17
Beckett
Si erano dati appuntamento in un caffè qualsiasi, uno scovato per caso durate un'uscita pomeridiana lavorativa. Non era uno dei "loro posti". Era neutro. Nessun ricordo da rovinare, nel caso fosse andata male.
Quando fu sul punto di varcare la soglia del locale, lievemente in anticipo, si tirò indietro. Le veniva da vomitare, ma non per la solita nausea, quella era passata. Era scossa da continue ondate di adrenalina che andavano necessariamente placate o avrebbero certamente fatto nascere un bambino iperagitato. Meglio prevenire.
Si guardò intorno. Vide un muretto che poteva fare al caso suo, davanti a un'aiuola poco distante. Decise di sedersi lì per qualche istante, giusto il tempo di fare qualche respiro profondo, sempre tenendo d'occhio la porta. Così sarebbe rimasta padrona della situazione e avrebbe deciso quando incontrarlo, nel momento in cui fosse arrivato.
Infilò la testa tra le ginocchia, sorreggendola con mani tremanti di agitazione. Non seppe per quanto rimase in quella posizione finché, improvvisamente, non scorse un bicchiere di carta comparire nel suo campo visivo. Insieme a un paio di gambe. Si raddrizzò di colpo, pronta a dirne quattro al malcapitato disturbatore, quando si accorse che era Castle che le sorrideva in quel modo che la faceva sciogliere ogni volta.
"Grazie. Ma io non bevo caffè e... ", balbettò cercando di recuperare un tono dignitoso.
"Non è caffè. Lo so che non lo bevi". Scoprì che non era insensibile nemmeno alla sua voce calda e carezzevole. Che cosa le stava succedendo? Erano gli ormoni? Dubitava di arrivare viva alla fine dell'incontro.
Prese il contenitore che le porgeva, stando molto attenta a non sfiorarlo.
"È frullato al cioccolato", la informò, sedendosi vicino a lei.
"Perché l'hai portato? Dovevamo bere un caffè, cioè lo dovevi bere tu. Voglio dire, si supponeva che entrassimo dentro a un bar e che le cose ce le portassero loro. Non tu". Le sembrava un discorso dotato di una certa logica, anche se espresso da una persona in evidente stato confusionale.
"Ho pensato che magari avresti avuto voglia di fare una delle tue maratone, invece che startene seduta al chiuso, quindi mi sono presentato con i viveri".
"Maratona?". Era lei a non essere molto presente o lui stava straparlando?
"Come quella che mi hai costretto a fare da casa tua a Central Park, qualche mese fa". (*)
Oh. Adesso ricordava. Ripensando a tutta la strada che avevano percorso a piedi, per lo più in silenzio con lei che non smetteva di camminare e lui muto accanto a lei, ma con un'espressione via via sempre più provata e allarmata, le venne da ridere.
Cominciò a ridacchiare nascondendosi dietro a una mano e poi scoppiò in una risata irrefrenabile, che le fece venire le lacrime agli occhi, mentre lui le allungava un fazzoletto di stoffa perché se le asciugasse.
"No. Niente maratona. Te lo prometto", riuscì a dire, mentre cercava di riprendere fiato.
"Preferisci rimanere qui?"
"Se per te va bene".
"Sicura che non sia una proprietà privata e che non ci arresteranno?"
"Tranquillo, Castle, al limite ti tiro fuori io di prigione".
Stava flirtando con lui? E dove erano finite le sue resistenze, le corazze, i tentativi di proteggersi? Questo non era essere cauti. Era infilarsi dritta nei problemi.
"Grazie per avermi voluto incontrare dal vivo". Le sembrò stranamente timoroso, molto trattenuto e controllato.
"Io... vorrei che ci parlassimo, Castle. Ma parlare davvero. Senza litigare. Lo dobbiamo a qualcuno che non siamo noi due. Se però sei venuto fin qui per accusarmi o per minacciarmi di portarmi via il bambino, me ne vado. Fammi mandare una lettera dal tuo avvocato".
"No, nessuna minaccia, te lo prometto. Anche io voglio parlare con calma".
"Ok. Bene. Comincia tu. Dall'inizio".
Lui guardò dritto davanti a sé per un qualche secondo e poi esordì con un "Ti amo" - voltandosi poi a guardarla-, che le fece venire un tuffo al cuore.
"Castle, questo non è iniziare dal principio. È saltare direttamente alla fine", rispose con voce severa.
"Sei d'accordo anche tu che finirà così, vero? Prima però dobbiamo fare quelli che si amano, ma fanno finta di no, giusto? Cioè uno dei nostri classici", le rispose in tono esultante, abbandonando l'aria da cucciolo del canile.
Lei scoppiò a ridere di nuovo. Non ce l'avrebbero mai fatta.
"Non può funzionare così. Smettila di farmi ridere. Sii serio".
"Guarda che io non ti faccio ridere. Sei tu che ridi da sola, da quando sono arrivato, come se fossi sotto l'effetto di qualche sostanza stupefacente. Sprechi così i cinque minuti d'aria che mi hai concesso. Sono molto offeso".
Lei gli fece cenno di proseguire, incapace di parlare, ridendo convulsamente.
Castle
Cercò di radunare i suoi pensieri. Non aveva una strategia. Non sapeva che cosa dire. Non aveva preparato discorsi a cuore aperto. E non sapeva nemmeno se fosse utile chiarirsi, spiegare, parlare allo sfinimento, cercare di ricondurre a immagini verbali sentimenti, emozioni e azioni non spiegabili dalla logica. Era stanco di tutto questo. Lui voleva stare con lei. Punto. A qualsiasi costo e sapendo che, per come erano fatti, sarebbero successe ancora le stesse cose, altre volte, ma non significava che non potessero stare insieme. Lui non poteva immaginare la sua vita senza di lei. Per il resto non voleva avere ragione o mostrarle il suo punto di vista, i motivi che l'avevano spinto a fare quello che aveva fatto. Non perché non avesse senso. Proprio perché ce l'aveva. E perché, alla base, loro erano destinati a stare insieme, con tutte le crisi che potevano starci, in mezzo. Si sarebbero scornati, ma lui non sarebbe andato mai da nessuna parte. Nemmeno per salvarsi. Questa situazione lo aveva dimostrato. Come poteva trasferire tutto questo a parole, soprattutto se lei intendeva dargli battaglia su ogni frase, sfumatura o nesso logico non esattamente rigoroso e ben fondato? Vuoi avere ragione o essere felice? Ecco, lui voleva essere felice. Con lei.
Si girò verso di lei, intenta a bere il suo frullato e guardare la gente passare, e le chiese a bassa voce: "Possiamo rimanere così? In silenzio? Solo stando vicini?"
Lei si mostrò sorpresa, probabilmente si era aspettata di essere sommersa di parole, discorsi. Gli era mancata così tanto che voleva solo godere della sua compagnia. Dopo qualche istante di riflessione Kate appoggiò la testa sulla sua spalla. Non era arrabbiata, quindi. Fu felice di scoprirlo. Aveva temuto si imbarcassero nell'ennesimo round di recriminazioni rabbiose e duelli dialettici.
Rincuorato, le passò un braccio intorno alle spalle, meravigliandosi di quanto gli venisse naturale e quanto fosse facile comunicare senza realmente parlarsi. La sentì abbandonarsi contro di lui.
"Ho pensato che fossi morta quando ti ho vista nel mirino di Lockwood", le confessò bisbigliando, invogliato ad aprirsi dalla loro silente intimità.
"Mi dispiace", mormorò Kate di rimando, con lo stesso tono di voce. "Mi hanno dato della altre mansioni, adesso. Montgomery mi ha convocato nel suo ufficio il giorno successivo al mio incidente. Non corro più nessun rischio", lo informò, ammettendo esplicitamente per la prima volta che sì, il pericolo era stato reale.
"E com'è? Intendo, com'è non stare in mezzo all'azione".
"Terribile. Noioso", confessò. "Ma sono contenta di farlo, non mi pesa", si precipitò ad aggiungere.
Lui la strinse per farle capire che aveva compreso. E che non la stava giudicando. Non c'era bisogno di essere così sulla difensiva. Non era lì per accusare nessuno, questa volta.
"Anche io sono stato convocato da Montgomery".
Lei si meravigliò. "Per quale motivo? Che cosa vi siete detti?".
"Niente che la parola "minaccia" non possa contenere. Io davvero mi chiedo se non facciate tutti Corleone di cognome. Qualche volta mi sembra davvero di aver disonorato la sorella di qualcuno".
"Se ci chiamassimo Corleone non saresti qui vivo a parlarmi".
"Vero. Sarei da qualche parte nell'oceano, con i pesci a banchettare".
Silenzio. Ancora.
Beckett si staccò da lui, incrociando le gambe sul muretto con difficoltà e mantenendosi in precario equilibrio.
Castle capì che era arrivato il momento dei discorsi seri e si preparò ad ascoltarla.
"Sto vedendo... una persona", confessò un po' imbarazzata.
Lui sentì i pesci muoversi affamati sul suo cadavere. Si era aspettato qualsiasi cosa, ma non questo.
"Un terapista", specificò vedendolo boccheggiare.
Castle ricominciò a respirare.
"Beckett, vuoi uccidermi?! Sono cose da dire?! Mi hai fatto prendere un colpo!".
"Scusa, Castle, vuoi che in tutto questo io esca con un altro uomo? E chi si prenderebbe una donna incinta?".
"Primo, non si vede. Secondo, nessun uomo sano di mente non ti vorrebbe, in qualsiasi circostanza. Quindi, vediamo di non far morire di spavento il titolare". Si sventolò tentando di placare i sintomi da infarto in corso.
"Cioè adesso saresti 'Il titolare'?".
"Sì, tra le altre cose". Marito, per esempio.
"Grazie per non aver detto quello che dicono tutti", continuò lei, incerta.
"Cioè?"
"Mettere in discussione la mia scelta di iniziare una psicoterapia".
"Dipende. È dalla mia parte?".
"Sì, spesso. È odioso".
Castle si mise a ridere. Doveva mandare dei fiori a quell'uomo. Forse meglio un accappatoio di lusso?
"E aiuta?", le chiese tornando serio, perché intuiva che Beckett si stesse muovendo su un terreno molto scivoloso, conoscendo la sua natura.
Lei faticò a rispondere, come sempre quando si toccavano argomenti personali che la mettevano in crisi.
"Sì. Penso di sì. Anzi, sicuramente sì".
Castle aspettò che continuasse a parlare, senza incalzarla.
"Ero convinta di averla delusa. Parlo di mia madre. Sono un poliziotto, e in tutti questi anni non ho risolto l'unico caso che mi stava veramente a cuore. Ecco perché... mi butto a capofitto quando compare all'orizzonte", confessò con grande sforzo.
"Non puoi averla delusa, lo sai".
"È come se per tutto questo tempo mi fossi nascosta dietro a un muro, impedendomi di avere il tipo di relazione che desideravo, finché non avessi risolto il caso. Solo che ora...".
"Ora?"
"C'è qualcosa che viene prima. E non parlo del bambino. Che viene, ovviamente, prima. Parlo di noi".
Noi. Il pronome magico che gli apriva le porte della speranza.
"Non voglio mettere in pericolo la nostra relazione, per qualcosa che è successo nel passato", aggiunse con ansia.
Relazione. Non storia.
"E l'hai capito andando da lui?".
"Sì, questo e altre cose".
Altro che accappatoio, gli avrebbe comprato un intero ranch. Sentì che era arrivato il suo momento di mettersi a nudo.
"Ho vissuto male il fatto che tu non volessi il bambino". Finalmente riusciva a confessarglielo.
"Ma... non hai mai detto niente!"
"Lo so. Non pensavo di potermi permettere di dire qualcosa a riguardo. Era una tua scelta". Fece una pausa, prima di continuare. "Ho pensato che significasse che non volevi avere una famiglia con me. O me e basta".
"Ma non ha niente a che vedere con quello che io provavo per te. E provo".
"Lo so. Intendo, lo so adesso. E quando mi è sembrato che ti trascurassi, ho avuto paura che un altro dei miei figli dovesse vivere l'esperienza di non essere amato dalla propria madre. Come credo succeda ad Alexis, anche se non lo dimostra".
"Alexis è felice. Hai fatto un ottimo lavoro con lei", ribatté Kate con forza, prima di capire fino in fondo il significato delle sue parole. "Quindi mi hai paragonato a Meredith?"
Gli parve lievemente offesa.
"No, è stata mia madre".
"Tua madre pensa che io sia Meredith?"
"No, mia madre mi ha aiutato a comprendere che avevo fatto questa associazione inconscia. E, ti assicuro, mi ha fatto ampiamente capire che stavo sbagliando. Non potreste essere più diverse".
Kate meditò sulle sue parole, prima di rispondere.
"È vero che all'inizio non lo volevo. Ero spaventata e per carattere non sopporto di non avere il controllo della situazione. Ma non ho mai fatto niente, consapevolmente, per fargli del male. O perché me ne volevo liberare. E adesso... gli parlo. Lo chiamo 'Bambino'. Con la lettera maiuscola", lo informò orgogliosa.
Lui sorrise al pensiero.
"Non devi giustificarti".
"Non mi sto giustificando. Voglio solo che non ci siano incomprensioni tra noi".
Lo stesso valeva per lui.
"E si vede, adesso, sai? Anche da vestita".
Beckett si alzò in piedi e si slacciò la giacca, entusiasta come una ragazzina, in piedi davanti a lui, sempre seduto su quel muretto da cui temeva che da un momento all'altro qualcuno sarebbe arrivato a scacciarli.
Si tirò i lembi della camicia con le mani, lisciando le grinze, per mettere in mostra la pancia. "Vedi?", gli chiese elettrizzata, guardandosi da sopra e sporgendosi in avanti.
Era euforica come non l'aveva mai vista e dovette trattenersi perché cominciava a emozionarsi, nel vederla così bella e feconda. Lo avrebbe deriso nei secoli.
"Io non vedo niente. Forse dovevi metterti un cuscino", la punzecchiò.
"Dai, Castle, concentrati. Appoggia le mani. Senti".
Non era pronto a fare una cosa del genere. Era troppo... intimo, in strada, poi. Era qualcosa che l'aveva sempre infastidita. Che adesso fosse lei a chiederglielo lo lasciava sgomento e senza sapere bene come reagire.
Ma lei era impaziente, e quindi, con una certa ritrosia, lasciò che gli guidasse le mani dove pensava che si potesse sentire la differenza, verso i fianchi.
Per quanto lo riguardava, non gli sembrava così diversa dall'ultima volta che l'aveva sbirciata senza farsi accorgere, ma era ormai in quello stadio in cui cominciava a vedere un tunnel di luce aprirglisi dinnanzi e dei cori angelici chiamarlo verso un mondo di beatitudine. Avrebbe ammesso qualsiasi cosa, anche di sentilo muoversi, pur sapendo che era ancora troppo presto. Gli andava bene tutto. Anche se avessero rapito la precedente Beckett. Questa di ora gli andava benissimo.
"Ok, adesso basta o sembreremo due attori di una telenovela", gli disse ridendo, tornando a sedersi sul muretto accanto a lui.
Il sole iniziava a tramontare e lui si chiese se dovessero stare per sempre lì in quella terra di nessuno, in cui evidentemente riuscivano a capirsi tanto bene. Vendevano degli appartamenti, in zona?
"Ho paura di morire".
Una confessione inaspettata da parte di lei che lo sbalordì e lo sconvolse.
"Ho paura che il bambino viva la mia stessa esperienza. Forse per quello non volevo affezionarmi all'idea che... ci fosse".
Era commosso dal fatto che lei avesse deciso di aprirsi così tanto, senza che lui si scorticasse vivo per riuscire ad avvicinarsi, come era sempre successo tra di loro. Più di tutto, era sopraffatto dalla sofferenza che l'aveva abitata senza che lui se ne rendesse conto.
"Non morirai. Non morirà nessuno dei due. Vedremo crescere i nostri figli, e avremo così tanti nipoti da comporre una squadra di calcio. Diventeremo un clan potente e uccideremo la gente", le rispose con foga, desiderando solo poter cancellare dalla mente di lei l'immagine che gli aveva appena descritto.
"Castle, non puoi saperlo".
"Invece lo so. Sono veggente. E, se anche non lo fossi, ti giuro che non ti lascerò morire. Mai. Sono il tuo partner. Ti guardo le spalle".
Gli sorrise, ne fu rincuorato. "Non mi dispiacerebbe una squadra di calcio, in effetti. Tranne la parte in cui diventiamo una famiglia mafiosa che ammazza la gente".
Perché no? Sarebbero stati bravi anche in quello.
Era il momento di andare fino in fondo.
"Ho avuto paura di dover crescere questo bambino da solo. È una cosa che mi spaventa e che non voglio più fare, a meno che non sia necessario".
"Castle, non c'è neanche una possibilità al mondo che tu lo cresca da solo. Non che tu non sia bravo, anzi. Ma non lascerò mai mio figlio per andarmene chissà dove. Te lo prometto".
Si voltò verso di lui. "Quindi anche tu eri spaventato, quando l'abbiamo scoperto?"
"Certo che sì. Sono terrorizzato a morte per la maggior parte del tempo. Fin dall'inizio".
"E perché non me lo hai detto? Eri sempre entusiasta e rassicurante".
"Pensavo fosse mio dovere sostenerti".
"A discapito del tuo stato d'animo?"
Annuì.
"Rick, io non voglio un uomo perfetto. Voglio un essere umano con cui confrontarmi. Non uno che soffoca se stesso per il mio bene. Anche perché, direi che il risultato non è stato esaltante. Guarda come ci siamo ridotti".
Non aveva affatto torto.
L'oscurità si fece viva all'improvviso. Le temperature erano scese parecchio. Forse non era il caso che rimassero all'aperto. O si stava di nuovo comportando in modo troppo apprensivo?
Kate si alzò in piedi, allacciandosi la giacca che aveva lasciato aperta, mentre lui l'aiutava a togliersi i capelli dal colletto. Un altro gesto che gli era mancato.
Lei si fermò come le braccia a mezz'aria, come se si fosse dimenticata una cosa importante.
"Castle, promettimi una cosa".
"Tutto quello che vuoi".
"Non ricominciare a voler fare l'uomo perfetto".
"Ok. Prometterò solo cose di nessuna importanza".
"Voglio che il nostro bambino abbia un'infanzia come quella di Alexis. Piena di giochi, misteri e magia. Io non posso farlo. Tu sì. È la cosa che desidero di più per lui".
Castle rimase in silenzio, fingendo di guardarsi attentamente le scarpe perché altrimenti non avrebbe retto all'emozione.
L'aveva riaccompagnata in taxi, più tardi, mentre lei protestava che in fondo casa sua non era così lontana, non voleva farsela a piedi? Lui aveva grugnito e l'aveva infilata di forza sul sedile posteriore, senza nemmeno sfiorarla, nonostante tutte le immagini non esattamente caste, o materne, che gli stavano venendo in mente.
Adesso erano di fronte al portone del suo palazzo e lui non sapeva cosa fare. Si erano detti molte cose, ma a che punto erano? Stavano insieme? Poteva baciarla? Che era poi il punto che gli interessava di più, tra tutti.
Gli sembrava di essere al primo appuntamento, e si stava chiedendo oziosamente se avrebbe baciato subito una Beckett appena conosciuta e che avesse accettato di uscire con lui.
Certo che sì. Neanche da chiederselo.
Anche lei gli sembrava un po' imbarazzata, non sembrava così ansiosa di salutarlo e tornare a casa, ma non lo stava nemmeno invitando da lei.
Quindi, come si superava l' impasse?
Castle decise che avevano recuperato abbastanza terreno perché il loro rinnovato rapporto potesse sopportare un passo falso. E poi la desiderava, non la vedeva da troppo tempo.
Le si avvicinò, le mise un braccio intorno a un fianco e la tirò contro di sé in un unico gesto avido. Lei non si ritrasse e non si ribellò e, anzi, non sembrò affatto disdegnare l'approccio, visto che se la ritrovò tra le braccia sorridente e con gli occhi chiusi, il viso proteso verso di lui e rilassata al punto che dovette spostare il baricentro per sostenerla.
Decise di non abusare di tanta fortuna, e si limitò a passarle una mano tra i capelli, lentamente, godendosi il gesto prima di darle un unico bacio leggero, appoggiando le labbra sulle sue senza muoverle, solo per sentirne la morbidezza e riassaporare finalmente il contatto con lei.
Gli bastava sapere che non lo aveva allontanato per sempre. Il resto sarebbe venuto dopo.
Lei rispose al bacio con molta meno pazienza e alla fine dovettero smettere per non sembrare due dodicenni alla prima cotta.
"Non possiamo ricominciare da dove erano rimasti, vero?", le bisbigliò all'orecchio senza nascondere le sue intenzioni.
"No", rispose prevedibilmente lei, continuando a farsi abbracciare e a farsi sostenere.
"Devo mandarti un foglio con scritto 'Vuoi metterti con me?' seguito dalle due caselle 'Sì' e 'No' da barrare?", scherzò lui, sicuro che avrebbero ritrovato la loro strada verso casa.
Lei si mise a ridere, districandosi dal suo abbraccio. "Potresti provare, Castle. Ma non posso anticiparti la risposta".
Lo guardò con un'espressione che a lui parve davvero innamorata. E, questa volta, ci credette.
Beckett era già ormai sotto le coperte, senza aver ancora smesso di sorridere con fare sognante, quando le arrivò un messaggio.
"Vuoi metterti con me? Sì. No".
Si tirò le coperte sopra la testa, come quando era adolescente e non voleva farsi scoprire dai suoi genitori, desiderando invece rivivere in tranquillità e solitudine un particolare momento di felicità e digitò in risposta: "Ti amo anche io".
* Eventi occorsi nel prequel, che ripubblicherò la prossima settimana