Singing
is the answer
14 – Wait a moment: one, two… three? Who’s he?
La situazione pareva completamente surreale: non solo Raon
aveva palesemente mancato l’appuntamento con Aya, che
dal canto suo non l’aveva contattata neppure nonostante l’insistenza nel
cercarla tramite telefono; si ritrovava aggrappata ad uno sconosciuto che la
stava aiutando a tornare a casa, instabile sulle proprie gambe, causa un
incidente che definire stupido sarebbe stato riduttivo. Si sentiva imbarazzata
e pure in colpa, non certo l’unica però: il terzo “mi spiace” l’aveva colpita
prima nella pazienza per poi scavarsi un pezzetto nel petto.
«Non serve che ti scusi ancora, anche perché è più colpa mia che tua. Insomma,
ero io quella a correre come una deficiente senza guardare, non certo tu. Stare
più attento però, eh?»
Il ragazzo la stava sorreggendo per un braccio, una mano sul fianco a ricreare
un equilibrio in parte stabile. «Stavo pensando.»
«E quando pensi non guardi dove vai, di solito?» Lingua lunga quella di lei, lo
era sempre stata, ma ormai aveva parlato. Arrossì lievemente per il tono
impudente utilizzato nel rivolgersi a chi la stava aiutando, perdendo di fatto
il resto del pomeriggio. «Scusami, tendo a parlare troppo e a sproposito.»
Una risata aperta, spontanea e coinvolta: Raon si
sentiva ancora peggio di prima data la reazione.
«Faccio così tanto ridere?»
«Eh?»
«No, dicevo, faccio davvero così ridere? Non zoppico perché mi diverto, sai…»
Non aveva capito assolutamente nulla: credeva d’essere presa in giro per la
propria condizione, non certo per altre motivazioni più plausibili. La seconda
risata la irritò di più.
«No, certo che no. È che sei così… ehm, vedi, non saprei proprio come
definirti…»
«Strana?»
«Forse.»
«Ti stai approfittando della mia pazienza solo perché siamo degli estranei?»
Lui si fermò intensificando la stretta sul polso e sul fianco. «Tae[i], puoi chiamarmi Tae, così non
puoi più dirmi di essere uno sconosciuto che si sta approfittando della tua
pazienza, per poterti deridere senza remore.»
Raon assottigliò lo sguardo per poi presentarsi a sua
volta distendendo la fronte leggermente corrugata. Gli chiese da dove venisse e
per quale motivo si trovasse in città: scoprì che sì, i tratti non tradivano
certo la provenienza comune e no, non s’era trasferito da poco. Il ragazzo spiegà amabilmente che l’accento non era stato perso grazie
all’assiduo divieto di parlare “una lingua straniera” in casa – concetto
sottolineato perfettamente dal mimo delle virgolette. Raon
aveva sorriso a una simile ammissione: lei si sentiva invece appartenere in
tutto e per tutto a quello stato occidentale, a quella regione, quella città,
anche se i piccoli occhi color nocciola, la statura bassa ed i capelli scuri e
sottili erano un tesoro orientale custodito dal proprio sangue, dalla famiglia,
dal passato scritto nel DNA. Gli aveva raccontato di come il padre
difficilmente toccasse l’argomento, e ciò che conosceva della lingua d’origine
certo non le era stato insegnato dalla madre. Era sempre stata convinta che i
genitori in qualche modo si rifiutassero di dimostrare al mondo la propria
provenienza in modo palese, ma non aveva mai osato approfondire la faccenda con
loro. Anche il fratello maggiore non s’era mai sbilanciato troppo, fino a che
non crebbe e smise definitivamente di chiedere certe cose.
La perplessità sulle notizie apprese era palese, pesante, tanto da portare il
ragazzo a permettersi di intervenire. «Non senti come se ti mancasse qualcosa?»
«Come scusa?» Ormai arrivata a fianco della porta di casa, superando con fatica
il cancelletto al limitare del piccolo giardino e seguendo il sentiero in
pietra dalla superficie irregolare, Raon si poggiò
allo stipite tastandosi le tasche alla ricerca delle chiavi.
Non c’erano.
Non certo stupita della propria sbadataggine, ripensò a come fosse
letteralmente scattata dalla sedia e si fosse precipitata fuori con solo il
telefono cellulare tra le dita, e nient’altro, chiavi comprese. Suonò il
campanello con la convinzione di poter risolvere la faccenda in poco.
Non rispose nessuno, naturalmente.
Si scostò leggermente osservando il vialetto con la dovuta attenzione alla
ricerca della macchina del padre.
Mancava, certo.
Suonò ancora una volta nella speranza di ritrovare il volto del fratello dietro
alla vetrata opaca della porta. Niente, Han non era arrivato per lei, e non sarebbe
comunque venuto. Non c’era nemmeno lui. Sperando di sbagliarsi batté con la
solita delicatezza che la contraddistingueva: un pugno ben serrato, il suono
secco di nocche violente su legno. Sollevò in questo modo una certa ilarità in
Tae, osservatore divertito in quella commedia che era la vita quotidiana di Raon, di cui ancora non conosceva nulla.
«Non ci sono.»
Una sentenza pesante quanto ovvia.
«E quale sarebbe il problema? Non mi sembra tu sia una bambina, credo tu possa
cavartela lo stesso.»
Impudente pure lui, pensò Raon prima di rispondergli.
«Certo, ovvio che sì razza di... ah, lasciamo stare… ma se mi mancano le chiavi,
cazzo. Va che hai una bella linguaccia, eh.»
Lui rise di lei più che con lei. «Anche tu non scherzi.»
L’incredibile e strana sensazione di benessere riscoperta nella compagnia
reciproca si stampò sui volti di entrambi, ricreando un clima leggero e ilare. Lei
tentò di sedersi sullo scalino d’ingresso perdendo di fatto l’equilibrio ed
imprecando per il dolore.
Un attimo dopo Tae era già lì, tastandole con estrema delicatezza la zona lesa;
il volto teso, gli incisivi a mordicchiare nervosi il labbro inferiore. «Si sta
gonfiando. Dobbiamo applicarci del ghiaccio e farti riposare, altrimenti
peggiorerà. C’è un bar dove chiederne qui vicino?»
Una zona appartata in una via laterale non presentava certo il luogo adatto ad
attività di ristorazione di successo: Raon credeva
fosse un concetto ovvio, e lo dimostrò alzando un sopracciglio e schioccando la
lingua con fare saccente. Estrasse il cellulare dalla tasca nella speranza di
trovare una risposta di Aya, così da chiederle una
mano: nulla, zero, neppure una visualizzazione dei messaggi spediti in
precedenza. Non poteva contare su di lei, suo padre era al lavoro, suo fratello
sicuramente aveva ripreso il turno lungo.
Un nome si formò nella sua testa, chiaro, diretto, un nome fastidioso e
ridondante ormai dopo i pensieri di quella notte passata a cercare di trovare
una soluzione ad uno stupido, stupidissimo momento passato proprio accanto a
quella persona. Odiava essersi persa a pensare a lui tutto quel tempo dopo
essersene tornata a casa, odiava non averci dormito su se
non la mattinata stessa; odiava essere stata baciata ed aver ricambiato in
maniera imperante ed affamata.
E soprattutto, odiava quello che avrebbe dovuto fare.
«È successo qualcos’altro?» La voce di Tae la riportò al presente. Incuriosito
da tale spontaneo caratteraccio tentava di inquadrare lo sfortunato incontro
che aveva decisamente dell’assurdo, tanto strano da sembrare surreale, finto,
costruito.
«Niente, c’è una sola cosa, e questa mi scoccia terribilmente. Dovrò andare a
chiedere una mano a quello che ieri mi ha ficcato la lingua in bocca per poi
sbattermi fuori casa.» Credeva di averlo pensato, a malapena sussurrato forse.
Il ragazzo scoppiò a ridere chiedendole di ripetere; le guance di lei assunsero
il tipico colore vivace delle tovaglie di Natale che aveva pensato di regalare
ad Han per l’imminente nuova stagione. Rosso vivo. Rise isterica. «Facciamo
finta che non abbia detto nulla, va bene?»
«Dai, vieni qui, ti aiuto a rialzarti. Mi raccomando, fai attenzione che ti
rimane un piede solo.»
«Con la fortuna di oggi sarei in grado di farmi fuori tranquillamente pure
quello, da seduta, mentre dormo. Perché mi stai aiutando?»
Tae la squadrò perplesso, mimando una finta faccia – palese – corrucciata e
pensierosa. «Per quanto mi sia facile ammettere che sia stata tutta colpa tua,
non posso lasciarti certo da sola in questo stato, chiusa fuori casa. Che uomo
sarei?»
«Direi uno che non sa assumersi la propria parte di colpa.»
La risposta si perse nella risata cristallina e sincera di lei, distratta dal
dolore e dalla tensione all’idea di doversi presentare a casa di Åsli dopo tutto ciò che era accaduto meno di dodici ore
prima.
La testa ancora pulsava: il post sbornia era una delle cose che Åsli sopportava meno in assoluto. Nausea, fatica a
ragionare e a focalizzarsi su qualsiasi cosa, concentrazione pari a nulla.
E vuoto assoluto.
Da una certa ora in poi, non ricordava assolutamente più niente. Sapeva della
presenza di Raon in casa sua, sapeva d’averle parlato
e di essere riuscito ad aprirsi un po’ di più, conversando di cose che mai
avrebbe creduto di poter dire, soprattutto a lei. Aveva aperto uno
spiraglio nella sua mente riferendosi a Kisha e ciò
che era accaduto tra loro. Fino a che punto però? Non lo sapeva. Vaghi stralci
di conversazione si facevano largo tra una tazza di caffè doppio e una
sigaretta cercata con perizia, senza trovarne alcuna traccia. Niente da nessuna
parte, eppure era sicuro d’aver tenuto da parte un pacchetto d’emergenza.
Sembrava sparito, così come metà della nottata ma fece spallucce, tanto sapeva
che se si fosse trovato in casa prima o poi sarebbe venuto fuori. Passeggiava per
il corridoio cercando di trovare un po’ di quiete da quei maledetti sintomi che
non gli erano mancati per nulla, chiamando l’amico Josh al telefono per
accordarsi per un viaggio da dover fare a breve.
Non rispondeva né a quelle, tanto meno ai messaggi.
Tipico.
«Sarà a scopare come al solito, stronzo.»
L’umore non migliorava col passare dei minuti, nemmeno la consapevolezza di
avere dei buchi tra un neurone e l’altro: più cercava di ricordare, meno ci
riusciva. Possibile che bere qualche bicchiere riuscisse davvero a ridurlo
ancora in quello stato? Si sentiva uno stupido ragazzino alle prime sbornie.
Raggiunse il piano di sopra senza neppure accorgersene, spalancando la finestra
della soffitta alla ricerca di un po’ di aria fresca, inspirando con vigore
nella speranza di mandare via la nausea. Rapide immagini si srotolavano davanti
agli occhi: il caotico trasloco con una vecchina impudente e dal senso
dell’umorismo deviato, Josh che lo aveva abbandonato lì con la sua roba per
andare a farsi i cazzi propri, e poi l’incontro assurdo con quella razza di
ragazzina troppo cresciuta dai gusti dubbi e la lingua lunga. Davvero non aveva
mai conosciuto nessun’altra così testarda, volgare, distratta, goffa.
Tutto il contrario di ciò che aveva sempre ricercato in una persona con
l’intenzione di interagire, e perché no, andare oltre.
L’aveva spaventato a morte quel giorno, gli era letteralmente caduta addosso
ribaltandolo dalle scale, aveva preteso di impicciarsi nei suoi fatti, sotto il
suo tetto, tra le sue cose; non era l’unica però, e lo sapeva bene. Scese a
recuperare la fotografia che aveva tenuto nascosta, risalendo nuovamente e
sedendosi sul vecchio pavimento di legno; l’odore di chiuso aveva lasciato
spazio alla pungente fragranza di natura autunnale, quel brivido di frescura
che avrebbe presto lasciato spazio al freddo vero e proprio.
«Åsli, guarda!»
Alzò di scatto gli occhi dalla vecchia carta che stringeva tra i polpastrelli,
convinto di aver udito qualcosa.
Impossibile, si trovava solo in casa. Fissò lo sguardo su quegli occhietti
vispi ritratti accanto ai familiari. Quei codini arruffati…
«Ho trovato un verme, vuoi vederlo?»
Strizzò gli occhi avvicinando il naso alla foto cercando ogni piccolo
particolare. Riconobbe l’ambientazione ritratta alle spalle di quelle persone:
era il suo giardino. Ne era sicuro, certo, gli alberi un po’ più piccoli, i
fusti più snelli, e delle aiuole presenti che mancavano decisamente da tempo,
viste le condizioni attuali; non poteva certo sbagliarsi. Quella era Raon, ne era sicuro, come era sicuro quelli fossero i suoi
genitori, a casa sua. Aveva senso, considerando che l’affittuaria era la nonna
della ragazza.
Quello che non capiva era perché riconosceva esattamente ogni centimetro del
paesaggio immortalato.
Non ricordava di esserci mai stato prima.
Doveva assolutamente incontrare la vecchia Luciye,
c’erano cose che non tornavano e odiava non essere a conoscenza di particolari
che riteneva importanti.
«Raon, tesoro, torna a casa che è arrivato papà.»
«Mamma, può fermarsi anche Åsli?»
«Sì, oggi starà a cena da noi. Avvertirò io sua nonna, andate a lavarvi le
mani.»
Il ragazzo si massaggiò le tempie: cosa diamine stava ricordando? Scese
alla ricerca di un qualsiasi medicinale che potesse aiutarlo a gestire il
fottuto mal di testa che non lo lasciava quasi respirare, e ad ogni passo ogni
scricchiolio, una parete, una porta, tutto gli stava parlando in immagini
nitidissime, come guardando un film ad alta definizione su un televisore di
ultima generazione.
Ricordi vivi, estremamente vivi.
Tanto da farlo barcollare a sorreggersi a malapena al muro.
«Dove le ho messe?»
Rovistò nel cassetto del primo soccorso estraendone un blando antidolorifico
generico. Ne ingollò una, poi due cercando di rendere la dose efficace,
abbastanza da recargli sollievo.
Sarebbe andato a riposare, dimenticando tutte quelle strane sensazioni senza
tempo, e se avrebbe tratto ristoro: una buona idea, decisamente la migliore che
avrebbe potuto partorire in quel momento – l’unica.
Il trillo insistente del campanello distrusse il suo sogno di pace.