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Autore: _EverAfter_    03/02/2020    3 recensioni
Irlanda, 1855.
A pochi passi da Cork sorge un'antica tenuta di caccia chiamata Sedge Hall, dove abita una giovane ragazza della nobiltà irlandese. A causa delle sue condizioni di salute cagionevoli, fin dalla prima età è costretta a rimanere all'interno della magione, dove passa le sue giornate a dipingere su tela e disegnare col carboncino.
Durante una notte d'estate, un ladruncolo di Belfast s'addentra nella dimora, alla ricerca di qualche famoso quadro da poter rivendere.
E da quel momento la ruota del Destino riprende a girare.
▸ Prima classificata al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di EFP.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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I
Alba

_______________________________



    Il Munster era famoso per due cose: la prima era il tempo, generalmente piovoso e poco incline ad accettare sovente i raggi del sole; la seconda era la Contea di Cork, che – a detta dei più – era l’unica cosa per la quale andar fieri d’esser nati nella zona sbagliata d’Irlanda.
    La contea di Cork, il cui nome faceva riferimento al meno celebre appellativo gaelico Corcaigh, era considerata una zona paludosa e inospitale, mangiata dal freddo e dalle cimici verdi, che imperversavano sulle piante come le locuste allorché Mosè assecondò la volontà del Signore
[¹]. La triste nomea s’affiancava all’ingiusto pensiero che il capoluogo, sorgendo dalle rive del fiume Lee, non godesse affatto dei privilegi di un suolo ben drenato, e che quindi nulla, nei dintorni della città putrefatta dall’acqua stagnante, potesse crescervi di sano, all’infuori dell’erbaccia comunemente denominata carice.
    La carice era una pianta insignificante e inodore, tuttavia famosa per la sua endemica presenza: non v’era luogo, nella contea di Cork, dove i suoi fusti non potessero nascere, schiusi nelle torbiere a far compagnia agli sfagni lacustri e all’erica selvatica, di gran lunga più avvenente e degna d’esser definita pianta, tanto da esser estirpata per divenir egregio decoro ai vasi in vetro delle tenute borghesi più raffinate. Ma per quanto bella e delicata, così alta coi suoi fusti robusti e ornata da piccoli germogli bianchi, l’erica non poteva vantarsi d’esser ovunque; la carice, seppur di natali floreali poco illustri, riposava placida sulle paludi, attorno ai ruscelli, spontanea sorgeva sui rivi silenziosi del Lee e s’assopiva sulle sponde dei laghetti campestri. Per quanto insulsa potesse risultare all’occhio della gente comune, il suo pregio era di poter nascere dove più le aggradava.
    A poche miglia dal capoluogo della Contea, v’era un’immensa distesa della varietà brizoides[²], che s’intrecciava ai fusti più robusti della festuca. Lì vicino, divorata lentamente dalla pianta infestante, v’era una magione dai toni pastello che tutti solevano chiamare Sedge[³] Hall – il cui epiteto non avrebbe potuto essere più calzante. Era una vecchia tenuta di caccia dei marchesi del Downshire, che avevano ottenuto il titolo della nobiltà inglese della parìa d’Irlanda[⁴], acquisendo la magione ch’era appartenuta al nobile Florence MacCarthy[⁵] prima della Ribellione di Tyrone[⁶]. Con la segregazione a Londra, ogni suo possedimento fu spartito tra i capisaldi della nobiltà irlandese. Sedge Hall faceva parte di quella ristretta cerchia d’immobili che sobillava non poche controversie burocratiche, per non disquisire delle beghe catastali: sorgeva adiacente alle sponde d’un affluente del Lee, dunque era un edificio spesso oggetto di alluvioni e costretto a continue ristrutturazioni; essendo di proprietà d’un nobile irlandese, molti trovarono inammissibile che fosse stato concesso per privilegio ai marchesi del Downshire.
    Nell’estate del 1838 la tenuta venne comprata dai conti Ó Súilleabháin[⁷], che bonificarono l’area intorno alle mura lateritiche e l’affidarono alle cure della famiglia Mór, uno dei rami cadetti del clan che governava la Contea di Cork, quello meno facoltoso e influente, e quindi per effetto meno incline a fomentare dispute d’alcuna sorta. In particolare, il conte era una persona schiva di carattere e poco avvezzo alla vita dei ricchi; sua moglie, certamente una gran brava donna, non poteva esser definita come l’immagine della bellezza eterea, a causa di quella folta capigliatura ruggine e del seno prosperoso che la rendevano, agli occhi degli altri nobili, una “tipica irlandese”. Nel loro matrimonio, uno dei pochi avvenuto per sincero affetto più che per interesse, v’era stata una sola figlia: Abaigeal[⁸].
    Abaigeal era nata podalica, il che aveva reso il parto più complicato del previsto; ci impiegò un’intera notte per venire alla luce, e quando la madre la sentì piangere si sentì sollevata, salvo poi scoprire l’orrore riflesso negli occhi dell’ostetrica, nel momento in cui si rese conto delle gambe necrotiche della piccola bebè. La diagnosi venne confermata a qualche giorno dalla nascita: la bambina aveva la spina bifida[⁹], che le avrebbe reso impossibile potersi alzare e camminare. Come conseguenza venne sin da piccola relegata su una sedia a rotelle, che le limitava la maggior parte dei movimenti, ma sulla quale riusciva facilmente a gironzolare per Sedge Hall senza l’ausilio di qualche domestico.
    I coniugi Mór non ebbero mai altri figli, carnefici e vittime di quella bambina che, per quanto potessero amare, ritenevano fosse il loro errore più grande. Abaigeal era una donna che non sarebbe mai diventata la sposa di nessun uomo di buoni natali, poiché era storpia e incapace d’esser una brava moglie. Non poteva imparare i mestieri, né tantomeno metterli in pratica. Riusciva a suonare il piano e a intonare l’aria, ma lo stomaco non si riempiva di suoni, né tantomeno la polvere si puliva con le ballate. Ben presto, alle soglie dei suoi sedici anni, s’accorse di quanto in realtà fosse odiata dai genitori: il padre vagabondava per le contee tra un viaggio burocratico ed uno di diletto; la madre, che non poteva addurre la scusa d’essere altrove, l’affidò alle cure di Lady Sadhbh[¹⁰], limitandosi a passare con lei le ore dei pasti, che considerava come le più lunghe della sua giornata.
    Abaigeal, per quanto inabile e con la sola compagnia dell’austera balia, crebbe con un’intelligenza davvero singolare. Aveva attitudine per la musica e le arti, mostrando il suo talento nella resa sopraffine della pittura ad olio e dello schizzo a carboncino. Della prima si faceva gran vanto, poiché con essa creava quadri dall’incredibile fascino, che raccontavano storie ben più avvincenti di quelle scritte sui libri; del secondo, invece, ne faceva un semplice hobby, mentre guardava fuori dalla finestra della sua grande camera al piano terra, dove ogni tanto poteva permettersi di uscire fuori al giardino, al limite del sentiero acciottolato. Oltre quel confine scandito da cinque grandi sassi di pietra sedimentaria, la ragazza non era mai andata.
    Il mondo, per lei, si riduceva a Sedge Hall e a quello che, nelle belle giornate limpide, riusciva a scorgere da dietro le tende: un mondo affascinante e meraviglioso, che non l’era permesso di conoscere. Di fronte all’ineluttabilità di quello scherzo che il dio Fato s’era tanto dilettato a giocarle, Abaigeal non s’intristiva più del semplice dovuto, finendo quasi sempre per adoprare con crescente entusiasmo l’immaginazione, che certo non le mancava. Attraverso i libri apprendeva, e con la pittura andava lontana, tanto più lontana di Sedge Hall e del prato di carice brizoide, a incrociare il cammino di popoli oriundi, a cavallo d’un frisone dal crine ondulato che la conduceva in luoghi mistici e sconosciuti, alla ricerca di tesori, principesse, fate.
    Nello spazio che intercorreva tra la mano che stringeva il pennello e la tela, Abaigeal era davvero libera.





    Accadde durante l’estate del 1855.
    I coniugi Mór vennero invitati alla magione degli Ó Súilleabháin, a Killarney, per festeggiare il genetliaco del principe di Beare[
¹¹] – appellativo che non aveva nulla a che vedere con i più illustri natali dei suoi predecessori. Colsero la fausta occasione per potersi allontanare da Sedge Hall, con la scusa che un cambio d’ambiente avrebbe giovato a tutti. «Vedrai, tesoro» le aveva detto la madre tra un sorriso e l’altro, mentre posava sul letto il necessario per la partenza. «Un po’ di tempo da sola ti aiuterà.»
    Abaigeal si risparmiò dal commentare la puerile giustificazione, concedendosi al dubbio di quella menzogna. Forse, se si fosse concentrata, avrebbe potuto scorgervi un sottile velo di sincerità – o quantomeno era quello che avrebbe tanto voluto trovarvi.
    I pomeriggi bruciavano sereni e incontrastati sul manto dei cariceti, brillando d’un intensa luce rossastra quando il Sole – nel sfiorare l’orizzonte prima del suo silenzioso congedo – veniva riflesso dall’acqua celata dal manto vegetativo, irradiando il luminescente raggio cremisi sui fusti giallognoli delle piante. Era come se l’astro più borioso avesse deciso di giungere anche lui sulla terra per far bella mostra di sé, ed Abaigeal pensò che nulla fosse così magnifico come ciò che aveva davanti agli occhi in quel momento: un inferno calmo e taciturno, che ben poco si confaceva all’illustre versione della Comedìa dell’Alighiero[¹²] ch’era solita leggere; non v’erano urla strazianti o contrappassi, ma solo il muto scorrere della giornata che volgeva al termine.
    Si perse a disegnare col carboncino il bel paesaggio, scorrendo delicatamente con la mano lungo il foglio. E tratteggiò con delicatezza i raggi del Sole, il riflesso sull’acqua e le piccole infiorescenze della carice, calcando con la fusaggine[¹³] la linea dell’orizzonte che in altro modo non si sarebbe potuta sufficientemente apprezzare. Si perse nell’opera, indugiando con lo sguardo su quel mondo di bianchi e di neri, in cui i colori non erano né un criterio di bellezza né di significato, poiché era sufficiente il contrasto tra il colore più scuro e quello più brillante: nel loro antagonismo, Abaigeal riusciva sempre a scorgervi un piccolo, insignificante miracolo.
    Calò la notte, e con essa l’entusiasmo della resa su tela. La giovane si ritrovò tra le lenzuola, assonnata e con una gran voglia di addormentarsi, nonostante la prole d’Ipno[¹⁴] stentasse a recarle visita, a causa della sempliciotta incapacità d’assopirsi da sola, senza la presenza familiare di Lady Sadhbh ch’era intenta ad impartire ordini alla servitù – cosa che comunemente era appannaggio della contessa. Si girò qualche volta nel letto, ma non fu possibile descrivere quanta fatica facesse a causa di quel suo handicap che non le permetteva di muovere le gambe. S’era sempre chiesta per quale assurdo motivo le avesse: in fondo, se fosse nata senza quelle insopportabili ancore, si sarebbe sentita almeno più leggera. Teneva per sé queste considerazioni, affinché la madre non s’indispettisse nel sentirla parlare in quel modo, che Abaigeal considerava pragmatico, ma che agli occhi della gente appariva più come lo sclero volgare d’una contadinotta poco istruita. E alla contessa, che s’era sempre sentita d’una spanna inferiore a tutte le altre nobildonne, quelle osservazioni di corte le procuravano terribili mal di testa che la relegavano a letto per giorni, cosicché la ragazza aveva smesso di metter bocca su ciò ch’era la sua stessa condizione. L’era stato tolto persino quello: il diritto di parlare di sé e del suo deficit.
    Persa in quelle tutt’altro che gaie elucubrazioni, sentì un rumore giungere dalla stanza a fianco, lì dove riponeva accuratamente tutte le sue opere d’arte. S’issò freneticamente sulla sedia a rotelle ch’era adiacente al letto, premendo con decisione i palmi delle mani sulle ruote e dirigendosi verso la fonte dell’improvviso strepito. Aprì la porta con fare circospetto, ma quella segretezza non servì poi a granché, quando s’accorse d’esser osservata da un uomo alto e col viso coperto da una sciarpa malconcia, che le sembrava più un pezzo di juta che un vero e proprio tessuto. L’uomo si fermò dall’intento d’infilare un quadro all’interno di quello che doveva esser stato un grande sacco di patate, mentre studiava perplesso il volto della ragazzina di fronte a sé: era minuta, con i capelli rossi scompigliati dal sonno e delle profonde occhiaie violacee a segnarle gli occhi d’un insolito ceruleo, che gli sembrava avessero vissuto giorni migliori. Decisamente non una persona di cui aver paura, constatò, mentre tornava a rapire i quadri attorno a lui senza degnarla neppure d’un ulteriore valutazione.
    «Potreste non rubarli quelli?» Si fermò ancora una volta, tornando con lo sguardo a quella che, a suo dire, doveva esser la fonte della voce. Abaigeal s’avvicinò con la sedia a rotelle, sorprendendo l’uomo che indietreggiò di qualche passo.
    «Ragazzina» la sgridò con voce grave. «Che diavolo hai intenzione di fare?»
    «Nulla» rispose, mentre afferrava un quadro e glielo porgeva. «Questo lo potete prendere.»
    Il ladro sbarrò gli occhi, permettendo ad Abaigeal d’apprezzare più a fondo l’ambra incastonata nel suo sguardo che, non segnato da rughe, le rendeva manifesto che l’uomo dinnanzi a sé non fosse poi così vecchio. «Perché dovresti darmi una mano?»
    «Non vi sto dando una mano» continuò la giovane, «vi sto chiedendo di non rubare quei quadri. Se volete posso dirvi quali potreste prendere.»
    «Ma di che stai parlando?»
    «Non sono quadri di valore.» Abaigeal fece scorrere la mano su una delle tele, indicandogli la sua firma. «Li ho dipinti io.»
    L’uomo sospirò sconfitto, poggiando malamente il sacco a terra e accasciandosi contro il muro. «Quindi cos’è che potrei ottenere, rubandoli? Un quarto di penny?»
    La giovane fece spallucce, non essendo stata propriamente istruita per una conversazione con colui che la denominazione comune avrebbe definito un furfante da quattro soldi. A dir la verità non le sembrava particolarmente sveglio; forse era per quella motivazione che non provava neppure a chiamare aiuto.
    «Però» lo sentì dire poi, rinvigorito da quella constatazione, «sono dei bei quadri. Magari potrei trovare qualcuno disposto a comprarli.»
    Abaigeal gonfiò il petto, piena di sé e dell’orgoglio che permeava ogni centimetro della sua pelle di pittrice. «Davvero credete siano belli?»
    «Non sono un esperto.» L’uomo si tolse lo scaldacollo di juta, mostrandole un viso giovane e irritato da un principio di barba incolta che gl’infuocava la faccia. Abaigeal sfiorò il mento del ragazzo, del tutto ignara dell’intimità di quel gesto, che lo fece sobbalzare. «Ma che fai, mocciosa? Che per caso sei una di quelle
    Chiunque altro al mondo sarebbe stato in grado di capire il significato di suddette parole e a rispondere di conseguenza; tutti, tranne Abaigeal. «Quelle chi?»
    «Ma come quelle chi?» Il giovane uomo sbuffò, lasciando cadere la testa all’indietro. «Certo che sei stramba.»
    La ragazza non ricordava d’aver mai udito prima quella parola. In realtà, l’accento dell’uomo non le pareva d’averlo mai scorto prima nella voce di chiunque fosse entrato nella tenuta: rassomigliava similmente alla fonetica del goidelico degli Scoti[¹⁵], mista alla parlata frenetica delle Highlands scozzesi, quella che si concedeva il lusso di mangiar via tutte le sillabe tronche. Si chiese se non fosse un deportato, mentre con circospezione gli chiedeva: «Signore, non siete di qui?»
    «No» si limitò a risponderle, stordito dalla piccola presenza asfissiante. Era la prima volta che gli capitava di parlare con qualcuno che lui avesse desìo di derubare, e la cosa, oltre a risultargli paradossale, gli sembrava talmente assurda da esser quasi surreale. «Sono dell’Ulster.»
    Abaigeal non aveva mai avuto l’opportunità di poter parlare con qualcuno che non appartenesse ai fasti della corte più squisitamente inglese, quella a cui i suoi genitori inneggiavano con così doveroso rispetto; la stessa che, nei saloni variopinti d’arazzi dentro agli stipetti ageminati d’oro, si dilettava a prenderli in giro, poiché i Mór non avevano nulla di così prezioso da poter essere paragonati agli Ó Súilleabháin, ch’erano nobili irlandesi, ma solo su carta.
    «E com’è l’Ulster?» La curiosità della giovane inferma dovette sorprendere non poco l’animo imperturbabile del fallito ladruncolo, che si ritrovò a rispondere senza neanche rendersene conto, parlandole di Belfast, dell’egregia produzione di tabacco, di Ben Madigan[¹⁶] e delle leggende che aleggiavano sugli Ulaidh[¹⁷], così tanto sapientemente decantati nella Geografia del sommo Tolomeo che Abaigeal aveva letto qualche anno prima.
    Il ragazzo parlava, e nel farlo lei sognava, ritrovandosi di fronte a ciò che il suo inaspettato ospite descriveva, immaginando come apparisse agli occhi dei viaggiatori il Selciato del Gigante[¹⁸] con le sue colonne basaltiche a picco sul mare, e i dialetti dell’Ulter Scots[¹⁹], con le o molto aperte e le e strette. Per Abaigeal quel parlar concitato ed entusiasta era una sensazione nuova e del tutto singolare: il cielo aveva cominciato a scorrere veloce sulla sua testa, e i minuti parvero divenir secondi allorché s’accorse che, in quella conversazione a senso unico, la prima timida luce dell’alba picchiava già delicata sui quadri della stanza. Il ladro si alzò, afferrò nuovamente la sua sciarpa logora e si voltò verso la finestra rotta, maledicendosi per non aver affatto prestato attenzione allo scorrere del tempo.
    «Ve ne state andando?» domandò la ragazza, mentre lo vedeva sistemarsi.
    «Se mi trovassero qui, cosa credi che accadrebbe?» le chiese di rimando l’uomo, sbuffando. Non sapeva neanche bene il perché le stesse rispondendo.
    «Ma potreste sempre rimanere in questa stanza, se non sapeste dov’altro andare» s’affrettò a dirgli nervosamente, «dopotutto qui non viene mai nessuno.»

Il ladro, che di certo non s’aspettava quella reazione così appassionata, si ritrovò vittima dello sguardo ceruleo e malaticcio, chiedendosi il perché la ragazza fosse così ostinata nel chiedergli di restare, e per giunta proprio ad una persona che aveva tentato di derubarla. Sorpreso e titubante sull’accettare, decise di domandarle: «Ma perché lo fai? Cosa te ne viene in tasca[²⁰]
    Abaigeal non apprezzava molto le lezioni di diplomazia, ma dovette ammettere che, per quella volta, le sarebbero tornate certamente utili. Sulla sedia a rotelle drizzò il busto, porgendo una mano all’ospite desiderato: «Mi riprometto di darvi dei vestiti decenti, di sbarbarvi, di concedervi dei pasti caldi ed un tetto sopra la testa.» Scrutò l’impassibilità del volto più adulto del suo. «Voi, in cambio, dovete solo concedermi una sciocchezza.»
    «Che sarebbe?»
    «Le vostre storie.»
    L’uomo la fissò per qualche istante, cogitabondo sull’insolito accordo. Poi, con delicatezza, afferrò la mano della giovane, borbottando un semplice: «Andata.»






NOTE:

[¹] Riferimento all'ottava piaga d'Egitto.
[²] Varietà del genere Carex (Linneo, 1753).
[³] Il corrispettivo inglese di carice. Ho preferito lasciare il nome inglese ai fini della storia.
[⁴] La creazione di una nobiltà sorta durante la monarchia irlandese, ma sotto la giurisdizione formale del re d’Inghilterra, che ne faceva da garante.
[⁵] Fu un nobile irlandese del XVI secolo fu l'ultimo uomo a reclamare, con un certo diritto, il titolo di capo del Clan MacCarthy prima che gli inglesi lo sopprimessero (Wikipedia).
[⁶] Conosciuta come la “Guerra dei nove anni” (1594-1603), fu combattuta tra le forze gaeliche dei capostipiti irlandesi e il governo inglese di Elisabetta I d’Inghilterra. L’apice del conflitto fu nell’Ulster, ma molti dei possedimenti dei capi che vi avevano preso parte erano nella zona sud-occidentale dell’isola.
[⁷] Pronuncia: O’Sullivan. Ho preferito lasciare in scrittura la dicitura in irlandese, così come i nomi.
[⁸] Pronuncia: Abigail.
[⁹] È una malformazione neonatale dovuta alla chiusura incompleta di una o più vertebre, che quindi porta ad una compromissione del midollo spinale.
[¹⁰] Pronuncia: Saiv.
[¹¹] In realtà, l’ultimo sovrano indipendente del clan degli Ó Súilleabháin fu Donal Cam O'Sullivan Beare, morto nel 1618. Da quella data in poi, il clan degli Ó Súilleabháin aveva legami con gli esponenti della monarchia inglese.
[¹²] Riferimento alla Divina Commedia di Dante.
[¹³] Più famosa come “berretta del prete”. I suoi rami servivano – e servono tuttora – per la realizzazione del carboncino.
[¹⁴] Riferimento agli Oneiroi: Morfeo, Fobetore e Fantaso. Erano i figli d’Ipno, dio del sonno, e della Notte. Avevano il compito di plasmare i sogni dei mortali nell’Antica Grecia.
[¹⁵] I Celti d’Irlanda.
[¹⁶] L’attuale Cavehill, una collina d’origine basaltica che s’affaccia su Belfast.
[¹⁷] Popolazione dell’Irlanda nord-orientale, diede il proprio nome alla provincia dell’Ulster.
[¹⁸] Composizione basaltica sulla costa nord-orientale dell’Irlanda.
[¹⁹] Erano i dialetti irlandesi, che molti consideravano promiscui con quelli inglesi.
[²⁰] Ho scelto consapevolmente di far parlare il personaggio in questo modo, proprio perché non ha avuto alcun tipo d’istruzione, quindi s’affida a frasi del volgo.


Lo sclero di
ver


Ma buongiorno, popolo di Efp!
Eccomi tornata con una mini-long di tre capitoli, ch'è sbucata davvero all'improvviso. Ringrazio da morire molang e il suo fantastico contest "Il lago dei Cigni", che mi ha dato un'ispirazione incredibile, facendomi perdere all'interno di quella che io considero una delle mie più amate countries - dicono che all'inglese faccia più figo.
Sono sempre stata una grandissima amante dell'Irlanda, e ho vissuto a Cork per un po' di tempo. E' sorprendente quanto possa essere bizzarro il paesaggio irlandese, coi suoi colori singolari e che sembrano trascinarti in una di quelle antiche ballate celtiche.
A parte tutto questo, sono davvero contenta d'aver avuto la possibilità di parlare d'una storia che avevo in cantiere da un bel po', per cui ancora un immenso grazie a questo meraviglioso contest che mi ha dato la possibilità di scrivere.
Ovviamente spero che la storia vi piaccia, a presto.


_EverAfter_

  
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