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Autore: aurora giacomini    08/02/2020    2 recensioni
Dal testo:
Quel giorno c'era una fitta nebbia, cosa piuttosto insolita a quest'altitudine... ma non ci diedi peso, non in senso negativo, anzi! La nebbia mi fa sentire al sicuro, come immersa in una morbida coperta che mi nasconde dagli occhi del mondo, e che nasconde il mondo ai miei.
-Autobiografico-
Genere: Avventura, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In The Fog – Nella Nebbia

 

 

Non mi capita più molto spesso, ormai... ma quando trovo qualcuno che si prenda cura delle persone che ho in carico, beh, torno nel mio elemento naturale: il bosco.
Infilo gli auricolari e m'incammino su per i sentieri dei caprioli e cinghiali che, con le loro zampe fatte di zoccoli, scavano lungo ripide pareti, come l'acqua scava nella roccia, come i torrenti che spesso costeggio.
 

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Quel giorno c'era una fitta nebbia, cosa piuttosto insolita a quest'altitudine... ma non ci diedi peso, non in senso negativo, anzi! La nebbia mi fa sentire al sicuro, come immersa in una morbida coperta che mi nasconde dagli occhi del mondo, e che nasconde il mondo ai miei.

Come al solito, quando decido di prendermi un momento solo mio, mi infilai entrambi gli auricolari (di solito ne metto solo uno, anche quando scrivo, per paura che qualcuno mi chiami alla ricerca d'aiuto, ed io non lo senta... negli anni ho sviluppato questa scomoda, ma non ingiustificata, fobia) ma col cuore leggero, quel giorno, mi tappai entrambe le orecchie, lasciando che la voce profonda e, a tratti greve, di De André, mi carezzasse i timpani.

Il manto di morte foglie, nere e marroni, rese umide dalla fine pioggia e dalla nebbia, mi costrinse ad essere più cauta del solito nel muovere i miei passi.
Le essenze della zona non sono poche, ma con un pizzico d'orgoglio, il mio occhio si sofferma sempre sulla corteccia, ed il nome esce poco dopo. Fu mio padre, ormai tanti anni fa, ad insegnarmi a riconoscere gli alberi, la maggior parte della flora in generale e della fauna dei boschi del Friuli. Il suo albero preferito era il Faggio: un albero dalla pelle e la carne dure, come un muscolo dalle tante fibre strette tra loro, come tanti amanti che han paura di morire soli. Per questo, quando viene la galaverna, o comunque quando fa molto, molto freddo, quelli scoppiano: non vogliono che la linfa e l'acqua ghiacciata si espanda, non vogliono essere allontanati, neppure per il tempo di un inverno, lottano fino a morire insieme, sperando che negli anni, i loro figli li ricrescano attorno, imprigionandoli nel legno delle fibre nuove... di nuovi amori.

Il mio, dicevo, fosse il Frassino, un albero un pochino meno maestoso del Faggio, ma della foglie, a mio avviso, più particolari ancora di quelle dell'Acero. In realtà già mi piaceva il vecchio e testardo Carpino, duro come il diamante ed eterno se, come quasi tutti gli alberi, tagliati nella luna giusta. E che dire della Quercia? L'anziana, la madre degli alberi... ritta e maestosa, anche se un po' malinconica.

Ma quello con cui avevo un rapporto più “intimo” era il classico ed ogni presente Nocciolo... ci facevo archi e frecce... o piccole cornici... quanti ricordi legati a quell'esile cespuglio (non è esattamente un cespuglio, ma crescono tutti vicini, vicini).

Lungo il mio camminare, l'attenzione fu catturata da un cespuglio di rovi. Era stagione, dunque erano pieni di more e lamponi. Non ho resistito a farne una bella scorpacciata, per fortuna la pioggia non era stata troppa, dunque non erano acquosi, ma ben maturi e succosi. Quelli che compri non hanno lo stesso sapore... son tutt'altra cosa... come se, lontano da casa, perdessero coraggio e vita.

Con le labbra, presumo, violacee e rosse, ripresi il cammino. Non avevo una meta, volevo solo camminare nella mia seconda, grande, casetta.

La nebbia era davvero molto fitta, ma il pensiero di perdermi non riesce mai ad attraversarmi la mente: se mi metti in un bosco, anche uno che non ho mai visto, stai certo che la strada per tornare a casa, beh, la trovo! Pensa che, da bambina, facevo apposta di inoltrarmi lontano, per punti mai esplorati, lo facevo per dimostrare a me stessa che avrei trovato la strada (no, i miei genitori non erano dei negligenti senza cervello, era una questione di luogo di nascita, di cultura e usanza. Ciò non toglie che, se tardavo, mia mamma non mancava mai di perforarmi i timpani...) Mettimi in centro a Udine e stai certo che sto lì finché qualcuno non mi viene a prendere... le case e i palazzi mi sembrano tutti uguali... è come se quel grigiore, quegli odori e suoni, semplicemente, uccidessero il mio senso dell'orientamento. Gli alberi, loro hanno tutti una faccia e una personalità singolare, non puoi dimenticarteli.

Ero intenta a guardare un mazzo di primule che, sciocche o ribelli, erano nate nella stagione sbagliata. Stavo per coglierne una per soffiarci dentro, producendo uno strano sibilo, per poi mangiarla (ci puoi fare un'ottima frittata) quando, per poco, un capriolo non m'investi! Mi passò a pochi centimetri, così pochi che riuscii a sentire l'odore della sua pelliccia: qualcosa che mi ha sempre ricordato il fieno...

Avrei dovuto capirlo che, un capriolo che ti passa così vicino, non lo fa perché gli sei simpatico... ma per paura: stava scappano da qualcosa, ed io ero proprio fra due burroni, in cui sotto, scorreva l'acqua. Non aveva altro posto in cui passare e, per assurdo, riteneva me meno pericolosa della cosa da cui stava scappando. In quel momento avrei dovuto togliermi gli auricolari e gettarmi a terra... ma non lo feci, guardai il culetto bianco della femmina di capriolo (le femmine hanno il culetto a cuore, i maschi a fagiolo). Avevo intuito che potesse essere opera di un cacciatore, “maledetto bracconiere!” pensai “non si cacciano le femmine!” Fu in quel momento, mentre inveivo contro il bracconiere e De André cantava: “Un Giudice” che avvertii il più strano dei dolori sul braccio destro, un dolore bruciante ma, in qualche modo, freddo. Non emisi un solo gemito, barcollai all'indietro finché il terreno mancò sotto i miei piedi.

Mi svegliai per metà immersa nell'acqua del torrente... fosse stata la meta sbagliata, beh, sarei morta annegata...

Nonostante l'incredibile freddo e dolore che provavo, il primo pensiero fu per le sigarette: “ecco... addio cicche... ormai saranno inservibili... per non parlare dell'accendino...”

Mi avevano sparato...

L'ho capii quando, tastandomi, non posso dire il braccio dolorante perché lo erano entrambi, trovai nella manica del giubbotto un lungo proiettile. Il colpo doveva essere partito da molto lontano o, oltre alla pelle, avrebbe perforato anche l'altra parte della manica...

Probabilmente a causa della nebbia, quel pirla, non mi aveva vista... e pirla pure io che, quando ho visto l'animale fuggire, non ho segnalato la mia presenza... ma non riesco a gridare in bosco (un'altro insegnamento di mio padre, certo, in quel frangente lui avrebbe urlato eccome, lo so per esperienza: ci siamo spesso trovati in bosco durante la stagione di caccia, e lui, quando sentivamo uno sparo, mi diceva di accucciarmi e urlava: “Persone!” o qualcosa del genere) tranne quando si fa legna... lì devi urlare o rischi di copare (uccidere) qualcuno o beccarti una legnata che, se non ti uccide, beh, certamente ricorderai finché campi...!

Le gambe erano rigide e doloranti, mezze congelate... ma le sentivo ancora, buon segno: non mi ero rotta la schiena...

A giudicare dai miei pensieri, capii subito di non avere neppure una commozione celebrale, non grave, per lo meno...

Per tutto il tempo rimasi seduta nel torrente, senza fiatare, continuando ad ascoltare una cuffia ormai muta (probabilmente l'acqua aveva ucciso il mio povero cellulare). Eh, non mi veniva da chiedere aiuto... forse la testa l'avevo colpita eccome...

Nonostante la disavventura che mi aveva causato, continuai ad amare la nebbia... continuai a sentirmi protetta.

“Questa di Marinella è la storia vera... che scivolò nel fiume a primavera...” cantavo, mentre, lentamente, cercavo di riattivarmi la circolazione nelle gambe. Dovevo togliermi dal torrente o sarei morta di ipotermia... “ma un re, senza corona e senza scorta, bussò tre volte un giorno, alla tua porta...” pian piano, perché rischiavo di farmi davvero male con muscoli e giunture così fredde... “bianco come la luna, il suo capello...”

Ecco, ero fuori! Non mi restava che risalire e andare al caldo... certo, una parola: ero in fondo ad una gola di più di trenta metri...

Per fortuna, grazie al freddo, il braccio non sanguinava così copiosamente, anzi, quasi non sanguinava affatto, ma era debole, quasi inservibile, come scoprii quando cercai, aggrappandomi a radici e massi, di risalire...

Decisi di fermarmi un secondo per studiare un percorso; nel frattempo, strappai anche del muschio da una roccia e misi la parte verde (pulita e sicura) sulla ferita: in modo da evitare che mi entrasse terra o altro.

Dovevo togliermi i vestiti bagnati e asciugarmi per bene, infatti, nonostante non fossi più nel fiume, non ero ancora fuori pericolo: se mi avesse sorpresa la notte, probabilmente, mi sarei addormentata senza più risvegliarmi...

Ma risalire non sarebbe stato facile, neppure con il corpo al cento per cento: le pareti erano umide, friabile e ripide, maledettamente ripide!

Ma la morbidezza del terreno, in fondo, giocava a mio vantaggio: riuscii a far affondare gli scarponi, con qualche calcio vigoroso, in modo da compattare la terra e crearmi una specie di scala. Con quella e gli appigli vari, salii, dopo molto tempo, finalmente in superficie.

Mi salvai.

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Per dovere morale debbo dirti che la storia vera si ferma al capriolo (che mi è davvero sfrecciato di lato), poi mi buttai a pancia a terra e segnalai la mia presenza. Il resto è solo ciò che, con immaginazione ed esperienza (sì, mi è capitato di dover risalire o solo salire, per ripidi burroni... ero un po' più spericolata e mona; oggi sono più calma... ho realizzato di non essere immortale...) ho immaginato un finale alternativo.
Ma quel cacciatore sentì le mie ragioni, uh, se le sentì! Non sono un tipo aggressivo, ma cavolo! Stava cacciando una femmina, per giunta giovane! Non riuscii a trattenermi, anche mossa dall'adrenalina e la paura di prendermi davvero un proiettile... gli urlai di tutto e di più, lo insultai per diversi minuti... lui “povero” zitto con gli occhi di fuori... forse non si aspettava di vedere una cosa come me nel bosco (sono davvero bassa: 1.54 e il mio viso ha sempre dimostrato molti meno anni, anche dieci, di quelli che ho...) forse pensava fossi una bambina, non lo so: ero troppo arrabbiata e spaventata per far conversazione!

 

 

  
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