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Autore: _aivy_demi_    18/12/2019    35 recensioni
Una ragazza sbadata, disordinata e senza alcun pelo sulla lingua.
Un ragazzo famoso, allontanatosi dalla propria città in cerca di qualcosa.
Si incontrano, si detestano fin da subito.
Una simpatica commedia romantica het piena di malintesi, incontri fortuiti (e non), umorismo e una punta di ironia che non guasta mai.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Singing

is the answer

 

 

14 – Wait a moment: one, twothree? Who’s he?




La situazione pareva completamente surreale: non solo Raon aveva palesemente mancato l’appuntamento con Aya, che dal canto suo non l’aveva contattata neppure nonostante l’insistenza nel cercarla tramite telefono; si ritrovava aggrappata ad uno sconosciuto che la stava aiutando a tornare a casa, instabile sulle proprie gambe, causa un incidente che definire stupido sarebbe stato riduttivo. Si sentiva imbarazzata e pure in colpa, non certo l’unica però: il terzo “mi spiace” l’aveva colpita prima nella pazienza per poi scavarsi un pezzetto nel petto.
«Non serve che ti scusi ancora, anche perché è più colpa mia che tua. Insomma, ero io quella a correre come una deficiente senza guardare, non certo tu. Stare più attento però, eh?»
Il ragazzo la stava sorreggendo per un braccio, una mano sul fianco a ricreare un equilibrio in parte stabile. «Stavo pensando.»
«E quando pensi non guardi dove vai, di solito?» Lingua lunga quella di lei, lo era sempre stata, ma ormai aveva parlato. Arrossì lievemente per il tono impudente utilizzato nel rivolgersi a chi la stava aiutando, perdendo di fatto il resto del pomeriggio. «Scusami, tendo a parlare troppo e a sproposito.»
Una risata aperta, spontanea e coinvolta: Raon si sentiva ancora peggio di prima data la reazione.
«Faccio così tanto ridere?»
«Eh?»
«No, dicevo, faccio davvero così ridere? Non zoppico perché mi diverto, sai…» Non aveva capito assolutamente nulla: credeva d’essere presa in giro per la propria condizione, non certo per altre motivazioni più plausibili. La seconda risata la irritò di più.
«No, certo che no. È che sei così… ehm, vedi, non saprei proprio come definirti…»
«Strana?»
«Forse.»
«Ti stai approfittando della mia pazienza solo perché siamo degli estranei?»
Lui si fermò intensificando la stretta sul polso e sul fianco. «Tae[i], puoi chiamarmi Tae, così non puoi più dirmi di essere uno sconosciuto che si sta approfittando della tua pazienza, per poterti deridere senza remore.»
Raon assottigliò lo sguardo per poi presentarsi a sua volta distendendo la fronte leggermente corrugata. Gli chiese da dove venisse e per quale motivo si trovasse in città: scoprì che sì, i tratti non tradivano certo la provenienza comune e no, non s’era trasferito da poco. Il ragazzo spiegà amabilmente che l’accento non era stato perso grazie all’assiduo divieto di parlare “una lingua straniera” in casa – concetto sottolineato perfettamente dal mimo delle virgolette. Raon aveva sorriso a una simile ammissione: lei si sentiva invece appartenere in tutto e per tutto a quello stato occidentale, a quella regione, quella città, anche se i piccoli occhi color nocciola, la statura bassa ed i capelli scuri e sottili erano un tesoro orientale custodito dal proprio sangue, dalla famiglia, dal passato scritto nel DNA. Gli aveva raccontato di come il padre difficilmente toccasse l’argomento, e ciò che conosceva della lingua d’origine certo non le era stato insegnato dalla madre. Era sempre stata convinta che i genitori in qualche modo si rifiutassero di dimostrare al mondo la propria provenienza in modo palese, ma non aveva mai osato approfondire la faccenda con loro. Anche il fratello maggiore non s’era mai sbilanciato troppo, fino a che non crebbe e smise definitivamente di chiedere certe cose.
La perplessità sulle notizie apprese era palese, pesante, tanto da portare il ragazzo a permettersi di intervenire. «Non senti come se ti mancasse qualcosa?»
«Come scusa?» Ormai arrivata a fianco della porta di casa, superando con fatica il cancelletto al limitare del piccolo giardino e seguendo il sentiero in pietra dalla superficie irregolare, Raon si poggiò allo stipite tastandosi le tasche alla ricerca delle chiavi.
Non c’erano.
Non certo stupita della propria sbadataggine, ripensò a come fosse letteralmente scattata dalla sedia e si fosse precipitata fuori con solo il telefono cellulare tra le dita, e nient’altro, chiavi comprese. Suonò il campanello con la convinzione di poter risolvere la faccenda in poco.
Non rispose nessuno, naturalmente.
Si scostò leggermente osservando il vialetto con la dovuta attenzione alla ricerca della macchina del padre.
Mancava, certo.
Suonò ancora una volta nella speranza di ritrovare il volto del fratello dietro alla vetrata opaca della porta. Niente, Han non era arrivato per lei, e non sarebbe comunque venuto. Non c’era nemmeno lui. Sperando di sbagliarsi batté con la solita delicatezza che la contraddistingueva: un pugno ben serrato, il suono secco di nocche violente su legno. Sollevò in questo modo una certa ilarità in Tae, osservatore divertito in quella commedia che era la vita quotidiana di Raon, di cui ancora non conosceva nulla.
«Non ci sono.»
Una sentenza pesante quanto ovvia.
«E quale sarebbe il problema? Non mi sembra tu sia una bambina, credo tu possa cavartela lo stesso.»
Impudente pure lui, pensò Raon prima di rispondergli. «Certo, ovvio che sì razza di... ah, lasciamo stare… ma se mi mancano le chiavi, cazzo. Va che hai una bella linguaccia, eh.»
Lui rise di lei più che con lei. «Anche tu non scherzi.»
L’incredibile e strana sensazione di benessere riscoperta nella compagnia reciproca si stampò sui volti di entrambi, ricreando un clima leggero e ilare. Lei tentò di sedersi sullo scalino d’ingresso perdendo di fatto l’equilibrio ed imprecando per il dolore.
Un attimo dopo Tae era già lì, tastandole con estrema delicatezza la zona lesa; il volto teso, gli incisivi a mordicchiare nervosi il labbro inferiore. «Si sta gonfiando. Dobbiamo applicarci del ghiaccio e farti riposare, altrimenti peggiorerà. C’è un bar dove chiederne qui vicino?»
Una zona appartata in una via laterale non presentava certo il luogo adatto ad attività di ristorazione di successo: Raon credeva fosse un concetto ovvio, e lo dimostrò alzando un sopracciglio e schioccando la lingua con fare saccente. Estrasse il cellulare dalla tasca nella speranza di trovare una risposta di Aya, così da chiederle una mano: nulla, zero, neppure una visualizzazione dei messaggi spediti in precedenza. Non poteva contare su di lei, suo padre era al lavoro, suo fratello sicuramente aveva ripreso il turno lungo.
Un nome si formò nella sua testa, chiaro, diretto, un nome fastidioso e ridondante ormai dopo i pensieri di quella notte passata a cercare di trovare una soluzione ad uno stupido, stupidissimo momento passato proprio accanto a quella persona. Odiava essersi persa a pensare a lui tutto quel tempo dopo essersene tornata a casa, odiava non averci dormito su se non la mattinata stessa; odiava essere stata baciata ed aver ricambiato in maniera imperante ed affamata.
E soprattutto, odiava quello che avrebbe dovuto fare.
«È successo qualcos’altro?» La voce di Tae la riportò al presente. Incuriosito da tale spontaneo caratteraccio tentava di inquadrare lo sfortunato incontro che aveva decisamente dell’assurdo, tanto strano da sembrare surreale, finto, costruito.
«Niente, c’è una sola cosa, e questa mi scoccia terribilmente. Dovrò andare a chiedere una mano a quello che ieri mi ha ficcato la lingua in bocca per poi sbattermi fuori casa.» Credeva di averlo pensato, a malapena sussurrato forse.
Il ragazzo scoppiò a ridere chiedendole di ripetere; le guance di lei assunsero il tipico colore vivace delle tovaglie di Natale che aveva pensato di regalare ad Han per l’imminente nuova stagione. Rosso vivo. Rise isterica. «Facciamo finta che non abbia detto nulla, va bene?»
«Dai, vieni qui, ti aiuto a rialzarti. Mi raccomando, fai attenzione che ti rimane un piede solo.»
«Con la fortuna di oggi sarei in grado di farmi fuori tranquillamente pure quello, da seduta, mentre dormo. Perché mi stai aiutando?»
Tae la squadrò perplesso, mimando una finta faccia – palese – corrucciata e pensierosa. «Per quanto mi sia facile ammettere che sia stata tutta colpa tua, non posso lasciarti certo da sola in questo stato, chiusa fuori casa. Che uomo sarei?»
«Direi uno che non sa assumersi la propria parte di colpa.»
La risposta si perse nella risata cristallina e sincera di lei, distratta dal dolore e dalla tensione all’idea di doversi presentare a casa di Åsli dopo tutto ciò che era accaduto meno di dodici ore prima.



La testa ancora pulsava: il post sbornia era una delle cose che Åsli sopportava meno in assoluto. Nausea, fatica a ragionare e a focalizzarsi su qualsiasi cosa, concentrazione pari a nulla.
E vuoto assoluto.
Da una certa ora in poi, non ricordava assolutamente più niente. Sapeva della presenza di Raon in casa sua, sapeva d’averle parlato e di essere riuscito ad aprirsi un po’ di più, conversando di cose che mai avrebbe creduto di poter dire, soprattutto a lei. Aveva aperto uno spiraglio nella sua mente riferendosi a Kisha e ciò che era accaduto tra loro. Fino a che punto però? Non lo sapeva. Vaghi stralci di conversazione si facevano largo tra una tazza di caffè doppio e una sigaretta cercata con perizia, senza trovarne alcuna traccia. Niente da nessuna parte, eppure era sicuro d’aver tenuto da parte un pacchetto d’emergenza. Sembrava sparito, così come metà della nottata ma fece spallucce, tanto sapeva che se si fosse trovato in casa prima o poi sarebbe venuto fuori. Passeggiava per il corridoio cercando di trovare un po’ di quiete da quei maledetti sintomi che non gli erano mancati per nulla, chiamando l’amico Josh al telefono per accordarsi per un viaggio da dover fare a breve.
Non rispondeva né a quelle, tanto meno ai messaggi.
Tipico.
«Sarà a scopare come al solito, stronzo.»
L’umore non migliorava col passare dei minuti, nemmeno la consapevolezza di avere dei buchi tra un neurone e l’altro: più cercava di ricordare, meno ci riusciva. Possibile che bere qualche bicchiere riuscisse davvero a ridurlo ancora in quello stato? Si sentiva uno stupido ragazzino alle prime sbornie. Raggiunse il piano di sopra senza neppure accorgersene, spalancando la finestra della soffitta alla ricerca di un po’ di aria fresca, inspirando con vigore nella speranza di mandare via la nausea. Rapide immagini si srotolavano davanti agli occhi: il caotico trasloco con una vecchina impudente e dal senso dell’umorismo deviato, Josh che lo aveva abbandonato lì con la sua roba per andare a farsi i cazzi propri, e poi l’incontro assurdo con quella razza di ragazzina troppo cresciuta dai gusti dubbi e la lingua lunga. Davvero non aveva mai conosciuto nessun’altra così testarda, volgare, distratta, goffa.
Tutto il contrario di ciò che aveva sempre ricercato in una persona con l’intenzione di interagire, e perché no, andare oltre.
L’aveva spaventato a morte quel giorno, gli era letteralmente caduta addosso ribaltandolo dalle scale, aveva preteso di impicciarsi nei suoi fatti, sotto il suo tetto, tra le sue cose; non era l’unica però, e lo sapeva bene. Scese a recuperare la fotografia che aveva tenuto nascosta, risalendo nuovamente e sedendosi sul vecchio pavimento di legno; l’odore di chiuso aveva lasciato spazio alla pungente fragranza di natura autunnale, quel brivido di frescura che avrebbe presto lasciato spazio al freddo vero e proprio.

«Åsli, guarda!»

Alzò di scatto gli occhi dalla vecchia carta che stringeva tra i polpastrelli, convinto di aver udito qualcosa.
Impossibile, si trovava solo in casa. Fissò lo sguardo su quegli occhietti vispi ritratti accanto ai familiari. Quei codini arruffati…

«Ho trovato un verme, vuoi vederlo?»

Strizzò gli occhi avvicinando il naso alla foto cercando ogni piccolo particolare. Riconobbe l’ambientazione ritratta alle spalle di quelle persone: era il suo giardino. Ne era sicuro, certo, gli alberi un po’ più piccoli, i fusti più snelli, e delle aiuole presenti che mancavano decisamente da tempo, viste le condizioni attuali; non poteva certo sbagliarsi. Quella era Raon, ne era sicuro, come era sicuro quelli fossero i suoi genitori, a casa sua. Aveva senso, considerando che l’affittuaria era la nonna della ragazza.
Quello che non capiva era perché riconosceva esattamente ogni centimetro del paesaggio immortalato.
Non ricordava di esserci mai stato prima.
Doveva assolutamente incontrare la vecchia Luciye, c’erano cose che non tornavano e odiava non essere a conoscenza di particolari che riteneva importanti.

«Raon, tesoro, torna a casa che è arrivato papà.»
«Mamma, può fermarsi anche Åsli
«Sì, oggi starà a cena da noi. Avvertirò io sua nonna, andate a lavarvi le mani.»

Il ragazzo si massaggiò le tempie: cosa diamine stava ricordando? Scese alla ricerca di un qualsiasi medicinale che potesse aiutarlo a gestire il fottuto mal di testa che non lo lasciava quasi respirare, e ad ogni passo ogni scricchiolio, una parete, una porta, tutto gli stava parlando in immagini nitidissime, come guardando un film ad alta definizione su un televisore di ultima generazione.
Ricordi vivi, estremamente vivi.
Tanto da farlo barcollare a sorreggersi a malapena al muro.
«Dove le ho messe?»
Rovistò nel cassetto del primo soccorso estraendone un blando antidolorifico generico. Ne ingollò una, poi due cercando di rendere la dose efficace, abbastanza da recargli sollievo.
Sarebbe andato a riposare, dimenticando tutte quelle strane sensazioni senza tempo, e se avrebbe tratto ristoro: una buona idea, decisamente la migliore che avrebbe potuto partorire in quel momento – l’unica.
Il trillo insistente del campanello distrusse il suo sogno di pace.










                              











[i] Tae: pronuncia Tee

   
 
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