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Autore: Roscoe24    20/12/2019    1 recensioni
Le tre storie presenti in questa raccolta sono state scritte per il contest di novembre "Regalami un sogno" indetto dal gruppo Facebook Fanfiction Shadowhunter Ita
Genere: Azione, Commedia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ecco la seconda storia che partecipa al contest.
In questo caso le parole assegnate erano: fogne e regole, mentre per quanto riguarda la canzone era Je vole di Louane.
Vorrei specificare che questa, a differenza delle altre storie, ha più un rating tendente al giallo/arancione, per le tematiche trattate e per il linguaggio usato in qualche frase. Niente di esagerato, ma è sempre meglio specificare!
Ringrazio Rurijo sama e chiunque voglia leggere questa storia.
Spero vi piaccia perché, onestamente, a me immaginare Magnus nei panni di un gangster è piaciuto parecchio!
Non escluso che in alcuni casi, i personaggi possano essere un tantino OOC rispetto agli originali!




                                                                      ◊                                                                

                                              

                                                    A Chicago, è il re che fa le regole.




Chicago era sempre stata corrotta.
Dai tempi dei tempi, era stata invasa da gang e da boss della malavita.
Il culmine era stato raggiunto negli anni ’30, quando Al Capone era a capo della mafia e gestiva, tra le altre cose, un traffico di alcolici illegale che riforniva ogni bar nel South Side di Chicago.
Persino gli irlandesi, originari padroni di quel lato della città, si erano piegati alla sua volontà.
E Alec, che aveva studiato la storia della sua città, era stato fermamente convinto che un’epoca simile non sarebbe più ritornata.
Le sparatorie, le guerre tra gang, i capi gangster erano finiti. Avrebbe davvero voluto che fosse così. Ma la realtà era un’altra: Alec Lightwood, detective nella polizia di Chicago, si sbagliava di grosso.
Perché, appunto, Chicago era corrotta.
E il South Side di Chicago era marcio fino all’osso. Quella parte di città in particolare era in mano alla malavita, ogni cosa era controllata dal boss dei boss, l’uomo che non veniva nemmeno nominato, tanto che era temuto.
Tutti lo chiamavano il Demone, o lo Stregone, perché dicevano che fosse dotato di abilità speciali. Coloro che l’avevano incontrato, credevano che riuscisse a prevedere il futuro, o a compiere incantesimi e maledizioni.
La verità, secondo Alec, era un’altra: Magnus Bane, così si chiamava l’uomo che tirava le fila di Chicago, era solo un ottimo stratega, qualcuno che sapeva come giocare le proprie carte per crearsi una reputazione ad hoc. Tutte quelle voci servivano solamente per scoraggiare e intimidire i suoi nemici, come se la sua brutalità omicida non fosse abbastanza. No, Magnus Bane aveva giocato d’astuzia e aveva aggiunto un elemento mistico, sovrannaturale, alla sua già temuta figura.
Alec gli stava dietro da anni e non era mai riuscito ad incastrarlo. E davvero, a volte gli sembrava di essere salito su una macchina del tempo ed essere tornato agli altri ’30, dove tutti conoscevano i crimini di Capone, ma nessuno poteva dimostrarli.
Alec doveva ritenersi fortunato se anche lui fosse finito come Eliot Ness e avesse potuto aggrapparsi ad un cavillo ridicolo come l’evasione fiscale per incastrare Bane.
Era frustrante.
E ancora più frustrante era essere un poliziotto onesto e pulito in un distretto pieno di sbirri corrotti.
Tutti, persino il capitano del suo distretto, erano sul libro paga di Magnus Bane. Tutti si giravano dall’altra parte, quando lo Stregone commetteva un crimine, o mandava Raphael Santiago, il suo braccio destro, a compierlo per lui.
Lo chiamavano il Vampiro, perché aveva una tendenza particolare, quando torturava le sue vittime: cominciava a dissanguarle fino a che non le spingeva a parlare. Era brutale, spietato. Un cecchino estremamente dotato, un sicario infallibile. Raphael era un segugio. Riusciva a trovare chiunque e con un solo ordine da parte di Magnus, poneva fine alla vita del suo bersaglio.
Incontrare Raphael Santiago era come incontrare il Mietitore – e Alec, se fosse stato uno dei gangster che si divertono a dare nomi agli altri gangster, avrebbe proposto anzi quello, piuttosto che ‘Vampiro’, ma questi non erano affari suoi.
Nei suoi affari rientravano la volontà di ripulire un distretto corrotto da anni, in cui lui poteva contare solo su due persone: Jace Herondale, il suo partner, e sua sorella Isabelle, il medico legale.
Le mattine di Alec iniziavano tutte allo stesso modo: lui entrava in dipartimento, si sedeva alla sua scrivania e  sfogliava i fascicoli di vecchi casi irrisolti per cercare di trovare un qualche indizio che l’avrebbe condotto al vero colpevole: Magnus. Sapeva che tutti i casi che gli capitavano sotto mano erano stati insabbiati dai suoi colleghi corrotti e lui cercava in ogni modo di riuscire, invece, a fare giustizia.  
Era convinto che se avesse anche solo trovato l’accenno di uno schema, un modus operandi, avrebbe potuto almeno connettere i crimini e, in un secondo momento, concentrarsi sul trovare le prove necessarie ad incastrarlo.
Per questo Alec non era molto popolare, tra i suoi colleghi. Tutti sapevano che la sua mentalità da boyscout non avrebbe portato niente di buono, ma sapevano anche che, finché avevano il capitano Victor Aldertree dalla loro parte, Alec rimaneva minaccioso come una mosca in una tana di ragni.
E questa consapevolezza era una delle tante cose che lo mandava in bestia. L’assoluta certezza di non essere altro che un sassolino lanciato nell’oceano. Ma nonostante questo, non aveva mai nemmeno pensato di arrendersi. Farlo significava andare contro ogni suo principio.
Arrendersi avrebbe significato perdere anche la minima speranza che, un giorno, la giustizia avrebbe vinto.
“Hai trovato qualcosa di nuovo, stamani?” Domandò Jace, sedendosi alla sua scrivania, di fronte a quella di Alec.
Il detective alzò lo sguardo sul partner. Lui e Jace erano come fratelli. Si conoscevano fin da bambini. Avevano frequentato le stesse scuole e quando erano stati abbastanza grandi, erano entrati in accademia insieme. I migliori del loro corso. Il loro istruttore li metteva sempre insieme e Jace era fermamente convinto che lo facesse per creare un po’ di ‘sana competizione’ tra di loro, o eventualmente per fare in modo che si addestrassero con qualcuno che fosse veramente alla loro altezza.
Alec aveva sempre creduto che Jace fosse un tantino narcisista, ma a parte quello, aveva un cuore grande e generoso.
Non aveva un solo ricordo dove lui od Isabelle non fossero presenti, per questo lo reputava come un fratello.
Erano sempre stati un trio inseparabile.
Nelle gioie e nei dolori, ma, in quel momento, Alec non voleva pensare ai dolori ricevuti nella sua vita.
O ad uno in particolare.
“No, non ancora. Sempre le stesse cose e sempre la solita assenza di prove. Mi sembra di brancolare nel buio!”
La sua frustrazione non fece in tempo a manifestarsi, perché la loro conversazione venne interrotta dal capitano Aldertree.
“Lightwood, Herondale, c’è un caso per voi.”
Entrambi i detective si alzarono dalle rispettive scrivanie – Alec fece molta attenzione a nascondere il fascicolo che stava esaminando – e rimasero in attesa di qualche delucidazione.
Aldertree, capitano del dipartimento da otto anni, ormai, era un uomo alto, dalla pelle scura e profondi occhi scrutatori. Sembrava sempre che sapesse quello che passava per la testa di ogni singolo poliziotto sotto il suo comando. C’erano delle volte in cui Alec aveva il sospetto che sapesse esattamente cosa faceva alle sue spalle, ma nonostante questo, quel dubbio non gli aveva mai creato nessun tipo di timore.
Non aveva paura del suo capitano.
“Hanno trovato un cadavere nelle fogne, stamattina. Ho già mandato Isabelle. Raggiungetela.” Consegnò un foglietto a Jace e senza aggiungere altro se ne tornò nel suo ufficio.
I due detective si guardarono una frazione di secondo, prima di abbassare lo sguardo sul foglio. Un indirizzo.
“Guido io.” Affermò Jace. Alec annuì e, insieme, uscirono dal distretto.


Raggiunsero l’indirizzo circa una ventina di minuti dopo. Sulla strada, c’era già una serie di agenti in divisa che avevano circoscritto il perimetro della scena del crimine con del nastro giallo dove campeggiava la scritta Polizia di Chicago in nero. Era un monito che doveva significare ‘state alla larga’, ma in realtà sembrava che più che allontanare i curiosi, li avvicinasse.
A volte sembrava che i civili non realizzassero effettivamente che era stato compiuto un crimine, in quelle zone delimitate. La loro curiosità era sempre più forte di quel senso di disagio e rispetto che si dovrebbe provare di fronte alla morte.
E di conseguenza, ogni volta che si avvicinavano alla scena del delitto, Alec e Jace dovevano prima superare un mucchio di curiosi.
Una volta arrivati davanti al nastro, un agente in divisa lo sollevò facendoli passare. Alec riconobbe alcuni membri della scientifica che stavano lavorando in superficie, cercando delle tracce che sarebbero poi diventate prove. Al centro della scena, trovò un tombino aperto, dal quale fuoriusciva un odore terribile.
“Dimmi, partner, non ami particolarmente il tuo lavoro quando dobbiamo letteralmente immergerci nella merda?”
Alec lanciò un’occhiataccia a Jace. “Puoi essere serio per una volta?”
“No. Ci sei già tu che sei serio per entrambi. Ci vuole un po’ di equilibrio.”
Alec scosse la testa, ma in cuor suo sapeva che Jace aveva ragione. Erano sempre stati le due facce della stessa medaglia. Il sole e la luna. Erano diversi sotto tantissimi punti di vista. E forse era per questo motivo che si completavano. Non si poteva avere Alec, senza avere Jace –  e con il tempo, era come se un lato del loro essere si  fosse amalgamato al modo di fare dell’altro, quasi come se esistesse un pezzo di Alec dentro l’anima di Jace e un pezzo di Jace dentro l’anima di Alec.
I loro cervelli ragionavano in modi completamente diversi, ma ciò aveva fatto sì che riuscissero a vagliare ancora più possibilità e a riuscire a risolvere più casi di ogni altro detective.
“Scendi tu per primo, visto che ami particolarmente il tuo lavoro quando devi immergerti nella merda?”
Jace lo fulminò. “Stavo facendo del sarcasmo.”
Alec si lasciò sfuggire un sorriso. “Lo so, io invece no. Scendi prima tu.”
“Ti odio.” Brontolò Jace, senza preoccuparsi di non farsi sentire dal collega. Si diresse verso il tombino aperto e si preparò a scendere giù per la scaletta. Una volta che Alec lo vide scendere l’ultimo piolo, scese a sua volta. La scala su cui stava scendendo era di un metallo freddo e bagnato, che rendeva faticosa l’aderenza. L’odore di fogna aumentava mano a mano che scendeva ogni piolo e quando mise piede sul pavimento, a quell’odore di umidità, urina ed escrementi andò ad aggiungersi anche quello pungente di cadavere.
Si coprì d’istinto il naso, notando che Jace aveva fatto lo stesso, prima di guardarsi intorno. Notò Isabelle a pochi metri da loro, vestita con una tuta protettiva bianca e china sul cadavere. Lo stava esaminando, così, con un’occhiata complice, sia Alec che Jace decisero di avvicinarsi al medico legale.
“Ehi, Iz.” La salutarono all’unisono.
“Ciao, ragazzi.” Isabelle si alzò e si avvicinò ai due, porgendoli una scatolina. Sembrava uno di quei contenitori per creme da viso, ma quando entrambi lo aprirono a turno, capirono che era una di quelle pomate al mentolo da mettere sotto al naso per coprire l’odore di putrefazione dei corpi.
“Cosa abbiamo?” Chiese Jace.
“Chase Montgomery, vent’anni. Gli abbiamo trovato i documenti in tasca. Dallo stato di putrefazione direi che è morto da almeno tre giorni e credo che non sia stato ucciso qui.”
“Pensi ci sia una scena primaria?”
Isabelle guardò il fratello e annuì. “Guarda le sue braccia. Sono piene di tagli. Se fosse stato ucciso qui, il pavimento sarebbe pieno di sangue e invece è tutto pulito.”
Alec si chinò sul cadavere per cercare un qualsiasi indizio. Lo osservò. Era giovane, si vedeva nonostante la morte stesse consumando i suoi tratti. La pelle era pallida, grigia, e si stava irrigidendo, come il resto degli arti. Gli occhi erano vitrei e fissavano, in eterno, un punto sopra al soffitto di quella fognatura. Le labbra violacee, secche e screpolate, erano aperte, quasi come se fossero testimonianza di tutte le grida lanciate da quel poveretto mentre veniva tagliuzzato.
Le braccia erano piene di tagli,  come aveva detto Isabelle, ma i pantaloni lunghi e le scarpe impedivano di riconoscere possibili altre lesioni. Chissà se era stato torturato. Chissà che ragioni credeva di avere l’assassino per giustificare un tale atto. Alec ne aveva incontrati tanti, di assassini, in vita sua. E tutti, nessuno escluso, si erano sentiti legittimati a compiere quel gesto. Per la maggior parte di loro, togliere la vita ad un altro essere umano, altro non era che un pareggiamento di conti. La vittima aveva rivolto loro una parola storta e quelli avevano creduto fosse opportuno vendicarsi con l’omicidio.
Altri ancora, quelli che più spaventavano Alec, erano assassini a sangue freddo. Uccidevano solo per il gusto di farlo. Questi erano i peggiori perché non provavano rimorso alcuno, mai. Erano convinti che generare caos e paura fosse la loro personale vendetta contro una società che li aveva disprezzati, o ignorati troppo a lungo. Erano freddi calcolatori, incapaci anche della minima empatia.
“Probabilmente, l’hanno portato qui per farlo mangiare ai topi.” Ipotizzò Jace, chino a sua volta sul cadavere, dopo aver notato dei piccoli morsi all’altezza dei lobi delle orecchie. “Anche se non ha molto senso. Se vuoi liberarti di un cadavere ci sono altri modi più sicuri per farlo.”
“Forse voleva lo trovassimo.”
“Ma a che scopo?”
“Non lo so.” Alec diede un’occhiata al cadavere. Pensò in automatico a quello che era prima di morire. Una persona, con una vita e dei familiari. Familiari che, magari, adesso, si stavano chiedendo che fine avesse fatto. “Intanto, parliamo con la famiglia, vediamo se riescono a dirci qualcosa di più su di lui.”
Jace annuì. “Izzy, quando l’hai esaminato ci chiami?”
Il medico guardò entrambi. “Certo. Adesso lo portiamo in laboratorio e faccio tutti gli esami, autopsia compresa. Poi vi chiamo.”
“Grazie.” Le dissero, all’unisono, prima di lasciare la scena del crimine e tornare in superficie.



Dopo una prima ricerca, Alec e Jace avevano scoperto che Chase Montgomery, orfano di padre, abitava nel South Side. Era stato schedato nel database della polizia per qualche piccolo furto di cibo. Chase andava nei supermarket, aspettava che il proprietario fosse distratto e rubava da mangiare. Non possedeva un’arma, non aveva mai minacciato nessuno, ma qualche negoziante l’aveva beccato e aveva chiamato la polizia. Il ragazzo si era fatto qualche mese di carcere a periodi alterni e poi, improvvisamente, era rimasto fuori da scenari simili.
O almeno, così diceva sua madre.
“Aveva messo la testa a posto, detective, ve lo assicuro.” La signora Montgomery, seduta su una vecchia poltrona davanti ad Alec e a Jace, tirò su con il naso.
Aveva gli occhi arrossati dal pianto e il viso trasformato dal dolore. Sembrava che la notizia della morte del figlio avesse ucciso anche una parte di lei che adesso stava marcendo dentro al suo cuore, rovinando anche tutte le altre parti del suo essere. Come l’inizio di una metastasi. Si era inevitabilmente rotto qualcosa, dentro quella donna, e non sarebbe più tornata come era prima.
Alec lo sapeva. Lui stesso aveva provato quella sensazione sulla propria pelle. Lui stesso era stato vittima di quel dolore – un dolore che lascia tagli e ferite e non rimargina mai.
“Come fa ad esserne sicura?” Domandò Jace, cercando di fare appello a tutto il suo tatto.
La donna si asciugò il naso con un fazzoletto di cotone ricamato. “Perché aveva trovato un lavoro. Era felice. Rientrava a casa tutte le mattine con il sorriso in faccia, nonostante la stanchezza.” Gli occhi della donna si riempirono di lacrime. “Era così orgoglioso. Mi diceva sempre mamma, ora posso aiutarti senza rischiare di finire nei guai.” La donna nascose il viso nel fazzoletto, versandoci dentro un pianto che ormai non riusciva più a trattenere.
Alec e Jace si guardarono, lasciando alla signora un attimo per sfogarsi. Quando il pianto della donna si calmò, tornò a guardare i detective in viso e allora Alec parlò.
“Dove lavorava suo figlio?”
“Al Pandemonium. Faceva il barista.”
Alec riuscì chiaramente a percepire il proprio sangue che gli si gelava nelle vene. Il Pandemonium apparteneva a Magnus Bane ed era ciò che si poteva definire la copertura legale di tutti i suoi affari. Agli occhi della legalità, Magnus altro non era che il proprietario di un nightclub. Ma Alec sapeva quale fosse la verità: il club serviva da facciata per tutti i suoi loschi affari – armi, principalmente, e servizi di protezione a coloro che stavano sul suo territorio , offerti in cambio di una lauta percentuale in denaro.
“Da quanto?”
“Cinque mesi, ormai.”
“E non ha mai notato niente di strano? Un cambiamento d’umore, una telefonata sospetta…”
La donna ci pensò su. “No, niente del genere. Chase era tranquillo.”
“D’accordo, signora Montgomery, per adesso abbiamo finito. Ci chiami se le viene in mente altro.” Intervenne Jace, alzandosi dal divano dove la signora li aveva fatti accomodare e spronando Alec a fare lo stesso, prendendolo per un gomito. Lasciò il suo biglietto da visita alla signora e, dopo averla salutata, si diresse verso la porta.
Una volta in corridoio, Alec si liberò dalla presa del collega con uno strattone. “Non sono un bambino, Jace!”
“No, ma so riconoscere quello sguardo! Quell’uomo è la tua ossessione e diventerà la tua rovina se non impari a razionalizzare!”
“Io so razionalizzare benissimo. Guardiamo i fatti, ti va?” Sputò con sarcasmo, “Chase è un ladruncolo da quattro soldi che ruba per mangiare. La preda perfetta. Magnus Bane scopre il suo passato, gli offre un lavoro nel suo club e lo usa per i suoi loschi affari. Un ragazzo disperato come Chase accetta qualsiasi compito, dal momento che Bane gli offre un sacco di soldi. Chase è felice, può finalmente aiutare sua madre che nonostante faccia due lavori non riesce a pagare l’affitto. Poi però un giorno ficca il naso dove non deve, o vede qualcosa che non deve vedere e boom, Chase muore.”
Jace si passò una mano sulla faccia. Sapeva perché Alec si trasformava in quel modo. La sua calma e la sua razionalità davanti a Magnus Bane finivano in mille pezzi, come se improvvisamente un sasso fosse stato lanciato contro uno specchio. E poteva capirla, la sua rabbia. Bane teneva in mano la città da anni. Dettava lui le regole, sceglieva lui chi doveva vivere o morire. Sceglieva chi proteggere e chi condannare. E il tutto era condito da una buona dose di protezione fornita da sbirri corrotti.
Ma il fatto era un altro ancora. La rabbia di Alec era alimentata da una perdita che bruciava ancora, nutrita da quel senso di ingiustizia che solo una morte prematura può portare.
“Dammi le prove.” Gli disse, guardandolo negli occhi cervoni. “Dammi le prove, Alec, e sai che ti seguirò fino in capo al mondo.”
“Non ne ho.” Ammise arrendevole, la rabbia che sciamava lasciando il posto all’amara consapevolezza.
“Non ne hai. E mai ne avrai se continui a farti prendere dalla rabbia e dal rancore ogni volta che hai anche solo il sospetto che si tratti di Bane. I sospetti non bastano. Trattalo come un qualsiasi altro criminale e analizza tutto in modo distaccato e razionale. Solo così sarai in grado di ragionare lucidamente e trovare le prove che ci servono.”
“È difficile rimanere distaccati.” Ammise, la gola che si stringeva in un pianto trattenuto, il dolore che tornava ad ondate a torturargli il cuore.
“Lo so. Ma devi provarci.”
Alec annuì e proprio mentre il silenzio stava per avvolgerli, il suo cellulare squillò. Il nome di Isabelle campeggiava sullo schermo e quando rispose, lei lo informò che aveva appena finito l’autopsia e aspettava entrambi nel suo laboratorio.
Jace e Alec uscirono da quell’edificio e salirono in macchina, diretti al dipartimento.


Per arrivare al laboratorio di medicina legale bisognava attraversare tutto il dipartimento di polizia, arrivare ad un ascensore e scendere un piano sotto terra. Si doveva percorrere un lungo corridoio pieno di luci al neon e muri di un verde pallido, prima di arrivare alla porta con su scritto Isabelle Lightwood, medico legale.
Jace bussò e Isabelle, da dentro il suo studio, disse che potevano entrare. Dentro allo studio di Isabelle la temperatura era leggermente più bassa rispetto alle altre stanze. Il tavolo per l’esame autoptico occupava il centro della stanza, illuminata con forti luci bianche che servivano ad Isabelle per riuscire a vedere meglio anche i minimi dettagli.
“Ciao ragazzi.”
“Ciao, Iz.” Le risposero. 
La ragazza aveva il volto teso, preoccupato, e Alec se ne accorse subito. “Izzy, che c’è?” Si avvicinò a lei e le mise le mani sulle spalle. Era sempre stato così, tra di loro. Riuscivano a percepire il malumore dell’altro e bastava un semplice contatto per darsi conforto.
“Non ti piacerà quello che ho scoperto. Cavolo, non piace nemmeno a me…” I suoi occhi antracite evitavano quelli del fratello, quasi avesse paura di leggerci le stesse emozioni che sapeva albergavano i suoi.
“Izzy.” La chiamò. “Guardami. Qualsiasi cosa sia, voglio saperla.”
Isabelle fece un grosso sospiro. “Chase è stato dissanguato. E ho trovato questa, cucita sotto alla sua pelle, dietro alla nuca.” Si voltò verso il tavolo dei suoi attrezzi e sollevò una busta di plastica dove dentro c’era una stella d’argento. “È priva di impronte, l’ho già fatta analizzare, ed è stata cucita…”
“Post mortem.” La anticipò Alec, che aveva già capito cosa volesse dirgli la sorella.   
Isabelle annuì. “C’è anche la stessa M incisa.” I suoi occhi si gonfiarono di lacrime, ma le ricacciò indietro. Un’ondata di dolore familiare le invase il corpo, ma si concentrò per domarlo. Non voleva lasciarsi andare davanti ad Alec perché sapeva che lui avrebbe messo da parte il proprio dolore per concentrarsi sul suo. Si sarebbe messo da parte per consolare lei, come tendeva a fare sempre, ma questo Isabelle non poteva accettarlo.
Sarebbe stata forte, per Alec, come lui lo era sempre stato per lei.
“È uno schema, ragazzi.” Sussurrò Jace, rimasto in silenzio fino a quel momento. “Uno schema porta ad indizi, che portano a prove.”
Alec si voltò verso il partner e annuì. “Dobbiamo andare al Pandemonium.”
 

Di giorno il Pandemonium sembrava un normale edificio. Le luci che di notte illuminavano l’insegna di viola, rosa e blu e attiravano la maggior parte della clientela erano spente – e Alec ebbe l’impressione di star guardando la facciata di una bestia assopita.
Improvvisamente, si sentiva come Pinocchio che stava per entrare nella pancia della balena, ma lui a differenza del burattino di legno, era disposto a sventrarla dall’interno, la sua personale bestia.
Se davvero fosse riuscito ad incastrare Magnus Bane, avrebbe tagliato la testa del drago e allora anche il corpo sarebbe caduto.
L’unica cosa che c’era da sperare era che quel drago non fosse un’idra e che, una volta tagliata la testa, non ne sarebbero sbucate altre due.
“Qual è il piano?”
Alec si voltò verso Jace, alla sua sinistra, che a sua volta stava fissando la facciata dell’edificio.
“Chiederemo solo qualche informazione su Chase. Non faremo riferimento né al dissanguamento, né alla stella. Non voglio che si insospettisca.”
“D’accordo. Entriamo.”
Dopo un’ultima occhiata, i due detective si incamminarono verso l’ingresso.


Varcata la soglia del club, la strada dei due poliziotti venne brutalmente bloccata da una donna di colore. Era abbastanza alta, aveva dei capelli lunghi fino alla vita, legati in tante minuscole treccine. I suoi occhi erano scuri a tal punto che per un attimo Alec fece fatica a trovare la pupilla.
La cosa più spiccava, nel suo viso, comunque, era la cicatrice che campeggiava sulla guancia destra: segni di bruciatura, come se le fosse stato versato addosso dell’olio caldo. La pelle era più spessa, raggrinzita.
Alec sapeva chi aveva davanti: Catarina Loss, la cui fedeltà nei confronti di Magnus era cieca. Non l’avrebbe tradito nemmeno sotto tortura. E la cicatrice che aveva sulla guancia ne era la prova. Alec sapeva, dalle voci che circolavano, che un anno prima Catarina era stata rapita dagli irlandesi, i quali volevano scoprire i punti deboli di Bane per riuscire a togliergli il trono. Dopo torture di ogni genere, erano passati all’olio, ma lei non aveva spiccicato parola, nemmeno quando il dolore era così forte da rischiare di fare impazzire chiunque. Inutile dire che, sempre secondo queste voci, quando Magnus aveva scoperto cosa avevano fatto alla sua Catarina, si era vendicato conficcando una pallottola in fronte al capo di quei ribelli.
Niente di dimostrabile, ovviamente. Perché quelle che Alec aveva sentito erano solo voci che circolavano in un bar del South. Conversazioni che lui, in incognito, aveva origliato. Nessuno aveva veramente parlato con lui. Nessuno avrebbe mai osato testimoniare contro il re.
“Dove credete di andare, voi due?”
“Dobbiamo parlare con Magnus Bane.”
La donna emise una risata sprezzante, guardando Alec come se fosse la peggior specie di parassita. Nonostante non fosse bassa, dovette alzare il viso di un po’, per riuscire a guardare il poliziotto negli occhi. E questo sembrava darle parecchio fastidio. “Il locale è chiuso. Tornate stasera.”
“Vogliamo solo fare qualche domanda, non ci vorrà molto.” Alec fece ricorso a tutta la sua pazienza.
“Tornate stasera.”
“Il mio collega sta cercando di essere gentile, Loss. Perché non ricambi il favore?”
Catarina posò i suoi occhi su Jace, riservandogli lo stesso disprezzo che aveva riservato ad Alec. “Altrimenti, sbirro, che fai? Mi spari?”
“Non mi tentare.”
Gli occhi della donna percorsero tutta la figura di Jace. “Come se ne fossi veramente capace.” Con un ultimo sguardo, Catarina si voltò, imboccando il corridoio che l’avrebbe portata all’interno del locale.
“Chase Montgomery.” Disse Alec, parlando ormai alla schiena della donna. “Cosa sai dirmi di lui?”
Catarina si fermò sul posto, poi si voltò di nuovo verso i suoi indesiderati visitatori. “Perché?”
Alec colse una leggera sfumatura d’ansia, nella sua voce. Quasi come se avesse paura per il ragazzo, o forse, avesse paura che loro avessero degli elementi utili a provare qualsiasi cosa avessero fatto al povero Chase.
“È morto.”
Alec la sentì trattenere un singhiozzo, prima di abbandonare la sua espressione di disprezzo. I lineamenti della donna mutarono, così come il suo atteggiamento. Non seppe interpretare quel cambiamento. Una parte di lui, quella razionale e non arrabbiata con qualsiasi gangster di Chicago, gli suggerì che quella reazione spontanea potesse essere un indizio: forse stavano cercando il colpevole nel posto sbagliato, forse Bane e i suoi non avevano torto un capello a quel ragazzo, al quale Catarina, vista la sua iniziale reazione, sembrava affezionata.
“Venite con me.” Ordinò semplicemente la donna, voltandosi e aspettandosi che la seguissero.
E Alec e Jace lo fecero. La seguirono attraverso quel lungo corridoio illuminato da una luce fioca, di un tenue arancione, alla cui fine si apriva il club. Subito sulla destra si trovava il piano bar, con un elegante bancone nero con rifiniture dorate. I tavoli erano tutti distanti uno dall’altro in modo tale da creare intimità, ma posizionati in modo da lasciare lo spazio necessario alla pista da ballo. In fondo al locale ci stava il palco, su cui adesso si trovava una ragazza dalla pelle scura e folti ricci castani, avvolta in un vestito lungo e argentato, che stava cantando una canzone in francese.
Ce soir, je ne m'enfuis pas je vole, comprenez bien, je vole, je vole…”
“Aspettate qui.” Ordinò nuovamente Catarina, prima di incamminarsi verso uno dei tavoli. Alec la seguì con lo sguardo, prima di vederla chinarsi su un uomo che dava loro le spalle ed era concentrato sulla ragazza che cantava.
Elle m'observait hier, soucieuse, troublée, ma mère. Comme si elle le sentait en fait elle se doutait, entendait j'ai dit que j'étais bien…”
L’uomo si voltò verso sinistra non appena Catarina si chinò su di lui e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. “Ce soir, je ne m'enfuis pas je vole…” Continuava la ragazza e solo allora l’uomo sollevò una mano per farla fermare. Lei lo fece immediatamente e rimase a guardarlo, in attesa, come uno di quei gladiatori che aspettavano il verdetto di vita o di morte da parte dell’imperatore romano.
“Maia, mio tesoro, sei stata meravigliosa. Ma devo chiederti gentilmente di andare perché devo parlare con alcuni signori. Ti spiace tornare più tardi, dolcezza?”
“Assolutamente no, signor Bane. Tornerò più tardi.” E con un sorriso reverenziale, la ragazza scese dal palco e si diresse verso l’uscita. Passò vicino ad Alec e a Jace, quest’ultimo le rivolse un sorriso ammiccante – perché Jace non riusciva mai a trattenersi davanti ad una bella ragazza – ma la cantante gli riservò un’occhiata tagliente, evidentemente poco propensa a socializzare con un poliziotto, prima di uscire definitivamente dal locale. Quando la stanza fu immersa dal silenzio, Magnus si alzò dal tavolo dove era seduto e si voltò verso i suoi visitatori. “Prego, detective, avvicinatevi.”
E così i due fecero.


“Polizia di Chicago, io sono il detective Herondale e lui è il detective Lightwood.” Cominciò Jace, prima di sedersi al tavolo insieme a Magnus.
“So chi siete.” Rispose l’uomo, lanciando un’occhiata superficiale a Jace, e riservando, invece, un’attenta analisi ad Alec. Il poliziotto sentì lo sguardo del gangster scivolargli addosso con attenzione e lentezza, quasi stesse memorizzando i dettagli del suo viso.
La cosa mise Alec parecchio a disagio, ma non abbassò lo sguardo. Se era un gioco di supremazia, quello che stava intavolando Bane, Alec avrebbe partecipato senza farsi intimorire. Giocò. Studiò a sua volta Magnus e la prima cosa che notò, paradossalmente, fu il suo odore. Era impossibile non notarlo. Era qualcosa di speziato, legnoso, che aderiva alla sua persona come una seconda pelle. Era eccentrico, Magnus Bane, nei suoi pantaloni di pelle abbinati ad una camicia viola puntellata di piccoli brillantini. Al collo portava una quantità di collane spropositata, che scendevano lungo il tessuto della camicia, scivolando come l’acqua nel letto di un fiume.
I suoi occhi, dal tratto orientale, erano resi ancora più allungati dal trucco e Alec si era chiesto, più di una volta, se quel suo aspetto così appariscente non facesse parte della facciata dell’uomo d’affari proprietario di un semplice nightclub.
Non lo sapeva. E, francamente, non gli interessava. Non era lì per notare i tratti del viso di Magnus, o il suo stile, o la sua letale bellezza.
Era lì per risolvere un crimine e perché l’uomo che aveva davanti abitava i suoi incubi, dai quali si svegliava urlante, da quattro anni.
Chi aveva davanti era un assassino a sangue freddo. E l’unico compito di Alec era smascherarlo.
“Conosceva Chase Montgomery, signor Bane?” cominciò Alec, facendo appello a tutta la sua professionalità e pazienza. Doveva fare come gli aveva suggerito Jace: trattarlo come un qualsiasi altro criminale. Doveva pensare che fosse un sospettato qualsiasi e non l’uomo che aveva rovinato la vita a lui e alla sua famiglia.
“Chiamami Magnus, tesoro.”
Alec lo fulminò con lo sguardo. “Risponda alla domanda, signor Bane.”
Un sorriso divertito tirò le guance dell’uomo. “D’accordo, tesoro, niente confidenze.” Alzò le mani, mimando un segno di resa, e si appoggiò allo schienale della sedia. “Per rispondere alla tua domanda, sì, conoscevo Chase Montgomery, ma questo lo sapevi già, non è vero? Perché non semplifichiamo il tutto e non mi dici il vero motivo per cui sei qui?” A quel punto, lasciò lo schienale della sedia e appoggiò i gomiti sul tavolo. Incrociò le mani e ci appoggiò sopra il mento, prima di piantare i suoi occhi felini in quelli di Alec.
“Le domande le facciamo noi.” Intervenne Jace, che nonostante tutti i suoi buoni consigli, rimaneva comunque un tipo impulsivo e facilmente irritabile, in certi casi.
Magnus portò la sua attenzione su di lui, ma lo guardò come se fosse la cosa più noiosa e indisponente su cui i suoi occhi si fossero mai posati.
“Non mi pare stessi parlando con te, biondo. Stavo parlando con il tuo collega. E, ora che ci penso, ho appena deciso che voglio parlare con lui da solo.”
“Questo non succederà.”
Magnus assottigliò lo sguardo. “Oh, io credo proprio di sì, se volete qualche informazione.”
Jace strinse la mascella, frustrato, e si voltò verso Alec. L’idea di stare solo con Bane nel suo covo non gli piaceva per niente. Poteva essere una trappola, ma se davvero avesse voluto risolvere il caso, quelle erano le condizioni necessarie per ricevere un qualche indizio valido.
Ancora una volta, Magnus Bane dettava le regole della baracca. E in quest’occasione, Alec fu costretto ad accettarle.
“D’accordo. Jace esce, ma esce anche Catarina. E qualsiasi altra persona sia in agguato in questo locale che lavora per te.”
Magnus sorrise, malizioso e soddisfatto. “Siamo passati al tu, caro, vedo che facciamo progressi in fretta.”
“Falli uscire.” Ordinò Alec, ignorando quei tentativi palesi e infantili di provocazione.
Magnus sospirò. “C’è solo Cat con me, oggi.” Poi si voltò verso la donna. “Ti dispiace uscire, cara?”
La donna guardò Alec e poi Magnus. “Sei sicuro?”
“So tenere a bada uno sbirro, cara. Non preoccuparti.” Parlò alla donna, ma il suo sguardo era rimasto fisso sugli occhi di Alec, il quale a sua volta aveva sostenuto quell’occhiata. Magnus stava giocando con lui, Alec se n’era accorto. Quello poteva essere il suo modo di prendersi gioco della polizia, di manifestare, più che una volta, il fatto che avesse in mano le autorità di quella città.
Dopo un’ultima, riluttante, occhiata, sia Jace che Catarina uscirono da quel locale.
Adesso, Alec era davvero solo.
Adesso, iniziava la vera partita.


“Bevi qualcosa, zuccherino?”
Alec dovette fare appello a tutta la sua pazienza per l’ennesima volta. Mai in vita sua gli era stato così difficile mantenere la calma – e dire che di solito, quello irascibile dei due era Jace, mentre lui riusciva a mantenere il sangue freddo.
Era Magnus Bane la causa di questo suo cambiamento. Lo scombussolava da dentro, gli faceva provare emozioni feroci – rabbia, frustrazione, un profondo senso di ingiustizia e impotenza. Era come se avesse le mani legate e più provava a risolvere quel rompicapo, più sembrava che Magnus stringesse le corde intorno ai polsi del poliziotto impedendogli di fare progressi nelle sue indagini.
“Sono in servizio,” Rispose Alec, guardando l’uomo che si alzava dal tavolo e si dirigeva verso il piano bar. “E chiamami detective, non siamo amici.” Il poliziotto si alzò a sua volta, seguendo l’uomo. Quando Magnus si mise dietro al bancone, Alec si sedette su uno degli sgabelli di fronte ad esso.
“Se lo fossimo, potrei chiamarti come voglio?”
“No.”
“Quanto sei rude, detective.” Calcò quel nome con sarcasmo. “Ammetto che però gli uomini scontrosi mi sono sempre piaciuti. Non chiedermi perché…” Magnus fece volare la sua mano come una piccola farfalla che fluttua nell’aria – un gesto noncurante, quasi confidenziale – prima di voltarsi alle sue spalle, dove una parete completamente a specchio mostrava il riflesso degli alcolici piazzati sulle varie mensole. Magnus afferrò una bottiglia di gin e poi si voltò di nuovo verso Alec. “Allora, le tue domande?”
Alec fece un profondo respiro. Osservò per qualche istante Magnus che afferrava da sotto il bancone un bicchiere pulito, lo riempiva di ghiaccio e cominciava a versarci dentro il gin.
“Parlami di Chase Montgomery.”
Magnus appoggiò la bottiglia di gin sul bancone, lasciandola aperta, e cominciò a versare dell’acqua tonica nel suo bicchiere. In un primo momento, ignorò la richiesta di Alec e si concentrò solo sul suo bicchiere.
“Cosa manca?” Si picchiettò il mento con l’indice, in un modo così teatrale che ad Alec fu palese il suo tentativo di provocazione. A che gioco stava giocando? Perché non poteva semplicemente rispondergli? Cosa voleva davvero da Alec?
“Ah, giusto! Il limone!” Magnus si voltò nuovamente verso la parete a specchio e si chinò per aprire lo sportello di un mobiletto di legno nero ed estrarre dal suo interno un limone. Tornò al bancone con l’agrume e un coltello per tagliarlo e, improvvisamente, tutti i sensi di Alec si misero allerta. Evitò di scattare come un coniglio davanti ad una volpe. Lui non era una preda. E di certo, Magnus per lui non era un predatore.
Se quel coltello era una minaccia, Alec avrebbe risposto con la pistola. La lasciò nella fondina, ma con un movimento discreto slacciò la chiusura, in modo da essere pronto a reagire nel caso in cui Magnus facesse delle mosse sospette.
“Si può sapere cosa stai facendo?  Un ragazzo è morto e tu stai qui a preparare cocktail. Inizio a pensare che tu non sappia assolutamente niente e voglia solo farmi perdere tempo!”
Magnus si bloccò. Una mano ferma a tenere il limone, l’altra teneva il coltello appoggiato al frutto. I suoi occhi schizzarono su Alec.
“Non ti sto facendo perdere tempo, detective, sto solo aspettando che tu cominci a pormi le domande giuste.”
“Pensi sia un gioco?”
“No. Penso solo che tu sia qui per altri motivi.”
“E quali?”
Magnus tagliò una fetta di limone e la spremette dentro al drink. Ne bevve un sorso, prima di appoggiare i gomiti sul bancone e sporgersi verso Alec. Il poliziotto non si mosse, così i loro visi adesso erano così vicini che potevano sentire i propri respiri l’uno sulla pelle dell’altro.
“Tuo fratello.” Soffiò Magnus, gli occhi incastrati a quelli di Alec. Il gangster riuscì a leggere chiaramente la mutazione che avvenne al loro interno. Dentro a quelle iridi bellissime si scatenò una tempesta.
La rabbia prese il sopravvento su qualsiasi altra cosa e Alec, per un attimo, non ragionò più. Rivide solo quel giorno. Rivide solamente il suo fratellino privo di vita. Max Lightwood, a diciannove anni, era stato ritrovato morto dopo tre giorni dalla denuncia di scomparsa fatta dalla famiglia.
L’avevano ritrovato lui e Jace, in un cantiere abbandonato, dissanguato e con una stella d’argento cucita dietro la nuca post-mortem. Il dolore, davanti a quella scena del crimine, era stato tale che altro non era riuscito a fare che gridare. Aveva gridato così tanto che aveva rischiato di spezzarsi le corde vocali e, se non ci fosse stato Jace a sorreggerlo, sarebbe crollato a terra. Alec ricorda come Jace l’avesse trattenuto, mentre lui stava per buttarsi sul cadavere di suo fratello. Nonostante tutto, il suo primo istinto sarebbe stato quello di abbracciarlo, di provare a rianimarlo.
“Non puoi toccarlo, Alec, contaminerai la scena. Non possiamo fare niente.”  Sussurrava Jace al suo orecchio, mentre lo sosteneva. E Alec ricorda bene la voce rotta dell’amico. Jace era presente quando Max era nato, quando aveva compiuto i suoi primi passi e quando aveva pronunciato la prima parola. In un certo senso, era come se fosse anche il suo fratellino. E doveva essere devastante anche per lui vederlo così.
Era stato devastante per tutti.
Un dolore gratuito, ingiusto.
Un dolore che era stato provocato dall’uomo che adesso aveva davanti e al quale Alec, senza pensarci troppo, aveva appena puntato la propria pistola sotto al mento.
“Lo ammetti, quindi? Ammetti di averlo ucciso?” La sua voce tremava, come il resto del suo corpo.
“Adesso calmati. Metti via quella e ascoltami.”
“NO.” Con la mano libera, Alec afferrò il colletto della camicia di Magnus e lo spinse ancora di più verso se stesso e, di conseguenza, verso la pistola. “Non voglio sentire le tue scuse. Sei un manipolatore, hai piegato tutti alla tua volontà. Tutti pensano ciò che tu dici loro di pensare e io sono stanco di tutto questo.”
“Allora premi quel cazzo di grilletto! Premilo! Spargi il mio cervello su quella parete e guarda il mostro cattivo morire. Ma pensaci bene perché con me, muore anche la verità sull’omicidio di tuo fratello.”
Quelle parole ebbero lo stesso effetto di una secchiata d’acqua gelata. Lo risvegliarono dalla sua ipnosi, lo riportarono alla realtà. La sua parte razionale riprese il sopravvento su tutte quelle emozioni che erano state vomitate dal suo cuore e l’avevano spinto a reagire in quel modo. Ogni buon poliziotto sa che ogni pista va battuta, che ogni indizio è utile e bisogna guardare ad ogni caso con la mente lucida e aperta. Lui non poteva semplicemente chiudere ogni strada che non avesse a che fare con Magnus solo perché ormai era convinto che fosse lui il colpevole. Doveva vagliare ogni ipotesi. E anche se questo, poi, non si fosse dimostrato altro che un bislacco tentativo del gangster per salvarsi la pellaccia, Alec era sicuro che prima o poi, indagando per bene, avrebbe scoperto o meno se fosse davvero coinvolto nell’omicidio di Max.
Per questo abbassò la pistola e la risistemò nella fondina. Lasciò andare Magnus e si risedette di nuovo sul suo sgabello, mentre l’altro si risistemava la camicia.
“Non sono stato io a uccidere tuo fratello.”
“Era dissanguato. Sanno tutti che Raphael Santiago ha un debole per questa tecnica di tortura.”
“Allora perché hai pensato a me e non a lui, mh? Cos’è che non mi dici, Alexander?”
Alec si sentì un po’ esposto, sentendo il suo nome di battesimo. Nessuno lo chiamava più così da anni. Ormai lui era solo Alec, ma pensandoci, probabilmente, Magnus aveva studiato il suo fascicolo, e forse anche quello di Jace, per tenere d’occhio gli unici poliziotti che sfuggivano al suo controllo.
“Dimmi quello che sai.” Disse Alec, ignorando la domanda. Non gli avrebbe detto della stella con la M incisa sopra. Era un elemento troppo importante e, nel caso lui fosse stato colpevole, voleva evitare di dargli conferma dei pochi indizi che avevano. Nessuno sapeva di quel dettaglio. Solo lui, Jace ed Isabelle ne erano al corrente.
Magnus assottigliò lo sguardo. “Io devo farlo, mentre tu no?”
“Io sono lo sbirro, tu il criminale. Sei tu il sospettato, non io.”
“Mi stai dicendo che mi serve un avvocato?”
“No, a meno che questa chiacchierata informale non debba trasformarsi in un vero e proprio interrogatorio al distretto. E questo sta a te deciderlo. Parla adesso o seguimi in centrale.”
Magnus bevve un copioso sorso del suo drink, precedentemente abbandonato. “D’accordo. Ma sei in debito con me. Mi devi un favore.”
“Che genere di favore?”
Magnus sollevò l’indice e lo agitò da destra verso sinistra, mimando un no. “Un favore generico. Lo riscuoterò, un giorno, e tu, stellina mia, non potrai sottrarti. Queste sono le mie condizioni.” Allungò la mano verso Alec e con l’indice lasciò una leggera carezza sotto al suo mento.
Alec allontanò la mano dell’altro con un gesto brusco della propria.
Eccolo lì. In trappola. La balena l’aveva divorato e adesso come unica via d’uscita gli stava offrendo un patto con il diavolo.
Lo stesso diavolo che, secondo un detto popolare, quando ti tocca, vuole l’anima.
Magnus sapeva cosa desiderasse davvero Alec nel profondo del suo cuore. Aveva visto la sua debolezza e la stava usando contro di lui. Probabilmente, uno dei suoi sbirri corrotti l’aveva informato del fatto che Chase era stato trovato dissanguato così come Max e lo stava aspettando. A differenza della stella, quel particolare era stato rivelato, quindi era abbastanza plausibile che fosse così.
Forse Magnus sapeva che Alec sarebbe andato da lui, quel giorno, e si era già preparato il suo piano d’attacco. Aveva già tirato le fila dello spettacolo e Alec, senza accorgersene, era diventato il suo burattino.
Poteva scegliere di rifiutare quell’assurda richiesta. Poteva fare a modo suo, come aveva sempre fatto, solo con l’aiuto di Jace.
Ma Alec sapeva che se davvero voleva arrivare alla fine di questa storia, scoprire chi fosse l’assassino di Max e di Chase, doveva rivolgersi a Magnus.
Detestava quest’idea, ma forte più di qualsiasi altra cosa era il desiderio di dare almeno un senso di giustizia all’ingiusta morte di suo fratello.
E probabilmente, Magnus sapeva anche questo. D’altronde, lui sapeva tutto.
Aveva giocato bene la sua partita. Aveva offerto qualcosa ad Alec che lui desiderava davvero e adesso… adesso si stava prendendo la sua anima in cambio.
“D’accordo.” Esalò Alec, “Abbiamo un patto. Adesso parla. E che sia la verità, o il nostro accordo è nullo.”
Sul viso di Magnus comparve un sorriso ferino. “Devi fidarti di me, zucchero.”
E Alec, ignorando a fatica quella parte di sé che gli stava gridando che una scelta simile gli si sarebbe ritorta contro nel peggiore dei modi, voleva davvero credere che da questa situazione sarebbe uscito qualcosa di buono.


“Perché ci hai messo così tanto?” brontolò Jace, quando Alec salì di nuovo in macchina. Si rese conto, solo dopo le parole del collega, che era stato con Magnus per un’ora intera.
“Lascia stare. Ho degli indizi.”
“Bane ha parlato?”
Alec annuì.
“Wow, deve avere un debole per la tua bella faccia, o qualcosa di simile.”
Quel commento lo fece sentire a disagio, tanto che si mosse sul sedile, prima di darsi un tono e dire: “O forse sono solo bravo a fare il mio lavoro.”
“In altre circostanze? Sicuramente. Ma Magnus Bane… cacchio, lui li odia i poliziotti, soprattutto quelli fuori dal suo libro paga. Non ne aiuterebbe uno nemmeno sotto tortura, a meno che…” Jace si bloccò di colpo e cercò gli occhi dell’amico. Alec aveva tantissime qualità e una di queste era che non riusciva a mentire. Mai. Anche se provava a farlo, il linguaggio del suo corpo lo tradiva e Jace lo conosceva da così tanto tempo che aveva imparato a leggerlo come un libro aperto. Lo vide nei suoi occhi, il disagio. La preoccupazione di aver fatto una mossa sbagliata.
“Gli hai promesso qualcosa in cambio.”
Non era una domanda. Jace non stava chiedendo niente, era sicuro di quello che diceva – perché conosceva Alec e conosceva l’andamento di quella fottuta città.
Il silenzio che Alec gli riservò fu più eloquente di qualsiasi altra risposta.
“Cazzo, Alec. Cosa gli hai promesso?”
“Un favore.” Rispose l’altro, quasi con vergogna. “Non avevo altra scelta. Non avrebbe parlato, se non gli avessi dato in cambio qualcosa. E voglio davvero trovare il colpevole di tutta questa storia. Chi ha ucciso Chase è lo stesso che ha ucciso Max e se lo trovassimo non solo risolveremo questi due casi, ma probabilmente sventeremo anche un possibile serial-killer.”
 Jace sospirò, preoccupato, e si passò una mano tra i capelli biondi, tirandoli all’indietro. “Un favore. Hai promesso a Magnus Bane un favore.”
“Non serve che tu mi dica quanto sono stato idiota, va bene? Lo so anche da solo!”
“Bene, perché sei stato un grandissimo idiota!” Jace alzò la voce, ma Alec non riuscì ad arrabbiarsi con lui. Era preoccupato per lui, lo sapeva. Si proteggevano le spalle da sempre e spesso questa loro filosofia di proteggersi l’un l’altro aveva fatto si che diventassero anche i rispettivi punti deboli. Per ferire Alec bisogna ferire Jace e per ferire Jace bisogna ferire Alec. Il loro fare squadra li rendeva forti, ma anche estremamente vulnerabili.
“Vuoi almeno dirmi cosa ti ha detto?”
“Chase ultimamente frequentava un ragazzo. Si erano incontrati al locale, tre settimane fa. Era un tipo alto, biondo, più grande di lui di qualche anno. Si chiamava Sebastian e ogni sera andava a trovare Chase al lavoro e stava con lui. Parlavano, ridevano, Sebastian lo guardava lavorare e poi a fine turno uscivano dal locale insieme.” “È un inizio. Non abbiamo un cognome?”
“Secondo il documento che ha presentato all’ingresso ogni sera, era Verlac, ma potrebbe essere  falso.”
“Oppure no. Vale la pena tentare.” Jace mise in moto la macchina e ingranò la marcia.
“Jace…” Lo chiamò Alec, e l’altro si voltò verso di lui.
“Lo so.” Lo interruppe. “Sei nella merda e ti meriteresti un pugno per la tua stupidità. Sono io quello che fa cose stupide, non tu. Però avrei fatto lo stesso. Per Max avrei fatto un patto con il diavolo anche io.”
E, tornando a guardare la strada di fronte a sé, partì.
Alec, sebbene fosse tormentato, trovò una sorta di conforto in quelle parole. Era un compromesso che odiava, ma se fosse davvero servito a dare giustizia al suo fratellino, Alec era disposto a sopportare quel peso.



La ricerca non portò nulla di concreto.
Come avevano sospettato all’inizio, Sebastian Verlac risultò essere un nome falso. Non avevano niente.
Erano di nuovo al punto di partenza e Alec non solo era arrabbiato con Magnus per averlo preso in giro, ma anche con se stesso per essere caduto in una trappola così banale.
Furioso, Alec fece una cosa che non avrebbe mai pensato di fare. La seconda della giornata, ora che ci pensava.
Usò il numero di cellulare che Magnus gli aveva dato prima che lui se ne andasse.
L’uomo rispose al secondo squillo. “Zucchero, che piacere.”
“Piantala. Le informazioni che mi hai dato erano sbagliate. Sebastian Verlac non esiste.”
“Ed è un mio problema, perché…?”
“Perché un ragazzo che lavorava per te è morto, come puoi essere così menefreghista?”
Quell’accusa innervosì Magnus. “Cosa ti fa credere che io non me ne stia occupando? Pensi che sia un mostro? Ho i miei principi, Alexander, e non tollero che vengano uccisi dei ragazzini. Non nella mia città.”
“Non è la tua città.” Ma nemmeno Alec ci credeva fino in fondo alle proprie parole. Magnus teneva Chicago nel palmo della sua mano. “Vieni in centrale tra mezz’ora. O il nostro accordo salta.”
“Sei così autoritario, tesoro. Mi piace. Attento, o potrei persino innamorarmi di te.”
Alec ignorò quell’ennesima provocazione e concluse la chiamata.


Magnus si presentò in centrale puntualissimo. Quando comparve all’ingresso del distretto, ai suoi lati ci stavano Raphael e Catarina. I poliziotti che lo notarono smisero immediatamente di fare quello che stavano facendo e rimasero a guardarlo.
C’era un timore reverenziale nei loro sguardi e una sorta di rispetto che fece innervosire Alec, il quale dalla sua scrivania riusciva a vedere tutta la scena. Si alzò e gli andò in contro, raggiungendolo.
“Loro stanno qui. Tu vieni con me.”
“Ciao anche a te, detective. E loro non vanno da nessuna parte.”
Alec lanciò un’occhiata alle due guardie del corpo. Raphael, sudamericano, lo fissò quasi come se volesse piantargli i canini nel collo. Alec capiva perché fosse così temuto. Era così giovane, eppure così crudele. Sadico, persino. E altri gangster l’avevano definito un artista, se si trattava di torture.
Ma Alec non era il tipo che si faceva intimorire.
“Loro stanno qui.” Ribadì il detective, impuntandosi. “E puoi venire con le buone o con le cattive, a te la scelta.”
Magnus si passò la lingua sulle labbra, quasi stesse pregustando qualcosa, e si avvicinò ad Alec. Era un poco più basso di lui, perciò dovette alzare leggermente il viso per guardarlo negli occhi.
Avevano un che di magnetico. E riuscivano a trasmettere una certa fierezza.  
“Sarei curioso di vedere le cattive.” Gli occhi di Magnus scivolarono, lascivi e maliziosi, sul viso del poliziotto. Si fermarono sulle labbra e scesero sulle curve del collo. Passarono in rassegna le spalle ampie, evidenziate dalla giacca, e sulle braccia, prima di dare un’occhiata anche al modo in cui la camicia aderiva al corpo di Alec. “Da te mi farei persino ammanettare.”
Dios, cállate. Eres vergonzoso.” 
“Taci tu, Santiago.” Magnus parlò, ma i suoi occhi non avevano lasciato la figura di Alec. “Aspettatemi fuori, ragazzi, io e il detective Lightwood dobbiamo parlare.”
I due provarono a protestare, ma bastò un gesto della mano da parte di Magnus per farli zittire e obbedire alla sua richiesta.
Rimasti soli, Alec guidò Magnus verso il laboratorio di Isabelle.



“Siamo qui per evitare che orecchie indiscrete ascoltino la nostra conversazione.” Cominciò Alec, aprendo la porta dello studio della sorella. Isabelle e Jace li stavano già aspettando. Entrambi guardarono Magnus con disprezzo, ma l’uomo non si lasciò intimorire da quelle occhiate.
“Cosa volete da me, esattamente?”
“Un identikit.” Rispose Isabelle, indicandogli una sedia davanti alla sua scrivania. “Siediti. Jace disegnerà l’uomo che hai visto e noi inseriremo il volto nel database.”
Magnus si sedette dove gli era stato indicato, mentre Jace andava ad occupare il posto alla scrivania che di solito occupava Isabelle.
“Sono un testimone, quindi. Voglio una scorta. Se c’è un pazzo criminale in giro, non voglio rischiare di fare una brutta fine. Richiedo formalmente il detective Lightwood come mia personale guardia del corpo.” Magnus accavallò le gambe e fece l’occhiolino ad Alec, il quale si passò una mano sulla faccia, esasperato. Non sapeva davvero come reagire a tutte queste maliziose provocazioni da parte di Magnus.  
“Non riceverai nessuna scorta, Bane. Sappiamo che hai un esercito che esegue anche il tuo più piccolo ordine.” Jace quasi ringhiò a denti stretti, infastidito dal modo che aveva Magnus di fare. Sembrava che tutto gli fosse dovuto, che ogni persona che avrebbe incontrato nel suo cammino fosse stata a sua completa e assoluta disposizione. “Adesso, parla.”
Magnus alzò le mani in segno di resa, nel suo solito modo teatrale. “Sei maleducato, biondino, lasciatelo dire.” E poi cominciò a descrivere il volto di Sebastian Verlac.





Una volta che Magnus ebbe lasciato l’edificio, Alec e Jace si misero al lavoro. Jace inserì l’identikit nel database e rimasero in attesa almeno un’ora, prima che il computer riuscisse a trovare un match.
“Trovato!” Esclamò, quasi saltando sulla sua scrivania, quando lo schermo del suo pc cominciò a mostrare immagini. Alec, di fronte a lui, saltò su come una molla e circumnavigò la propria scrivania per raggiungere quella di Jace.
Sullo schermo c’era la foto di un ragazzo identico all’identikit che aveva fornito Magnus: viso ovale, zigomi alti e guance leggermente scavate. La bocca era fine e gli occhi, di un verde glaciale, avevano una forma allungata, tagliente. Da quella foto, risultava che il ragazzo, in realtà, avesse i capelli rossi.
“Si chiama Jonathan Morgenstern, 26 anni. È nato a Chicago, ma sembra che si sia mosso per l’America. È stato accusato di aggressione a mano armata a Milwaukee, di furto a New York, e di furto d’identità a San Francisco. È sempre riuscito a sfuggire alle forze dell’ordine. Dal suo fascicolo risulta che da piccolo manifestasse comportamenti violenti sugli animali e successivamente anche su altri bambini, così la madre ha deciso di farlo ricoverare in una struttura specializzata per evitare che rischiasse di ferire anche sua sorella. Il padre, però, ha firmato per farlo uscire e, dopo il divorzio con la moglie, ha chiesto la custodia piena del bambino, mentre la donna ha ottenuto quella della figlia. Dopo questo, più niente.”
“Dice qualcosa sulla madre? O sulla sorella? Come si chiamano, dove vivono?”
Jace fece una veloce ricerca. “Ho trovato sua sorella. Clarissa Adele Fairchild. C’è un indirizzo: vive qui, a Chicago.”
“Andiamo, guido io.”



Clarissa viveva in uno dei quartieri del South Side in cui le case si assomigliano tutte e in cui i vicini conoscono tutto l’albero genealogico della tua famiglia. Non era un quartiere particolarmente povero, ma di certo non era ricco.
Alec parcheggiò nel primo posto che trovò disponibile e poi i due detective raggiunsero l’abitazione a piedi.
Jace suonò il campanello e rimasero in attesa.
Una ragazza aprì la porta dopo solo qualche istante e, quando si trovò davanti Jace, la sua espressione si accigliò.
“Come posso esserle utile?”
“Lei è Clarissa Fairchild?”
Jace si sentì quasi stupido a domandarlo. La somiglianza con Jonathan era quasi palese: gli occhi verdi, i capelli rossi, la pelle chiara.
Clarissa era bella, molto bella, e in altre circostanze si sarebbe pure fatto spudoratamente avanti.
“Sì.”
“Sono il detective Herondale, lui è il detective Lightwood. Vorremmo farle qualche domanda riguardo suo fratello.”
La ragazza emise un sospiro affranto, prima di farsi da parte e fare entrare i due detective.


Clarissa viveva da sola da quando sua madre era venuta a mancare l’anno prima.
Un infarto, aveva detto, e il suo cuore non aveva retto.
La sua casa era ancora piena delle cose della madre, delle quali, aveva detto, non riusciva ancora disfarsi.
Fece accomodare i due poliziotti in cucina, dove sedettero al tavolo, mentre lei preparava del caffè.
“Non vedo Jonathan da quando avevo dieci anni.” Cominciò, versando il caffè in due tazze, quando fu pronto.
Con un sospiro, si sedette al tavolo con i due poliziotti. Jace cercò di non prestare attenzione ai suoi dettagli, per concentrarsi meglio sull’indagine, ma la vicinanza con la ragazza non gli rendeva facile il compito. Clarissa aveva degli occhi bellissimi, così diversi da quelli del fratello, nonostante fossero dello stesso colore, che spingevano Jace a non guardare altro, se non il viso della ragazza. Trasmettevano dolcezza, ma anche tenacia. Erano intriganti, luminosi, e vispi. Pieni di una luce che scalpitava per venire fuori.
I suoi capelli le riscendevano in morbidi ricci ramati sulle spalle e profumavano di cocco.
Gli sembrava di star guardando una piccola fata.
Si ammonì immediatamente per quel pensiero, imponendosi di concentrarsi.
“Anche la più piccola cosa è importante, Clarissa. Può dirci tutto.”
La ragazza abbracciò la tazza con le mani. “Clary, per favore.” Chiese, rivolgendosi direttamente a Jace. “Mio padre mi chiamava Clarissa e non ho un bel ricordo, di lui. Era un uomo freddo, distaccato. A tratti cattivo con me e con mia madre. L’unica persona per cui sembrava provasse qualcosa era mio fratello. Ma non voleva accettare che Jonathan avesse dei disturbi. Lui diceva sempre che era solo un ragazzino creativo. Mia madre ha insistito per anni affinché lo portassero in terapia, per aiutarlo con i suoi problemi, ma mio padre si rifiutava categoricamente.” Clary bevve un sorso di caffè e Jace ebbe la sensazione che lo fece più che altro per occupare momentaneamente la mente con altro, prima di ripercorrere il viale di dolorosi ricordi. “Jonathan costruiva le trappole per gli scoiattoli, per i topi, per i conigli. Li catturava e poi li uccideva con un coltellino.” Non riusciva a guardare altro, se non la tazza. Jace ebbe di nuovo l’impressione che le avessero chiesto di percorrere a ritroso la sua vita e tornare ad un periodo estremamente doloroso. “Io volevo davvero bene a mio fratello. Volevo sul serio che dei dottori trovassero una terapia per farlo stare meglio. Ma non è andata così. Se mia madre voleva aiutarlo, mio padre era convinto che non ci fosse niente che non andava, in lui, e ha continuato ad alimentare la sua violenza. Anche quando mia mamma era finalmente riuscita a trovare una struttura adatta, mio padre l’ha fatto uscire. Jonathan aveva dodici anni, io dieci. I nostri genitori si sono separati, papà ha tenuto lui, mamma ha tenuto me. Ho preso anche il suo cognome, perché ormai eravamo rimaste solo noi due. Mio padre non voleva dirci dove abitassero. Non voleva che Jonathan vedesse me, o la mamma.” Clary non riuscì a trattenere una lacrima e Jace, dal canto suo, non riuscì a trattenersi dal coprirle una mano con la propria.
“Mi dispiace,” Le disse, perché era vero. “Capisco che gli volevi bene, ma… Jonathan potrebbe aver ucciso un ragazzo, tre giorni fa. Hai idea di dove potrebbe nascondersi?”
La ragazza ci pensò su. “L’unico posto che mi viene in mente è Millennium Park. Vicino c’è una casa, era di mia nonna. Ci andavamo spesso, d’estate, e giocavamo dentro al parco. Eravamo felici, in quel periodo. Forse come non lo siamo mai stati. Magari potrebbe essere lì.”
“In un luogo dove si è sentito al sicuro.” Intervenne Alec, prendendo parola per la prima volta, da quando avevano messo piede in quella casa. “Ricordi l’indirizzo, per caso?”
Clary annuì e, liberando la presa sulla tazza – e sgusciando via da quella di Jace, che ancora non l’aveva lasciata – si diresse verso un cassetto della cucina, dove teneva carta e penna. Scrisse su un foglietto l’indirizzo preciso e lo consegnò a Jace.
“Ecco.”
Jace afferrò il bigliettino che gli veniva porto. “Grazie.”
Lei annuì con un cenno della testa. Il silenzio aleggiò nell’aria per qualche istante, attimi in cui Jace provò lo strano istinto di stringere quella ragazza a sé e dirle che tutto sarebbe andato bene, che il passato non le poteva più fare male. Ma non poteva: primo perché era una sconosciuta, secondo perché sarebbe stata una bugia. Il passato faceva male eccome. Lui lo sapeva. Lo vedeva negli occhi di Alec ogni volta che pensava a Max.
Sulla porta, i due detective si voltarono ancora una volta per ringraziare la ragazza. Clary si strinse nella sua enorme felpa.
“Mi piace pensare che ci sia del buono, in lui. Basterebbe una minuscola parte di bontà e, forse, potrebbe cambiare.”
“Forse.” Le rispose Jace, ma non era totalmente sicuro di quello che diceva. Difficilmente criminali con profili simili nascondevano un lato buono, dentro di loro. Ma non se la sentì di dirlo alla ragazza.
La guardò ancora una volta, convinto che non l’avrebbe incontrata più, e con un ultimo cenno del capo, uscì da quella casa seguito da Alec.
Una volta in macchina, si diressero in silenzio verso Millennium Park.



 
Era stata una corsa continua. La cosa più simile ad una caccia all’uomo in pieno giorno.
Arrivati all’indirizzo indicato da Clary, Alec e Jace avevano trovato Jonathan, che sorpreso dal loro arrivo, era fuggito dal retro e aveva cominciato a correre per le strade, entrando dentro al parco.
A quel punto, Jace e Alec avevano chiamato rinforzi, per essere sicuri di riuscire a coprire tutto il perimetro di quel parco gigantesco e, dopo una corsa che ad Alec sembrò durare un’eternità, erano finalmente riusciti a prenderlo.
Adesso, Jonathan Morgenstern si trovava in sala interrogatori. Alec lo osservava dal vetro a specchio, prendendo coraggio.
Era stato lui ad ammanettarlo. Lui doveva interrogarlo.
“Non sono sicuro di riuscirci.” Sussurrò a Jace, al suo fianco.
“Ce la farai. Qualsiasi cosa, basta che guardi il vetro e io ti raggiungo.”
Alec annuì, fece un profondo respiro ed uscì da quell’anticamera solo per entrare nella sala interrogatori.
Avrebbe fronteggiato i suoi demoni e l’uomo che glieli aveva provocati.


Non appena si sedette davanti ad un ammanettato Jonathan, sentì le viscere accartocciarsi su loro stesse. L’odio profondo che provava per quel ragazzo non aveva confini.
Era colpa sua se Max non c’era più.
Era lui la causa della sofferenza che aveva colpito la sua famiglia. Ed era sempre sua la colpa, se adesso anche la signora Montgomery provava la stessa sofferenza che provava lui.
“Abbiamo trovato le tue impronte sul cadavere.” Mentì Alec, per metterlo alle strette.“Sappiamo che conoscevi Chase, un testimone ti ha riconosciuto. Non hai scampo, Jonathan, dimmi perché l’hai fatto e semplifichiamo il tutto.”
Jonathan incurvò la testa di lato. I suoi occhi taglienti e freddi scrutarono Alec per un attimo, prima che un sorriso appuntito tagliasse il suo volto pallido.
“Tu sei suo fratello. Mi ricordo di te, Max parlava in continuazione del suo fratello sbirro. Voleva diventare come te.”
Alec serrò la mascella. Sentì improvvisamente prudere le mani e ringraziò chiunque avesse imposto il divieto di portare armi in sala interrogatori perché altrimenti avrebbe già puntato la sua alla tempia di Jonathan.
“Gli ho uccisi entrambi. È vero.” Disse il rosso, con un’incurante scrollata di spalle. “Se lo meritavano. Erano così amati dalla loro famiglia. Io non sono mai stato amato dalla mia, sai? Mia madre mi ha rinchiuso in una gabbia per matti e mio padre mi ha portato via dalla mia adorata sorellina. Non mi amavano.”
Alec sentì qualcosa sprofondare nel suo cuore.
La causa della morte di suo fratello era stato il troppo amore della sua famiglia. Un pazzo aveva pensato che fosse giusto togliergli la vita solo perché era amato.
Tutto il suo corpo ebbe un tremito, ma si impose di mantenere la calma e rimandare qualsiasi reazione alla fine dell’interrogatorio.
“Chase si era affezionato a te, perché fargli questo?”
“Chase si era illuso che io potessi amarlo. Era un tale smidollato.” Jonathan si appoggiò allo schienale della sedia, un’espressione disgustata attraversò il suo viso. “Max, invece, oh lui era tutta un’altra storia.” Il viso del ragazzo si accese, pieno di luce. “Aveva una tale forza d’animo, una tale energia. Avrebbe fatto grandi cose.”
Quell’avrebbe spezzò il cuore di Alec. C’erano solo ipotesi, solo se.
Se non fosse morto, avrebbe potuto fare grandi cose. Avrebbe potuto vivere una bella vita, piena di ogni emozione che essa può riservare.
Ipotesi. Supposizioni. Ad Alec non rimanevano altro che quelle, insieme ai ricordi.
“Allora perché l’hai fatto?”
“Perché non mi amava come avrei voluto. Non ero abbastanza per lui, forse? Non gli bastava che lui avesse una famiglia che lo adorasse, mentre io non avevo nessuno, doveva anche respingermi??” Jonathan urlò e se non fosse stato per le manette che gli impedivano di muoversi si sarebbe persino alzato, in preda alla rabbia.
Alec si sentì svuotato di qualsiasi cosa non fosse il desiderio di piangere. Jonathan, un ragazzo disturbato e con il complesso di abbandono, si era innamorato di suo fratello, al quale però piacevano le ragazze.
Era morto perché aveva rifiutato la persona sbagliata.
Era morto perché, semplicemente, non ricambiava l’amore di qualcun altro.
“Perché la stella?” Domandò perché all’improvviso fu quella l’unica cosa che gli balenò alla mente.
“Morgenstern significa stella del mattino.”
E sicché la M non stava per Magnus, ma per Morgenstern.
Alec trovò estremamente crudele che avesse persino fornito un indizio per i suoi crimini. Quasi come se volesse prendersene il merito, quasi come se fossero motivo di vanto.
“Marcirai in galera. Passerai il resto dei tuoi giorni solo, in una cella minuscola, con la consapevolezza che nessuno ti amerà mai. Sei un mostro, Jonathan.”
E detto questo, Alec si alzò e uscì dalla sala interrogatori, lasciando che due agenti portassero via Jonathan.
Era finita.
Era finita davvero.
Non riusciva a crederci.
Aveva trovato un briciolo di giustizia nell’ingiusta morte di suo fratello, eppure… eppure non si sentiva meglio. Conoscere i motivi per cui la vita di Max era finita lo facevano stare ancora peggio. La conoscenza rendeva l’ingiustizia ancora più profonda e in quel preciso istante, Alec ebbe la consapevolezza che le sue ferite non si sarebbero mai cicatrizzate, ma, anzi, si sarebbero solo aperte sempre di più, arrivando a toccare sempre più in profondità il suo cuore sanguinante.




Erano passati giorni dalla cattura di Jonathan.
L’assassino di suo fratello era in carcere, in attesa di un processo che l’avrebbe dichiarato colpevole di duplice omicidio, e la routine di Alec era tornata più o meno la stessa.
Ogni mattina si alzava, andava in centrale e lavorava di nascosto ai casi irrisolti.
E ogni sera tornava nel suo appartamento, si versava da bere, si faceva una doccia e andava a dormire.
Fino a quando, una sera, tornando a casa, non notò qualcosa di strano alla sua porta. La serratura del suo appartamento era stata manomessa, e Alec, istintivamente, estrasse la pistola dalla fondina ed entrò in casa facendo meno rumore possibile.
Il salotto era immerso nell’oscurità e quando Alec accese la luce, l’unica cosa che non lo fece saltare sul posto furono gli anni di esperienza alle spalle come poliziotto che l’avevano preparato a svariati imprevisti.
Magnus Bane era sul suo divano, seduto comodamente con le gambe accavallate e lo guardava divertito.
“Abbassala, zucchero, quella non ti serve.”
“Scusami se non ti credo.” Commentò Alec, carico di sarcasmo, continuando a puntare l’arma su Magnus. “Alzati e vieni qui.”
Magnus alzò le mani in segno di resa e, con un sorriso stampato sulle labbra, fece come gli era stato detto. Si posizionò davanti ad Alec, avvicinandosi, in realtà, più di quanto fosse necessario, fino a che la canna della pistola non fu appoggiata all’altezza del suo cuore. L’uomo abbassò lo sguardo sull’arma e poi lo rialzò di nuovo su Alec, con aria di sfida. “Hai intenzione di premerlo?”
Lo mandava sui nervi, questo Alec ormai l’aveva appurato. Il modo di fare che Magnus aveva. Il suo essere sempre e costantemente così malizioso, strafottente. Era un uomo abituato ad avere tutto e ad ottenerlo secondo le sue regole. Nessuno gli aveva mai detto di no e si vedeva. Non temeva nessuno, nemmeno la morte a quanto pareva.
Alec non rispose alla domanda e abbassò l’arma, risistemandola nella fondina. Con uno scatto fulmineo, afferrò Magnus per la sua probabilmente costosissima maglietta piena di paillettes nera e cominciò a perquisirlo. Passò le mani sopra al suo addome, dietro la sua schiena e, infine, si chinò per tastargli le gambe e le caviglie.
“Questa prospettiva potrebbe piacermi più del dovuto, tesoro.” Disse Magnus, guardandolo dall’alto verso il basso e ammiccando quando Alec, ancora chinato, alzò lo sguardo su di lui. Si rialzò in fretta e fece particolare attenzione a mettere le dovute distanze tra di loro.
“Perché sei qui? Cosa vuoi?”
Magnus azzerò nuovamente la distanza che c’era tra di loro con una falcata. I suoi occhi percorsero il viso di Alec con ingordigia, prima di fermarsi sulle sue labbra quasi con avidità. Quell’occhiata provocò un brivido lungo tutta la spina dorsale di Alec, ma il poliziotto decise di ignorarlo.
“Non così in fretta, zucchero. Tu hai perquisito me, io voglio perquisire te. Per amore del par condicio.”
“Sai che ho un’arma addosso.” Cominciò Alec, cercando di allontanarsi. Ma Magnus glielo impedì, piazzandogli una mano dietro la schiena e tirandolo a sé. Alec cercò di ignorare il calore che essa emanava e il modo saldo in cui Magnus lo stringeva a sé.
Era sbagliato. Gridò il suo cervello. Magnus era un criminale, un assassino.
“So che ce l’hai.” La mano di Magnus scivolò sulla sua schiena, percorrendola lentamente in tutta la sua lunghezza, fino a che non raggiunse il bordo dei pantaloni, sul quale era appesa la fondina. Alec pensò che gliel’avrebbe strappata di dosso, ma la mano di Magnus scese ancora, fino a che non gli agguantò una natica.
Alec sussultò. “Sei qui per questo? È questo il favore che mi vuoi chiedere? Perché la risposta è no. Non sono una prostituta.”
Magnus emise una risata sprezzante. “Ti prego, zucchero, certe insinuazioni mi offendono. Non ho bisogno di chiedere favori per fare sesso con qualcuno.”
“Allora, toglimi le mani di dosso e trovati qualcun altro.”
Magnus tolse la mano, ma non si allontanò. “Non mi vuoi? Nemmeno un po’?” Soffiò a due centimetri dalla sua bocca.
“Sei un criminale, Magnus.” E Alec si maledisse per il tremolio con il quale la sua voce uscì. La verità era che, seppur non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, Magnus aveva un effetto su di lui e in particolare sul suo corpo. E solo adesso se ne rendeva conto. Solo ora, perché aveva dimostrato che non c’entrava nulla con l’omicidio di suo fratello e riusciva ad essere in grado di vedere anche l’uomo, oltre al gangster.
E Magnus Bane era dannatamente bello, da far impazzire.
Gli scatenava reazioni a livello primordiale. Il suo odore gli penetrava nelle narici e lo faceva tremare dentro.
Il suo modo di guardarlo, di provocarlo, gli scatenava delle emozioni contrastanti. Attrazione fatale ed eccitazione, persino pericolo.
Guardare Magnus Bane era come guardare un mare in preda alla tempesta più violenta e provare comunque il desiderio di gettarsi nell’acqua.
“E con questo? Non devo piacerti sotto quel punto di vista.” Magnus alzò una mano per toccare il viso dell’altro. Alec sussultò, ma, inspiegabilmente, lo lasciò fare. “È solo puro istinto, tra di noi. Scaricare la tensione, soddisfare una curiosità. Chiamalo come vuoi. Ma ti voglio, Alexander, e se c’è una parte di te, anche una minuscola, che vuole me, allora stanotte sarà la nostra notte e domani mattina tornerà tutto come prima.”
Alec non ragionò. Non più almeno. Spense il cervello perché ogni suo singolo neurone gli stava gridando che era una brutta idea. E diamine se lo era. Era una pessima idea, ma Alec, per una volta in vita sua, non voleva tenere a bada i suoi istinti. Erano stati giorni infernali, pieni di tensione e ansie e tristezza. Il passato l’aveva colpito con forza, come una mazza in pieno cranio e lui, adesso, voleva solo un modo per non pensare.
Spegnere il cervello.
Scaricare la tensione.
Per questo piazzò una mano dietro al collo di Magnus e lo tirò a sé in un bacio confusionario e quasi arrabbiato. Non c’era dolcezza, in quel bacio. Quando Magnus lo ricambiò, era come se le loro bocche e le loro lingue avessero cominciato una lotta all’ultimo sangue. Le dita di Alec corsero tra i capelli di Magnus, tirandoli leggermente. Un mugolio uscì dalla gola dell’altro, che rispose a quel gesto mordendo il labbro inferiore di Alec, prima di lasciare la sua bocca e scendere, con la propria, lungo tutte le curve del suo collo. Alec inclinò la testa ed emise un sospiro strozzato per ogni morso o succhiotto che Magnus lasciò sulla sua pelle candida.
“Non lasciare i segni, non voglio dover dare spiegazioni, domani.”  
Magnus, in tutta risposta, fece correre le sue mani lungo la camicia di Alec, accarezzando l’addome definito da sopra la stoffa, prima di strappare i primi due bottoni e dedicarsi alle clavicole. Lasciò un morso su quella destra, prima di succhiare avidamente la pelle.
“Dubito qualcuno farà caso a questi, di segni.” Disse, baciando il punto che si stava già arrossendo. “E, comunque,  non dirmi cosa fare, tesoro.”
Alec lo afferrò per i capelli e lo tirò leggermente all’indietro, per fare in modo di guardarlo in viso. “Non fare il despota.” Non gli lasciò il tempo di ribattere perché si fiondò di nuovo sulle sue labbra, quasi volesse mangiarlo. Magnus aveva una bocca bellissima, piena e carnosa. E dopo che Alec le ebbe dedicato una discreta quantità di tempo, decise di passare alla pelle bronzea del suo collo – dove lasciò un segno, dal momento che Magnus non oppose resistenza alcuna a quel trattamento.
“Sai, Alexander, i succhiotti hanno un loro fascino, ma sto diventando impaziente.”
Alec morse con decisione un lembo di pelle, prima di alzare il viso e guardare Magnus negli occhi. “Divano.”
Ordinò. “Aspettami lì, torno subito.”
Magnus si sistemò dove gli era stato detto, mentre Alec spariva nel corridoio.
Chicago era una città corrotta.
Ed era piena di follia abbastanza da far sì che un gangster e un detective passassero la notte insieme.



 
   
 
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