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Autore: ToscaSam    03/02/2020    1 recensioni
Ossia la storia di come il Metamondo divenne partecipe dei mondi del Bene, liberandosi dall'antica muraglia e sconfiggendo il tiranno Phobos.
scritta dal romanziere Flarp Qeol'de, dell'antica famiglia dei Qeol, vissuto sotto il gentile regno di sua maestà Elyon Escanor nel MIV secolo dalla fondazione della Città Infinita.
Questa miscellanea raccoglie testi provenienti dalle biblioteche di Kandrakar, dagli archivi del Metamondo, dai diari di creature terrestri e molto altro.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cedric, Elyon Brown, Phobos
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dal libro:
 
Guerra di Successione Metamondese.
Intrighi per il trono della Città Infinita, finiti in spargimenti di sangue e sofferenza
Ossia la storia di come il Metamondo divenne partecipe dei mondi del Bene, liberandosi dall'antica muraglia e sconfiggendo il tiranno Phobos.
scritta dal romanziere Flarp Qeol'de, dell'antica famiglia dei Qeol, vissuto sotto il gentile regno di sua maestà Elyon Escanor nel MIV secolo dalla fondazione della Città Infinita.
 
 
Mi perdonerà sua Maestà se mi permetterò di far svolazzar la penna
e le parrà che la narrazione per nulla al vero accenna.
Ma io nei miei girovagar d'archivi e vecchi luoghi
trovai un libretto, senz'altro sfuggito a mille perigli e mille roghi.
Il manoscritto raccontava tutto per filo e per segno
e io altro non faccio, se non mettere capo a lo mio ingegno:
adatterò alla lingua corrente e alla comprensione del lettore
quello ch'io ho letto e che solo Verità vuole.
Voglia essere un omaggio alla Maestà Sua, Luminosa,
che bontà sopra ogni cuore col suo sguardo posa.
E il buon Flarp che ahimé non ha più nome Queol
ma sol Queol'de per antico error,
vuol così ritornare nelle vostre grazie
e le sue ambizioni d'esservi tenero, far sazie.

 
I
un principe tormentato
 
Phobos, quel giorno, quando sentì il caldo sole della bella stagione massaggiargli le palpebre per farlo svegliare, spalancò gli occhi.
Rimase per un istante immobile, nel letto, quasi pietrificato. Non aveva dormito, o forse lo aveva fatto in maniera piuttosto sommaria; un misto di ragionamenti e riposo inconscio.
Odiò con forza il mattino, per essersi presentato così presto.
Quella era l'ultima giornata che aveva voglia di passare e anche se sapeva che l'unico modo per farla scomparire era adempiere ai suoi impegni finché il giorno non fosse sfumato di nuovo nella notte, Phobos non riusciva proprio a controllarsi.
Sapeva di darla vinta a tutti quelli che remavano contro di lui, contro la sua felicità, se se ne stava così a non far nulla e ad obbedire all'ennesima imposizione sulla sua volontà.
Si destò con lentezza e con altrettanta calma chiamò i servitori per prepararlo.
Non si curava dei loro sguardi interrogativi, finché rimanevano ammansiti. Erano schiavi del suo volere e se a lui andava di impiegare moltissimo tempo nelle operazioni di vestizione, loro dovevano stare al suo passo.
Era il tempo in cui il principe di Meridian aveva l'età umana1 di tredici anni. Né un bambino, né un uomo.
Aveva vissuto fino ad allora nella consapevolezza di appartenere alla casata degli Escanor, i regnanti di Meridian. Adorava le parate, in cui lui e la sua famiglia venivano scarrozzati in giro per la Città Infnita, e la gente esultante si accalcava per vederli ed inneggiarli.
Aveva sempre provato una gioia indescrivibile, febbrile, quando veniva annunciato al pubblico: adorava sensibilmente sapere che rappresentava qualcosa di speciale, di inarrivabile e che in sua presenza erano necessarie delle misure non comuni.
Vedere un inchino e percepire l'obbedienza avevano sempre fatto parte della sua vita e Phobos ne era attaccato in maniera famelica.
Se guardava dentro di se, il principe probabilmente sapeva perché: c'era uno scalino che non avrebbe mai potuto salire e la consapevolezza di quel limite l'aveva sempre turbato nell'intimo. La legge per l'eredità del trono non lo riguardava. Come da sempre, Meridian seguiva la linea di discendenza femminile.
Lui era un primogenito, ma maschio .. quindi sostanzialmente inutile. Phobos aveva sempre percepito questa sua inutilità e aveva maturato un germoglio di terrore - forse sconosciuto anche a lui stesso - in cui si sentiva non desiderato dalla sua famiglia, irrilevante, un peso, qualcosa che c'era ma che sarebbe stato meglio se fosse stato diverso.
Per questo, forse, amava così tanto esibire il suo cognome e il suo lignaggio. Per questo, quando aveva dovuto studiare le casate nobili di Meridian, aveva imparato con avidità i nomi di tutti i rami caduti in disgrazia. Per dimostrare a tutti gli altri, alla sua famiglia e a sé stesso, che anche il Principe Phobos degli Escanor era degno di appartenere alla casata reale e che per lui ogni legge sarebbe dovuta cambiare, perché lui si meritava di essere amato e rispettato.
Molti pensieri affollavano da sempre la mente del giovane principe e forse questo piccolo stralcio può essere in parte veritiero.
Per quanto amasse le parate e le cerimonie, quella mattina proprio non avrebbe chiesto altro che rimanere nell'ombra.
Era una delle prime volte in cui non voleva imporre la sua presenza al cospetto degli altri ed aveva buoni motivi per pensarlo.

« Mio principe, vostra madre sua maestà la regina vi attende sulla carrozza. Vi prega di ... uhm ... far presto»
Un ufficiale comparve sulla porta a riferire il messaggio. Di certo sapeva che quelle parole avrebbero infastidito il principe e sulla sua carnagione verdastra si potevano scorgere rughe di preoccupazione. Tuttavia il mandante di quelle volontà era la regina, quindi Phobos immaginò che l'ufficiale pensasse di essere esentato dal temerlo.
Phobos lo guardò a lungo, misurando i suoi pensieri su una lunga scia d'odio che avrebbe previsto atroci sofferenze per quell'inetto se solo fosse dipeso da lui.
La sua risposta fu soave quanto lapitaria:
«Va bene» disse, muovendo appena le labbra.
Il messo se ne andò, con suo immenso piacere.
Phobos aumentò dunque il ritmo di preparazione e quando poté dichiararsi pronto, raggiunse sua madre in carrozza.
« Phobos, mio caro. Non avresti dovuto metterci così tanto. Finché non saremo arrivati noi, non potranno iniziare le cerimonie. Che cosa ti ha trattenuto? Sei stanco? Sei arrabbiato? »
La domanda, così dolce e così diretta, non fece che aumentare l'odio nel petto di Phobos.
Poteva sentire i contorni dello stomaco bruciare ardentemente.
Sua madre era molto bella: i capelli di un rosso molto scuro, sempre acconciati con fantasia, erano lunghi e lucenti. Quel giorno indossava un abito prezioso di seta blu.
« No, mamma. Avevo solo molto sonno. Mi dispiace averti fatto aspettare»
Forse fu il tono distante, freddo e vuoto che intenerirono lo sguardo di quella donna regale.
Passarono pochi secondi, quando sospirò:
« Va bene... Non c'è nessun problema, tesoro. I tuoi cugini ci scuseranno».
Phobos pensò a quanto fosse facile ingannare sua madre. Davvero riusciva a credere che per lui andasse tutto bene? Davvero non coglieva l'odio profondo e il dolore che lo affliggevano? Chi fra i due aveva eccellenti doti di menzogna?
Mentre la sua mente vagava neri abissi, il tempo era scandito dai sobbalzi della carrozza. il viaggio impiegò l'intera mattinata.
Condividere l'abitacolo con sua madre per quella manciata di ore, fu una vera sofferenza. Sentiva il suo sguardo bruciargli ogni parte visibile del corpo e un giudizio onnipresente risuonargli in testa.
Perché lo spazio era così ristretto? Perché gli pareva che gli occhi di sua madre dardeggiassero con quella bontà così disarmante - e così crudele - sempre verso di lui?
Sentiva pizzicare e prudere ogni centimetro del suo corpo e a lungo andare i vestiti gli sembrarono una prigione.
Per quanto odiasse il luogo di arrivo così come aveva odiato la partenza, Phobos tirò un sospiro di sollievo quando sentì la carrozza fermarsi.
L'ufficiale che aveva parlato con Phobos quella mattina per dirgli di sbrigarsi, bussò alla porticina dell'abitacolo e aprì.
« Mia signora. Siamo arrivati. Siamo riusciti ad arrivare con meno ritardo del previsto. I vostri destrieri sono molto veloci »
La regina sorrise, con gentilezza:
« Grazie, Alborn. è merito vostro, allora, che li avete incitati con la giusta premura. Assicuratevi che riposino, adesso. Come sta vostra moglie? Vieni, Phobos, scendi, caro. Siamo arrivati»
Ecco un altro aspetto che Phobos odiava di quella madre che tanto amava (e da cui aveva timore di non essere amato): era una donna che si ostinava a rigirare sempre la frittata, che trovava il lato buono anche nella più dilagante maleducazione.
Perché si interessava delle singole vite dei suoi servitori? Perché si abbassava al loro sudicio livello? Perché Phobos era certo di non averla mai vista in un atteggiamento che avrebbe potuto identificare con il verbo "regnare"?
Sapeva che sarebbe stata solo una questione di tempo prima che la gente iniziasse a considerarsi pari agli Escanor, dacché gli Escanor si abbassavano a loro.
Phobos era certo e avrebbe potuto giurarlo: non si sarebbe mai comportato così, se quello fosse stato il suo regno. Ma, d'altra parte, erano pensieri inutili ... lui era inutile. Non avrebbe mai regnato, né nessuno avrebbe mai pensato a lui come un possibile erede, come un membro effettivo della famiglia reale. Perché lui non serviva a nulla.


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1Per esservi d'aiuto, o Altezza Luminosa, ho inserito dettagli affinché la vostra mente (plasmata dall'esperienza di vita Umana) possa più facilmente comprendere.
  
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