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Autore: _Malila_Pevensie    07/02/2020    1 recensioni
Prima storia della serie "Le Saghe di Finian"
Il mondo di Finian non conosce giustizia da quasi cento anni, fin dall'istante in cui la tirannia della Regina Mirea ha avuto inizio.
Freya non l'ha mai vissuta in modo diretto, protetta dalla quiete delle Foreste di Confine in cui sua madre l'ha cresciuta. Le è stato fatto l'immenso dono della libertà e lei non ha mai pensato di lasciare il luogo che l'ha vista diventare ciò che è.
Aran, Principe alla corte di Errania, non ha mai visto in Mirea null'altro che la propria salvatrice. La sorte gli ha concesso ogni ricchezza e privilegio, ma gli ha lasciato anche un fardello d'immense bugie in cui non sa di star affondando sempre più.
La verità, celata dietro quelle esistenze che sembrano destinate a ripetersi sempre uguali a loro stesse, si rivelerà presto in tutta la sua schiacciante realtà.
Il loro destino, racchiuso in una Profezia antica di un secolo e ultimo lascito dei draghi, si presenterà proprio nell'instante in cui le loro vite entreranno inaspettatamente in collisione.
Il Tempo del Silenzio è giunto alla fine e il momento di scegliere si fa sempre più vicino.
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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CAPITOLO 7
- COMPRENSIONE -


La notte, oramai, avvolgeva nella sua buia quiete tutta la corte di Errania. I giardini erano vuoti, immersi in un silenzio interrotto solo dal vento fresco che spirava fra gli alberi, spandendo dolci sussurri nell'aria attorno a loro. Quei rumori familiari furono sufficienti a zittire almeno per un pò la mente di Freya; testimone del suo dolore restava solo una lieve stretta al cuore.
Mentre camminava fianco a fianco con quel ragazzo sconosciuto, la giovane osservava con curiosità la particolarità di quel giardino interno, in cui le piante crescevano rasente ai muri del portico e lungo i vialetti acciottolati. Il silenzio fra i due si protrasse ancora per qualche istante, senza però creare nessun imbarazzo; non si erano scambiati che poche parole prima di quell'istante, eppure si sentiva in qualche modo perfettamente compresa.
Fu proprio lei a parlare per prima, lasciando uscire in un sussurro un pensiero che lottava per farsi sentire fra tutti gli altri: «Sembra che solo all'aria aperta io mi possa sentire a casa. Gli spazi chiusi non fanno per me.»
Aran spostò la sua attenzione su di lei e mentre la guardava con attenzione un sorriso andò a formarsi sulle sue labbra. Era la prima volta che sorrideva, pensò la ragazza. Rimase un po' persa, in quel sorriso.
«Dove vivevi prima che i soldati stravolgessero tutto?» le domandò e il suo interesse era vero, sincero, tanto che ricambiare le venne del tutto naturale.
«Nel folto delle Foreste di Confine» rispose, rievocando nella propria mente immagini di quel luogo che oramai le pareva lontanissimo e irraggiungibile. «La casa in cui sono cresciuta ha pareti e tetto sottili, non come le mura di questo castello: quasi può entrarvi il cielo. In effetti, ci è molto vicina.»
«Vicina al cielo?» chiese Aran, non nascondendo una certa sorpresa.
Freya annuì, guardando la luna che iniziava a comparire insieme alla nostalgia. «Abitavo su una quercia secolare» spiegò e il ragazzo ammutolì per un istante, non sapendo cosa rispondere.
«Sembra davvero un bel posto da chiamare casa. Non hai idea di quanto sia soffocante vivere qui, a volte; non ho mai potuto assaporare la libertà che devi aver avuto tu» sussurrò piano Aran, quando ebbe ritrovato la parola. Non seppe perché glielo stesse dicendo; sentì che quella ragazza misteriosa gli stava facendo perdere nuovamente il controllo.
Questa volta fu lei a guardarlo attentamente. «Credevo fosse un privilegio vivere da signori, protetti da mura tanto possenti.»
«Credo che fossi tu ad avere una vita privilegiata» ribatté Aran, serio.
Continuarono a camminare lentamente, sempre più fiori a costeggiare la loro strada. Freya, assorta nei propri pensieri, si fermò solo accanto a un albero, sul cui tronco cresceva un meraviglioso fiore dallo stelo verde scuro e dai delicati petali rosa tenue. Era talmente bello che non poté impedirsi di avvicinarvi il volto per sentire il profumo, né di sfiorarlo con un leggero tocco delle dita. Poteva quasi avvertire la vita che vi scorreva.
Lo guardò rapita per qualche istante, finché Aran non si fermò accanto a lei e le spiegò: «Viene chiamata Guerriera Solitaria; non cresce mai accanto a sue simili, non si è mai visto un campo popolato solo da queste piante, ed è capace di sopravvivere anche alle condizioni più avverse. Fonda la sua vita in simbiosi con un solo albero e su quello cresce senza mai sconfinare su un altro.»
«Ne ho viste di piante, ma mai tanto affascinanti» mormorò lei, piano, quansi temesse in qualche modo di disturbarla.
«Mi sono sempre chiesto come la sola natura potesse averla creata» convenne Aran.
Non aveva mai visto in nessuno tanto incanto per un semplice fiore e, senza sapere come, si ritrovò a non poter distogliere lo sguardo da Freya e da quella sua reazione così spontanea. Ancora impegnata a osservare la Guerriera la giovane non ci fece nemmeno caso, almeno finché non tornò a guardarlo. Gli occhi chiari della ragazza lo sondarono, imperscrutabili, e quelli di Aran vi rimasero intrappolati; poi, così come quello scambio di sguardi era iniziato, finì.
Freya distolse lo sguardo, sentendo l'ennesimo colpo al cuore, e decise di concentrarsi su qualcos'altro, come per esempio la grande cultura che Aran aveva appena dimostrato. Non c'era di che stupirsi, sicuramente il giovane Principe aveva avuto i migliori precettori; anche lei però era stata ben istruita e il pensiero di avere almeno quello dalla propria parte, in un luogo di cui non si sentiva all'altezza, la confortò un pò.
Aran, accanto a lei, sembrava interdetto, come se volesse dire qualcosa ma non fosse del tutto certo di quali parole utilizzare. Tentennò ancora un istante; infine, parlò e Freya rimase ad ascoltarlo, attenta. «Forse, in questo momento, vorresti essere da tutt'altra parte. Ovunque, tranne che in questo posto che ti è estraneo e a cui senti di non appartenere» esordì, quasi come se le avesse letto nel pensiero. «Però devi sapere che ci sono volte in cui anch'io mi sento allo stesso modo, per quanto ti possa suonare assurdo.»
La ragazza corrugò le sopracciglia in un'espressione interrogativa e capire che lo stava davvero ascoltando lo spinse a continuare.
«Io non sono nato Principe: le mie origini mi sono completamente sconosciute. So solo che i miei genitori mi abbandonarono a me stesso in uno sporco vicolo alla periferia della capitale e Mirea, che desiderava un altro figlio, mi prese con sé e mi adottò, accogliendomi come fossi suo. Non so nulla della mia famiglia di origine, anche se sono certo che mia madre abbia scoperto qualcosa che non vuole rivelarmi. Per proteggermi, dice lei» raccontò. «Se le cose fossero andate diversamente, io non sarei qui. Ogni tanto questa consapevolezza mi piomba addosso e mi sento come se venissi da un mondo a parte.»
Perfino Aran fu sorpreso dalla facilità con cui quelle parole gli uscirono di bocca. La pelle di Freya fu attraversata da un brivido, ma in qualche modo quell'informazione non le sembrò così assurda; c'era qualcosa di diverso in lui e forse quella ne era la spiegazione. O c'era molto altro?
«In ogni caso, ti sto dicendo questo solo per farti sapere che qualcuno che capisca come ti senti, in questo luogo da cui vorresti probabilmente scappare, c'è» concluse con un mezzo sorriso, riprendendo a camminare.
Freya rimase qualche passo indietro, osservando la schiena di Aran e domandandosi cosa nascondesse quel ragazzo nel suo mondo interiore, che sembrava molto più vasto di quanto non lasciasse trasparire. Lo raggiunse accanto a un alberello carico di fiori profumati. «Hai ragione, è esattamente così che mi sento, ma non scapperò. Qui ho trovato la verità e non è detto che non ci sia anche qualcos'altro, per me» rispose, quasi senza pensare che avrebbe aperto in lui molti interrogativi su quale fosse la sua storia personale. La verità era che non le pesava l'idea di parlarne con lui.
«Se hai rinunciato a tutto quello che avevi per venire qui doveva essere qualcosa per cui ne valesse la pena» disse Aran, senza però spingersi oltre.
Non avrebbe mai tentato di scoprire più di quanto lei avrebbe detto di sua volontà, capì Freya, sempre più stupita dal rispetto che lui dimostrava in ogni suo gesto. Fu anche questo, probabilmente, a spingerla a decidere di ricambiare la sincerità che lui le aveva riservato.
«La vita mi ha portato via entrambi i genitori, in circostanze che non ho mai saputo spiegare. Prima mio padre, che ho conosciuto per un tempo tanto breve da non poter valere, e poi mia madre, che è scomparsa all'improvviso dopo essere partita per un viaggio. Non avevo nessuna strada da seguire finché non sono arrivati quei soldati e avrei rinunciato anche alla libertà per trovare le risposte che cerco» rispose.
Ci fu un interminabile attimo di silenzio in cui i due ragazzi continuarono a camminare l'uno di fianco all'altra, avvertendo null'altro che la propria reciproca presenza.
«Ammiro il tuo coraggio» commentò infine Aran, con un sorriso. Freya lo squadrò con le sopracciglia scure inarcate, come se avesse detto una stupidaggine, e la sua espressione lo fece scoppiare in una risata sommessa. «Insomma, hai messo in discussione tutta la tua vita per scoprire la tua storia. Hai rinunciato a tutto ciò che conoscevi e che amavi e hai sopportato con tenacia una verità evidentemente sconvolgente. Il tuo coraggio è da ammirare» spiegò semplicemente.
Freya distolse un istante lo sguardo per osservare il cielo buio, senza trovare nulla da dire. Lo sguardo di Aran seguì il suo e solo in quel momento i due giovani si resero conto che il vento si era alzato nuovamente, gelido e tagliente.
«Sarà meglio rientrare. Inizia a fare freddo» disse lui e, seppur a malincuore, ripresero la strada per il castello, consapevoli che quella che doveva essere una semplice e breve passeggiata era diventata qualcosa di più. All'interno le lanterne erano già state accese, restituendo un po' di calore alle parenti in pietra grezza.
«Ti riaccompagno ai tuoi appartamenti» si offrì Aran, ma Freya sentiva di aver già approfittato fin troppo del suo tempo e della sua gentilezza.
«Ricordo la strada, non preoccuparti. Hai già fatto fin troppo per me, questa sera» rispose Freya. Gli rivolse un leggero cenno del capo e gli lasciò un sorriso, il più sincero che riuscì a trovare, nonostante la stanchezza che iniziava a sopraffarla. «Non saprò mai ringraziarti abbastanza» concluse. Poi si avviò lungo il corridoio, molto più leggera di quanto non fosse da moltissimo tempo.
«Freya...» Sentì una voce chiamarla, alle proprie spalle. Si voltò. «Non voglio alcun ringraziamento. Vorrei solo tanti altri momenti come questo, in futuro» si lasciò sfuggire Aran, cercando di dissimulare l'imbarazzo.
Freya sentì qualcosa sciogliersi in un luogo molto vicino al cuore. Sorrise ancora una volta e con tutta calma ribatté: «Allora ci rivedremo presto, Aran.»
Solo allora se ne andò, nella direzione opposta rispetto a quella di lui. Entrambi erano rimasti straniti da come suonasse il proprio nome in bocca all'altro: familiare, conosciuto.


֍ ֍ ֍


Le pareti non parevano più così fredde, ora che le calde fiaccole ne ammorbidivano l'impenetrabile superficie. La porta degli appartamenti di Aran si aprì con un sommesso e quasi inudibile cigolio e il giovane entrò nel piccolo salotto con passo felpato. Aveva chiesto che non gli venisse portato nulla per cena; voleva solo contemplare il cielo e tentare di mettere ordine nelle proprie emozioni confuse. Sganciò il mantello trattenuto dall'elaborata fibbia d'argento e lo posò con noncuranza su una poltrona, poi si lasciò cadere su di un'altra sistemata accanto alla finestra.
Alloggiava in quella stanza da quando aveva appena cinque anni e veniva ancora accudito da Malia, che a quel tempo era stata designata sua balia. Mille volte si era accoccolato su quella spaziosa poltrona e si era addormentato osservando il manto celeste, costringendola poi a trasportarlo a braccia nel letto. Non era mai mancata una volta che gli venissero rimboccate le coperte, almeno fin quando era stato troppo piccolo per iniziare il suo addestramento da cadetto. Non aveva avuto molta scelta: diventare un soldato era pressoché l'unica via che veniva lasciata ai secondogeniti, almeno nelle famiglie di una certa levatura.
Finalmente solo, potè immergersi totalmente nei propri pensieri. Ripercorse tutto ciò che era accaduto dal primo momento in cui aveva visto Freya ed era rimasto impalato sulle scale; in quelle immagini quasi non si riconobbe. Pensò a quando sua madre l'aveva mandato a chiamare, chiedendogli di accertarsi che la giovane stesse bene dopo il loro colloquio privato e di riaccompagnarla alle sue stanze; a come si era sentito quando l'aveva trovata sull'orlo della balconata e aveva avvertito la sua sofferenza.
Prima di allora non gli sarebbe mai sembrato possibile potersi sentire tanto vicino ad una persona che conosceva appena; eppure, fosse semplice empatia o qualcosa di ancora più inspiegabile, il dolore di Freya lo aveva attraversato, come se in qualche modo risuonasse con il suo. Forse, per quella ragione si era ritrovato a rivelarle cose che aveva sempre tenuto strettamente riservate nella sua testa o che aveva gelosamente custodito nel cuore, oltre che per tentare di alleviare almeno un pò dell'angoscia che le leggeva nello sguardo.
Fu ripensando a quello sguardo, puro e adamantino, che riuscì finalmente a decifrare la sensazione che sovrastava tutto il resto: quella di aver ritrovato qualcosa di perso. Era come se si fosse ricongiunto ad una persona già conosciuta molto tempo addietro e da cui, in qualche modo, si era separato. Più ci pensava, però, e meno spiegazioni logiche arrivavano; allora si impose, per una volta in vita sua, di smettere di pensare a tutte le possibili implicazioni di quell'incontro. Si disse che la compagnia di quella ragazza che l'aveva sconvolto tanto avrebbe portato una ventata d'aria nuova, pulita, nella sua esistenza sempre più assorbita dallo studio e dall'addestramento. Trascorrere del tempo con lei avrebbe significato anche imparare a vedere la vita con occhi diversi e la prospettiva, stranamente, non lo spaventava. Gli lasciava piuttosto un senso di aspettativa.
Aran si alzò di scatto dalla poltrona e spalancò la finestra. L'aria della sera gli riempì le narici, lo splendore delle stelle gli occhi. Si affacciò al balconcino di appena un braccio che sporgeva dalla torretta e lì rimase, finché le palpebre non gli si fecero troppo pesanti da tenere aperte. Quella notte fu serena, accompagnata dalla brezza che filtrava dalla finestra aperta. Solo alle prime luci dell'alba qualcosa cambiò nel tranquillo scenario dei suoi sogni.


Improvvisamente, l'aria fresca si fece tagliente. Appena Aran aprì gli occhi si sentì catapultare in un'altra realtà, che subito fece sentire l'aridità che la permeava.
Lui era ancora lì: il grande pilastro intarsiato protagonista del suo sogno ricorrente si levava con sorprendente leggiadria, nonostante la sua mole. Sembrava aver perso la sua solidità; il ragazzo sentì un familiare senso di impotenza nell'avvertirne la fragilità: pareva sul punto di crollare, come se da un momento all'altro potesse sgretolarsi di fronte ai suoi occhi.
Non l'aveva mai visto diversamente, doveva ammettere a malincuore, ma sentiva che non sempre era stato così: un tempo la terra su cui sorgeva era stata verde e la foresta che lo circondava era stata rigogliosa e popolata da ogni sorta di animale. Si disse per l'ennesima volta che doveva ritornare ad essere così.
Il suo sguardo corse alle spirali che lo avvolgevano, colmate da lucide pietre, e alla gemma finale, incastonata sulla sua sommità: era un granato, la cui luce era debole e morente. All'impotenza si aggiunse la rabbia per la morte di quella speranza e la voglia di farla pagare al responsabile di quello scempio. Non sapeva chi potesse essere, come non sapeva l'origine delle emozioni che provava ogni volta di fronte a quella vista.
Avrebbe voluto davvero far qualcosa, più di ogni altra cosa al mondo, ma non ebbe il tempo di rielaborare nient'altro. Il vento si fece più pressante e un forte fruscìo lo fece voltare. Una potente e malefica energia nera ruppe la cortina di rami degli alberi, viaggiando a velocità irrazionale verso il pilastro.
Aran scattò in avanti, verso quello che avrebbe dovuto essere il punto d'impatto. Il dolore gli mozzò il respiro, sminuendo persino il suo scontro con il suolo. Mentre il mondo si faceva nero, un grido rabbioso squarciò la terra.


Aran si destò di soprassalto, il fiato corto e la sensazione di avere un macigno sul cuore. La testa gli doleva terribilmente e il suo respiro era ridotto a un rantolo affaticato. Ogni percezione era perduta nel terrore. Non ebbe il tempo di realizzare niente; improvvisamente, fu preso da un'ondata di stanchezza, come se le sue membra avessero dovuto sopportare veramente il colpo ricevuto in quell'incubo.
Svuotato di ogni forza, ricadde preda di un sonno privo di sogni.


֍ ֍ ֎


Nello stesso istante, dall'altra parte del grande castello, Freya spalancò gli occhi nel buio che sbiadiva. Aveva la fronte imperlata di sudore e lacrime copiose le scorrevano lungo le guance, per poi cadere incolori sulla coperta. Lo stesso sogno di sempre. La stessa visione. Come ogni altra volta il dolore era stato così intenso da sembrare reale; lo percepiva ancora gravarle sulle spalle, lasciandola tremendamente stordita e boccheggiante.
Solo quando le parve di aver riacquistato un po' di calma, si lasciò ricadere sui morbidi cuscini. Nemmeno lasciare i posti che aveva sempre conosciuto l'aveva allontanata da quel dolore. Si chiese se per caso quelle visioni non facessero parte di lei, se non le venissero dettate dalla sua stessa anima.
Il pilastro e il suo granato... La speranza che irradiava... La sua forza spezzata dall'apparizione della figura ammantata di nero... Riepilogò tutto ciò che riusciva a rammentare con una calma innaturale, ma com'era sempre stato non trovò alcuna spiegazione. Prostrata per l'interminabile giornata anche lei infine si riaddormentò, esattamente come colui che, nonostante ancora non lo sapesse, condivideva il suo stesso fardello.


   
 
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