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Autore: Itsamess    02/03/2020    0 recensioni
In seguito ad un grave incidente astromobilistico, il cuore del piccolo Will Herondale smette di battere. Incapace di darsi per vinto, il visionario Dottor Mortmain sostituisce l'organo con un congegno meccanico, riportando il ragazzo alla vita e adottandolo come suo.
Con alcune regole, tre soltanto: non toccare le lancette, non provare emozioni forti e non provare, per nessun motivo, ad innamorarti.
[Heronstairs]
Genere: Introspettivo, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James Carstairs, William Herondale
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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CLOCKWORK HEART
 


Nel 2487 i progressi della medicina avevano permesso di sconfiggere la maggior parte delle malattie prima incurabili, ma sfortunatamente gli incidenti astromobilistici erano rimasti fatali. In parte perché le macchine, con il passare del tempo, si erano fatte sempre più grosse e veloci, oltre che in grado di levitare a mezz'aria; in parte perché le persone erano rimaste le stesse.
 
Questa storia inizia con uno schianto, tanto tremendo e improvviso da assomigliare al primo tuono di un acquazzone estivo.
Will era seduto sul sedile posteriore in mezzo alle proprie sorelle quando venne sbalzato in avanti con una violenza tale da infrangere il parabrezza in una pioggia di schegge di cristallo. Dopo un volo di una decina di metri, rotolò rovinosamente sull’asfalto due, tre, quattro volte, prima di fermarsi. I soccorritori lo trovarono riverso in una posizione innaturale, la gamba sinistra che formava un angolo retto e il braccio piegato sotto al busto. Sembrava una marionetta a cui sono stati tagliati i fili. Il resto della famiglia se l'era fortunatamente cavata con tagli di poco conto e qualche costola rotta, ma le condizioni di Will erano ben peggiori: fu trasportato d'urgenza nell'ospedale più vicino, ma fu tutto inutile.
 
Nonostante gli sforzi dei medici, che si avvicendarono a lungo sul suo corpicino esanime con bisturi e garze e lacci emostatici, le funzioni vitali del ragazzo iniziarono ad azzerarsi, una dopo l'altra: l'attività cerebrale si ridusse al minimo, i polmoni smisero di funzionare e il cuore, dopo essersi contratto debolmente un'ultima, testarda, volta, cessò di battere. 
 
«No!» ringhiò il dottor Mortmain, soffocando a fatica un'imprecazione rabbiosa. Il monitor alle sue spalle continuava ad indicare che non c'era più battito, tracciando una lunga linea dritta, tuttavia le mani dell’uomo continuavano comunque a premere sul petto del ragazzino nella strenua speranza che il massaggio cardiaco potesse ancora servire a qualcosa.
 
«Dottore…» l'infermiera al suo fianco gli sfiorò appena una spalla. «Dottore, si fermi, è morto…»
 
«No,» ripeté Mortmain «No io… credevo che lo avrei salvato.»
 
 
«Viste le condizioni in cui è arrivato abbiamo fatto tutto il possibile, ma siamo intervenuti troppo tardi…»
 
Mortmain non rispose, eppure iniziò a diradare le pressioni sul petto di Will, come arrendendosi lentamente all'idea della sconfitta. Spostò lo sguardo velato di lacrime di rabbia sul volto del ragazzino: solo in quell'istante si rendeva davvero conto di quanto fosse bello. Fino ad allora lo aveva considerato solo come un corpo da aggiustare, come uno degli androidi che amava costruire nel tempo libero, eppure c'era qualcosa nella linea della mascella o nella simmetria dei lineamenti che lo rendeva un esemplare particolarmente promettente. Non doveva avere più di dodici anni, eppure era giá ben sviluppato. Alto e longilineo, ma comunque atletico. Attraente, ma senza essere banale. Era un peccato che un corpo come il suo andasse sprecato, davvero un peccato.
 
«Dottore, mi serve la sua autorizzazione per dichiararla.»
 
Mortmain tornò bruscamente alla realtà e domandò in tono distratto. «Dichiarare che cosa?»
 
L'infermiera sembrò sorpresa della domanda.
Arrossí. «L'ora del decesso.»
 
Fu in quel momento che Mortmain alzò lo sguardo sul grande orologio che era appeso alla parete della sala operatoria: era un pezzo d'antiquariato risalente al XX secolo, dalle lancette massicce e gli ingranaggi solidi, di quelli che non si facevano più. Ingranaggi dentellati, vecchio stile, tutto l'opposto degli olo-orologi appena lanciati sul mercato. Quello era un orologio di pregio, destinato a resistere all'usura degli anni grazie alla maestria di chi lo aveva costruito. 
D'improvviso, un’idea si fece strada nella mente di Mortmain: se lui non era riuscito a salvare il ragazzo in tempo, forse sarebbe stato il Tempo a salvare il ragazzo.
 
Alle undici e cinquantaquattro il cuore di Will Herondale aveva smesso di battere. Allo scoccare della mezzanotte, ripartì. Ma il suo non era un battito, bensì un ticchettio.
 
---
 
«…e fu così che mi ritrovai con un orologio nel cuore!» concluse trionfalmente Will, mentre un coro di esclamazioni stupefatte accompagnava le sue parole. I suoi commensali - per lo più colleghi di suo padre, uniti ad oscure figure che Will non teneva particolarmente a conoscere - avevano seguito il suo racconto con grande partecipazione. Avevano ascoltato tutti in un religioso silenzio - qualcuno perfino commuovendosi nei passaggi più drammatici - eppure ora che la storia era giunta alla conclusione nessuno di loro sapeva se fosse più consono applaudire o sorridere o mostrarsi dispiaciuti. 
Fu Will a toglierli d'impiccio, abbandonandosi ad una risata spensierata a cui si unirono ben presto tutti gli ospiti.
 
Non era la prima volta che raccontava quella storia, anzi.
Will amava ripeterla nelle più svariate occasioni, ad ogni sconosciuto che fosse disposto ad ascoltarlo, in modo da perfezionare il proprio racconto perché la risata finale sembrasse più spensierata e sincera possibile. La verità era che si sentiva morire dentro ogni volta che finiva di raccontare e ogni volta invece sorrideva e proponeva un brindisi.
 
 «A mio padre,» annunciò levando il calice di champagne «l'uomo grazie al quale l’ora del mio decesso è stata anche quella in cui sono tornato in vita.»
Mortmain gli sorrise dall'altro capo del tavolo, fingendo di arrossire di modestia. Con un tintinnio di cristallo tutti gli ospiti sollevarono il proprio bicchiere per brindare alla sua salute, già dimentichi del ragazzo dal cuore meccanico per cui si erano quasi commossi qualche istante prima.
 
---
 
L'indistinto vociare della festa continuava ad echeggiare dietro alla porta dello studio di Mortmain come un sottofondo distante, intervallato soltanto dal rumore dei lunghi passi dell'uomo, avanti e indietro.
 
Will aveva imparato a riconoscere le emozioni altrui con la stessa curiosità con cui si studiano i moti dei pianeti o le usanze di popoli stranieri, perché non potendole sperimentare su se stesso aveva occasione di notarle solo nel comportamento delle altre persone. Aveva capito che un silenzio particolarmente lungo, unito ad un'espressione accigliata e ad un'incapacità di restare fermo in un posto, indicava rabbia.
E Mortmain doveva essere furioso.
 
«Ti ho già chiesto di non chiamarmi padre in pubblico. Sai che non lo sono.»
 
Will abbassò la testa e strinse i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi. Il dolore fisico fece il suo dovere, distraendolo e calmandolo.
«Lo so.»
 
«Spero di non dovertelo ricordare di nuovo.» continuò l'uomo, prima di sollevargli il mento per poterlo guardare in faccia e assicurarsi che avesse capito, una buona volta.
 
«Non accadrà più, signore» si scusò Will, mentre sentiva gli occhi riempirglisi di lacrime. Non poteva permettersi di piangere, non in presenza di Mortmain, almeno. Lo avrebbe visto come l'ennesimo segno di debolezza e per quella sera lo aveva già deluso abbastanza. Ricordava che da bambino suo padre gli aveva raccontato che se avesse pianto si sarebbe bagnato l'orologio che aveva incastonato nel petto, gli ingranaggi si sarebbero arrugginiti e lui sarebbe morto. 
 
Con il passare del tempo aveva capito che era solo una storia inventata per ricordargli di rispettare le prime due regole, Non toccare le lancette e Non provare emozioni forti, ma ormai pensava di aveva perso l'istinto di piangere, un po' come chi non parla una lingua per lungo tempo ne dimentica la sintassi. Si stupì di sentirsi così vulnerabile emotivamente, ancora dopo anni. Distogliendo lo sguardo dal padre, ingoiò il groppo amaro che aveva in gola, sperando con tutto se stesso che Mortmain non ci avesse prestato attenzione.
 
Ma non fu così: l'uomo doveva aver intravisto il luccichio nei suoi occhi, perché si accigliò ed assunse l'espressione sorpresa e delusa di chi scopre un difetto in qualcosa che credeva impeccabile. Si ritrasse da lui con tangibile disprezzo e frugò nella tasca della giacca. Ne estrasse un astuccio portapillole in acciaio.
 
«Inibitori sinaptici» gli spiegò porgendogli una pasticca bianca. «Speravo non ne avessi più bisogno, ormai.»
Gliela posò sul palmo, ancora rosso dei segni lasciati dalle unghie.
 
Will si domandò quante altre volte ne avesse ingerita una senza saperlo, spezzettata in mezzo ad un minestrone o disciolta in una camomilla, e provò un moto di gratitudine verso l'uomo che così tante volte, a sua insaputa, lo aveva salvato da se stesso. Le emozioni per lui potevano essere più fatali di una malattia, perché lo coglievano di sorpresa accelerandogli di colpo il ritmo cardiaco. Mortmain lo aveva avvertito di quanto il suo cuore fosse fragile. Non tanto dal punto di vista materiale, perché fino a quando prestava attenzione a non rovinare le lancette con colpi troppo forti o schizzi d'acqua non c'era pericolo. Il vero rischio era che si rompesse dall'interno, incapace di sopportare la pressione di un numero di battiti superiore al normale. Rabbia, stress, eccitazione… erano sentimenti troppo intensi, il suo ingranaggio non avrebbe mai retto. Era questa la ragione per cui Will, quando sentiva di essere troppo coinvolto da una discussione o da una persona, aveva imparato a contare lentamente fino a quindici e a concentrarsi sul proprio respiro per stabilizzare di nuovo il ritmo cardiaco. 
 
Intanto Mortmain si era avvicinato alla porta dello studio ed aveva controllato che fosse chiusa a chiave. Si trattava di qualcosa di grave, allora. 
 
«Ormai hai diciassette anni, Will.»
 
«Sí, signore.»
 
«A quanto mi hanno riferito, il tuo addestramento procede bene. Impari in fretta.»
 
Will annuì semplicemente, mentre i flash si rincorrevano veloci davanti ai suoi occhi: ricordi di pomeriggi passati a combattere contro creature meccaniche, clangori metallici e ferite senza sangue in corpi di latta. Era stata una scelta di Mortmain quella di farlo allenare con gli androidi di sua invenzione, perché lui potesse migliorare la propria tecnica di combattimento senza fare del male a nessuno.
 
«Pensi di essere pronto per una missione sul campo?»
 
Istintivamente, la mano di Will corse al pugnale che teneva sempre alla cintura. 
«Lo sono.»
 
Mortmain sembrò piacevolmente impressionato dalla prontezza della sua reazione, ma scosse la testa.
«Oh, no. Non ti serviranno le armi. Non è quel tipo di missione. Si tratta dell'Istituto di Londra…»
 
Il ragazzo gli rivolse uno sguardo attento, cercando di richiamare alla memoria tutte le informazioni che conosceva a riguardo. Non erano molte, perchè Mortmain badava a centellinare notizie sui propri piani solo quando era strettamente necessario. Tutto ció di cui Will era certo era che l'Istituto fosse una fortezza. Non tanto per le tecnologie di cui si dotava – che non erano superiori a quelle utilizzati dalle banche, o dai grossi uffici del centro – quanto più per la straordinaria coesione dei suoi membri: non vi poteva accedere nessuno senza un invito ufficiale da parte degli Shadowhunters a capo dell'Istituto e nonostante nelle vene di Will scorresse del sangue angelico, questo non significava affatto che l'accesso gli fosse garantito.
«Cosa volete che faccia?»
 
«Infiltrartici dentro. Scoprire i suoi punti deboli, le abitudini dei suoi abitanti, il numero di armi che hanno a disposizione e quello di alleati pronti a tradirli, se adeguatamente pagati... Ho bisogno che tu sia i miei occhi e le mie orecchie. L'accesso a me è proibito, per questo ho bisogno che tu sia la mia spia personale, nascosta in bella vista.»
 
«Ma, signore… se l'Istituto è ben protetto come dicono, perché mai dovrebbero correre il rischio di lasciar entrare un estraneo?»
 
L'uomo sorrise obliquamente. «Conosco Charlotte Branwell. Ha un debole per i randagi. Accoglie ogni caso disperato che bussi alla sua porta. Con te non farà eccezione.»
 
Will non era certo di aver capito.
«Quindi dovrò sembrare… disperato?»
 
Qualcosa cambiò nell'espressione di Mortmain. Le labbra gli si incurvarono in un sorriso che Will avrebbe riconosciuto come di compassione, se solo avesse saputo cos'era.
«Oh ragazzo, lo sei già a sufficienza.»
 
Will non si aspettava nessun abbraccio, né carezza, né familiare pacca sulla spalla, che infatti non gli furono concesse. Mortmain si allontanò silenziosamente, voltandogli le spalle per tornare alla festa. La porta si richiuse dietro di lui con un tonfo e Will rimase immerso nel buio.
 
---
 
La storia che avrebbe dovuto raccontare per farsi accogliere nell'Istituto gli era stata cucita addosso come uno dei completi fatti su misura che era costretto ad indossare alle cene galanti di suo padre, con la differenza che se Will non si era mai abituato alla sensazione di indossare uno smoking inamidato, non gli dava quasi più fastidio quella di mentire. 
Mortmain aveva dovuto pensare ad una vicenda tragica, ma non inverosimile, qualcosa capace di smuovere il cuore di Charlotte senza però suscitare sospetti. 
Un problema non da poco era giustificare la mancanza di Rune sul corpo di Will: in lui scorreva il sangue di Raziel, ma essendo stato cresciuto lontano dalla comunità Shadowhunter non aveva ricevuto i Marchi, né aveva trovato il proprio parabatai. Non era un Cacciatore, perché non ne aveva l'aspetto; non era umano, perché nel petto gli batteva un cuore meccanico; non era un androide, perché provava emozioni. Lievi come brezze, grazie all'Angelo, ma comunque in grado di ucciderlo se non le avesse tenute sotto controllo.
 
Bussò nuovamente alla porta dell'edificio con addosso la spiacevole sensazione che si stesse rendendo ridicolo, perché dall'esterno quella sembrava solo una vecchia chiesa abbandonata. Possibile che avesse sbagliato strada o che le informazioni raccolte dagli scagnozzi di suo padre non fossero del tutto corrette? A quanto sapeva, era probabile che l'Istituto fosse avvolto da un incantesimo di protezione che ne cambiava aspetto all'Istituto, eppure era lì fuori da una decina di minuti e ancora non si era palesato nessuno.
 
Forse aveva sbagliato indirizzo. Possibile che avesse commesso un errore così stupido? Continuando a bussare, anche se con meno vigore di prima, Will cercò di considerare quali alternative gli fossero rimaste. Tornare indietro era fuori discussione. Quella era la prima vera missione che suo padre gli affidava, non poteva deluderlo così… ma del resto cos'altro poteva fare? 
 
D'improvviso, con la coda dell'occhio, notò una luce accesa in quella che nell'illusione sembrava essere una cappella ma che ora che ci prestava maggior attenzione – o meglio, ora che la Vista stava facendo il suo dovere - iniziava ad assomigliare dell'ala est di un edificio piuttosto recente. 
C'era qualcuno di sveglio allora. 
Raccolse un sassolino da terra e lo scagliò con tutta la propria forza contro la finestra.
 
Tic
 
Tirò un altro sassolino, anche solo per dimostrare a se stesso che non si era trattato di fortuna e che aveva davvero una mira strepitosa, ma il ragazzo che venne ad affacciarsi non sembrò particolarmente impressionato dal suo talento, almeno a giudicare dalla sua espressione confusa e divertita.
«Hai intenzioni ostili?»
 
Il cuore di Will iniziò a battere in modo dolorosamente forte. Come faceva a saperlo? Come inizio della missione non era esattamente incoraggiante.
«No. Perché me lo chiedi?» rispose nervosamente
 
«Lo chiedo a tutti quelli che cercano di distruggere l'Istituto a sassate!» spiegò lui ridendo. 
 
Will pensò che avesse una bella risata. Sincera ma gentile, come se ci tenesse a far capire che non stava ridendo di lui, ma insieme a lui. I suoi capelli sembravano quasi argentei alla luce della luna.
«Chi sei?» domandò il ragazzo alla finestra
 
«Will Mortm-» Will si morse con forza il labbro inferiore per impedirsi di proseguire. Ricordò le parole di Mortmain. Ti ho già chiesto di non chiamarmi padre in pubblico. Sai che non lo sono. «Herondale. Will Herondale.»
Era da tanto che non usava il vecchio cognome. Suonò familiare sulle sue labbra come il ritornello di una canzone quasi dimenticata. 
«Devo parlare con Charlotte Branwell» aggiunse, anche perché il suo piano si fermava a quelle due informazioni.
 
«Charlotte sta dormendo… come tutto l’Istituto, del resto.» si scusò il ragazzo alla finestra. Sembrava sinceramente dispiaciuto. «Si tratta di una questione urgente? Non potresti tornare domattina?»
 
«Non so dove altro andare.» rispose Will, d'istinto, e per un attimo venne travolto dalla consapevolezza di          quanto fossero vere le sue parole: Mortmain non gli aveva lasciato alternativa. Non sarebbe potuto tornare a casa – anche perché a dirla tutta non era neanche certo di averla, una casa.
 
Il volto del ragazzo dai capelli di luna si distese in un sorriso semplicemente – e completamente – buono, nel rispondergli: «Aspettami. Sto scendendo.»
 
---
 
Inaspettatamente, il ragazzo mantenne la promessa.
Dopo appena un paio di minuti venne ad aprirgli, portando con sé un bicchiere d'acqua e una coperta. I tratti asiatici e i capelli decolorati e tinti di uno strano grigio metallizzato lo facevano apparire diverso da qualsiasi altro essere umano che Will avesse mai incontrato (non che ne avesse visti molti, dato che aveva passato la maggior parte dell'infanzia ad addestrarsi combattendo contro creature meccaniche). Il suo aspetto gli ricordava un po' quello degli elfi protagonisti dei libri di fiabe nordiche, o volendo anche il look di quelle star di pop coreano che erano state famose circa un secolo prima.
 
«Io sono James, James Carstairs» si presentò il ragazzo elfo «Ma puoi chiamarmi Jem, se vuoi.»
 
Mentre parlava, gli sistemò con cura la coperta sulle spalle e Will rimase per un attimo interdetto: perché quello sconosciuto voleva aiutarlo? L'Istituto non sarebbe durato a lungo se i suoi membri avessero continuato ad accogliere così ingenuamente i nemici dentro alle proprie mura… la gentilezza di Jem gli rendeva la missione davvero troppo, troppo semplice. Quasi sleale.
«Sei il custode dell’Istituto?»
 
Oh no! ridacchiò Jem, che in effetti era troppo giovane per ricoprire quel ruolo. «Semplicemente ero l’unica persona sveglia a quest’ora e ho pensato di scendere ad aprirti io, senza disturbare Thomas e Agatha.»
 
«Sono i tuoi genitori?»
 
Qualcosa nel modo in cui Jem scosse debolmente la testa fece capire a Will che fosse meglio non insistere, perché sapeva riconoscere le tracce del lutto quando le vedeva. Nonostante non fosse realmente orfano, a Will era stato raccontato che i suoi genitori non avevano voluto sapere più niente di lui da quando Mortmain gli aveva impiantato l’ingranaggio nel cuore, per cui era come se una famiglia, ormai, non l’avesse più neanche lui. Jem almeno poteva essere certo che i suoi genitori gli avessero voluto bene fino all'ultimo istante, mentre Will non possedeva neanche questo: iniziava a capire perché Mortmain lo avesse ritenuto abbastanza disperato da impietosire Charlotte Branwell.
La voce del ragazzo buono lo distolse dai suoi pensieri.
 
«E così hai la Vista,» stava commentando mentre gli faceva strada oltre l'atrio dell'edificio, pieno di schermi e supporti per olo-messaggi. «Come mai non porti nessun Marchio?»
 
«Sono stato adottato da una famiglia mondana» spiegò Will con il tono più disinvolto che riuscí a trovare, attento a ripetere tutto quello che gli era stato raccomandato di dire senza contraddirsi o farsi scoprire. «Mi hanno cresciuto lontano dalla comunità Shadowhunters, per cui non so molto delle vostre tradizioni e non possiedo nessuna runa. E nessun… parabatai. Si pronuncia cosí, giusto?»
 
«Giusto» rispose Jem con un sorriso mite. «Cosa è successo alla tua famiglia mondana?»
 
Will si bloccò, incapace di raccontare un'altra bugia. La verità gli salì alle labbra prima che potesse fermarla e onestamente si ritrovò a sussurrare: «Per loro è come se fossi morto.» E in effetti, per una manciata di minuti, prima che gli trapiantassero un orologio nel cuore, era stato cosí.
 
«Mi dispiace» replicò Jem, fermandosi per guardarlo negli occhi. Sembrava sincero.
 
Will scrollò le spalle.
«È passato tanto tempo.»
 
«Ci sono ferite che non si rimarginano mai, non importa quanto tempo passi.»
Se stava parlando di se stesso, Will non ebbe modo di capirlo, perché il ragazzo riprese a camminare senza ritornare sulla questione e l’altro scelse di non insistere. L’Istituto era un dedalo di stanze e corridoi, illuminati soltanto da un tenue bagliore azzurro che sembrava irradiarsi da piccole pietre dalla forma cubica, attaccate alle pareti o incastonate sui battenti delle porte. Will si guardava intorno con attenzione, cercando di memorizzare ogni dettaglio per poterlo riferire a Mortmain e tempestando Jem di domande.
 
«Ok, questa invece è l'Armeria» mormorò Jem passando accanto ad una porta sprangata da grosse barre di quello che sembrava acciaio.
 
«L'Istituto possiede molte armi?»
 
«Oh sí, e di ogni tipo. Lame angeliche, balestre, lance, bastoni per l'addestramento…»
 
«Solo armi bianche quindi?»
 
«Ci sono anche i congegni meccanici di Henry. Anche se non sempre funzionano.»
 
«E a che cosa servono? Nel senso, li usate per combattere o-»
 
«Quante domande!» rise Jem «Ti interessa davvero la cultura Shadowhunter!»
 
«Devi perdonare la mia inguaribile curiosità, è il mio peggior difetto.» rispose Will, sperando di sembrare convincente. Intanto, erano quasi arrivati nel cuore dell’edificio, nelle stanze personali dei Cacciatori che abitavano l’Istituto. «Siete tutti addestrati, qui? Contro cosa combattete, di solito?»
 
«Demoni, per lo più. Nascosti che infrangono gli Accordi e fanno del male ai mondani... e ultimamente anche creature meccaniche.»
 
«Creature meccaniche?»
 
«Androidi. Già lo so, è pazzesco. Sembra di essere in Black Mirror, ma in uno di quegli episodi brutti con i cani robot. Anche se onestamente è molto difficile ucciderli… le semplici lame angeliche non bastano.»
 
C’era una strana inflessione di disprezzo nella voce di Jem che mise Will a disagio: era evidente che considerasse le creature meccaniche come un nemico sleale, che non potesse essere battuto in un normale combattimento onesto e alla pari. Chissà cosa avrebbe pensato di lui, se avesse saputo dell’ingranaggio d’orologio che aveva nel cuore. Probabilmente lo avrebbe ucciso, eppure era difficile immaginare quel ragazzo buono dai capelli argentati che consapevolmente toglieva la vita ad un altro essere vivente. Le sue mani, bianche e delicate come rami sotto una coltre di neve, sembravano fatte più per suonare o scrivere poesie, che per premere un grilletto o impugnare una lama angelica.
 
«Dormirai nella mia stanza, stanotte…» stava intanto dicendo Jem «Domani mattina parleremo con Charlotte e le spiegheremo la situazione, ma sono certo che ti farà restare senza problemi. Ogni Cacciatore è il benvenuto sotto il nostro tetto. Potrai restare qui tutto il tempo che vorrai.»
 
Will si sforzò di esibire un sorriso riconoscente: se tutti i membri dell’Istituto erano tanto gentili ed ingenui quanto quel Jem, sarebbe stato un gioco da ragazzi spiare i piani di Charlotte Branwell.
 
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Le settimane passavano quiete, senza particolari avvenimenti degni di essere menzionati nei resoconti che Will faceva pervenire a Mortmain: l’Istituto non sembrava serbare al proprio interno alcuna arma segreta. Le tanto temibili invenzioni di Henry Branwell il più delle volte avevano la stessa utilità di un tostapane, se non fosse per il fatto che invece di abbrustolire i toast davano loro fuoco; Jessamine aveva un’aria perennemente ostile e insofferente e quanto era peggio non pareva trovare divertente il sarcasmo di Will, ma per il resto era innocua; Charlotte aveva un atteggiamento apparentemente inflessibile, ma si trattava solo di una facciata. E Jem-
 
Will non lo nominava mai nelle sue lettere a Mortmain. Non ce n’era motivo, dopotutto non costituiva un pericolo: cercava di non perdere nessun allenamento e di esercitarsi con costanza nell’uso delle armi, ma si stancava in fretta, e spesso saltava i pasti. A volte passava un’intera giornata senza che Will lo vedesse.
 
«Jem non si sente bene, stamattina» dichiarava laconicamente Charlotte, a colazione. C’era sempre un velo di lacrime nei suoi occhi, quindi non doveva trattarsi di una semplice indisposizione passeggera, ma di qualcosa di ben più grave.
 
Jem gli aveva accennato qualcosa, una volta. Will era seduto al suo capezzale, e cercava di distrarlo raccontandogli una storia buffa che si era appena inventato, ma si era dovuto interrompere quando Jem era stato colto da un violento accesso di tosse. Quando si era calmato, Will aveva notato una macchia di sangue sul suo labbro inferiore, come una pennellata vermiglia sulla tela bianca del volto dell’amico, e ci aveva passato sopra il pollice per cancellarla. La pelle di Jem scottava di febbre.
 
«Dovresti essere giù con gli altri. Ti sto facendo perdere la Vigilia di Natale» aveva sussurrato Jem.
 
«Nah, io lo odio il Natale. La neve è fredda e bagnata, Babbo Natale è un’invenzione del capitalismo e l’eggnog è la seconda bevanda peggiore al mondo dopo la Pepsi.» si era lamentato Will, ma l’amico non lo aveva sentito, ormai perso nei propri pensieri.
 
«Io non ho mai visto la neve.» aveva ammesso Jem «Sono arrivato a Londra 5 anni fa e ancora non ho mai visto la neve. Sai, i cambiamenti climatici o qualcosa di simile. A quanto mi ha raccontato Charlotte, il presidente DiCaprio ha cercato di cambiare le cose ma le sue riforme non sono bastate… un giorno però vorrei vederla, la neve.»
 
«E la vedrai.» aveva risposto Will. «Sono sicuro che la vedrai.»
 
Per fortuna la malattia di Jem – qualunque essa fosse – si manifestava ad ondate ed i due ragazzi avevano modo di passare quasi ogni istante delle proprie giornate insieme: in Armeria, nella Sala degli Addestramenti, chiusi in biblioteca a studiare gli aoristi irregolari del purgatico, in camera di uno o dell’altro a parlare di musica classica e di malattie veneree e dei tatuaggi avrebbero avuto voglia di farsi. Will si era fissato con l’idea di farsi disegnare un drago gallese sul fondoschiena, o meglio ancora sul basso ventre, ma Jem sospettava che lo dicesse solo per farlo ridere e la discussione finiva spesso a cuscinate.
 
Con il passare dei mesi, le lettere di Will a Mortmain si erano fatte sempre più rade, piene di omissioni e di piccole bugie. Non si era reso conto che sarebbe potuto essere così difficile: ogni singola parola che scriveva a Mortmain lo faceva sentire sporco e indegno e inumano, come uno di quegli androidi tanto disprezzati da Jem. Come poteva tradire la fiducia della famiglia che lo aveva accolto con così tanta ingenua semplicità, come se fosse stata la decisione più naturale e ovvia del mondo? Era stupido illudersi, ma stava iniziando a pensare che quei Cacciatori nutrissero dell’affetto per lui, che a loro interessasse davvero quello che aveva da dire, per quanto assurdo potesse essere. Una volta gli avevano chiesto che cosa preferisse mangiare quella sera e Will si era reso conto di non sapere cosa dire, perché nessuno glielo aveva mai domandato.
Il suo cuore meccanico aveva perso un battito e il ragazzo si era chiesto se quell’emozione che aveva appena provato era vergogna per essere davvero così disperato come pensava suo padre, o affetto nei confronti della sua nuova famiglia, o senso di colpa nella consapevolezza che quella nuova famiglia sarebbe stato costretto a tradirla.
 
In ogni caso, era stato spiacevole provare un sentimento tanto intenso e confuso. Ma del resto Mortmain lo aveva avvertito, no? Non provare emozioni forti. Sempre più spesso Will si ritrovava ad estrarre dalla tasca il portapillole argentato. Un tempo doveva aver contenuto una ventina di inibitori sinaptici, ma il loro numero era visibilmente diminuito. Presto avrebbe finito i calmanti e quando sarebbe successo… come avrebbe fatto a passare così tanto tempo con Jem, quando la sola vista dell’amico gli faceva battere il cuore sempre più dolorosamente veloce?
 
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Quella sera si trovava in camera di Jem, che ormai gli era diventata tanto familiare che avrebbe potuto descriverla ad occhi chiusi. La custodia del violino riposta sopra il cassettone, il tavolino ricoperto di spartiti in un angolo, il paravento istoriato che doveva risalire ai tempi in cui Jem abitava in Cina, il letto grande abbastanza perché potessero dormire uno al fianco dell’altro, quando Will diceva di avere troppo sonno per tornare nella sua stanza. Era una pessima scusa, davvero, perché le loro camere non erano poi così distanti e Sophie avrebbe fatto delle domande, al mattino successivo, e fra di loro c’era già una situazione abbastanza incasinata così, grazie tante – eppure Jem ci cascava tutte le volte e rispondeva nel suo solito tono di voce gentile: «Certo che puoi restare.» prima di aggiungere «ma giura di non rubarmi tutte le coperte.»
 
Ed era andata così anche quella notte. Quel maledetto gattaccio di Church si era acciambellato fra di loro nel bel mezzo del letto e Jem lo stava accarezzando distrattamente, senza parlare. Nel buio della stanza il suo profilo spigoloso, tutto angoli e ossa sporgenti, sembrava la sagoma frastagliata di una montagna. Will dovette fare appello a tutta la propria forza di volontà per non allungare una mano verso il suo viso e toccarlo. Onestamente, non sentiva di aver mai desiderato niente con così tanta violenza e disperazione in tutta la sua vita. Se suo padre avesse potuto vederlo in quel momento probabilmente gli avrebbe ficcato una manciata di inibitori sinaptici in gola. Qualsiasi cosa provasse per Jem, doveva farsela passare, e alla svelta.
 
«Lo senti anche tu?» domandò in quel momento Jem, puntellandosi sui gomiti per osservare meglio la stanza.
 
«Che cosa?»
 
«Questo ticchettio… Devo aver lasciato il metronomo acceso»
 
Cazzo.
Di tutti i momenti in cui poteva succedere, proprio quello?
«Jem… c’è una cosa che devo dirti. Ma promettimi che non darai fuori di matto»
 
«Cosa c’è?»
 
«Questo rumore, questo ticchettio, insomma. Non viene dal metronomo.» Lentamente, Will slacciò uno, due, tre bottoni della sua camicia, in modo da lasciarsi scoperto il petto. L’ingranaggio d’orologio si trovava poco sotto alla sua clavicola. «Si tratta del mio cuore.» èNon lo aveva mai fatto vedere a nessuno, in parte perché era fin troppo consapevole di quanto fosse fragile il meccanismo che regolava le lancette, in parte perché temeva che le persone lo avrebbero guardato diversamente se avessero scoperto questo lato di lui. Ma Jem… Jem meritava di sapere. Will sentiva di doverglielo. «Dì qualcosa, ti prego»
Si ricordava fin troppo bene della sera in cui aveva conosciuto Jem e del disprezzo che aveva avvertito nella sua voce quando avevano parlato delle creature meccaniche: Jem lo avrebbe considerato meno umano adesso che conosceva il suo segreto? Avrebbe tentato di attaccarlo? Avrebbe svegliato Charlotte ed Henry per avvisarli che avevano commesso un errore e che avevano lasciato entrare nell’Istituto un nemico, un mostro, uno scarto della sceneggiatura di una brutta serie sci-fi-
 
Ma, inaspettatamente, Jem sorrise.
«In realtà me avrei dovuto aspettarmelo»
 
Will si lasciò andare ad un sospiro, a metà fra il divertito e l’esasperato.
«Come avresti potuto immaginare una cosa del genere?! Ho delle lancette d’orologio fissate sopra il cuore. È piuttosto improbabile che ti sia capitato di incontrare qualcun altro nella mia situazione.»
 
L’amico si strinse nelle spalle.
«Era ovvio che il tuo cuore fosse un orologio… Sei arrivato nella mia vita al momento giusto, non un minuto in anticipo né uno in ritardo. All'inizio pensavo fosse destino, ma immagino che nel tuo caso sia più giusto parlare di tempismo.»
 
«Jem-»
 
«Mi sto innamorando di te, Will. Sarebbe ingiusto continuare a tenertelo nascosto.» gli rivelò Jem, abbassando lo sguardo. «Meriti di saperlo. Anche se non deve cambiare nulla, fra di noi, se non provi lo stesso per me»
 
«Io- non posso, non posso e basta»
 
«In che senso, non puoi? È perché sono un ragazzo? O c’è qualcun altro nella tua vita?»
 
«Non c’è nessun altro. Ci sei solo tu» sussurrò Will, più a se stesso che a Jem. Solo in quel momento, mentre pronunciava quelle stesse parole, si rendeva conto di quanto fossero vere. Ogni volta che era distante da Jem si sentiva come se qualcuno gli stesse tenendo la testa sott’acqua: tutto sembrava attutito e lontano e privo di importanza e Will si sentiva soffocare. La sola vista di Jem era una boccata d’aria. «Ci sei solo tu e vorrei poter stare con te, ma non posso. Non con questo maledetto cuore che ho nel petto.
È un ingranaggio delicato, delle emozioni troppo intense potrebbero romperlo»
 
«Ed è per questo che giri sempre con quel portapillole? Ho visto le medicine che sei costretto a prendere, non devi vergognartene... sai che ho una dipendenza anche io» aggiunse qualche istante dopo, perché Jem era così, tanto buono da essere pronto ad indossare le proprie debolezze come un fiore all’occhiello se serviva a far stare meglio qualcun altro.
 
Will ripensò alla polvere bianca che Jem era costretto a tenere sul comodino accanto al letto, alle lacrime che aveva visto scorrere sul viso di Jessamine quando davanti ad una casa di bambola lei gli aveva raccontato della morte dei suoi genitori, allo scorbutico gatto grigio che era stato portato all’Istituto e adottato dalla famiglia di Cacciatori. E pensò al ridicolo ingranaggio steampunk che era incastonato nel suo petto. Gli sembrava quasi di sentire la voce di suo padre che gli diceva: Conosco Charlotte Branwell. Ha un debole per i randagi. Accoglie ogni caso disperato che bussi alla sua porta.
 
«Le pillole che prendo sono degli inibitori sinaptici, li ha creati mio padre. Voglio dire, il dottor Mortmain. Mi servono per mantenere il controllo sulle mie emozioni. Per evitare di lasciarmi coinvolgere troppo e affaticare il mio… cuore meccanico. Mortmain mi ha salvato la vita, ma mi ha anche dato tre regole: non toccare le lancette, non provare emozioni forti e non provare, per nessun motivo, ad innamorarti. Ed è per questo che non posso stare con te, Jem»
 
Jem gli rivolse un sorriso triste.
«Allora vai.»
 
«Cosa? Perché?»
 
«Perché io so fin troppo bene cosa si prova a camminare sempre sul confine fra la vita e la morte, senza sapere da che parte cadrai quando perderai l'equilibrio. E non voglio essere io la causa di quella caduta. Farti del male è l'ultima cosa che desidero, Will. Tengo troppo a te per mettere a repentaglio la tua vita per un desiderio egoistico. Quindi, ti prego, vattene. Io me la farò passare.»
 
---
 
 
Jem mantenne la promessa, evitandolo a colazione e al resto dei pasti, allenandosi da solo, chiudendosi a chiave nella sua stanza a suonare. E forse era davvero la cosa migliore, per entrambi. Will aveva finito gli inibitori sinaptici, per cui doveva tenersi alla larga da qualsiasi emozione intensa, eppure non riusciva ad immaginare un futuro nel quale il pensiero di Jem gli sarebbe mai stato indifferente. L’unica soluzione era di lasciare l’Istituto, nella speranza che quello stupido detto che recitava “lontano dagli occhi, lontano dal cuore” fosse veritiero.
 
Sarebbe partito la mattina seguente, senza dire nulla a nessuno. Allontanarsi la mattina di Natale sarebbe stato alquanto melodrammatico da parte sua, pensò con un mezzo sorriso triste, ma non poteva restare un minuto di più. Era passato un anno e mezzo da quando era venuto a bussare alle porte dell’Istituto e da allora non aveva fatto altro che tradire la fiducia di chi credeva in lui: aveva deluso Mortmain, perché non era riuscito a portare a termine la sua missione segreta; aveva deluso Charlotte ed Henry, spiandoli sotto il loro stesso tetto; e aveva deluso Jem, perché non era stato in grado di ricambiare i suoi sentimenti come avrebbe voluto.
 
Quando si svegliò era da poco passata l’alba e sull’Istituto incombeva una quiete assonata e serena. Will si alzò dal letto con un sospiro e andò a tirare le tende.
 
Quello che vide fuori dalla finestra lo lasciò senza parole.
Si precipitò fuori dalla stanza e corse a perdifiato per il corridoio che lo separava dalla camera di Jem. Non bussò neanche alla porta – dopotutto non lo aveva mai fatto, non avrebbe certo cominciato in quel momento.
 
«Jem, Jem! Svegliati, dai!»
 
 
«Will… Will, sei tu?» mormorò il compagno con voce assonnata, tirandosi il lenzuolo fin sopra la testa «Che c'è?»
 
«Guarda… fuori dalla finestra!» esclamò Will, fuori di sé dall’eccitazione. Aveva il fiatone per aver corso, ma non riusciva a smettere di sorridere «Deve aver nevicato tutta la notte!»
 
«Sono felice per la neve ma… tu stai bene? Pensavo non potessi affaticarti così.»
 
Lui lanciò un’occhiata alla propria immagine, riflessa nello specchio della toeletta. In effetti, sembrava parecchio fuori di sé, con i capelli tutti in disordine e il fiato mozzato e gli occhi lucidi di gioia.
«Lo pensavo anche io e invece… non mi ero mai sentito così bene. Non mi ero mai sentito così vivo
 
«Ma quello che mi hai detto sul fatto che avessi un cuore meccanico-»
 
Ma Will non lo stava più ascoltando. Stava ripensando a tutto quello che gli era stato raccontato sull’incidente, sulla decisione di Mortmain di unire ingranaggio al suo muscolo cardiaco, sugli inibitori sinaptici che gli regalava fin da bambino come se fossero caramelle.
 
…e fu così che mi ritrovai con un orologio nel cuore!
 
Mi servono per mantenere il controllo sulle mie emozioni. Per evitare di lasciarmi coinvolgere troppo e affaticare il mio… cuore meccanico.
 
Mortmain mi ha salvato la vita, ma mi anche dato tre regole: non toccare le lancette, non provare emozioni forti e non provare, per nessun motivo, ad innamorarti.
 
«E se non fosse mai stato vero?» mormorò, con un filo di voce.
 
«Cosa intendi?
 
«Tutto quanto… il fatto che i miei genitori non volessero più sapere niente di me, le storie che mi hanno raccontato sul mio cuore, su quanto fosse fragile… ma guardami! Sto bene, sto più che bene e posso correre e incazzarmi e amarti e continuare a vivere nonostante l’ingranaggio che ho nel cuore.»
 
«Non capisco… perché tuo padre avrebbe dovuto mentirti?»
 
«Non è mio padre» lo corresse Will meccanicamente. Si era tanto abituato a non pensare più a Mortmain in quel modo che le parole gli salirono alle labbra senza che se ne accorgesse.
 
«D'accordo» gli concesse l’amico «Perché Mortmain avrebbe dovuto mentirti?»
 
«Immagino che fosse il suo modo di realizzare la macchina perfetta. Dotata dell'intelligenza umana ma priva dell'instabilità dei sentimenti. Lo sentivo sempre ripetere quanto fosse fiero di me. Che idiota, pensavo che si riferisse al mio addestramento o alla mia educazione! … ora credo fosse soltanto orgoglioso del suo esperimento meglio riuscito». Will abbassò lo sguardo sul proprio petto. Gli sembrava quasi di vedere la lieve sagoma appuntita delle lancette sotto la stoffa della camicia. Un ragazzo dal cuore meccanico.»
 
«Sei molto più di questo. Non sei come i congegni meccanici con cui sei cresciuto e questo» disse Jem, mettendosi una mano sul petto, all’altezza del cuore «lo dimostra. Tu non sei una macchina, e – per l’Angelo – non sei un cane robot. Ma dico sul serio: sotto a quelle lancette c’è un cuore che batte.»
 
Will pensò che forse aveva ragione lui, e che quello stupido ingranaggio non diceva nulla di lui o delle sue emozioni o della sua natura umana, perché nessun uomo è una sineddoche: nessuna parte vale per il tutto e nessun difetto è in grado di definire integralmente ciò che si è. Ripensò alla droga di Jem, che era riuscita a fargli scolorire le iridi e i capelli e le guance, ma non aveva potuto nulla per smorzare l’intensità vibrante della sua anima. Erano entrambi macchine imperfette, meccanismi fallati in qualche punto. E non aveva alcuna importanza.
 
Sentiva il proprio cuore battere sempre, sempre più forte, un tamburo compresso dentro alla sua gabbia toracica. Jem si era avvicinato sempre di più. Il ticchettio dell’ingranaggio si era fatto tanto intenso da stordirlo, ma era come tentare di cambiare idea dopo essersi già tuffati.  Will aveva aspettato troppo a lungo ed ora voleva di più e quando le sue labbra si scontrarono con quelle dell’altro ragazzo si aspettò di sentire il proprio cuore spezzarsi, ma non successe nulla.
 
«Lasciati andare» sussurrò Jem «fidati di me» e così dicendo iniziò a sbottonare la camicia di Will.
 
«No… non toccare le lancette» ripeté Will meccanicamente, memore della prima regola che gli aveva insegnato Mortmain.
 
Jem lo ignoró. Chinò la testa sul petto dell’altro ragazzo e, come se si fosse trattato della cosa più naturale del mondo, baciò la lancetta più lunga. E Will si stupì nel non sentire assolutamente nulla perché quell’ingranaggio non era davvero parte del suo corpo e non lo sarebbe mai stato. Era umano, fatto di carte e ossa che il metallo non poteva intaccare. Era umano, ma soprattutto era innamorato – e se non era questo a renderlo umano, allora cosa?
 
 



 
 
A chiunque sia arrivato fin qui, il consueto grazie.
Questa storia – qualcuno forse l’avrà intuito – trae la propria ispirazione dal romanzo La Meccanica del Cuore, ma non posso dirvi di più perché in realtà non l’ho ancora letto, perché apparentemente mi piace riempire la casa di decine di libri che poi non ho mai il tempo di aprire. In ogni caso, kudos e diritti a Mathias Malzieu per aver avuto l’idea delle operazioni chirurgiche steampunk.
 
Seconda cosa: tecnicamente, questa storia fa parte di una raccolta di AU ambientate nel futuro, dal momento che mi sono innamorata dell’idea di Will e Jem che si reincontrano nelle loro vite successive. Per adesso ho finito solo questo racconto, quindi parlare di raccolta è improprio, ma per fortuna qui non c’è Will Herondale a correggere la mia scelta di vocaboli. Spero comunque che la storia possa esservi piaciuta (:
 
Domani non credo che riuscirò a sopravvivere all’uscita di Chain of Gold, so già che mi spezzerà il cuore. Ci si vede dall’altra parte.
 
Un abbraccio
 
Itsamess
  
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