Ho passato dodici minuti a fissare il tetto dell'infermeria, mentre mi medicavano.
Non ce l'ho fatta, non sono riuscito a sopportare le prese in giro, le costanti umiliazioni.
Ho cercato di farla finita, aprendo i miei polsi con il compasso, nei bagni.
Reb si è insospettito e mi ha tirato fuori dal bagno.
Mi ha tenuto la mano mentre riprendevo lucidità.
Splendido.
Ci chiameranno froci ancora di più.
É arrivata persino Robyn.
Ora dovrò cercare di tenere tutto nascosto ai miei, dio benedica la legge sulla privacy.
Ho un'ansia talmente forte da non riuscire a respirare.
Voglio chiudere questi dannati occhi.
Tornato a casa ho dovuto discutere di nuovo con i miei che ovviamente non hanno notato le garze ai polsi.
L'ennesimo, insormontabile, problema?
Il mio costante nervosismo, il mio essere monosillabico.
Perché giustamente hanno ragione loro no?
Sono io ad essere antipatico.
Sono io ad essere sbagliato.
Mi trattano benissimo, ho una vita splendida, non ho motivo di lamentarmi.
Ho ascoltato le loro cazzate senza battere ciglio, annuendo e basta.
Poi il discorso si è spostato, come al solito, al college.
E alla lettera che ho ricevuto.
Mi hanno accettato in Arizona.
Andrò via di casa.
Le urla sono rimbalzate fino al tetto.
Mia madre, come al solito, pensa sempre a ciò che è meglio per loro.
Non per me.
Non ho nemmeno pianto.
Sono rimasto in silenzio.
A guardare l'ennesimo tentativo di provare felicità andare in frantumi.
E nel calore del mio letto ho cercato, senza riuscire a trovarlo, un motivo, uno solo, per continuare a vivere.
Non esiste.
Tutto è grigio e opaco.
Tutto ha perso smalto.
E io ho cento anni nell'anima.
Prima o poi questo dolore sparirà, tornerò polvere.