ti ho detto. Alexander è stato denunciato per furto e aggressione, pertanto potrebbe essere troppo tardi per quando arriveremo »
Lo stalliere spalancò gli occhi.
« Devi prendere tempo per me, hai capito? »
Seppur con indecisione, Simon annuì.
Poi si congedò, correndo a sellare uno dei cavalli. Pochi istanti dopo, mentre Magnus saliva la scalinata dell’ingresso, lo vide sfrecciare fuori dai cancelli diretto in città.
Magnus raggiunse velocemente le sue stanze, recuperando da un cassetto dello scrittoio i suoi documenti militari. Una volta preso tutto il necessario, mise tutto dentro una sacca di cuoio e richiuse dietro di sé le porte delle sue stanze.
« Magnus » lo richiamò la voce di sua sorella. « Buongiorno »
« Buongiorno » la salutò lui di rimando, non nascondendo la propria fretta.
« Esci di nuovo? Dove stai andando? » indagò Catarina, gli occhi attenti sulle carte tra le mani di Magnus.
« In caserma »
« E come mai? » Magnus arricciò il naso, stizzito dall’inopportuna curiosità della sorella.
« Alexander è stato arrestato » Catarina assunse un cipiglio contrariato, ma lo mascherò immediatamente fingendo indifferenza.
« E allora? » domandò, alzando il volto con superiorità. « Tu che cosa centri? Se n’è andato di sua spontanea volontà, non l’hai saputo? Se si è cacciato in qualche guaio non ha nulla a che vedere con la nostra famiglia, non più »
Il conte la fissò freddamente, come a riprenderla per la sua scortesia.
« Rischia di essere condannato a morte »
Catarina sbarrò gli occhi.
« La sua colpa è talmente grave? » volle sapere, turbata. « In ogni caso non ci riguarda più. Se ha commesso un crimine, è giusto che venga punito »
« Non ha alcuna colpa » ribatté il fratello, un’ombra di livore nel tono della voce. « Si è trattato solo di un malinteso da parte di Ragnor »
Catarina assunse un’espressione seccata.
« Se è così lascia che se ne occupi lui. Non vedo perchè- »
« No » la azzittì. « E ora se non ti spiace, devo andare » Fece per allontanarsi, ma Catarina lo bloccò per un braccio.
« Magnus, tu non vai da nessuna parte. Qualsiasi cosa Alexander abbia combinato, è una faccenda che non deve in alcun modo riguardare la nostra famiglia »
Catarina non avrebbe mai dato voce ad alcun tipo di scandalo che riguardasse la rispettabile famiglia Bane. Per lei l’onore e il rispetto erano le attitudini più importanti per una famiglia nobile ed di buon nome come la loro. E non avrebbe permesso ad uno sciocco servitore e al buon cuore di suo fratello di gettare ombra sul loro casato.
Magnus, dal canto suo, non era affatto sorpreso della freddezza della sorella. Catarina era sempre stata abituata a vivere in una campana di vetro, senza mai mettere in dubbio la giustizia che le era stata insegnata.
Non aveva vissuto con i suoi occhi, sulla sua pelle, il peso delle ingiustizie gratuite, delle sentenze male assegnate, alle quali invece aveva dovuto assistere lui in otto lunghi anni di battaglie. Magnus non poteva permettere che un tale sopruso venisse lasciato impunito.
E poi si trattava di Alexander.
Fulminò con lo sguardo la sorella, gelandola sul posto.  « Alexander era il maggiordomo di questa tenuta e di nostra madre. Tutti sanno che vive qui » Catarina abbassò le palpebre, sotto il peso di quelle parole, avvertendo una stilla di paura dietro la nuca. Tutti avrebbero parlato. « Un’accusa come questa potrebbe mettere in cattiva luce il nome dei Bane » Nel riallacciare lo sguardo a quello del fratello, lo vide sorridere velenoso. « Ora se non ti dispiace » concluse, prima di lasciare la stanza nel silenzio e la sorella con le labbra strette in una linea dura.
 
 
 
 
In carcere.
 
 
Inconsapevole di ciò che il conte Bane stesse facendo per lui, Alec continuava a chiedersi cosa il destino avesse in serbo per lui. Si chiedeva cosa avrebbe pensato di lui Max, sua sorella Isabelle, sua madre, e tutti gli altri.
Il sole era alto nel cielo. A quell’ora avrebbe dovuto già essere a metà del suo viaggio, diretto all’accampamento. E invece si trovava in prigione, in una cella buia in cui solo alcune lampade ad olio rischiaravano le pietre fredde e dure.
Davvero un bel modo di cominciare la sua nuova vita.
« Lightwood » chiamò il carceriere. Al suo fianco stava la figura sottile e preoccupata di Simon. Alec scattò in piedi e raggiunse l’amico, afferrando le sbarre che li separavano.
« Simon, cosa ci fai qui? » L’altro scrutò intimorito il carceriere, che sbuffando si allontanò. Poi Alec lo vide estrarre da dentro la tasca della sua giacca un sacchetto con un laccio.
« Il signor conte mi ha mandato a liberarti »
Il signor conte?
« Non hanno voluto ascoltarmi » aggiunse, con un tono addolorato. Poi i suoi occhi si illuminarono di speranza « Ma non temere! Il conte è andato alla caserma per farsi consegnare un’autorizzazione per rilasciarti » spiegò, sorridendogli per rassicurarlo. « Visto che ti sei arruolato e lui è un ufficiale dell’esercito, sicuramente verrai liberato »
Alec non sapeva cosa rispondere. Il conte stava facendo tutto questo per lui? Perché?
Simon gli allungò il sacchetto, che emise un tintinnio appena udibile.
« Mi ha detto di portarti questi » sussurrò. « Così, magari, puoi temporeggiare con quel brutto tipo » aggiunse, indicando con un cenno del capo il carceriere che stava sghignazzando con un'altra guardia in un vociare indistinto.
« Non li voglio » ribatté fermamente Alec. Simon aggrottò le sopracciglia, gettando un’occhiata verso il carceriere nel timore che Alec avesse alzato troppo la voce.
« Non fare l’idiota » lo rimproverò, sempre a voce bassa, l’amico. « Prendili »
« Non voglio niente da lui » asserì di nuovo, scansando il sacchetto ancora in mano a Simon. « Affronterò ciò che mi aspetta senza paura. Quei soldi non serviranno a nulla comunque »
« Alec! » lo biasimò l’altro. « Tu sei innocente, quindi non parlare in questo modo. Il signor conte- »
« Il signor conte non deve fare nulla per me. Sono in grado di badare a me stesso »
Simon inarcò le sopracciglia, disperato.
« Da dietro le sbarre di una cella? Ti prego, cerca di ragionare » insistette, allungando nuovamente il sacchetto oltre la sbarre.
« Simon, fammi un favore » lo interruppe, guardandolo con profonda serietà. Al che Simon si azzittì, rivolgendogli tutta la sua attenzione. « Trova Lux. Deve essere ancora al mercato o comunque poco distante » disse, spiegandogli anche il punto esatto in cui l’aveva lasciato prima di essere preso dai gendarmi.
« Avete finito questa chiacchierata? » la voce del carceriere che si avvicinava li costrinse a ridurre al minimo la loro conversazione.
« Portalo a Max » aggiunse Alec, mentre Simon veniva tirato via dalle grosse mani dell’uomo. A nulla servivano i tentativi di liberarsi o di chiedere qualche altro minuto. « E digli che gli voglio bene » furono le ultime parole che sentì Simon, prima di essere sbattuto fuori dall’ingresso del carcere. Venne spinto con tale forza che cadde a terra, sbattendo il didietro sui ciottoli della strada.
Sentì i cavalli dei soldati nitrire, come a deriderlo per la sua goffaggine.
Simon si alzò avvertendo, oltre al dolore alla schiena, anche un profondo senso di impotenza.
 
 
 
 
 
Caserma di Newark.
 
 
Magnus sbuffò, seccato per la lunga attesa che aveva dovuto sopportare prima di essere ricevuto dal Capitano Pangborn, capo della caserma di Newark.
Dalla stanza in cui l’avevano fatto attendere, decorata con sciabole fisse alle pareti e scudi appesi secondo l’ordine dei reggimenti, giunse un tenente in divisa di non più di trent’anni.
« Signor conte » lo chiamò, esponendo il saluto militare a cui Magnus rispose con un cenno del capo. « Il Signor Capitano può riceverla, ora » Con un colpo di tacchi si spostò a destra, invitandolo ad uscire dalla stanza come da protocollo militare e a seguirlo.
Percorsero un corridoio, fino a raggiungere una stanza alla quale il tenente bussò. Al consenso ricevuto pochi istanti dopo, Magnus varcò la soglia e si sedette alla scrivania dietro la quale un uomo dai capelli corti e brizzolati e totalmente privo di barba stava osservando alcune carte. Non appena Magnus prese posto, l’uomo alzò lo sguardo su du lui. Aveva due occhi di ghiaccio e trasudava autorità. Gli ricordava per certi aspetti il suo capo istruttore, quando aveva prestato giuramento. Forse per la meticolosità dell’ordine presente nella stanza, per lo sguardo glaciale oppure semplicemente per la corporatura robusta che lo rendevano simile a un orso imponente.
Molto diverso dall’ordinario e per nulla intimidatorio tenente che lo aveva accompagnato.
« Mi hanno riferito che volevate parlarmi. Ditemi pure » cominciò il capitano, la voce che rifletteva pienamente l’impenetrabilità dell’uomo.
« Sono qui per fare richiesta di assoluzione da un crimine da parte di un mio servitore »
« Un servitore? »
« Si tratta di un’accusa infondata, un malinteso » spiegò, mantenendo la stessa inflessibilità del suo interlocutore. « E condannare un innocente sarebbe contrario alla giustizia che io, quale ufficiale fedele al nostro Re e al nostro esercito, non posso fare a meno di difendere »
Il capitano spostò la propria attenzione nuovamente sulle carte, tra le quali Magnus scorse i suoi documenti personali.
« Ammirevoli parole, conte » disse, soffermandosi su una lettera in particolare. « Com’è ammirevole anche il vostro interesse per un semplice servitore, per quanto fedele vi sia stato. Ma qui io leggo che siete in congedo, pertanto non mi è possibile riservarvi alcuna concessione ufficiale. Specie per un fatto di natura prettamente personale »
« Non è personale, capitano » ribatté Magnus, attirando nuovamente quello sguardo su di sé. « Si tratta di una richiesta dettata dalla ragione che l’arme promulga quale suo scopo primario: la difesa della giustizia in qualunque frangente. Pertanto, vedo strettamente legata tale giustizia all’innocenza che ne determina la veridicità. Ed è quindi il mio senso dell’onore e del rispetto verso la divisa che mi spinge a tale semplice richiesta »
« Ma come voi certamente saprete, conte » intervenne il capitano, sistemandosi sulla sedia. « In ogni conflitto, che sia sul campo di battaglia o su quello della quotidiana esistenza, anche gli innocenti sono chiamati nella loro parte. Se ci mettessimo ad indagare su ogni possibilità, su ogni tentativo di dichiararsi innocente da parte di ciascun detenuto del paese, finiremmo col non giungere mai al termine della guerra che stiamo combattendo »
« Infatti, capitano » convenne il conte. « Ed è proprio per prestare servizio a questa guerra e a questa nazione che il mio servitore è giunto stamattina in caserma ad arruolarsi » affermò. « Lasciarlo morire nel disonore del carcere prima ancora di aver prestato giuramento è un’onta che non merita, non solamente per la lealtà che lui stesso ha dimostrato alla mia famiglia. Sono assolutamente certo della sua innocenza, essendosi trattato di un fraintendimento da parte di un nobile mio conoscente, forse per uno scherzo futile e inappropriato nei miei riguardi » Magnus stava inventando tutto, cercando di suonare credibile anche alle sue stesse orecchie. « Considerato il mio congedo, seppur temporaneo, un tale avvenimento spiacevole finirebbe col macchiare il mio nome » aggiunse, in un ultimo tentativo. « Potete immaginare come questa situazione rischi di mettere in cattiva luce la mia credibilità, e soprattutto la mia autorità militare » 
Vide il capitano aggrottare appena le sopracciglia ingrigite. Forse era riuscito a destare in un lui un margine minimo di interesse.
« Ed essendomi io arruolato otto anni orsono proprio qui, in questa caserma » insinuò. « Sono spinto anche dalla preoccupazione che quanto rischia di accadere possa compromettere in qualche modo anche le autorità qui presenti »
A questo punto, che la prendesse per la minaccia che era.
Questa è la mia ultima carta da giocare.
« Per questo conto sulla vostra distinta saggezza, capitano » concluse. Magnus capì di aver colpito nel segno quando vide le labbra dell’uomo arricciarsi appena verso il basso e il sopracciglio scattare appena, come a scacciare un pensiero fastidioso.
Un uomo del genere doveva aver faticato molto per costruirsi una tale aura di autorità implacabile. Eccolo, il suo punto debole.
Magnus sorrise dentro di sé, assaggiando lo stesso gusto di vittoria che si ha in una battaglia con un solo vincitore.
 
 
 
 
 
In carcere.
 
 
All’alba del giorno successivo, Alec si ridestò all’improvviso da un sonno raggiunto a fatica quando avvertì la porta della cella scattare e aprirsi.
Accanto a sé, Meliorn se ne stava seduto a guardare il carceriere avvicinarsi.
« Lightwood » berciò l’omaccione, il tintinnio delle chiavi arrugginite che lo accompagnavano. Alec si voltò nella sua direzione, alzandosi in piedi. « Muoviti » L’uomo lo strattonò per un braccio, costringendolo a seguirlo. Lo sguardo saettò in direzione di Meliorn, il quale gli sorrise facendogli un tranquillo cenno di saluto con due dita.
Lungo il corridoio passarono davanti al cortile, dove Alec si aspettò di essere condotto per l’impiccagione. Invece il carceriere lo trascinò all’ingresso, ridacchiando.
« A quanto pare è il tuo giorno fortunato »
Giunsero in una stanza spoglia, al cui interno lo attendevano due soldati dallo sguardo indecifrabile e in mezzo a loro un uomo di spalle. Al suo arrivo, si volse nella sua direzione e Alec riconobbe la figura impeccabile e gli occhi severi del conte Ragnor Fell.
Il conte gli si avvicinò, esibendo un profondo sguardo indagatore e girandogli intorno.
Dopo un lungo momento di silenzio, in cui Alec avvertiva un brivido leggero sulla schiena, il conte scosse il capo.
« Non è lui » sentenziò. Le guardie assunsero un’aria perplessa.
« Ma signor conte » tentò uno dei due uomini. « Non è possibile, guardatelo bene »
« Non è questo l’uomo che mi ha derubato » affermò, prima di avvicinarsi minacciosamente ai due. « O state forse mettendo in dubbio le mie parole? »
I soldati scossero energicamente la testa, chinando il capo e borbottando delle scuse. Gli occhi del conte tornarono su Alec, totalmente inespressivi.
« Uno spiacevole malinteso » esordì il conte, prima di rivolgersi un’ultima volta ai soldati. « Spero di non dover tornare un’altra volta inutilmente » concluse, precedendo i presenti e diretto verso l’uscita.
Vennero scortati entrambi fuori e non appena le porte del carcere si furono richiuse, il conte cominciò ad allontanarsi senza degnarlo di uno sguardo.
« Vi ringrazio, signore » lo fermò Alec, mentre l’altro si voltava e gli si avvicinava.
« Non è me che devi ringraziare » disse, afferrandogli il braccio in una presa ferrea. Alec si sentì in trappola come un animale, immobile e incapace di distogliere lo sguardo. « Sappi che non l’ho fatto per te » sibilò, con occhi di ghiaccio. « Non conosco le tue mire, ragazzino. Ma vedi di fare molta attenzione, perché non sarò così clemente se tenterai in qualsivoglia modo di infangare il nome dei Bane o di creare problemi a Magnus. Sono stato chiaro? »
Alec rimase immobile a fissarlo, interdetto.
« Non credo che tu sia così stupido, ma se dovessi rivelarti tale » aggiunse, facendola suonare per la minaccia che era. « Sarà la mia lama a toglierti di mezzo »
Lo spinse via, lasciando la presa così tanta urgenza da farlo barcollare. Poi sorrise e se ne andò, raggiungendo il proprio cavallo e lasciandolo solo.
Alec si sentiva stordito. Faceva fatica a rielaborare quanto era avvenuto.
Sapeva solo una cosa: per quanto fosse stato importuno, scortese e deliberatamente perfido, il conte Bane aveva interceduto per lui.
Il conte Bane gli aveva salvato, in qualche modo, la vita.
 
 
Qualche ora dopo, Magnus arrivò trafelato al carcere. Lasciò le briglie di Presidente in mano alla sentinella della prigione, cominciando a chiamare a gran voce.
« Aprite! » Accorsero due guardie ai cancelli.
« Chi va là? »
« Sono il conte Magnus Bane » Una delle guardie cominciò a tirare fuori il mazzo di chiavi per aprire il portone. « Dovete liberare Alexander Lightwood » annunciò, esibendo una pergamena arrotolata con il sigillo militare. « Ho con me una delibera firmata dal colonnello Pangborn »
L’altra guardia bloccò il soldato intento ad aprire il portone, avvicinandosi.
« Ma è già stato rilasciato, conte » affermò.
Magnus gli rispose con uno sguardo perplesso, prima di arricciare le labbra in un sorriso.
Alla fine Ragnor ha ritrovato la ragione.
 
 
 
 
 
Villa Bane.
 
 
Alec non immaginava che avrebbe rivisto tenuta Bane così presto e con nascosta nel cuore una serena speranza. Ne osservò con attenzione i giardini, il laghetto, i fiori curati e le siepi eleganti. Ammirò con occhi nuovi anche la sagoma imponente della villa, i raggi del sole che la accarezzavano come una nave sull’oceano.
Si adombrò appena, colto da un pensiero. Sarebbe partito comunque, ma voleva rassicurare Simon, sua madre e suo fratello che stava bene. E forse, sì, una piccola parte di lui sentiva che era giusto ringraziare il conte e congedarsi da lui in buoni rapporti.
Perché Alec era onesto, come lo era stato suo padre. E se voleva ricominciare la sua nuova vita altrove, doveva farlo senza alcun rimpianto alle spalle.
Avrebbe anche rinnovato i suoi ringraziamenti nei confronti del conte Ragnor, per aver ritirato la sua denuncia. Nonostante fosse stato ingiusto lui per primo.
Poi si diresse nella sala comune della servitù, da dove proveniva un vociare indistinto.
Non appena entrò tutti gli sguardi si puntarono su di lui, come se avessero visto un fantasma.
« Alec! » All’esclamazione gioiosa di Simon, tutti esplosero in un applauso e lo accolsero con calore. Si sentì abbracciare intorno ai fianchi. « Alec! Stai bene! » Max lo strinse forte, ridendo ed esultando.
Anche sua madre si unì all’abbraccio, assieme a Simone e a Clary, la quale era giunta non appena saputa la scioccante notizia da Simon.
« Com’è il carcere? Ci si sta bene? » chiese qualcuno, con tono pungente. Ma Alec non vi diede peso.
« Alec, è vero che sei stato in cella con degli assassini? » chiese una cameriera curiosa.
« Come hai fatto a uscire? » chiese qualcun altro.
« E le catene? Te le hanno messe le catene? »
« Basta! Lasciatelo stare » fece a un certo punto Simon, allontanando i curiosi che li avevano circondati. Qualcuno ordinò agli altri di riprendere le proprie faccende e si allontanarono in molti.
« Alec, stai bene? » chiese Clary, con voce preoccupata.
« Fratellone, rimani vero? » fece a un certo punto la vocina di Max.
« Max » sorrise Alec, tirando fuori dalla casacca l’autorizzazione da soldato dell’esercito. « Mi sono arruolato, ricordi? »
Si levarono alcune voci deluse. Max aggrottò le sopracciglia infastidito, ma era comunque felice che suo fratello stesse bene. Sua madre andò a preparargli qualcosa da mangiare, mentre Simon lo assicurava che Lux stava bene e che aspettava nelle stalle.
« Grazie, ma prima devo fare una cosa » disse, posando la bisaccia sul tavolo. « Il signor conte è in casa? »
« No » Simon lo guardò, interrogativo. « Ma come, non siete rientrati insieme? »
Stavolta fu Alec ad esibire un’espressione perplessa. Alla sua negazione, Simon riprese a spiegare.
« Era venuto a liberarti con un permesso speciale dell’esercito. Te ne avevo parlato in prigione » gli rammentò lo stalliere.
Allora Alec raccontò del conte Fell, che aveva ritirato la denuncia essendosi trattato di uno sbaglio e che era stato lui a liberarlo. Pur se, a conti fatti, lo aveva fatto nell’interesse del signor conte.
« Dovrebbe rientrare a momenti, comunque » aggiunse l’amico, prima di venire interrotto dal nitrito di un cavallo e dal vociare poco lontano di alcuni servitori.
Il conte era appena rientrato.
Quando si dice il caso. Si ritrovò a pensare Alec, avvertendo già la tensione farsi strada lungo le sue membra, ancora provate dalla lunga notte in cella. Raggiunse l’ingresso dal piano della servitù, seguito da Simon e Clary.
« Signor conte » lo chiamò, notando le spalle dell’altro irrigidirsi e voltarsi lentamente. Notò una scintilla negli occhi verdi, e sentì un tenue calore diradarsi tutto intorno.
« Alexander » pronunciò l’altro, dopo quel breve silenzio. Sembrava come se stesse accarezzando, avvolgendo il suo nome. Era una sensazione strana, ma Alec non vi si soffermò.
« Volevo » cominciò, bloccandosi un attimo nel sentirti addosso qualche occhiata curiosa di troppo. « Parlarvi » disse infine. Magnus percepì le stesse occhiate, ma bastò uno sguardo e tutti si dispersero tornando a lavoro.
« Seguimi » fece l’altro, dirigendosi in biblioteca e ascoltando con attenzione i passi di Alexander dietro di sé.
Una volta rimasti soli, Alec cercò qualsiasi cosa nella biblioteca che attirasse la sua attenzione. Si soffermò brevemente sulle copertine dei libri o sulle rifiniture della finestra. Non seppe come mai, vista la fierezza insita nel suo carattere, ma in quel momento sembrava oltremodo difficile sostenere lo sguardo dell’altro.
« Io ci tenevo a ringraziarvi » ruppe il silenzio che si era venuto a creare, voltandosi nella sua direzione. « Per il vostro aiuto » Sperò, in quella maniera, di cancellare i rancori e le offese da parte di entrambi. Non importava se il conte era troppo orgoglioso per fare altrettanto.
« Io non ho fatto nulla » contestò il conte.
« Sì, invece » ribadì. « So che siete stato voi a convincere il conte Fell a ritirare la denuncia. Dunque è a voi che devo la mia libertà e tutta la mia gratitudine »
« Ho fatto solo quello che credevo giusto » minimizzò il conte, distogliendo lo sguardo e sorridendo.
« Per il denaro che mi avete fatto avere in carcere » ricordò, attirando su di sé nuovamente quegli occhi di giada. « Non ne ho avuto bisogno e li ho restituiti a Simon »
Magnus imbronciò appena le labbra sottili.
« Potevi tenerli » obiettò il conte. « Ti sarebbero potuti tornare utili »
« No, signore » asserì Alec, con decisione. Si aspetto di infastidirlo, invece Magnus sorrise compiaciuto.
« Alexander » saggiò di nuovo il suo nome, pronunciandolo lentamente. « Tu, la tua inattaccabile onestà e la tua dannata cocciutaggine »
Alec ricambiò quel sorriso con uno appena accennato, ma sincero.
« Volevo che ci lasciassimo senza rancore » aggiunse, abbassando gli occhi.
Sentì il conte bloccarsi per un istante.
« Quindi sei intenzionato a partire comunque » La voce del conte parve adombrarsi, come se fosse distante. Ma stavolta avrebbe trattenuto la rabbia egoista che sentiva montare dentro di lui. Avrebbe rispettato il suo volere, non si sarebbe messo in mezzo di nuovo. Tentare di imporsi su Alexander significava allontanarlo ancora di più.
E non voleva che lui partisse conservando il ricordo di un padrone crudele ed egoista.
Così almeno, se fosse tornato al primo congedo, non avrebbe visto il gelo nei suoi splendidi occhi blu. Forse, lasciandolo andare, avrebbe avuto modo di assicurarsi il suo rispetto oltre alla gratitudine che gli aveva appena dimostrato.
Per lo meno non lo avrebbe odiato. Questo Magnus non avrebbe potuto sopportarlo.
Trasse un lungo respiro, pronto ad augurargli ogni bene, quando la voce dell’altro lo interruppe sul nascere.
« Ma se per voi è un problema trovare un nuovo maggiordomo » intervenne, distogliendo lo sguardo e avvicinandosi alla scrivania in legno. La carezzò con le dita e Magnus si ritrovò a seguire quel semplice gesto con attenzione. « Qualcuno abbastanza qualificato da mandare avanti una tenuta come questa, amministrare il personale e i giardini. Aiutare a mantenere efficiente l’organizzazione dei pasti, delle feste o delle giornate di caccia » continuò, mentre Magnus cominciava a intuire ciò che si nascondeva tra le righe del suo discorso. « Potrei sempre partire con qualche giorno di ritardo »
Magnus non tentò neppure di nascondere il suo sorriso, mentre gli si avvicinava.
« Davvero un problema, in effetti » affermò, fingendosi infastidito. « Perché avevo proprio intenzione di tenere diversi ricevimenti e battute di caccia in questo periodo » continuò, imitando i gesti di Alexander nello sfiorare con le dita la superficie di legno della scrivania. « Se partissi in questo momento, mi creeresti non poche difficoltà »
Alec vide le dita del conte avvicinarsi lentamente alle sue, e si ritrasse.
« Capisco » Magnus era certo di non aver visto, stavolta, il solito cipiglio disgustato e trattenuto che Alexander esibiva quando la loro vicinanza raggiungeva quel certo limite. « Con il vostro permesso, allora, riprendo temporaneamente il mio lavoro »
Magnus lo vide congedarsi.
E giurò di aver visto il volto di Alexander colorarsi appena, poco sopra l’accenno di un sorriso.
 
 
 
Il cambio di programma venne accolto con grande entusiasmo. Max era tornato allegro e pimpante dopo quei giorni di malcontento generale.
Clary e Simon avevano tirato entrambi un sospiro di sollievo, spaventati da tutto ciò che riguardava i pericoli della guerra.
Eppure, nell’estasi generale, una figura non apprezzava quel glorioso ritorno. Per niente.
Catarina scrutava dalla finestra la figura di Alexander muoversi tranquillamente per i giardini, con quell’andatura morbida e disinibita che sembrava quasi sbeffeggiarla. Strinse forte il ventaglio tra le mani avvolte dai guanti merlettati da giorno, cercando di sopprimere in parte la sua irritazione.
Come poteva quello sciocco di Magnus insistere nell’assecondare qualsiasi futile e inadeguato interesse per il servitore? Era evidente, d’altronde. Inaccettabile, ma evidente.
Le riecheggiarono secche e lapidarie le parole del fratello, la sua ostinazione nel voler riportare indietro il ragazzo, come se gli fosse totalmente insopportabile la possibilità contraria. Che se ne andasse, finalmente. Sarebbe potuta essere l’opportunità adatta per sopprimere sul nascere qualsiasi possibile diceria.
Perché Catarina non era stupida e conosceva molto bene suo fratello, nonostante gli anni di separazione. Sapeva quanto infantile e ingenuo potesse diventare, quando i suoi occhi si fissavano su qualcosa in particolare. Sia che fosse un giocattolo, una magione, un cavallo o una persona.
Era sempre stato così viziato, da giovane.
Quando erano bambini, Magnus riusciva sempre ad ottenere ciò che desiderava. Rigirava le parole, sfuggiva i doveri e si complimentava quel tanto che bastava per sentirsi il favorito che era sempre stato. Troppi ricordi erano all’origine del loro reciproco dissapore. Catarina era molto diversa da lui. Non aveva avuto le stesse predilezioni fin dalla nascita, per la sua stessa condizione. La cosa l’aveva sempre infastidita, ma lei possedeva il buon senso e l’ordine che ogni tata le aveva fin da sempre riconosciuto. Conosceva il suo posto nel mondo, conosceva quello di suo fratello, di sua madre e di suo padre, come anche dei servitori.
Una volta suo padre la lodò, in occasione di un ricevimento, per la sua diligenza ed affidabilità. Se lo ricordava bene, perché era motivo di orgoglio nel suo cuore e nella memoria che aveva del conte Bane, suo padre.
Catarina aveva passato l’intero pomeriggio a prepararsi per quella grande cena, la prima alla quale le era stato concesso di partecipare. Aveva nove anni.
Era rimasta in piedi tutta la giornata, spaventata di spiegazzare il vestito o di ritrovarsi una ciocca di capelli fuori posto. Aveva chiesto talmente tante volte alla sua tata se il fiocco di raso che aveva tra i capelli fosse a posto che neanche le ricordava.
Quando poi era stata accompagnata fino alla sala del ricevimento gli occhi le brillavano, si sentiva orgogliosa e felice. Suo madre volse lo sguardo verso di lei con un sorriso, invitandola ad avvicinarsi, mentre altre dame notavano la sua presenza e le sorridevano lodando la sua graziosa bellezza.
Camminava dritta, a testa alta, facendo attenzione a non inciampare con le scarpette nuove.
Il tutto prima che quella magica atmosfera venisse spezzata da Magnus, che si presentò in ritardo, ridendo come un qualsiasi garzone di paese, e scappando dalla tata che cercava invano di tenerlo buono. Il chiasso aveva attratto l’attenzione di tutti, suscitando anche qualche risolino, nel vedere il giovane rampollo dei Bane con una giacca variopinta sulla quale aveva avvolto una delle stole di seta di sua madre, una scarpa di un colore diverso dall’altra e i capelli simili a un nido di rondini stravolto dal vento.
E sebbene la sua personalità allegra e spregiudicata non lo avesse messo in ridicolo, nonostante gli occhi di tutti fossero veicolati nella sua direzione con entusiasmo, alla fine suo padre lo aveva guardato scuotendo il capo e sorridendo a Catarina.
Le aveva detto, dopo il congedo dei nobili, che suo fratello Magnus era uno spirito indomabile e pieno di contraddizioni, ma che lei sarebbe diventata una perfetta contessa, affidabile e di buon costume.
Quella stessa sera – alla domanda sul perché Magnus, sebbene venisse più volte sgridato, non cambiasse alla fine atteggiamento – sua madre le rispose che solo il tempo avrebbe fatto capire al fratello a combattere e ad impegnarsi per ciò che era davvero importante.
Ma di tempo ne era passato fin troppo: erano trascorsi anni, era andato in guerra, eppure sembrava non essere poi così cambiato, sotto la superficie.
Catarina aveva capito a nove anni ciò che era davvero importante e per il quale doveva combattere: il nome e il prestigio della sua famiglia.
E non avrebbe permesso a nessuno di disonorarla.
Tanto meno a un futile servitore.
 
 
 
 
Nella biblioteca.
 
 
Magnus si accasciò sulla poltrona della scrivania in cedro, quest’ultima sommersa di pratiche, certificati di proprietà, ricevute di pagamenti e documenti vari.
Allungò una mano per raggiungere la bottiglia di vino, divenuta molto più leggera rispetto a quando l’aveva aperta qualche ora prima. Si versò l’ennesimo bicchiere, bevendone un lungo sorso nella speranza di allontanare per qualche misero instante l’incommensurabile noia che aveva iniziato ad attanagliarlo da quando si era deciso a riorganizzare la documentazione della tenuta.
Un vero inferno.
Ciò non faceva che confermare quando Magnus non si fosse mai sentito ad adatto all’amministrazione di beni e terreni. Era una faccenda da avvocati e notai, non certo da militare come lo era lui.
Ma essere l’erede universale, unico discendente dei Bane, portava con sé molto più del nome.
Non ricordava suo padre in quei frangenti. L’inflessibile ed austero conte Bane si chiudeva in biblioteca e non faceva mai entrare nessuno, men che meno i figli.
Molte volte lo aveva rimproverato per svogliatezza e scarsità d’interesse nel voler imparare. Quel vecchio scorbutico era stato ben felice di vederlo partire per il fronte.
Non aveva nemmeno finto dispiacere all’annuncio.
Niente lo aveva mai sfiorato, nessun’ombra di sentimento. Fino alla fine.
E ora che Magnus era seduto a quella poltrona, la sua poltrona, capiva perché non dispensava mai alcun sorriso.
Magnus era seduto alla scrivania da poco più di quattro ore e già aveva finito la bottiglia.
Imprecò tra sé e sé, esasperato.
Si alzò di scatto, passandosi la mano dell’anello di famiglia tra i capelli.
Fece per versarsi l’ultimo bicchiere, quando la luce del tramonto filtrò tra gli alberi colpendo il bicchiere, distogliendo la sua attenzione dalla bottiglia e riversandola interamente sulla sacca di cuoio abbandonata sulla sedia accanto alla finestra. Vi si recò, prendendola tra le mani, mentre osservava la bellezza del giardino. I giardinieri stavano cominciando a rientrare, mentre un piccolo stormo di passeri raggiungeva gli alti alberi per riposare.
Svuotò la sacca, trovando la delibera che aveva richiesto per Alexander e che gli era costata delle ore infinite in caserma. A quanto pareva, ormai non serviva più. Lanciò con poca attenzione di nuovo la sacca sulla sedia, quando gli parve di vedere qualcosa uscirvi. Si chinò a prendere una lettera che aveva totalmente dimenticato di possedere.
Sgranò gli occhi, riconoscendola.
Era la lettera del Marchese Rollins, consegnatagli poco dopo la sua morte.
Si portò una mano alla bocca, dandosi dello sciocco.
Se ne era totalmente dimenticato.
Era la lettera sulla congiura ai danni del Re, contenente i nomi dei cospiratori. Come aveva potuto dimenticarsene? E se si fosse persa, all’arrivo alla tenuta? Oppure durante la sua visita al carcere.
La strinse forse, come nel timore che un soffio di vento potesse farla volare via dalla finestra.
Ma come avrebbe potuto avvicinarsi a Sua Maestà e fargliela avere?
Nonostante fosse un conte e un ufficiale dell’esercito, non possedeva una carica abbastanza alta da richiedere un’udienza privata con il Re.
Se soltanto fosse stato in rapporti con qualcuno abbastanza potente.
E all’improvviso capì.
Ma certo.
Avrebbe potuto chiedere a Camille, dal momento che suo marito era consigliere personale del Re.
Oppure avrebbe potuto consegnarla a lei direttamente e liberarsi di quel fardello.
Sorrise. L’indomani avrebbe raggiunto Camille alla sua villa, ponendo fine a quella storia.
Lasciò la lettera sullo scrittoio, avviandosi di nuovo verso la finestra, mentre delle parole si riaffacciavano nella sua memoria.
Tutti i miei superiori sono corrotti e altri lo saranno presto.
Nel leggere le ultime parole del marchese, quella notte all’accampamento di High Peaks, Magnus aveva notato la profonda diffidenza del marchese. Ed era nato in Magnus un terribile sospetto, che si riaffacciava ora nel riflesso del suo volto sulla finestra.
Che ci fossero cospiratori anche nell’arme? Nel suo stesso reggimento magari?
Perché il marchese si era fidato solo di lui?
Altre parole riapparvero dinnanzi ai suoi occhi.
Il conte Magnus Bane è il primo per onore e giustizia. Se avessi vissuto più a lungo ne avrei riconosciuto tutti i meriti, come è giusto che sia.
Digli di portare la lista direttamente a Sua maestà e di non fidarsi di nessuno.
Il marchese era sempre stato giusto con lui, un maestro più che un superiore. Aveva trovato in cui quella figura paterna, degna di rispetto e fiducia, che mai aveva scorto nel suo stesso padre.
Non poteva disattendere quelle speranze riposte in lui.
Il marchese gli aveva anche salvato la vita in battaglia. Glielo doveva, in sua memoria.
Nel freddo di un altro, temibile, sospetto, Magnus si volse lentamente verso la scrivania. Gli occhi e il fiato immobili, la schiena contro la finestra, che nonostante conservasse il tepore del sole pomeridiano, non sembrava acquietarlo per nulla.
Gli occhi verdi erano fissi sulla lettera sigillata.
E qualcosa di più forte del timore o del sospetto si fece strada in lui.
Devo aprirla.
Magnus non era mai stato un uomo da lunghi e inutili ripensamenti. Era un uomo d’istinto, così si era distinto sul campo di battaglia e negli addestramenti militari.
Raggiunse in poche falcate la scrivania, afferrò il tagliacarte per non intaccare il sigillo dei Rollins e aprì la busta.
Quel che vi lesse, lo scioccò più di una doccia gelida.
 
 
 
 
 
 
Villa Belcourt.
 
 
Magnus venne accompagnato da un servitore in un salotto dai colori tenui, arredato elegantemente e con impeccabile gusto.
« Potete attendere qui, conte » disse il servitore, il naso appuntito rivolto all’insù con un non so che di vanitoso, in piena intenzione di rispecchiare i modi eleganti ma superbi della sua padrona. « La Marchesa vi raggiungerà tra poco »
Detto questo, fece un lieve inchino e si defilò. Magnus passò quei minuti d’attesa nell’osservare le fatture dei mobili e alcune decorazione dei vasi. Camille non aveva mai perso il gusto per le cose belle e, possibilmente, anche molto costose o difficili da trovare.
E a quanto pareva, suo marito l’accontentava più che bene in quei piccoli ma dispendiosi capricci.
Magnus si sentiva ancora scosso, ma non poteva aspettare oltre.
Un sordido rumore di tacchi sul pavimento a quadri lo ridestò, spingendolo a voltarsi.
Camille era come sempre impeccabile, avvolta da un abito verde pallido, impreziosito da perle e bracciali e un ventaglio in stile orientale.
« Magnus » sorrise, allungando una mano affinché lui la baciasse con cortesia. « Che gioia rivederti così presto » continuò con voce soave, invitandolo a sedersi e chiamando con un campanello per il thè. Quando questi giunse, assieme al servitore impettito, che si affrettò a lasciarli soli, Camille riprese a parlare.
« Allora, a cosa devo questa visita? »
« Ti devo parlare di una questione molto importante, Camille » Nel vedere la serietà negli occhi di Magnus, Camille sorrise di più come a voler allontanare delle nubi grigie dal suo salotto.
« Oh cielo, che espressione cupa » commentò, portandosi elegantemente la tazzina alle labbra rosse. « Devo preoccuparmi? »
« In verità, dovresti » Alla voce ferma di lui, Camille si bloccò appena. Lo fissò con attenzione, poi annuì e posò la tazzina sul piattino finemente decorato.
« Molto bene, hai la mia completa attenzione »
Magnus era teso, Camille lo aveva capito subito. Il modo in cui muoveva le mani tra di loro, tradiva una sua vecchia abitudine che fin da ragazzo possedeva.
« In nome dell’amicizia che ora di lega, devo rivelarti qualcosa che forse... ti turberà »  
« Dì pure. Sono una donna coraggiosa, mi conosci » commentò lei, ammiccando.
« Si tratta di un segreto di stato quindi, ti prego, dammi la tua parola che quanto dirò non uscirà fuori di qui »
« Hai la mia parola »
Gli occhi di Magnus la fissarono a lungo, prima di cominciare a spiegare.
« È in atto una congiura di nobili, molti dei quali sono nostri amici » spiegò. « Persone che conosciamo da sempre »
Camille lo ascoltava con attenzione, l’espressione impassibile.
« Io sono in possesso di una lista con tutti i loro nomi » aggiunse, infine. Le labbra di Camille si separarono appena, le mani che si stringevano impercettibilmente attorno al ventaglio.
« Chi? » domandò con fermezza, ostentando la stessa indifferenza.
« Tuo marito, Camille » La marchesa chinò il capo a quelle parole, celando per pochi secondi i suoi occhi a Magnus. « Il suo nome è in cima alla lista assieme a quello del duca Valentine Morgenstern »
Con uno scatto Camille aprì il ventaglio, iniziando a sventolarsi. A Magnus non sfuggì il risolino che la marchesa cercò in ogni modo di soffocare.
« Ridi? » domandò, aggrottando le sopracciglia.
« È che mi sembra impossibile » spiegò, frettolosamente. « Mio marito un traditore » sospirò, facendo saettare lo sguardo in ogni angolo del salotto. Quando incontrò nuovamente le iridi verdi di Magnus, sembrava sul punto di avere un mancamento. « Scusami, mi manca il fiato » E ricominciò a sventolare il ventaglio, respirando con fatica.
« Mi dispiace » proruppe Magnus, non appena si fu calmata. « ma non potevo tacere »
Camille allungò una mano su quella di Magnus, come a volersi sostenere a lui.
« Come tu sai, tra me e mio marito non c’è mai stato amore » confessò. « ma stima sì » aggiunse. « E adesso questa notizia… »
Prese nuovamente la tazzina da thè e Magnus la aiutò, versandogliene dell’altro. Dopo un sorso, gli occhi di Camille si riempirono di determinazione, sotto tutto quel turbamento.
« Come mai non l’hanno ancora arrestato? »
« I documenti sono ancora in mio possesso »
Camille sospirò, gioendo nascosta dentro di sé ma non lasciando trasparire alcunché all’esterno.
« Camille, io dovrò consegnare quella lista » affermò. « Anche se, insomma, mi dispiace per te »
« Non ti preoccupare per me » lo rassicurò. « Anzi, forse ti posso aiutare in qualche modo? »
Magnus annuì.
« In effetti, puoi. Ed è anche per questo che sono qui, non solo per avvertirti » Si sistemò meglio sul divanetto, prendendole le mani tra le sue. « Ho bisogno del tuo aiuto per parlare direttamente a Sua Maestà, in un’udienza privata » spiegò. « Anche se mi rendo conto quanto questo possa essere difficile per te »
Camille riacquistò tutta la sua determinazione, a quelle parole.
« Stai parlando con Camille Belcourt » eruppe, fiera e orgogliosa come lo era sempre stata. « Valgo molto di più del mio cognome e non mi importa cosa ho da perdere, perché niente può scalfirmi »
« Molto probabilmente tutti i beni e le proprietà di tuo marito verranno confiscati »
« Non ho mai usato i beni di mio marito, non ne avevo il bisogno » asserì lei. « Tutto quello che vedi deriva dall’eredità del mio defunto padre e di qualche lontana vecchia zia » aggiunse. « E se ti preoccupi del mio nome, sappi che possiedo delle proprietà a Saint Lourens. Non ho alcun problema a trasferirmi lì, finché le acque non si saranno calmate. Sebbene non posseggano tutte le stesse comodità » spiegò, alzandosi e sventolando ancora il ventaglio.
« Camille » la richiamò, alzandosi anch’egli. « Evidentemente dimentichi i tuoi doveri »
« Li ha sciolti lui stesso, tradendo il suo re » A quelle parole Magnus sembrò convincersi. « Magnus, dico sul serio. Lascia che organizzi tutto. Mi farò viva io »
Annuì, prendendole la mano e posandovi un bacio di gratitudine.
Poco dopo, Magnus era di nuovo in sella al suo cavallo, diretto alla tenuta.
 
 
 
 
Villa Bane.
 
 
Un campanello cominciò a tintinnare nella sala del personale. Tra chi era impegnato a pulire o chiacchierare, qualcuno puntò lo sguardo sulla fila ordinata dei campanelli appesi al muro. Ciascuno riportava una diversa intestazione incisa nelle targhe di legno, a seconda della stanza dalla quale era stato suonato.
« Il signor conte ha suonato » fece la cuoca con voce annoiata, mentre indirizzava le varie sguattere nell’organizzazione prevista per la cena. Due dei giardinieri volsero gli occhi verso il campanello che ancora oscillava, tornando poi a giocare a carte dinnanzi al fuoco spento.
Dalla porta di legno che conduceva alla cantina dove venivano conservati i vini, spuntò la figura alta e slanciata di Alec, di nuovo nella sua tenuta da maggiordomo.
« Chi porta la colazione al conte? » cinguettò una delle cameriere, tra i risolini di altre due.
Alec posò i due vini nella dispensa, dirigendosi poi verso il vassoio del conte.
Ma prima che potesse prenderlo, si frappose una cameriera dalla voce ricolma di miele, ammiccando in direzione di Alec.
« Vado io a portare la colazione al signor conte! »
« Sta attenta » si intromise uno dei camerieri. « Il signor conte è pur sempre un nobile. Si sa che quelli come loro presto o tardi si stancano di chi è gentile con loro »
Qualche altra risatina.
« Ma per chi mi hai preso? » ribatté la cameriera, fingendo sdegno sotto un sorriso beffardo e voltandosi a fissare Alec dritto negli occhi. « Io non sono certo il tipo di persona che entra nelle grazie di un nobile per rimediare qualcosa in cambio »
Alec strinse le labbra in una linea dura. Avrebbe voluto rispondere, ma come era solito fare in quei frangenti preferì soprassedere. Aggirò la cameriera, con sguardo freddo, prese il vassoio e uscì dalla stanza. Non abbastanza in fretta, però, da non sentire qualche altra maldicenza sussurrata.
Ma non importava, aveva fin troppo lavoro da sbrigare quel giorno.
Tra le varie commissioni, la supervisione della tenuta e l’organizzazione del personale per permettere loro di partecipare all’ormai prossima festa del primo giorno d’estate, non aveva tempo da perdere dietro sciocchi pettegolezzi.
Quel pomeriggio, poi, dovette dedicarsi alla lucidatura dell’argenteria, dal momento che l’ultima volta che aveva relegato il compito a una delle cameriere aveva trovato dei graffi su una delle zuccheriere.
Era appena al quarto pezzo, quando udì delle voci avvicinarsi.
« …e probabilmente è così che lo ha fatto uscire di prigione »
« Da non credere »
« Tu dici, Robert? Io non ne sono poi così sorpreso »
Erano due dei camerieri della villa e un giardiniere. Alec li conosceva, sebbene non si fossero mai scambiati più di qualche parola. Non direttamente almeno, poiché a quanto pareva erano più che propensi a scambiarsi parole su di lui.
Entrarono nella stanza e trovandosi davanti il diretto interessato, si ammutolirono. Poi quello che si chiamava John, uno dei due camerieri, incrociò le braccia guardandolo con superiorità.
« Ma guarda chi c’è » Alec riprese a passare il lucido sulla salsiera.
« C’è qualche problema? » chiese, guardandoli uno ad uno.
« Qualche problema? Vediamo » gli rispose avvicinandosi, assieme agli altri due. « Sei tu il mio problema »
Alec lo ignorò, continuando a lucidare.
« Lo vedete? Neanche mi guarda » aggiunse, togliendogli dalle mani la salsiera e rigirandosela tra le mani. A quel punto, Alec lo guardò. « Cosa c’è, Lightwood? Ti credi troppo in alto per parlare con me? »
Uno degli altri due sghignazzò.
« O forse guardi solo i nobili perché noi non meritiamo la tua attenzione »
Si intromise un altro, che di nome faceva Andrew, prendendo dalle mani dell’amico la salsiera.
« Un nobile di sicuro » ridacchiò.
« Già » riprese John. « Dicci un po’ il tuo segreto, Lightwood »
« Quale segreto? » chiese Alec, con voce ferma. Robert sorrise, come se non avesse aspettato altro che quella domanda.
« Prima ci stavamo chiedendo come il signor conte ti avesse tirato fuori dalle sbarre » spiegò, con voce lenta come quando si parla a un bambino. « Cosa hai fatto per avere un tale colpo di fortuna? »
Il terzo dei tre assunse un’espressione di disgusto.
« A noi lo puoi dire » riprese Andrew. « Hai seguito le orme di qualche cameriera? »
Ripresero a ridere.
Alec prese un lungo respiro, poi allungò la mano per riprendere la salsiera. Ma Andrew la mise dietro la schiena.
« Rendimela, per favore »
« Ma sentitelo » riprese John. Poi l’espressione derisoria gli si spense sul viso, lasciando il posto a ben altro. « Chi ti credi di essere? Pensi di poterci dare ordini solo perché sei il maggiordomo di casa? » Gli si avvicinò minaccioso. « Tanto lo sappiamo tutti qui »
« Che cosa? »
« Quello che sei » rispose. « Lo hai nascosto bene, ma prima o poi tutto viene scoperto » aggiunse, spintonandolo. « Ma non mi aspettavo che proprio tu, il preferito della contessa, sempre così serio e inflessibile » Lo afferrò per il colletto. « non fossi migliore di qualche prostituta da locanda »
Tra le risate degli altri due, John fece in tempo ad aggiungere altro.
« Forse dovremmo chiamarti “Signor Bane” » lo denigrò, ancora. « Alla vecchia sarebbe piaciuto »
A quel punto un pugno lo colpì.
Tanto doloroso da mozzare il fiato.
John era a terra, una mano premuta sullo stomaco, mentre gli altri fissavano prima lui e poi il pugno teso di Alec.
E quasi immediatamente, lo attaccarono.
 
 
 
Magnus stava scendendo le scale, diretto alle cucine. Aveva suonato il campanello tre volte per ordinare del vino, ma dopo quasi mezz’ora nessuno si era degnato di salire.
Notò il silenzio nei corridoi.
Ma che fine hanno fatto tutti quanti?
Si affacciò dal cornicione della scalinata in marmo, cercando qualcuno da rimproverare e a cui ordinare il suo maledetto vino.
Vide una cameriera correre, ma non fece in tempo a chiamarla che altre due corsero nella stessa direzione, senza notarlo minimamente.
Sono impazziti tutti?
Sbuffò profondamente infastidito, scendendo le scale con un po’ più di fretta e seguendo la direzione presa dalle tre.
Dopo qualche minuto si ritrovò all’ingresso del piano della servitù, dal quale sembravano provenire delle voci alquanto concitate.
Aggrottò le sopracciglia e si accinse a raggiungere la stanza comune della servitù, per ritrovarsi davanti una decina di persone accalcate dinnanzi all’uscita secondaria verso il cortile.
Vide delle figure scattare in quello che parve fin da subito uno scontro.
Ma che diamine-
E tra di essi, Alexander.
Si fece spazio tra i servi che immediatamente, accortisi di lui, si dispersero. Qualcuno annunciò il suo arrivo, e due dei litiganti impietrirono, staccandosi immediatamente dalla lotta. L’ultimo rimasto, le mani strette intorno al colletto di Alexander, venne tirato indietro dagli altri due. Non aveva idea da quanto tempo fosse cominciata quella zuffa e non vide né i piatti rotti né le sedie ribaltate.
Tutto il campo visivo di Magnus era popolato da immagini di Alexander ferito, con la manica strappata, il sangue sullo zigomo sinistro e tra le labbra, un occhio violaceo e lui a terra, parzialmente seduto che tentava di riparare ciò che del volto non era ancora stato colpito.
Appena i suoi occhi azzurri incrociarono quelli del conte, Alec sentì il sangue gelare nelle vene.
Vide quegli occhi riempirsi di ira e volgersi con lentezza implacabile verso i suoi assalitori.
No.
« Cosa stavate facendo » I tre aggressori avvertirono l’impulso irrefrenabile di allontanarsi, ma rimasero come impietriti sul loro posto. Il conte cominciò ad avvicinarsi, il desiderio di avere a portata di mano la sua pistola. « Rispondete! » tuonò imperioso, mentre Alec faticava a rimettersi in piedi, l’occhio offeso tenuto semichiuso per il dolore.
I tre uomini si riscossero, cominciando ad accampare ogni sorta di scusa. Ma le false scuse arrivarono alle orecchie di Magnus indistinte e senza alcun fondamento.
Gli occhi di fuoco del conte li osservavano ora come fossero stati degli insetti, pochi istanti prima di schiacciarlo.
« Dovrei farvi frustare » sibilò, mentre i tre trattenevano il fiato. Ma prima che potesse fare alcunché, Alexander si frappose tra lui e i tre aggressori.
« Signor conte » eruppe, quindi, facendosi forza per non barcollare. « Mi scuso per questo sgradevole incidente » aggiunse, il fiato corto e il sangue che gli macchiava i denti. « Come capo del personale, me ne assumo la piena responsabilità »
Magnus era assolutamente senza parole.
E sembrava che anche i tre servitori fossero sbigottiti.
Ma quanto forte l’avevano picchiato, per permettergli di pronunciare tali assurdità?
Diamine, quei farabutti lo avevano ridotto talmente male che era doloroso guardarlo.
E lui si prendeva la colpa?
Doveva essere impazzito.
Magnus, ricorda che a volte prendersi le responsabilità determina chi sei molto più della verità in sé.
Le parole di sua madre.
« Non si ripeterà più » lo interruppe dai suoi pensieri, di nuovo, la voce affaticata di Alexander, il quale rimaneva in piedi nella sua fierezza. E si perse in quegli occhi blu. E vi lesse il coraggio.
Ridestandosi, lanciò un’occhiataccia ai tre, scacciandoli con un cenno stizzito della testa. I tre borbottarono delle scuse nei confronti del conte e si defilarono velocemente.
Ben presto tutti erano ritornati alle loro faccende, ad eccezione dei due uomini rimasti a fissarsi l’uno di fronte all’altro. Nel silenzio che li circondava, fu Alexander il primo a spezzare quell’immobilità.
Accennò con il capo, sorpassandolo e rientrando nella sala dell’argenteria. Tenendosi un fianco, Magnus lo vide sedersi sulla stessa sedia su cui Alec avevano cominciato a lucidare le zuccheriere e i piatti da portata. Prese un panno pulito lì vicino, provando a tamponarsi il labbro ferito.
Magnus, che ne aveva seguito i movimenti per tutto il tempo, lo raggiunse. Spostò una sedia e gli si sedette accanto.
Alec volse il capo nella sua direzione.
« Vi occorre qualcosa? » pronunciò, con la stessa lieve difficoltà di poco prima. Magnus avrebbe voluto urlargli che era un idiota, che le colpe altrui se le prendono solo gli sciocchi.
Avrebbe voluto dirgli che forse era a lui che occorreva qualcosa. Il cervello magari.
Avrebbe voluto tornare indietro, prendere quei tre e sbatterli in prigione.
Avrebbe voluto togliergli quel panno bisunto dal viso, afferragli il colletto e-
« Signor conte? »
« Avevo suonato per un thè » Si diede dell’idiota lui stesso.
« Ve lo faccio portare immediatamente di sopra » fece per alzarsi, ma il conte lo afferrò per un braccio. Senza fargli male, ma con decisione. Lo fece sedere di nuovo, scuotendo la testa.
« Lascia stare »
Scivolò nel guardarlo in ogni punto dove era presente un livido, un taglio o un rigonfiamento. Non sarebbe stato un granché nei giorni a seguire.
E allora perché non riesco a smettere di guardarlo?
« Sai, Alexander » disse, attirando nuovamente i suoi occhi. « Sei pessimo nel combattere » lo prese in giro, aspettandosi un cipiglio infastidito. Invece l’altro lo fissava seriamente.
« Non stavo combattendo »
« Ancora peggio, allora » ribatté. « Ti limitavi a subire. Pensi di essere stato saggio? Non rispondere a un’offesa ti porterà ad essere preso di mira ancora e ancora » aggiunse, mentre l’altro abbassava di nuovo lo sguardo. « Non c’è niente di nobile nel lasciarsi sopraffare »
« Non mi sono lasciato sopraffare »
Magnus lo fissava, poco convinto. Le sopracciglia scure inarcate in alto.
« Ho cominciato io »
Cosa?
« Sono stato io a sferrare il primo pugno » spiegò, sotto gli occhi allibiti dell’altro. « Avevano insultato un persona che ho sempre rispettato molto. Non ho ragionato con lucidità e l’ho colpito. Il resto è stato un incidente. Per questo me ne assumo la colpa »
Alexander. Sei una sorpresa continua.
« Lascia che ti aiuti » Alec tornò a guardarlo, un misto di emozioni difficili da decifrare. « Solo con quel taglio, stai sanguinando »
L’altro scosse appena la testa.
« Vi ringrazio, ma sono in grado di farlo da solo » E detto ciò si alzo per raggiungere la credenza dell’argenteria, aprendo uno dei cassetti in cui di solito venivano tenute delle garze in caso di contatto del lucido con ferite aperte. Nel tornare a sedersi, chiuse gli occhi per una fitta di dolore al fianco inciampò su una delle mattonelle rialzate del pavimento.
Ma poco prima di finire faccia a terra, sul pavimento, un braccio del conte passò sotto la sua spalla sinistra, sostenendo entrambi con l’altro sul tavolo.
Nello sbilanciamento, Alec si era voltato e ora fissava gli occhi del conte così da vicino che non sembravano più tanto verdi. O per lo meno non del verde che era solito vedere. Sembravano più scuri e con delle pagliuzze dorate a decorare tutte intorno le pupille.
Forse era il dolore, ma Alec percepiva doloroso ogni respiro quando l’aria entrava nei suoi polmoni. Quindi stare così vicino al conte, il volto deturpato e il fiato spezzato, non era proprio una situazione ideale.
Anzi non lo era affatto.
Tentò di distaccarsi, borbottando delle scuse sottovoce, ma la presa dell’altro era ferma. Così come il suo viso.
Alec era abituato a leggervi sopra la strafottenza e l’egoismo, la superbia, lo scherno. Raramente anche le gentilezza e la determinazione.
Ma in quel momento non vide nulla.
Era anche alquanto difficile tenere entrambi gli occhi aperti. Di sicuro almeno uno si sarebbe gonfiato parecchio. Si ritrovò ad inghiottire un rivolo di sangue, sopprimendo un verso disgustato.
La presa del conte era immutata. Ma ecco che rischiavano di sfiorare ancora quel confine, il tempo giusto per stare così vicini.
Per questo, Alec ritrasse un braccio per fare una leggera pressione al petto dell’altro, perché si allontanasse.
Non era ridotto tanto male da rischiare un mancamento, quindi non vi era ragione alcuna per continuare quell’inopportuna situazione.
« Alexander » E anche la sua voce parve diversa, più scura come più scuri erano i suoi occhi.
Occhi che ora sembravano più grandi, quasi come se fossero più vicini.
Gli sembrò di galleggiare, nonostante il dolore, nonostante il sapore del sangue.
Magnus vide una goccia sgorgare dal taglio alla bocca, nell’angolo delle labbra. E si ritrovò a fissarle con una tale naturalezza che poco importava se erano vicino alle cucine, nel piano più popolato della casa.
Non importava.
Perché in quel momento c’era solo Alexander.
« Signor conte! » Un’esclamazione improvvisa. E non era la voce di Alexander.
Ma cosa-
La porta accostata della stanza si spalancò d’improvviso, facendo strada a un Simon Lewis trafelato e sufficientemente imbranato da inciampare in un secchio ricolmo di strofinacci e acqua sporca che attirò la sua attenzione abbastanza da permettere ad Alexander di mettere almeno due piedi di distanza tra loro.
« Ma chi ha lasciato qui- » si bloccò, osservando i due. « Oh misericordia! Alec! » esclamò. « Che ti è successo alla faccia? »
Alec, che quasi aveva dimenticato il dolore, si portò una delle garze sul viso.
« Niente, sto bene » si affrettò a rispondere. « Un incidente »
Simon parve poco convinto e nel mentre che iniziava a ragionare, domandandosi se il fatto che il conte si trovasse in quella stanza, lo implicasse in qualche modo a quanto accaduto ad A-
« Lewis » tuonò il diretto interessato. Giuro. Giuro che l’ammazzo.
« Signor conte! » esclamò di nuovo con gli occhi spalancati, ricordandosi d’improvviso la ragione che lo aveva spinto a cercare ovunque il signor conte, tanto da girare quasi ogni stanza della villa.
« Lewis » ripeté il conte, avvicinandosi lentamente e con un ampio sorriso dipinto, celando nell’animo l’ira. Gli afferrò la casacca, tirandoselo vicino. « Suppongo che tu abbia un’ottima ragione »
« Oh sì, sì sì, signore » balbettò, le membra irrigidite dalla paura. « Ecco, io- Vi stavo cercando-  »
« Parla! »
« I-Il signor conte Fell ha chiesto d-di vedervi e vi aspetta in biblioteca, signore »
Magnus sospirò profondamente, prima di lasciare andare l’inopportuno stalliere.
« Digli che arrivo subito » Maledetto Lewis e maledetto Ragnor.
Simon scappò così come era comparso, ansioso di mettere più distanza possibile tra lui e l’aura minacciosa del conte.
Magnus si portò due dita sugli occhi, cercando di ritrovare la calma.
Quando si voltò, Alec era intento a tamponare la ferita.
Le sopracciglia aggrottate del conte si distesero, nell’osservarlo.
« Riposati, Alexander » All’occhiata interdetta dell’altro, Magnus rispose con un sorriso. « Torna nella tua stanza, se la caveranno senza di te per stasera »
« Ma, signor conte- »
« Insisto » lo interruppe. « Fai come ti dico, Alexander, o mi vedrò costretto a licenziare quell’imbranato di Lewis » aggiunse, prima di andarsene con un una finta espressione seccata.
Nel richiudersi la porta alle spalle, gli parve quasi di aver sentito Alexander ridere.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell'autrice (NdA):
 
 
Salve a tutti, ebbene sì. Sono tornata. 
 
No, non ero morta. No, non ho abbandonato la storia. No, non mi ha rapita una nave aliena (?)
 
Mi scuso con tutti voi per questa lunga assenza. Per chi ancora segue questa storia e si soffermerà a leggere queste noiosissime (ma importantissime) note, sappiate che tale assenza è dovuta alla più semplice, banale e ridondante problematica che affligge ogni scrittore.
No, non si tratta del blocco, stavolta.
Come è giusto che sia, dal momento che il mio adorabile computer mi detesta dal più profondo dell'hardware, ha deciso di abbandonarmi un pezzo alla volta. E ha avuto in mente di attuare questo piano malefico sabotandomi la memoria interna, cosa che mi ha spinta a perdere qualsiasi file che non fosse conservato sulla memoria esterna.
E indovinate cosa non avevo salvato su quest'ultima?
DIN DIN DIN abbiamo un vincitore. Esattissimo.
La storia.
E dal momento che l'unica che mi era rimasta erano vecchi appunti presi a matita su un quaderno sperduto, ho dovuto riscrivere tutto.
Una meraviglia eh? Già, sì...
Comunque, forza, costanza e quel minimo di tempo libero che possiedo quando non studio e non lavoro, mi hanno spinta a ritornare sui miei passi (depressione post-morte del pc a parte).
E adesso, ho ri-progettato i capitoli: ho riscritto le bozze ed adesso, per la vostra gioia, sto riprendendo a correggerle per poi pubblicarle.
 
Pertanto, continuate a seguire questa roba che il mio cervellino partorisce. 
Vi adoro, siete adorabili.
Mi avete scritto tantissimi messaggi in questi mesi e ve ne sono davvero molto riconoscente.
Nonostante questo periodo non sia così libero come "agosto-vacanze-yeah" possa lasciare intendere, cercherò di fare il possibile per pubblicare con costanza.
Come ho già ripetuto, la storia è tutta progettata. Occorre solo che io la "renda leggibile", visto il disastro che combino quando prendo appunti, faccio congetture, cambio, modifico, sventro e ricucio.
 
Detto questo, le note bla bla sono finite, vi adoro.
Mi raccomando fatemi sapere cosa ne pensate.
 
A presto,
WallisDennie
   
 
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