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Autore: _EverAfter_    07/02/2020    1 recensioni
Irlanda, 1855.
A pochi passi da Cork sorge un'antica tenuta di caccia chiamata Sedge Hall, dove abita una giovane ragazza della nobiltà irlandese. A causa delle sue condizioni di salute cagionevoli, fin dalla prima età è costretta a rimanere all'interno della magione, dove passa le sue giornate a dipingere su tela e disegnare col carboncino.
Durante una notte d'estate, un ladruncolo di Belfast s'addentra nella dimora, alla ricerca di qualche famoso quadro da poter rivendere.
E da quel momento la ruota del Destino riprende a girare.
▸ Prima classificata al contest “Il Lago dei Cigni” indetto da molang sul forum di EFP.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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II
Meriggio

_______________________________



    Si chiamava Fearghus[¹]. Era un giovane borseggiatore di ventisei anni che aveva girato l’Europa a causa della morte prematura del padre, ammazzato durante una rissa in un bordello. Non aveva mai conosciuto sua madre, né aveva altri parenti che potessero prenderlo con sé; così a Dublino s’era imbucato su un treno – Abaigeal non ne aveva mai visto uno, neppure sui libri – e s’era abbioccato nel vagone merci. Al suo risveglio, s’era ritrovato a Dún Laoghaire[²] e da lì aveva preso un traghetto per l’Europa, agognando a quella nuova vita che di frequente sentiva uscire dalla bocca degli avventori della locanda in cui suo padre era solito portarlo.
    La nave attraccò a Dordrecht la primavera del 1838. Iniziò a rubare poiché non sapeva fare altro; dapprima si diede allo scippo per le strade succursali, poi divenne più avido, alla ricerca dei portafogli di vera pelle in cui poteva trovarvi da vivere per una settimana. Tuttavia, s’accorse presto di quanto fosse complicato il concetto di domanda e offerta: con l’inflazione alle porte a causa dell’avvento della Rivoluzione Industriale, ciò che rubava non bastava a garantirgli la sopravvivenza per nemmeno un giorno; poteva rinunciare all’alloggio – dormire per strada non gli era mai parsa una cattiva idea –, ma di qualcosa doveva pur sfamarsi.
    Giunse ad Amsterdam la primavera del 1839, quando aveva solo undici anni. Si unì per qualche tempo ad una compagnia d’artisti di strada, in cerca d’un lavoro che gli permettesse di guadagnarsi da vivere senza dover rubacchiare come aveva fatto in passato. Ma l’accento spiccatamente straniero e l’aspetto malandato non furono mai dei buoni biglietti da visita, specie in quella città: a causa della guerra contro la Gran Bretagna, la città aveva iniziato lentamente il proprio declino, e nel giro di qualche mese le tratte commerciali si spostarono verso Londra. Nel bel capoluogo, consumato da un popolo in cui perfino lui non si riconosceva – era irlandese, non gl’importava affatto degli inglesi –, Fearghus veniva sempre etichettato con soprannomi come “lo straniero”, “l’inglesino”, “il lord”; tutti nomi che, se avesse potuto, avrebbe appioppato volentieri a qualche ignaro passante con l’accento di Canterbury.
    Così, sconfitto dalla città da cui sperava di poter ricominciare, si ritrovò a vagabondare per l’Europa, non trovando mai un posto dove poter sistemarsi: si diresse a sud, giungendo a Plombières, in Vallonia; dopo qualche settimana di viaggio, proseguì per Parigi, incupita dagli stralci dei moti popolari del 1830. S’affacciò in Spagna, fino ad arrivare nel Golfo di Guascogna, la parte dell’Oceano Atlantico che da un lato bagnava la Francia coi suoi Pirenei Atlantici, dall’altro si riposava sulle coste frastagliate dei Paesi Baschi sino alla Galizia. Visitò l’Italia, ma non giunse mai fino a Roma, dove avrebbe tanto voluto vedere quell’arena dei gladiatori che tutti chiamavano il Colosso
[³].
    Crebbe nomade, Fearghus, e non pensò mai di tornare sui suoi passi per capire cosa fosse andato storto nella vita: non incolpò mai suo padre per averlo lasciato allo sbando, né sua madre per non essere stata con lui. Non si pentì mai d’essersene andato e d’aver viaggiato, seppur non avesse condotto una vita che avrebbe potuto definire esemplare o esente da privazioni. Non s’era più interrogato su quante volte fosse stato costretto a dormire sotto al cielo gonfio di stelle, ma finì per abituarsi anche a quelle che, col passare del tempo, gli parvero più belle delle lanterne delle città. Dormì poco, ma sognò molto. E in quei sogni non patì mai il freddo, né il caldo.
    Fino al giorno in cui decise di tornarsene a casa.
    Abaigeal lo ascoltava rapita, con lo sguardo perso ad osservare il solito, monotono paesaggio che, al suono delle parole del ragazzo, si ravvivava e prendeva vita dai suoi racconti in modo del tutto nuovo; un mondo a colori che sovente si ritrovava a dipingere, chiedendo all’ospite se ciò che aveva realizzato fosse vagamente simile a quello che lui aveva visto dal vivo.
    «Sei brava» le aveva detto un giorno, con il volto immerso nella tela. «È davvero identica.»
    Era uno schizzo della Cattedrale di Notre-Dame, ch’era nato dalle parole di Fearghus e da qualche descrizione rubata al drammaturgo francese
[⁴]. Abaigeal si sorprese della facilità con cui riusciva ad utilizzare la pittura per dar vita a ciò che il ragazzo le raccontava, e nel giro di poco si ritrovò a parlare con lui di tutto ciò che le passava per la testa: delle sue paure, dei suoi dilemmi, persino dei fedeli tabù cui sua madre aveva messo un beneplacito divieto.
    Fearghus, dapprima restio e poco incline ad accettare come compagnia una ragazzina di sedici anni che non sapeva nulla del mondo, si scoprì ben presto intenerito dall’ingenuità di lei e del suo mondo, ch’era ridotto a Sedge Hall e a qualche pezzetto di cariceto.
    «Non sogni mai di andartene via?» le chiese un giorno, mentre la vedeva intenta a dipingere.
   «E dove potrebbe mai andare, una come me?» Il ragazzo non scorse alcun vittimismo in quella frase. Era ciò che Abaigeal considerava realisticamente la verità: la sua incapacità motoria la inibiva, e chiedendo aiuto a qualcun altro si sarebbe certamente trovata in difetto, consapevole di quanto potesse rappresentare un peso il suo handicap.
    Fearghus non vi pensava spesso, alla sua malattia; s’era ritrovato qualche volta a fissare la carrozzella su cui passava le sue giornate, ma presto divenne quasi normale per lui trovarsela attorno. Non definì mai quel sentimento di tranquillità che la ragazza gli trasmetteva, perché non gli era mai stato insegnato, limitandosi a credere che fosse ormai necessario alla sua esistenza. Fu in quel modo che smise di rivolgersi a lei con il nome di Abaigeal e iniziò a chiamarla Abby, poiché era più semplice per lui da ricordare e più bello per lei da sentire. E, per giusto compromesso, permise alla giovane di smettere di dargli del voi, che proprio non gli si addiceva.
    «Sono un vagabondo» continuava a dirle, «e tu continui a chiamarmi signore. Quanti anni pensi che io abbia, mocciosetta?»
    Allora la ragazza rideva e Fearghus s’univa a lei col suo ghigno storto e sciancato, chiedendosi da quanto tempo non si concedesse al benessere del cuore. Quella pacata emozione l’accompagnava perfino quando circospetto la riportava nella sua stanza ed Abaigeal gli chiedeva di raccontargli un’altra storia, e un’altra ancora, cosicché dovette iniziare ad inventarsene sempre di nuove per evitare che scoprisse il trucco: che lui, quelle storie, non le aveva davvero vissute tutte, ma aveva iniziato a farlo stando con lei.
    «Un giorno» gli capitò di dirle una sera, mentre le carezzava i capelli rossi, «prometto che ti porterò via da qui, Abby.»
    «Voglio andare a Belfast» gli rispose con gli occhi socchiusi. «E voglio vedere il Selciato del Gigante.»
    Fearghus si ritrovò, nonostante tutto, a sorriderle.
    Voglio. Non capitava mai che lo manifestasse così apertamente. S’era così affezionata a Sedge Hall e ai cinque sassi del confine della tenuta che non l’aveva mai sentita chiedere altro, soddisfatta di quel misero coccio di felicità che l’era stato offerto dalla vita. In confronto a lei si sentiva tremendamente fortunato, eppure prima di allora non aveva mai posto la mente al fatidico pensiero: Abaigeal faceva solo finta che la vita le andasse bene così com’era, poiché se così non fosse stato non gli avrebbe mai chiesto di rimanere. Ciò che le permetteva di vivere era proprio lui, Fearghus. Lui con le sue storie. Lui con i luoghi in cui era stato e dove lei non sarebbe mai potuta andare.
    Alla palese scoperta, il ragazzo si ritrovò a trattenere un insolito groppo alla gola, chiedendosi cosa fosse quel peso sul cuore che gli toglieva il fiato. «Abby.»
    La giovane schiuse un occhio, ma non rispose.
    «Posso darti un bacio?»
    Un sorriso fiorì sulla bocca sottile, e Fearghus si ritrovò a sfiorarle la fronte con le labbra secche e raggrinzite dal continuo mangiucchiarsele.
    Era bello per entrambi, il tempo trascorso a Sedge Hall.





    Passò un mese dalla partenza dei coniugi Mór. L’epistola scritta in calligrafia d’inchiostro ferrogallico rassicurava la ragazza sul loro stato di salute, adducendo i migliori omaggi a lei e a Lady Sadhbh, e specificando che la data del loro rientro era ancora da stabilire.
    «Perché ci mettono tanto a tornare?» le domandò Fearghus, steso sulla cassapanca di legno frassino, accanto alla finestra.
    «Perché non vogliono» rispose Abaigeal, rilassando il pennello sulla tela. «Credo che, se ne avessero l’opportunità, rimarrebbero a Killarney.»
    Il ragazzo si mise seduto a gambe incrociate, osservandola di sottecchi. Abaigeal non parlava poi molto dei suoi genitori, si ritrovò a pensare, e si chiese se non fosse dovuto a delle tensioni nel loro rapporto. Non era stato abituato a pensare prima di dire qualcosa, per cui gli venne spontaneo chiederle: «Com’è che non vai d’accordo con loro?»
    Il pennello s’allontanò dalla tela. «Loro non volevano una figlia storpia.»
    «Nessuno la vorrebbe.» Abaigeal si ritrovò a sorridere. Fearghus era davvero incapace di filtrare ciò che diceva, perciò non si sorprese affatto di sentirlo continuare: «E comunque non sei storpia. Le tue gambe sono drittissime come dei grissini. È solo che non funzionano.»
    «Giusto.» Ciò che per l’aristocratica rasentava un difetto insanabile e osceno, per il ladro non costituiva che uno dei tanti incidenti di percorso che aveva visto spesso nel suo vagabondar senza meta. «Al mondo, c’è di peggio.»
    «Puoi ben dirlo» le rispose, con le braccia dietro la nuca e gli occhi a fissare le nervature legnose del soffitto, «pensa se fossi stata cieca, oppure sorda. Non avresti potuto leggere, né dipingere. Non avresti potuto sentire il suono del pianoforte, né l’opera.»
    Abaigeal pose il pennello sul cavalletto in rovere, portandosi le mani in grembo. Non vi aveva posto molta attenzione, forse perché i suoi genitori non accettavano affatto l’idea che si potesse parlare del suo handicap – quanto tempo avevano passato, facendo finta di non vederlo? Quante volte avevano distolto l’attenzione da lei, nella speranza di non lasciar cadere lo sguardo su quella sedia, ch’era stata da sempre il suo mondo?
    Il discorso di Fearghus le parve un’ancora di salvezza, nel significato etimologico del termine: la stessa che veniva gettata in mare per favorire il flusso del moto ondoso, evitando che la nave potesse ribaltarsi. Era così anche per lei, poiché di fronte all’impiccio d’una vita senza il suo sguardo o senza le orecchie, la sua non le appariva poi così misera. «Chissà» disse infine, stemperando la tensione, «magari un giorno camminerò.»
    Fearghus sorrise. «E dove andrai?»
    «A vedere il cariceto.»
    Il giovane si mise a sedere, lamentandosi: «Che diavolo di senso ha andare a vedere qualcosa che sta qui a due passi?»
    Due passi. Certo, dovevano apparirgli proprio insignificanti, due passi. Abaigeal rise, lasciando nuovamente scorrere il pennello tra il pollice e l’indice della mano destra. «Beh, da qualche parte dovrò pur cominciare, non trovi?»
    «Sì, ma cerca qualcosa di più bello da vedere» si giustificò lui, resosi conto della sua mancanza di tatto, «non so, potresti vedere un roseto.»
    «Non mi piacciono le rose, preferisco la carice.»
    «Non la capisco questa tua ossessione.»
    La ragazza sbuffò, offesa da quelle parole. «Non è un’ossessione.» Si perse con lo sguardo oltre la finestra, posandolo sulla distesa di piccoli fiori bianchi che sbocciavano minuscoli sullo stelo della pianta. «Sono solo un po’ invidiosa, tutto qui.»
    «Di una pianta?»
    «Non di una pianta qualunque» contestò Abaigeal, «di una pianta che fa quello che le pare. Di una pianta non degna di nota, che quindi nessuno coglie, e che può stare tutto il giorno a godersi il sole e a rinfrescarsi nella torbiera. Di una pianta che cresce ovunque, e che può andare dove vuole.»
    Fearghus non le rispose subito, com’era solito fare. Era abituato a sentirla parlare poco; eppure, quando diceva qualcosa, la ragazza era in grado di stregarlo. Perché lui, a quelle cose, non vi pensava e non l’avrebbe fatto mai, se non ci fosse stata lei a farglielo notare. Abaigeal era la voce della sua mancata coscienza, più giovane di lui di molti anni e tuttavia così esperta del mondo, nonostante non l’avesse mai visto.
    «Vuoi che vada a prendertela?»
    Era una domanda semplice, detta con l’ingenuità di un bambino. La giovane fissò a lungo lo sguardo ambrato dell’ospite, chiedendosi se fosse mai stata così spensierata come lui; più l’osservava, più si rendeva conto di quanto le sarebbe piaciuto rassomigliargli, anche solo in minima parte: la stessa che magari in quel momento le aveva posto la domanda. Quella puerile meraviglia che gli vedeva dipinta addosso era la sua liberazione più grande, poiché nella sua prigione Abaigeal non aveva mai avuto compagni, né amici. Era cresciuta da sola, divenendo vittima di quella fragilità che i suoi genitori le vedevano dipinta addosso e che avevano il timore potesse nuocerle, se avesse provato anche solo a combatterla.
    «No» gli rispose decisa, «voglio che mi accompagni a prenderla.»
    E si ritrovarono fuori dal confine dei cinque sassi, con il giovane che spingeva la sedia a rotelle sul terreno fangoso e ostile. «E se ci becca la governante?»
    «A quest’ora non c’è mai nessuno, e il custode sonnecchia nello studiolo.»
    Un uccello planò sopra le loro teste, costringendoli ad abbassarle prima che potesse afferrare il laccio che teneva unite le ciocche rosse di Abaigeal. La ragazza lo fissò con stupore, mentre voltava la testa per incrociare lo sguardo infastidito di Fearghus: «Quello cos’era?»
    «Un falco pellegrino.»
    «Davvero?» L’emozione le si dipinse sul volto con estrema nitidezza, mentre si lasciava andare ad una risata così piena da far sorridere anche lui. «Sono dispettosi, i falchi pellegrini.»
    «Sono attratti dalle cose colorate» fece notare il ragazzo, sfiorandole il nastro azzurro. «Sta’ attenta agli occhi, potrebbe mangiarteli.»
    «I miei occhi non sono azzurri.»
    «No» mormorò Fearghus ridendo, «non lo sono.»
    Non era una bugia; gli occhi di Abaigeal erano cerulei, dello stesso colore dell’empireo più sereno o d’una pozza d’acqua sorgente. In quello sguardo lui aveva scorto molto più d’una semplice sfumatura: una limpidezza disarmante, una gioia timida e incapace di mostrarsi, fragile ed inconsistente, tuttavia abbastanza forte da sopravvivere fino a quell’istante, nel momento in cui s’accorse d’esser giunta al cariceto. L’afferrò per le spalle, poi per le gambe, posandola delicatamente sul prato, così vasto da rincorrere l’orizzonte.
    Abaigeal sentì per la prima volta i fili d’erba tra le dita sporche di fango e l’odore penetrante dell’humus sotto lo strato d’acqua stagnante. Vide la carice vibrare leggera nell’aria, con gli steli lunghi ed elastici che combattevano contro le raffiche calme del vento estivo. Osservò l’incedere volitivo delle nuvole sopra le loro teste, che correvano veloci lungo il cielo terso di quel primo pomeriggio.  
    E non le importò del vestito insozzato dal pantano acquitrinoso, né delle scarpe. In quel luogo, a due passi da Sedge Hall, c’era quel primo pezzo di mondo ch’era riuscita a scoprire.
    «Grazie» disse solo, lasciando che la mano callosa dell’accompagnatore si posasse sulla sua, più minuta e fredda. «Grazie davvero.»

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I didn't know that it was so cold
And you needed someone to show you the way
So I took your hand and we figured out that
When the time comes I'd take you away.






NOTE:

[¹] Pronuncia: Fergus.
[²] L’attuale Kingstown.
[³] Ai tempi ancora un bambino/adolescente, Fearghus non conosceva la corretta pronuncia del Colosseo.
[⁴] Victor Hugo.


Lo sclero di
ver


Buongiorno, popolo di Efp!
Questo secondo capitolo della mia insolita originale spero possa far luce finalmente sugli aspetti di questo fantomatico co-protagonista. Fearghus è un personaggio che ho molto a cuore perché - incredibile ma vero - l'ho inventato parecchio tempo fa, solo che non ho mai trovato un posto per lui degno d'esser definito tale.
Vi chiedo infinitamente scusa se puntualmente vi ritrovate con un sacco di note da leggere, ma purtroppo quando scrivo di queste storie mi viene naturale fare molti riferimenti, sia di carattere descrittivo che narrativo in sè e per sé, per cui necessito del loro utilizzo per rendere il tutto un filino più chiaro - specie se mi concentro su abitudini, storia e cultura irlandese, che immagino non siano poi così famosi, dato che a scuola non se ne parla mai, per cui o si studiano per diletto o non si studiano affatto.
Spero capiti anche a voi ogni tanto, di creare un personaggio che non c'entra assolutamente niente con le storie che state scrivendo, perché se così non fosse dovrei cominciare davvero a farmi delle domande.
Comunque, mi dispiace che la storia finisca al prossimo capitolo, ma per motivi di trama e di caratteri soprattutto ho dovuto mantenermi stretta. Chi di voi mi segue, sa che sono una grande amante del dramma, per cui mi rendo conto che la storia non sia una boccata d'aria fresca. Nonostante ciò, spero vi possa piacere.
A presto,


_EverAfter_

  
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