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Autore: evil 65    19/01/2020    13 recensioni
( Sequel di So Wrong )
Quando vengono assegnati ad una missione congiunta, Peter Parker e Carol Danvers si ritrovano costretti a ad affrontare sentimenti che credevano ormai soppressi da tempo.
A peggiorare ulteriormente la situazione già molto tesa, i problemi per la coppia di Avengers sembrano appena cominciati. Perché ad Harpswell, cittadina natale della stessa Carol, cominciano ad avvenire numerose sparizioni che coinvolgono bambini…
( Crossover Avengers x IT's Stephen King )
Genere: Fantasy, Horror, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Carol Danvers/Captain Marvel, Peter Parker/Spider-Man
Note: AU, Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Avengers Assemble'
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Ecco un nuovissimo capitolo!
Primo di leggerlo, vi consiglio di riprendervi la one-shot " You got something for me, Peter Parker? ", poichè gli eventi di quella fic saranno direttamente collegati ad un personaggio che farà la sua comparsa in questo aggiornamento. Se invece l'avete già letta...beh, in quel caso spero che abbiate una buona memoria ;)
Buona lettura!



Sete di Vendetta

Sulla Quinta Avenue regnava una profonda oscurità, e una quiete altrettanto profonda.
Dal suo posto a sedere vicino alla vetrata del ristorante, Peter Parker guardò i lampioni e il continuo fluire del traffico, contraendo le labbra in un’espressione pensierosa.
Tutta quella luce e quell’attività non gli piacevano, ma non poteva farci nulla. Dopotutto, era l’incrocio tra la Quinta Avenue e la Settantatreesima Strada della città che non dorme mai.
E quelle vie erano state altrettanto trafficate anche le sere precedenti che lui aveva trascorso a pattugliare la zona, non aveva quindi motivo di credere che la situazione potesse migliorare.
Carol era di fronte a lui, completamente in silenzio, mentre punzecchiava un piatto di verdure con la forchetta.
<< Hai già cominciato l’università? >> disse all’improvviso la donna, rompendo la quiete imbarazzante.
Peter drizzò la testa di scatto, più che determinato a non lasciarsi sfuggire quell’apertura.
<<  Sono al secondo anno di ingegneria molecolare >> rispose con una punta d’orgoglio.
Carol lo fissò impressionata. << Roba molto avanzata >>
<< Che posso dire? Ho preso a cuore il tuo consiglio >> disse l’altro, con una scrollata di spalle.
La donna gli lanciò un sorriso, il primo che le aveva visto fare da quando si erano incontrati appena un’ora prima. Si era quasi dimenticato quanto potessero essere belli.
<< Sono felice di sentirlo >> disse, per poi addentare un pezzo di melanzana.
Sul tavolo tornò a regnare il silenzio.
Peter si guardò attorno un paio di volte, controllando che nessuno fosse a portata di orecchio.
<< Così…come vanno le cose nello spazio? >> chiese con tono apparentemente casuale, attirando l’attenzione di Carol.
<< Abbastanza bene >>  ripose, dopo un attimo di esitazione. << Ho interrotto un paio di guerre intergalattiche, fermato la distruzione di un pianeta, salvato l’ultima balena astrale dall’estinzione…le solite cose >>
<< Sì, sicuramente roba di tutti i giorni >> commentò Peter, con un ghigno divertito.
La donna si limitò a roteare gli occhi. << E tu? >>
<< Niente di eccezionale >> ammise il vigilante. << Ho speso gli ultimi due anni ad occuparmi delle strade, arrestare criminali basso profilo, più un paio di missioni per debellare le ultime celle dell’Hydra. Oh, c’è stata quella volta in cui ho aiutato Daredevil a combattere Bullseye! >>
<< Bullseye? >>
Peter arricciò il volto in una smorfia.
<< Credimi, non lo vorresti incontrare, quel tipo era un vero psicopatico. Lui e Kasady potrebbero essere fratelli >> borbottò, prima di rendersi conto di quello che aveva appena detto.
Sussultò, mentre anche il volto di Carol veniva attraversato da un cipiglio al sentire il nome del Serial Killer.
Un altro silenzio imbarazzante calò sul tavolo, accompagnato solo dal suono delle macchine che passavano davanti al ristorante.
 << Wow, siamo dei fantastici conversatori >> disse Peter, tentando di disinnescare la situazione.
Carol sorrise ironica. << Parlare di lavoro fa questo effetto, cambiamo argomento >>
<< Buona idea >> acconsentì il compagno Avenger. << Quiiiindi…>>
<< Quiiiindi… >> fece eco lei, tamburellando le dita della mano destra sulla superficie del tavolo.
Dopo qualche altro attimo di silenzio, Peter si indicò la testa.
<< lo sapevi che ora posso muovere i capelli a piacimento? Non c’entrano i poteri ragneschi, eh»
<< Dovrei sentirmi impressionata? >> ribattè l’altra, inarcando un sopracciglio.
Il vigilante si accasciò sulla sedia.
<< Suppongo di no >> borbottò a bassa voce. << Vorresti un drink? In questo posto fanno un Bloody Mary fantastico >>
<< Sono appena tornata da un lungo viaggio di seimila anni luce, penso che per ora mi accontenterò di una bottiglia d’acqua >> rispose la donna, per poi riprendere a mangiare.
Peter rimase fermo e immobile, fissandola per quello che sembrò un tempo interminabile.
<< Il cibo è buono? >> sbottò tutto d’un fiato, sperando di riprendere un qualche tipo di conversazione.
Carol alzò lo sguardo dal piatto, incontrando i suoi occhi ancora una volta. << Non male, anche se le porzioni sono un po’ piccole >>
<< Già…lo sai che le verdure sono state coltivate localmente? >>
<< Interessante >>
Di nuovo silenzio.
“ La cosa sta diventando irritante” commentò mentalmente Peter, visibilmente sconsolato.
Dopo quasi cinque minuti in cui nessuno dei due sembrava più intenzionato a proferire parola, Carol lasciò andare ambe le posate, incrociò le mani sotto il mento e rivolse tutta la propria attenzione nei confronti del vigilante.
<< Peter, sul serio…Perchè stiamo mangiando in un ristorante lussuoso? >> domandò con tono fermò, ricevendo un’espressione sorpresa ad opera dell’arrampica-muri.
Questi si agitò a disagio sulla sedia.
<< Beh, io…ecco…non volevo che pensassi che ho gusti scadenti in fatto di cibo >> borbottò, le guance leggermente arrossate.
Carol inclinò leggermente la testa di lato. << Ti preoccupi di ciò che penso di te? >>
<< … >>
Peter non rispose, e si limitò a distogliere lo sguardo. Suo malgrado, la donna non potè fare a meno di sorridere di fronte alla timidezza del ragazzo.
“ Certe cose non cambiano mai” pensò divertita.
<< Che resti fra noi… se potessi, sceglierei sempre un hot dog al chili >> rivelò, attirando lo sguardo del collega.
Peter le lanciò un’occhiata poco convinta. << Davvero? >>
<< Davvero  >> confermò la donna, con una scrollata di spalle.
Il vigilante sorrise a sua volta, per poi prendere un respiro profondo.
<< Vuoi fuggire da qui e provare gli hot dog più buoni di tutta New York? Io ho ancora fame >>
<< Per un attimo ero preoccupata che non me lo avresti mai chiesto >> disse l’altra, con un sospiro di sollievo.
Peter alzò una mano, richiamando l’attenzione di uno dei camerieri. Questi si avvicinò loro con passo impeccabile e posò il conto del pranzo sulla superficie del tavolo.
Una volta letto, il vigilante sembrò impallidire.
<< Ehm…è un po’ imbarazzante da chiedere, soprattutto perché sono stato io a portarti qui, ma…potresti pagare il conto? Sono un po’ a corto di soldi >> disse con una risata nervosa, rivolto verso Carol.
La donna incrociò ambe le braccia davanti al petto, scrutandolo con divertimento a mala pena celato.
<< E perché dovrei farlo? >>
<< Perché sono la tua persona preferita nell’universo? >>
<< Ritenta >>
<< Nelle prime tre? >>
<< Non ci siamo proprio >>
<< Mi ferisci, Carol. Mi ferisci davvero >> disse l’Avenger, portandosi una mano sopra il cuore.
La bionda ridacchiò.
<< Non è vero >>
<< No, non è vero >> confermò il vigilante, con un sospiro rassegnato. << Ma dovevo tentare. Però guardati le spalle, perché la mia vendetta sarà inaspettata e terribile >>
<< Sai che sono il capo dello spazio, giusto? >> chiese Carol, sorridendo divertita.
Peter rilasciò un sonoro sbuffo.
<< Sì, ma non siamo nello spazio >>
<< Giusto. Ma ti ci potrei lanciare, e allora indovina dove saremmo? >>
<< Spazio? >>
<< Bravo >> disse la donna, per poi picchiettargli amichevolmente la guancia.
Il vigilante arrossì al contatto, mentre Carol procedette ad estrarre il portafoglio dalla tasca della giacca.
Peter la fissò sorpreso.
<< Non devi davvero pagarmi il conto, stavo solo scherzando >> offrì debolmente, per quanto fosse propenso ad accettare quell’inaspettato atto di carità.
<< Ho trovato una ragione per farlo >> disse la bionda, posando i soldi sul tavolo e non incontrando il suo sguardo.
Il cuore del ragazzo mancò un battito.
<< È…è una ragione buona? >> chiese dopo un momento di esitazione.
Carol gli inviò un dolce sorriso. << Solo il tempo lo dirà >>
E, detto questo, si alzò dal posto a sedere e cominciò a incamminarsi verso l’uscita del ristorante.
Peter rimase fermo e immobile dietro di lei, apparentemente incapace di elaborare le parole appena pronunciate dall’eroina.
Scuotendo la testa, si apprestò a seguirla con un ghigno nascosto.
Entrambi lasciarono lo stabilimento, puntando in direzione di Central Park.  A metà strada, Carol estrasse alcuni fogli spiegazzati dalla tasca interna della giacca.
<< Per quanto sia stato bello rivederti, non sono qui solo per una visita di piacere >> disse rivolta all’arrampica muri.
Peter la fissò sorpreso, e forse un pochino deluso.
<< Oh >> fu tutto quello che riuscì a dire, incapace di nascondere un certo livello di amarezza. Carol non sembrò badarci troppo.
<< Rohdey voleva che mi aiutassi con questo >> disse porgendogli le carte.
Il ragazzo le afferrò con esitazione e cominciò ad aprirle.
<< Se non te l’avesse chiesto…saresti venuta a salutarmi? >> chiese dopo un attimo di silenzio.
Carol strabuzzò gli occhi, presa in contropiede da un simile domanda. Aprì la bocca per rispondere, ma si ritrovò incapace di farlo. Ma per Peter fu una risposta più sufficiente.
<< Lo immaginavo >> borbottò, mentre dava un’occhiata al fascicolo. << Di che si tratta? >>
<< Bambini scomparsi >> rispose rapidamente la donna, approfittando del cambio di argomento. << Una dozzina, almeno secondo i dati ufficiali. È accaduto ad Harpswell e Rohdey pensa che potrebbe trattarsi di un superumano >>
<< Il nome mi sembra familiare >> commentò l’altro, stringendo ambe le palpebre degli occhi.
Alzò lo sguardo verso Carol, come per chiedere conferma.
La bionda girò la testa di lato e cominciò a dondolarsi sulla punta dei talloni.
<< È la mia città natale >> spiegò, visibilmente a disagio.
Gli occhi di Peter si dilatarono come piatti.
Ora ricordava, Carol aveva accennato a quella cittadina durante il loro primo incontro al cimitero. In seguito, vi aveva fatto riferimento un paio di volte, senza mai entrare nei dettagli. Ogni volta che il ragazzo aveva provato ad approfondire, lei aveva sempre finito con il cambiare argomento.
<< Naturalmente non sei obbligato a venire >> continuò la donna. << So che sei molto impegnato con i pattugliamenti, per non parlare dell’università… >>
<< Penso che New York possa sopravvivere qualche giorno senza di me >> rispose Peter, per poi posarle ambe le mani sulle spalle.
La bionda tornò a fissarlo.
<< Quindi…accetti? >> chiese con una punta d’incertezza, mista a quello che poteva benissimo essere sollievo. L’arrampica-muri decise d’interpretarlo come tale.
<< Temo che sarai costretto a sopportarmi >> rispose con un ghigno impertinente.
Carol gli lancio un sorriso timido e arrossì leggermente, nonostante i suoi migliori tentativi di evitarlo. Internamente, Peter la considerò una vittoria.
<< Allora… >> iniziò con tono casuale, << Vuoi ancora quell’Hot Dog? >>
 
                                                                                                                                                                    * * * 

La prima volta che Max Dillon aveva ucciso qualcuno era stato un incidente, ammesso che una cosa simile possa essere definita tale.
Operaio edile da quasi dieci anni, aveva fatto cadere per errore una chiave inglese dentro un tritarifiuti, mentre stava finendo di saldare l’impianto di raffreddamento di uno degli uffici delle Oscorp Industries.
L’oggetto era schizzato dritto nel cervello di un dipendente che aveva incautamente superato il nastro giallo delimitante l’area off-limits per recuperare il pranzo dimenticato nel cassetto della scrivania.
Per settimane i sussurri dei colleghi l’avevano perseguitato, insinuandosi negli angoli dei divisori dell’ufficio, riecheggiando all’interno dei bagni, lasciando un segno tangibile su ogni volto.
Molti dei suoi amici cominciarono ad evitarlo, come se la sua semplice presenza potesse contagiarli con qualunque maledizione avesse deciso di prendere possesso del suo corpo. È incredibile quanto la gente potesse essere superstiziosa anche in un periodo apparentemente illuminato come il ventunesimo secolo.
Il suo capo era stato abbastanza gentile, il giorno in cui l’aveva chiamato nel suo ufficio, ma molto fermo.
La sua presenza nell’edificio stava minando il morale e la produttività dei colleghi. E lui, in fin dei conti, non aveva forse bisogno di un po’ di tempo per riflettere su quanto era successo? Allora perché non prendersi quel po’ di tempo?
Qualche settimana più tardi, con i soldi agli sgoccioli e il morale a terra, venne trasferito nell’ala d’ingegneria dell’azienda, dove si sarebbe dovuto occupare dell’impianto elettrico coinvolto con un esperimento scientifico atto a generare energia pulita e rinnovabile. Un lavoro che nessuno dei suoi colleghi avrebbe mai accettato, perché certe mansioni erano spesso causa di incidenti mortali, specialmente se i laboratori della Oscorp erano coinvolti.
Ma Max aveva comunque bisogno di soldi…e così aveva accettato il lavoro senza lamentarsi, una scelta che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
Mentre stava monitorando l’impianto, infatti, venne coinvolto in un improvviso sbalzo di corrente provocato da un test del generatore. L’energia scaturita dal sovraccarico lo investì in pieno, aumentando di migliaia di volte la bio-elettricità del suo corpo e trasformandolo in una lampadina vivente.
Disperato, si era recato all’edificio amministrativo Oscorp che si occupava della sua assicurazione, ma i dirigenti si erano rifiutati di pagarlo a causa delle circostanze straordinarie del suo incidente.
Inutile dire che l’uomo era esploso in una rabbia ceca, devastando gran parte della struttura e uccidendo una guardia di sicurezza nel processo.
Fu anche l’occasione in cui si scontrò per la prima e unica volta contro Spider-Man e Capitan Marvel, finendo in prigione quello stesso giorno.
I mastini della sua anima avevano iniziato a tormentarlo alcuni giorni dopo la sua incarcerazione. E se Norman Osborn non l’avesse visitato, forse Max Dillon sarebbe rimasto per sempre in quella gabbia e avrebbe smesso di dispensare morte.
Invece il direttore generale delle Oscorp Industries era venuto a conoscenza della sua condizione e aveva deciso di fornirgli il suo aiuto. O almeno così gli aveva detto.
L’uomo aveva parlato ai suoi più intimi recessi, alimentando l’odio che covava dentro di sé nei confronti di Spider-Man e Capitan Marvel, promettendogli che avrebbe avuto la sua vendetta finale e che, quando l’ultimo omicidio fosse stato compiuto, gli avrebbe dato pace, guarendolo dalla sua deplorevole condizione. 
Max ripensò a quelle conversazioni con determinazione ritrovata e prese un paio di respiri calmanti per trattenere la propria rabbia.
Il primo appuntamento da rispettare era alle cinque di pomeriggio, mancavano ancora cinque minuti. L’uomo controllava di continuo l’orologio, ma neppure il suo potere avrebbe potuto far muovere più velocemente la lancetta dei secondi.
La pioggia moscovita batteva contro le finestre, incrementando la sua ansia.
Finalmente arrivarono le cinque.
Max fece un respiro profondo e si concentrò. Tanto felice di lasciare quella gabbia puzzolente, quanto spaventato all’idea di affrontare di nuovo il mondo esterno, fece appello al proprio potere.
Non aveva messo piede fuori da quel posto per quasi quattro anni.
Fuoriuscì dalla porta e venne prontamente investito dalla pioggia.
Le mura del carcere incombevano alte, mentre la gocce che lo colpivano formavano aloni luminescenti intorno alla tuta a intervalli regolari. Guardie armate affiancate da cani pattugliavano il perimetro, lanciandogli occhiate diffidenti. Lui si limitò ad ignorarle e procedette a incamminarsi in direzione del cancello d’uscita.  
Il rombo dei lampi occasionali aggredì i suoi timpani stremati.
Max si spinse attraverso il corridoio che lo sperava dalla tanto agognata libertà, con la pioggia che gli scivolava lungo la tuta ed evaporava a causa della temperatura interna del suo corpo, pari a quella di un centrale elettrica in piena attività.
Superò una sbarra a strisce diagonali presso la quale si trovavano due guardie armate ma immobili, avvolte nei loro impermeabili sotto la pioggia. Per un attimo pensò che gli avrebbero sparato alle spalle, ma non accadde.
Uscì dal cancello e si ritrovò di fronte ad una limousine nera.
Ad attenderlo affianco al parabrezza della macchina vi era un uomo anziano vestito con la tipica divisa da autista che Dillon aveva visto solo nei film di Martin Scorsese. Nelle mani reggeva un piccolo cartello con sopra scritto a caratteri cubitali “Max Dillon”.
Il superumano prese un altro respiro e procedette a incamminarsi verso il veicolo. Il suo secondo appuntamento era in attesa.
 
                                                                                                                                                                * * *
 
Di solito, a Norman Osborn piaceva girare per le strade di New York, vedere il flusso e il riflusso del dramma umano sui marciapiedi di Manhattan, attraverso i finestrini oscurati della sua limousine, mentre l’autista si preoccupava degli ingorghi e dei tassisti kamikaze.
Ma quel giorno la città e i quartieri circostanti sarebbero stati nel caos, mentre i passanti occupavano le strade e migliaia di turisti confluivano nel centro per godersi le parate, le bancarelle, i fuochi d’artificio e gli altri festeggiamenti che caratterizzavano il periodo del Ringraziamento.
Per evitare la calca, Norman disse all’autista di prendere una via secondaria, ma anche lì c’era un traffico pazzesco.
Il magnante avrebbe tanto preferito tornare a casa a cambiarsi, ma non c’era tempo.  Andarono direttamente alla Oscorp City Center.
Corde di velluto erano state appese davanti agli ascensori che portavano ai piani superiori, e un’elegante insegna in oro diceva: CHIUSO PER UNA FESTA PRIVATA.
Con le mani sprofondate nelle tasche dell’impermeabile, Norman Osborn camminò fino al palazzo di pietra grigia, alto dodici piani, che costituiva il fiore all’occhiello delle Oscorp Industries.
Le suole delle sue scarpe risuonarono in modo sinistro nel grande atrio del grattacielo.
<< Buongiorno, signor Osborn >> lo salutò un vecchio con una divisa sgualcita, mentre attraversava la cavernosa sala centrale.
<< Buongiorno, Fred >>
<< Ha voglia di prendere un caffè?>>
 Il vecchio era una guardia giurata. Gli piaceva raccontare le storie di quando aveva visto Capitan America combattere i nazisti in televisione, all’epoca in cui era solo un bambino, e di quanto fossero stati terribili i primi momenti della nuova era, dopo la fine della guerra.
<< Magari più tardi >> disse Osborn.  Quel vecchio gli era simpatico, ma in quel momento non poteva stare a sentire le sue interminabili rievocazioni. << Ho del lavoro da sbrigare. Un progetto che voglio concludere al più presto. >>
 La guardia fece schioccare la lingua contro la dentiera e scosse la testa.
<< Lei lavora troppo, signori Osborn. È ancora giovane, dovrebbe uscire di più >>
<< Prenderò a cuore le sue parole >> rispose il magnante, con un sorriso accomodante.
<< Veda di farlo >> disse il vecchio con aria benevola, salutandolo con un rapido cenno del capo.
Una volta giunto a destinazione, Norma premette il pulsante che lo avrebbe condotto al settimo piano dell’edificio, nella zona ristoro.
L’ascensore salì direttamente fino al foyer delle cucine e, appena si aprirono le porte, l’uomo sentì il capocuoco inveire contro qualcuno: senza dubbio l’addetta alle salse, quei due avevano sempre da ridire. Un inserviente stava pulendo il guardaroba, quando Norman uscì dall’ascensore.
<< Assicurati di svuotare tutti i posacenere, Wilson >> raccomandò il magnante.
Poi si fermò un attimo, e si guardò intorno.
Il pavimento in marmo era luccicante, i divani erano appena stati puliti. Le pareti erano tappezzate di fotografie incorniciate di celebrità: politici, campioni sportivi, sex symbol, vip, scrittori, attori, giornalisti e una miriade di assi. La maggior parte aveva scarabocchiato sul proprio ritratto una dedica affettuosa allo stesso Osborn.
Si fermò per raddrizzare la fotografia del Presidente Trump scattata la notte in cui era stato rieletto.
Sable, la sua assistente più fidata, gli si avvicinò con una dozzina di cartoncini rigidi sotto al braccio.
Era una giovane donna dalla corporatura alta e atletica, vestita interamente di bianco, con i capelli argentati che le ricadevano sulla schiena come un lenzuolo.
<< La cucina è nel caos >> annunciò con tono teso. << Lo chef insiste che una degli addetti gli ha rovinato la sua speciale salsa olandese, e minaccia di buttarla giù dalla Terrazza del Tramonto. Abbiamo avuto un piccolo incendio ai fornelli, ma l’abbiamo domato, senza danni. Le sculture di ghiaccio sono in ritardo. Questa mattina, sei dei nostri camerieri hanno telefonato dandosi ammalati. Io la chiamo l’influenza
da party, complicata dal fatto che, a queste feste private, nessuno dà mai mance. Un bonus più consistente potrebbe contribuire a farli guarire in fretta >>
 Norman sospirò, si passò una mano tra i capelli rossi  e disse : << Trovami sei camerieri temporanei, anzi dieci, anche se non saranno bravi come i nostri. Quanto allo chef, non sono preoccupato. Non ha mai buttato nessuno giù dalla finestra >>
Si diresse verso l’uscita delle cucine. Sable lo seguì.
<< I nostri ospiti sono già arrivati? >> chiese il magnante, dopo qualche attimo di silenzio.
Affianco a lui, la donna annuì impassibile.
<< La aspettano dentro >> rispose,  mentre Norman apriva le porte del ristorante. 
Alcuni inservienti stavano tirando fuori i tavoli rotondi per il banchetto e riponendo quelli normali nel magazzino. L’impresa di pulizie lucidava i pavimenti, il lungo bancone ricurvo e i magnifici lampadari art déco che conferivano al palazzo gran parte della sua atmosfera.
Le grandi porte della terrazza erano state spalancate per cambiare l’aria, e stava soffiando una piacevole brezza newyorchese. Osborn poteva percepire, da molto in basso, il rumore del traffico e le sirene della polizia.
Al centro della sala spiccava un grosso tavolo circolare al quale erano seduti quattro individui dall’aspetto ben distinto.
Octo Octavius era a capo tavola, con le sue indistinguibili braccia meccaniche sospese a mezz’aria.
Affianco a lui vi era un uomo di nazionalità messicana, con un marcato tatuaggio a forma di scorpione lungo il collo, seguito da un afroamericano alto e tarchiato, e da un uomo in sovrappeso con folti capelli rossi e una barba ispida.
Costoro erano rispettivamente il trafficante di armi Mac Gargan e la coppia di rapinatori Herman Schultz e Phineas Mason, tre dei primi criminali catturati dal vigilante noto come Spider-Man.
Dopo essersi seduto a capo tavola, Osborn volse al gruppo un sorriso carismatico.
<< Signori, spero che abbiate apprezzato la cena >> cominciò con tono affabile. << Probabilmente vi starete chiedendo perché vi ho riuniti tutti qui? Un attimo di pazienza, l’ultimo ospite sta per arrivare >>
Quasi come ad un segnale, le porte della sala si aprirono nuovamente.
Con grande sorpresa dei presenti - ad eccezione di Osborn, Octavius e Sable - ad attraversarle fu una figura avvolta da capo a piedi in una bizzarra tuta che sembrava fuoriuscita direttamente da uno di quei film di fantascienza anni 50. “Ultimatum alla Terra” e “L’uomo che veniva da Marte” furono i primi titoli che saltarono alla mente di Phineas.
Del nuovo arrivato erano visibili solo gli occhi, gialli e splendenti come un paio di lampadine.
Osborn annuì compiaciuto e indicò il misterioso individuo. << Vorrei presentarvi Max Dillon… >>
<< Electro >> lo interruppe questi, prima che potesse completare l’introduzione. Aveva una voce bassa e graffiante, come il suono provocato dal rumore di fondo di una radio.
<< Electro >> si corresse Osborn, mentre il superumano prendeva posto al tavolo. << Si unirà a noi per il resto dell’incontro >>
Shultz fissò intensamente la figura di Dillon, squadrandolo da capo a piedi.
<< Ho sentito parlare di te. In giro si dice che puoi controllare l’elettricità >> disse con tono impressionato.
Dillon alzò lo sguardo e il criminale si ritrovò a scrutare dritto nei pozzi luminosi che aveva per occhi.
<< Non la controllo >> disse il superumano, dopo un attimo di silenzio. << Io SONO elettricità >>
<< Affascinante >> commentò Octavius, attirando l’attenzione del gruppo. << I miei sensori indicano che il tuo corpo sta bruciando ad una temperatura pari o poco superiore a quella di un fulmine. Sei un vero miracolo della scienza che cammina >>
Mc Gargan rilasciò un sonoro sbuffo.
<< Sì, certo, un miracolo che si è fatto prendere a calci in culo dall’insetto e la sua amichetta bionda >> disse con voce beffarda.
Gli occhi di Dillon diventarono più luminosi.
<< Non ti conviene farmi arrabbiare >> ringhiò, alzandosi di scatto e puntando una mano in direzione dell’ex trafficante. Al contempo, piccole scariche cominciarono a volteggiare attorno alle dita del superumano.
<< Signori…per favore, non vorrei dover ristrutturare questo posto >> disse Osborn in modo pericolosamente calmo, mentre volgeva alla coppia un’occhiata significativa.
Kargan si limitò ad alzare le mani in segno di resa. Dillon, invece, combattè una gara di sguardi con il magnante per circa mezzo minuto, prima di tornare a sedersi.
Norman annuì soddisfatto.
<< Inoltre, se ben ricordo, non è l’unico, qui, ad essersi fatto…prendere a calci da un certo arrampica-muri >> ammonì verso Gargan, il quale si ritrovò incapace di trattenere una smorfia irritata.
Poi, il miliardario indicò il resto delle persone raccolte. << Tutti voi, in un modo o nell’altro, avete sofferto a causa del supereroe noto come Spider-Man. Detto questo, non vi ho convocati qui per criticarvi, al contrario. L’opportunità che attendevo da tempo, nonché la ragion per cui vi prelevai da Ryker’s Island quasi un anno fa, si è finalmente presentata >>
Detto questo, afferrò uno strano dispositivo dalla tasca della giacca e lo posò al centro del tavolo.
Pochi secondi dopo, l’ologramma di una giovane donna dai folti capelli rossi scaturì dall’oggetto.
<< Lei è Shil Obern, una mia impiegata >> spiegò Osborn, rivolto verso la proiezione. << Si è infiltrata nella base dei vendicatori come segretaria, e recentemente è venuta a conoscenza di un bocconcino molto interessante d’informazioni >>
L’immagine cambiò di colpo, rivelando una coppia di figure che ogni partecipante a quell’incontro conosceva assai bene.
<< Spider-Man lascerà New York per eseguire un qualche tipo missione ad Harpswell, una piccola cittadina del Maine. Ad accompagnarlo vi sarà solo Capitan Marvel >> disse il miliardario, indicando la coppia di Avengers sospesi a pochi centimetri dalla superficie del tavolo. << Per la prima volta dall’inizio della nostra partnership, sarà quasi completamente isolato, incapace di ricevere assistenza dal resto della squadra >>
Volse al gruppo un sorriso predatorio.
 << Ed ecco la ragione per cui siete qui. Voglio che catturiate Spider-Man e lo portiate ai laboratori Oscorp. Non importa in quale stato…purchè sia vivo >> terminò con un tono che non ammetteva repliche.
Shultz inarcò un sopracciglio.
<< Perché? >> domandò scontento, attirando l’attenzione del magnante.
<< Semplice, perché ne ho bisogno. È tutto quello che vi serve sapere >> rispose questi, fissando freddamente il criminale.
Un paio di posti più in fondo, Phineas compì un paio di colpi di tosse.
<< Con tutto il rispetto, Signor Osborn…>> cominciò l’uomo, visibilmente a disagio con quello che stava per dire, << Capitan Marvel è considerata uno dei Vendicatori più potenti ancora in circolazione. Dubito seriamente che saremmo preparati per affrontarla, se decidesse di fornire assistenza al ragno. >>
Osborn lanciò un’occhiata laterale in direzione del sottoposto.
Per un attimo, Phineas fu assai tentato di sottrarsi a quell’esame, tuttavia riuscì a mantenere i nervi saldi.
Poi, Osborn arricciò ambe le labbra in un sorriso accomodante e fece un cenno verso Dillon.
<< Electro, qui, è più che qualificato per occuparsi della signorina Danvers >> disse con tono di fatto.
Mc Gargan sbuffò una seconda volta. << Non è quello che ricordo dai giornali >>
<< Mi ha solo colto impreparato! >> sbraitò il superumano, sbattendo un pugno sulla superficie del tavolo. << Inoltre, da quel giorno sono diventato molto più forte >>
<< E per questo verrai fornito della tecnologia necessaria affinchè le circostanze della tua, ehm… cattura… non si ripetano >> si intromise Osborn, indicando Octavius.
Quando Dillon si voltò verso lo scienziato, questi annuì in conferma.
<< Ho lavorato sulla creazione di un condensatore plasmico capace di aumentare la densità molecolare dei tuoi attacchi >> spiegò l’uomo, con voce apparentemente causale, quasi come se stesse semplicemente discutendo del tempo. << Una volta integrato con la tua tuta, non sarà più in grado di assorbirli. >>
Al sentire tali parole, un sorriso cominciò a formarsi sotto la maschera del superumano. Quell’espressione, tuttavia, fu assai di breve durata.
Volse nuovamente la propria attenzione nei confronti di Osborn.
<< Portartelo vivo…non faceva parte dell’accordo >> disse freddamente.
<< Infatti >> si intromise Gargan, incrociando ambe le braccia davanti al petto. << Mi hai promesso la sua testa >>
Norman si limitò ad alzare la mano destra, nel tentativo di placare lo stato d’animo della coppia.
<< Di questo non avete di preoccuparvi. Una volta che io e il buon dottore avremo ottenuto da lui ciò che ci serve…bhe, diciamo solo che potrete disporne nella maniera che più vi aggrada >> terminò con un ghigno.
Poi, fece cenno alla donna che era rimasta al suo fianco durante tutta la durata di quell’incontro.
<< Detto questo, onde a evitare che vi facciate prendere dall’entusiasmo, Sable e Octavius vi assisteranno durante la missione >> spiegò paziente, mentre sia il Dottore che la sicaria annuivano all’unisono.
Mc Gargan, Dillon, Shultz e Phineas cominciarono a guardarsi l’un l’altro, apparentemente impegnati in una conversazione silenziosa.
Passato un minuto, Electro fu il primo a parlare. << Sono dentro >>
<< E io pure >> aggiunse Gargan, il volto adornato da un espressione colma d’anticipazione.
 << Può contare su di me >> riprese Schultz, seguito rapidamente da Phineas.
Se possibile, il sorriso di Norman diventò più grande.
<< Eccellente. Ora…chi vuole il dolce? >>



Boom! Spero vi sia piaciuto.
Ed ecco altri sei antagonisti per la nostra amabile coppia. I fan dei fumetti avranno sicuramente capito dove sto andando a parare...
Max Dillon, aka Electro, era il villain della one-shot citata nelle note a inizio capitolo, ed è uno degli antagonisti più potenti e longevi di Spider-Man. 
Nel prossimo capitolo farà la sua comparsa l'ultimo villain di questa fic...e vi assicurò che sarà una bella sorpresa per molti ;)
  
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