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Autore: DanceLikeAnHippogriff    26/02/2020    1 recensioni
"L'inizio che non avrei voluto" o di come un povero e ignaro bardo si è ritrovato alla mercé di un culto di veneratori di draghi, è scampato alla morte e, per la sfortuna delle orecchie del suo pubblico, ha composto la ballata delle sue epiche imprese.
Genere: Angst, Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Di draghi e Dragomanni'
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Sete.

Tentò di umettarsi le labbra, ma quel singolo gesto lo spossò all’inverosimile, come se ogni fibra del suo corpo si fosse tesa, concentrata fino allo stremo, per far muovere la lingua e farle fare anche solo capolino dalle labbra. Il lembo di pelle che riuscì a toccare sfrigolò come brace, accogliendo incredulo quell’improvvisa benedizione. Che forse sarebbe stata anche l’ultima. Non sapeva quanti liquidi gli rimanessero ancora in corpo. La sua bocca era riarsa, la gola una fornace ardente alimentata dal mantice che erano i suoi polmoni, che pompavano aria avidi, ma sempre più flebilmente.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricomporre nella mente i frammenti di quelle giornate, i suoi spostamenti. Il terrore di essere stato scoperto dal Maestro era stato rimpiazzato lentamente dalla consapevolezza che non era stato lui il mandante del suo sequestro. Non sarebbe ancora cosciente. Non sarebbe ancora se stesso. Ricordava chi era, i suoi sogni, le sue paure; la sua essenza era intatta, ma lo stesso non poteva dire dei suoi ricordi più recenti. Era come se nella sua mente fosse calata dall’alto una parete nera, liscia e impenetrabile, oltre la quale non riusciva a posare lo sguardo. Opaca, non gli restituiva nemmeno l’immagine di sé. Fredda e imperscrutabile. Avrebbe rabbrividito se solo il suo corpo non fosse stato rovente come ferro battuto.

Battuto e percosso. Il primo giorno di prigionia era passato tra sevizie e torture. Le sue urla imploranti, le domande rabbiose che aveva rivolto ai suoi misteriosi carcerieri, non avevano portato alcun risultato. Il silenzio era stato il suo unico compagno, insieme al mugolio di qualche altro prigioniero, sfortunato tanto quanto lui. Allungò lentamente le dita, rinunciando a domare il gemito di dolore che gli gorgogliò in gola, ma le falangi spezzate non risposero ai suoi comandi. Venne investito da un’ondata di orrore; la consapevolezza di non poterle muovere gli spazzò via la razionalità e per una frazione di secondo temette che la circolazione del sangue, bloccata dalle corde che gli segavano i polsi, gli avrebbe fatto perdere l’uso delle dita. Come se il problema non fossero le dita spezzate, le unghie strappate con perizia chirurgica dalle dita dei piedi, le innumerevoli incisioni che avevano aperto nel suo corpo con lame di fuoco. Il respiro gli si bloccò in gola e annaspò per cercare di far entrare ossigeno nei polmoni, ma ogni boccata era cenere rovente e più lottava per rimanere in vita e più faceva male e più il senso dei suoi sforzi si perdeva nella sua mente ovattata dall’asfissia.

Un rantolo rauco vicino a lui gli fece drizzare le orecchie, strappandolo dalla trance di cui era involontariamente caduto preda. Non si sforzò di girarsi verso la fonte di quel suono. Da quando aveva memoria di quei giorni, sempre che di giorni si stesse parlando, sapeva di averli vissuti nel buio. Era come se un cappuccio d’ombra fosse calato sui suoi sensi, oscurandogli la vista. E sapeva bene che non si poteva trattare di una semplice oscurità perché i suoi occhi altrimenti lo avrebbero aiutato. No, il motivo per cui non poteva vedere era di altra natura, i suoi carcerieri non volevano che vedesse. Che sapesse.

Forse era meglio così. La sua sanità mentale era stata fatta a pezzi insieme alle sue ossa, se avesse anche potuto assistere allo scempio che avevano fatto al suo corpo e a quello dei suoi compagni di sventura avrebbe tentato di strapparsi le vene dei polsi a morsi pur di darsi una morte rapida.

Se solo avesse potuto, perché era in piedi e legato a una colonna da giorni. Le gambe avevano ormai ceduto, i muscoli brucianti, e il suo peso era trattenuto solo dalle corde che lo tenevano in posizione dolorosamente eretta. Aveva la schiena a pezzi ma, in tutta onestà, stiracchiarsi era l’ultimo dei suoi problemi in quel momento.

Sentì un brivido freddo squassargli la spina dorsale, prosciugando le gambe della poca forza che gli era rimasta. Sarebbe impazzito. Se lo sentiva nel modo in cui quel calore soffocante gli penetrava perfino nei pori della pelle. Il sudore, così come il sangue, gli si era incrostato sulle tempie, lungo il collo; si era raccolto nella leggera avvallatura delle clavicole, scorrendogli lungo il petto, annidandosi tra le scapole. Oltre al dolore, sentiva anche l’impellente bisogno di grattarsi. Quel prurito era insopportabile. Si concesse un breve momento per rimpiangere un bagno e la toeletta che riservava alla sua meravigliosa coda dorata ogni giorno. Non era il momento di pensare alle frivolezze, lo sapeva bene, ma era certo di avere un aspetto disastroso e la cosa non migliorava il suo morale.

Se non fosse stato bloccato contro quella colonna, si sarebbe lasciato scivolare a terra, tremante, implorando a gran voce che mettessero fine a quel supplizio, sbattendo mani e piedi, dimenandosi e lasciando andare anche gli ultimi frammenti della sua dignità. Supplicare che lo liberassero, che non aveva fatto niente di male. Non ricordava di essersi mai inimicato personaggi potenti componendo ballate sconce né di aver commesso chissà quale reato nelle cittadine che aveva attraversato nei suoi lunghi anni da errabondo. A dirla tutta, non ne aveva tenuto conto. Pensava a divertirsi e divertire, intrattenere, deliziare. Era un musico itinerante, un viaggiatore. Una persona di poco conto.

Era abbastanza sicuro che qualunque cosa avesse potuto fare un bardo, non poteva essere così grave da meritare un simile destino.


Teneva la testa a ciondoloni, dondolandola lentamente al ritmo di una canzone che aveva pensato di comporre per passare il tempo. Se doveva impazzire lì dentro, tanto valeva calarsi nella parte fino in fondo. Non aveva niente da perdere, gli avevano già portato via tutto. Ed essere legato e incappucciato canticchiando una canzoncina allegra gli sembrava perfetto per calarsi nella parte del prigioniero impazzito per la tortura.

Il suo metronomo preferito era un gocciolio costante che proveniva da qualche parte alle sue spalle. Era preciso, netto, e si infrangeva al suolo con un eco adorabile. Poteva tenere conto dei tempi, scandire il ritmo. E le ore. I giorni. Gli teneva compagnia, molto più dei mugolii insensati che sentiva attorno a lui. Aveva rinunciato a fare conversazione già dai primi attimi in cui sapeva che i loro carcerieri li avevano lasciati soli. Il suo olfatto aveva annusato la presenza di altre tre persone, ma sembrava che non fossero in grado di sentirlo per quanto avesse provato a rivolgere loro la parola. O forse l’avevano ignorato, intenti a distrarsi dal dolore fisico chiudendosi a riccio nella loro anima. Non li aveva biasimati.

Non ci aveva pensato subito a contare i giorni, quindi i suoi calcoli potevano non essere del tutto precisi, ma era quasi sicuro che fossero passati quattro giorni da quando aveva iniziato a contare. L’acqua lo aiutava. Acqua che non poteva bere, un’arsura che lo consumava fino a rendergli la gola un camino di cenere. Schioccò la lingua, impastata contro il palato. Anche solo una goccia d’acqua lo avrebbe salvato dal lasciarsi andare.

Sete.

Dischiuse le labbra, emettendo un suono basso e roco, e richiuse subito la bocca, inorridito dalla sua stessa voce. La canzone era molto più bella quando la suonava nella sua testa. C’erano così tante cose che gli risuonavano nella testa. Così tante. Una cacofonia di pensieri, suoni e odori. La sua mente aveva smesso di archiviare gli stimoli in maniera ordinata, lasciando che il dolore prendesse il sopravvento, sparpagliando tutto, stropicciando i suoi pensieri. Rivedeva volti che non pensava di ricordare, i sorrisi degli avventori nelle locande in cui si era fermato per mendicare un pasto e un giaciglio in cambio di una serata di canzoni e notizie, le labbra delle giovani che aveva deliziato, i boccali di birra ghiacciata che si era scolato brindando alle sue avventure scapicollate, lanciando l’ennesimo tiro di dado, vincendo.

Sete.

Non si stupì quando sentì un rumore nuovo. La sua immaginazione gli aveva sempre giocato brutti scherzi. Ne aveva tanta, a volte fin troppa, ed era per questo che il suo lavoro lo sapeva fare bene. Far sognare. Distrarre la gente dai loro pensieri, dal dolore, dalla noia. Trascinarli in un regno di follia con le note del suo sitar, facendoli ballare fino a quando non cadevano a terra, esausti e soddisfatti, ridendo e chiamando il suo nome senza fiato. Ecco, forse si trattava di uno stupido sogno. Non si era fatto vivo nessuno da tempo.

“Siete dei folli se pensate che vi segua nella vostra ennesima esplorazione suicida.”

Una voce di donna. Flebile, lontana. Mosse impercettibilmente le orecchie, orientandole verso la fonte di quel rumore inaspettato dopo giorni e giorni di mugolii e frasi sconnesse pronunciate in agonia. Non era frutto della sua immaginazione, no. Qualunque cosa gli oscurasse la vista ovattava anche il suo senso dell’udito, ma le sue orecchie non lo avevano mai tradito.

“Suvvia, Kei, non fare così. Prometto che questa volta mi ricorderò di guardare dove metto i piedi.”

Un’altra voce, questa volta maschile, più acerba della prima. Sentì un guizzo di calore rivoltargli l’imboccatura dello stomaco. No, non avrebbe dovuto. Non poteva permettersi di provare qualcosa di simile alla speranza, non era nelle condizioni di poterlo fare.

Forse si trattava dell’ennesima tortura. Ora che avevano terminato di distruggergli il corpo volevano passare allo spirito, fiaccargli la mente illudendolo che avesse ancora una possibilità di uscire da quell’inferno. Che ci fosse qualcuno lì fuori, ovunque fosse quel lì, che potesse posargli una mano fresca sul volto martoriato e sussurrargli che era al sicuro. Che ce l’avrebbe fatta. Che le sue dita avrebbero potuto ancora pizzicare le corde del suo sitar, deliziando le popolazioni delle valli ombrose, e che i suoi piedi avrebbero battuto ancora i sentieri di quel mondo, portandolo lontano.

“Non se ne parla,” ribatté la stessa voce di donna, inamovibile, “sei un pessimo ladro e io lì dentro non ci metto piede.” Vi sentiva forse un lieve accento di Fajrejo? Si lasciò sfuggire un flebile sorriso. Quando si era ritrovato di fronte al gigantesco ammasso di sabbia che era quella regione, aveva fatto immediatamente dietrofront, disgustato. Ironico il fatto che ora un suo abitante l’avesse raggiunto.

“Andiamo, ti accompagno io, Jaz.” Udì un sospiro rassegnato, tinto da una nota di divertimento. Era un’altra voce ancora. Sentì il cuore fremergli nel petto e cercò di calmarlo, ammonendolo come una madre severa. Non poteva permettersi la speranza. Non era ancora del tutto sicuro che si trattasse o meno di un inganno, ma non poteva rischiare di mostrare il minimo cenno di debolezza.

“Grazie Anya, tu sì che sei una vera amica…!”

Eppure, quando le voci cessarono, furono tre le paia di piedi che si mossero. Passi. Li sentiva rimbombare innaturali all’interno di quello spazio su cui non aveva mai potuto posare lo sguardo. Si stavano avvicinando, cauti. Annusò un lieve sentore di bruciato. Forse delle torce.

La sua vista era inutilizzabile, ma che un’illusione potesse ingannare due dei suoi sensi… Allentò la presa immaginaria sul suo cuore, e questo gli frullò tra le dita, il suo battito accelerato come un cinguettio di gioia. Non ancora, pensò. Non sono ancora qui. Non mi hanno visto. Non-

Singhiozzò. Si morse il labbro sentendo le lacrime calde sgorgare dagli occhi, rigargli il volto, e si domandò come potesse anche solo avere acqua in corpo per piangerle, istupidito dal pizzicore spiacevole che gli lasciava il sale sulla pelle screpolata. Perché aveva sete, il suo corpo era talmente incandescente da sembrargli composto da tizzoni ardenti, era sporco di escrementi e urina, e perché dopo giorni di torture sentì una mano fresca sul volto, cauta, dolce.

“Mostri…” Un sussurrò vicino al suo volto, di donna. Lo sdegno aveva fatto riaffiorare nella sua voce le note calde della cadenza dei popoli del deserto. Profumava di aria fresca, una promessa di libertà. “Chi ti ha fatto questo?”

E pianse tutte le sue lacrime, accasciandosi addosso a quella donna, le membra finalmente libere ma prive di forza, la voce incapace di esprimere parole che non fossero di riconoscenza, ruvide come sabbia nella sua gola.

Pianse fino a ridursi a una massa tremante e accettò l’acqua che gli venne offerta, guardingo, tentando di berne avidamente e mugolando il suo dissenso quando la donna gli allontanò la fiasca dalle labbra. “Devi bere adagio…”

Se avesse potuto, si sarebbe scolato un lago intero. Ma si limitò a godersi quella sensazione fresca e liquida sulla sua pelle, che gli scorreva in gola e si faceva strada nel suo corpo, colando fin nello stomaco e creando una piacevole pozza di refrigerio.

Le voci intorno a lui si erano fatte sempre più ovattate e non vedeva l’ora di lasciarsi andare. Li avrebbe ringraziati più tardi. Ora voleva dormire.

Il terreno non gli era mai sembrato così morbido.


Note dell'autrice:

Ad essere sincera, non sono sicura di sapere bene come impostare una storia a più capitoli perché sono molto più abituata a scrivere storie brevi, e immagino che si veda...! Prometto che farò del mio meglio.

E proprio perché è la mia prima storia a più capitoli, ve ne prego, qualunque tipo di critica costruttiva è ben accetta. Sia su cosa vi sia piaciuto che, soprattutto, sui punti da migliorare o sul perché non vi abbia emozionato.

  
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