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Autore: Sarane    03/04/2020    2 recensioni
"Ho pensato che, forse, riguardare il resoconto degli ultimi dieci anni della mia vita - le impressioni più oneste gettate su carta senza uno scopo, le riflessioni, le sciocchezze infantili - potrebbe aiutarmi a tirare le fila del mio essere momentaneo.
Riguardare ogni mio appunto per ritrovare un senso.
Magari, ritrovare anche un dialogo in queste sedute di nulla, dove mi smarrisco in intrecci di linee nere e mi disegno le mani, come i bambini, inseguendo pensieri che a voce non so esprimere."
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Ti sei mai trovato nel silenzio più completo? Quando è tanto forte e permeante che ti sembra quasi l’atmosfera prema sui timpani e li comprima. Mi è successo spesso, ma mai come in questi giorni mi è capitato d’immergermi in una tale assenza di suoni. Il rumore secco dei miei passi sembra piombo, il ticchettio nelle unghie del cane sui sampietrini, l’inquietante scorrazzare di un qualche animaletto astuto.
Quando mi fermo, sembra che il mondo si fermi. Forse adesso è fermo davvero.
So che non dovrei uscire di casa, non è questo il momento per farlo e se sei uno di quei moralisti che invitano al cecchinaggio istantaneo di chiunque metta un piede fuori dalla porta d’ingresso, ti chiedo scusa. Sarà in questo caso di conforto sapere che resto, di base, un animale notturno per cui, nelle ore della vita che vivo io, non posso imbattermi in alcun essere senziente.
Qualche pipistrello a volte, ma ultimamente anche loro tacciono e rimango solo io, alle due del mattino. Nonostante questi vagabondaggi notturni, non ho mai visto il cielo completamente nero, non in paese almeno. Non che ci sia questa grande fonte di illuminazione artificiale a Z********, eppure a quanto pare è sufficiente a rendere la notte opalescente. Vicino al cimitero c’è un grande campo con un solo albero, piantato per qualche arcano motivo nel mezzo. Dovrebbe essere distante e oscuro, eppure lo intravvedo, ne tratteggio con lo sguardo la sagoma ombrosa. Quando nevica poi, di notte tutto è bianco, anche il cielo, ed allora mi capita di andare a giocarci là sotto, ammetto che mi piace giocare con la neve da sola, al buio. Mi piace l’impressione di essere l’unico essere vivente al mondo. Quindi, forse, non lo intravvedo ora, è la mia memoria che ne ridisegna i confini, non che la questione abbia una qualche rilevanza. Solo che mi fa pensare a te.
Queste passeggiate lunghe e silenziose, accompagnate al massimo da musica leggera, non mi aiutano a tirare le fila del mio essere, ma mi danno da pensare. E dove si posa il mio pensiero è soprattutto il più grande motivo di riflessione. C’è un punto panoramico qui, probabilmente non lo sai, non lo indovineresti nemmeno, che possa esserci qualcosa di tanto poetico nel nulla di un paesino sotto le cave. Eppure c’è, ed è bello solo di notte, per cui credo siamo in pochi a conoscerlo. Di giorno è una banale panchina sul ciglio di una strada, sul curvone di una via che si fa poi sterrata, con davanti a sé null’altro che un cartello ingombrante. Di notte, puoi vedere le luci di T*******, di G******, forse anche E********, non saprei. Se avessi una maggiore conoscenza della zona probabilmente potrei arrivarci ma lo sai, io e la geografia non siamo mai andati particolarmente d’accordo e questo senso d’indefinitezza, ti dirò, mi piace. Mi piace non sapere fin dove si spinge il mio sguardo, pensare di arrivare più lontano del mio limite personale. A volte la conoscenza può essere essa stessa un limite, per cui mi rifiuto di imparare. Da questa panchina, guardando più in là, mi sono chiesta se quelle luci non fossero le stesse che, inconsciamente, potevi vedere tu.
Così mi sono resa conto di star pensando a te.
Normalmente queste ridicole riflessioni avvengono in romanzetti di poco conto, rese anche romantiche in qualche modo, discorsi tipo “guarderà il mio stesso cielo? Vedrà le mie stesse stelle?”.
Purtroppo, c’è molto meno romanticismo in me, e il cielo è senza stelle la maggior parte del tempo, ho sempre lo sguardo puntato verso l’alto e non ne vedo abbastanza, di stelle. Guardo le foto dell’Hubble allora, per ricordarmi quanto è bello tutto ciò che sta sopra la mia testa e che ho occhi troppo deboli per poter ammirare da me. Quindi, inciampare in te è meno poetico di quanto tutto questo non lasci intendere. Sei come una scheggia piccola nel pollice: non infici nulla del mio quotidiano, non mi accorgo che ci sei, ma il mio organismo cerca di espellerti come corpo estraneo e, non riuscendoci, la pelle ciclicamente si irrita, s’infiamma e finisce che con l’indice continuo ad andare a toccarla nella speranza che esca presto e non mi dia più problemi.
 
Scrivo a più riprese, giusto per informarti della probabile incoerenza del testo. Ho tutto il tempo del mondo, il tempo non ci manca, perciò ho deciso di prendermelo, di scavare a poco a poco in questa mia ascesa alla deficienza. Sì, non mi stimo molto per quello che sto facendo, lo ammetto, anzi, ci vedo una certa tristezza. Eppure, la tristezza fa parte della mia entità e devo rassegnarmi ad abbracciarla in ogni sua forma, suppongo. Che io sia terribilmente triste e desolante, non so se tu te ne sia mai reso conto. Ho sempre avuto l’impressione che tu non mi abbia mai visto per quella che sono davvero, mi hai dipinto con una luce positiva nella tua lettera, ormai quanto? Un anno? Due anni fa?
Ecco, il tempo è sempre il problema, scorre veramente veloce per me, procede per moltiplicazione ed io invece sono una più pacata addizione, siete almeno trenta passi avanti a me, nel migliore dei casi, ed io nel mentre sto ancora contemplando i lacci delle scarpe per decidere se il colore è di mio gradimento. Alzo lo sguardo e baam, siete già spariti dietro l’angolo e mi tocca partire alla rincorsa. Solo che sono lenta e pigra, non mi va di correre, perciò finisce che forse, un giorno, tra quarant’anni, mi aspetterete tutti al traguardo ed io arriverò un po’ acciaccata, ma di sicuro non ci si incontrerà più lungo la corsa, almeno che non decidiate di darvi ad una pausa ristoro.
In quel caso, volendo, ci si potrà imbattere per poco l’uno nell’altra.
Non mi dispiace essere lasciata indietro, è troppo complicato tenere il vostro passo, tuo come di chiunque, i miei ritmi sono pacati e incostanti. Ho scoperto di saper camminare pianissimo, anche questa è un’affermazione alquanto irrilevante nel quadro di quello che vorrei dirti, però è stata un’epifania, scoprire quanto lentamente possa muovermi. Riesco a fare passi veramente minuscoli, quando sono sola. E la cosa incredibile è che non mi stanca, non mi snerva, tutt’altro: metterci due ore per un percorso di venti minuti è tremendamente rilassante. Persino il mio battito cardiaco si riduce, lo ascolto, provo a contare il pulsare della vena sul collo ma arrivo a non percepirla più finché non rido. Questo mi ricorda quante volte ho letto “Se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana” senza afferrarne realmente il senso. Adesso, quando mi sento sopraffatta, faccio proprio questo, cammino piano piano e guardo le persone che mi circondano superarmi. Le osservo muoversi in fretta, un poco chine in avanti, saluto di sfuggita se riesco a riconoscere qualcuno, ma è raro. Sono una spettatrice molto distratta. Rallento il ritmo della mia vita fino alla brachicardia, soprattutto in luoghi affollati, dove il contrasto risulta tanto incredibile da incantarmi. Ultimamente per esempio, mi piaceva comprare un libro al centro commerciale e poi sedermi al bar all’ingresso, quello vicino al McDonalds. Ci ho buttato ore dei miei pomeriggi a contemplare quella porta, senza neanche provare a contare quante volte venisse aperta.
Tutto questo mi aiuta a ristabilire il mio precario equilibrio con l’universo, un equilibrio instabile appeso ad un filo di bava di ragno sempre sul punto di spezzarsi. E qui si ritorna all’universo e alle stelle. Strano, come sbatto incessante contro lo stesso vetro. Sarà per quella natura vagamente classicista che riverbera ancora in me. In una puntata di Big Bang Theory, quando Penny desidera comprendere la Fisica, per spiegarla Sheldon fa ripartire il discorso almeno una decina di volte e sempre dallo stesso momento: quello in cui, nell’antica Grecia, due filosofi ciabattanti alzano per la prima volta lo sguardo al cielo.
Non credo di avertelo mai detto, che mi piacciono le stelle. Forse te l’ho accennato, magari ti ho gettato là che mi sarei voluta comprare un telescopio, per poter vedere meglio il Triangolo Estivo a luglio, quando Altair e Vega e si riavvicinano e, per un solo giorno all’anno, lei può smettere di tessere albe e tramonti e attraversare il fiume d’argento per incontrare di nuovo il suo amato. Ma no, non credo di averti espresso nemmeno questo particolare desiderio. Così lo dirò ora, mi piacciono le stelle. Guardarle è come guardare al passato, non ti annienta sapere che ogni luce che vedi è lo spettro di tredici miliardi di anni di esistenza?
Guardare il cielo è guardare indietro nel tempo, per questo ho pensato a te, perché sono una nostalgica e ho questa tendenza a vivere nel passato, perfino in un passato che non ho conosciuto e riesco comunque a rimpiangere. Conosci la favola di Riccioli d’Oro?
Non sto delirando, ma non riesco a trovare un modo più lineare di spiegarmi se non questo. Ci sono ovviamente cinquantamila versioni di questa favola come di ogni altra, ma la base è pressappoco la stessa e piuttosto che ripiegare sulla povera vecchia impalata al campanile, preferisco la versione più docile e accessibile della bimba che finisce nella casa dei tre Orsi, Mamma papà e cucciolo. Se ricordi, prova le tre sedie, tutte e tre, e solo dopo sceglie quella giusta per lei. La stessa cosa con il latte, una tazza è troppo calda, l’altra è troppo fredda, ma la terza è quella giusta. La stessa condizione si manifesta nella scelta del letto, né troppo morbido né troppo duro.
Nell’astronomia esiste una zona chiamata Fascia di Goldilocks, o Riccioli d’Oro per l’appunto. Prende il nome dalla fiaba naturalmente, non è un caso che me ne sia uscita con questa storiella per bambini. Il telescopio Kepler, ormai dal 2009 ha avuto come missione questa: cercare i Pianeti Goldilocks, ovvero i pianeti situati in una fascia potenzialmente abitale. La fascia perfetta dove, per usare la fiaba, la sedia non è troppo alta o troppo bassa, il latte non è troppo caldo o troppo freddo e il letto non è troppo duro o troppo morbido. Dove le condizioni insomma, sono esattamente quelle che devono essere perché possa esserci vita.
Le relazioni umane sono come un pianeta Goldilocks, se ci pensi. Tutte le condizioni devono essere incredibilmente, perfettamente concomitanti, perché tutto funzioni. E infatti, in quasi dieci anni, Kepler ha scoperto solamente 2342 esopianeti potenzialmente abitabili. Una miseria, in tutta la Via Lattea, ma non potrebbe essere altrimenti, se le condizioni devono essere una simultaneità di coincidenze perfette.
In una vita, quanti incontri perfettamente perfetti abbiamo? Proprio quelli giusti, né troppo né troppo poco?
Analizzando la questione da questa prospettiva, capisco perché eravamo un fallimento a prescindere. Non solo i momenti non sono mai stati quelli giusti, quelli perfetti per come eravamo noi, ma le nostre stesse personalità non erano quelle semplicemente perfette per potersi comprendere. E se prima pensavo fosse colpa tua o colpa mia, ora capisco che, banalmente, non eravamo un Goldilocks, non potevamo scegliere. Ci siamo semplicemente ritrovati in un contesto che non poteva permettere la vita, siamo stati come la maggior parte dei pianeti della via lattea, sterili l’uno per l’altro.
Sembra un’altra realizzazione banale, per me non lo è, anzi, è stata fondamentale per accettare che avercela con te è futile, che la maggior parte delle colpe che ti ho imputato non sono reali, che sperare che un giorno le cose possano sistemarsi ancora è altrettanto stupido. Suppongo tu sia ampiamente oltre la faccenda, sei la lepre in questa storia ed io la tartaruga, mi muovo lentamente in spazi infiniti e, come nel paradosso di Zenone, per quanto veloce avanti a me ci sarà subito un altro infinito in cui incappare. Anche se infiniti più piccoli dei precedenti, sempre infiniti restano, spazi troppo immensi perché mi sia possibile assimilarli.  È tutto molto lento e insormontabile per me, si dice che il tempo permetta di scordare, ma se si vive fuori dal tempo la questione si fa più spinosa e problematica ed allora bisogna agire tempestivamente, recidere le radici di un Baobab che potrebbe, altrimenti, distruggere un intero, piccolo pianeta. Per questo sono qui a condividere riflessioni che sembrano insensate, perché devo fare la giardiniera di me stessa, come sempre, il tempo non lo farà per me.
 Non ho mai condiviso i miei ricordi con te. Non quelli che ti riguardano. In realtà sono una persona che parla tanto, tantissimo, riempie i vuoti momentanei ma, a conti fatti, non dice realmente nulla. Sterile come uno dei tanti pianeti nell’universo, niente di trascendentale.
Così, non ti ho mai detto che quel giorno a D****, quello della pompa di benzina, anche io lo ricordo bene, è uno dei momenti più belli che ho diviso con te. Per ragioni diverse, ma nell’insieme anche per quella ridicola disperazione di non avere idea di cosa stessi facendo. Mi ha sorpreso che per te fosse spassoso o assurdo, ahimè è praticamente lo spirito con cui mi approccio ad ogni cosa, difficilmente so che cosa sto facendo. Comunque, forse non ricordi che quella notte ci eravamo ritrovati a dormire in sala, su un materasso gettato a terra. Io avevo fatto i miei soliti capricci, mi è sempre piaciuto fare i capricci con te e non avrebbe potuto essere altrimenti in effetti, perché anche seccato o intestardito, alla fine mi hai assecondata ogni volta. Perciò ti eri rassegnato e mi avevi letto Geronimo Stilton, giusto qualche riga, rifiutavi di emettere i versi scritti, ma dopo molte insistenze avevi squittito. Ci ho riso per mesi, ti guardavo e pensavo a quando avevi squittito, pur di far cessare i miei assilli. Il giorno dopo, a seguito dell’imbarazzante momento in cui avevo aperto la porta di Selene e Nicola mentre si dedicavano ad attività decisamente più produttive, mi avevi impedito di dare un passaggio a chiunque, avevi preteso che scendessimo insieme, da soli. Eri turbato e non ne ho mai scoperto la ragione, sospettavo volessi parlarmi di qualcosa di cui alla fine non hai detto nulla. Però quella giornata l’abbiamo passata in macchina, per ore a chiacchierare, fino al pomeriggio.
Avevamo disegnato sulla condensa del parabrezza, vicino a casa tua.
Sei l’unico con cui abbia mai potuto parlare tanto anche di nulla, temevo sempre di stancarti o che non mi sopportassi, eppure restavi fino alla fine e, per motivi inspiegabili, mi davi retta.
Sei anche l’unico che è riuscito a vedere in me una persona migliore di quella che sono in realtà, mi hai idealizzato ed io ho sempre aspettato il crollo, l’attimo in cui avessi aperto gli occhi e avessi visto che essere umano terribile ci fosse, di fronte a te. Tragicamente incapace e inadatto, una bambina, perché questo sono sempre stata: una bambina.
Quel processo evolutivo basico, insito nella nostra natura, pare non essersi risvegliato in me. Guardo la mia scrivania ed è un disastro di pennarelli e raccolte di anni di accaparramento compulsivo, le mie mani hanno le unghie corte e sono sporche di grafite o colori, persino il mio aspetto trasandato è rimasto legato agli anni novanta della mia infanzia. Sono circondata di fiori alle pareti, di peluche e vinili. Perciò eccomi qui, esattamente come mi hai lasciata. Fa paura, vedere quanto io riesca a restare sempre uguale a me stessa, non dovremmo mai Essere, l’Essere non esiste, esiste solo il divenire. Guardando me stessa però, vedo uno statico Essere. Non so cambiare, credo di non sapere nemmeno come si cambia. Quando sei tornato, la mia paura più grande è stata questa, essere diversa eppure non esserlo abbastanza, essere ancora esattamente la stessa ragazzina che avevi conosciuto al liceo, sentimentalmente goffa e stitica, totalmente incapace d’impegnare se stessa in qualunque cosa avesse una scadenza oltre il giornaliero. Una paura lecita, la mia, credimi, perché io quella ragazzina lo sono ancora, non so diventare adulta, io vivo il momento e lo vivo pure male, so solo barcamenarmi nel quotidiano e non mi accorgo del tempo che scorre. Esiste un immenso buco nero che risucchia chiunque rientri nella mia sfera personale.
Inizialmente è un’esperienza affascinante, tutti vogliono vivere fuori dal tempo e provare l’ebrezza di estraniarsi da tutto, perciò risulto particolarmente interessante e in molti rimangono intrigati. È solo una facciata però, un momentaneo cedimento a qualcosa di diverso dal banale, un evento atipico in un panorama ormai imparato a memoria. Solo che bisogna avere porti franchi e sicuri a cui essere affrancati, per avventurarsi in sicurezza nel mondo dei Faerie, o si rischia di essere risucchiati dal mio Non-Essere. Starmi vicino, a lungo, si fa pesante, il vero vuoto puoi osservarlo solo se ti avvicini. Tu non lo hai mai fatto, c’è sempre stata una sottintesa distanza tra di noi, che sapevamo incontrarci solo nel mondo delle idee, quindi questo Nulla deve esserti sfuggito. Io so esattamente cosa sono, sono abbastanza rassegnata a me stessa e mi sono sempre accettata. La paura però che qualcun altro non possa accettarmi ammetto che non sono pronta a gestirla. Credo sia una sorta di odore, la solitudine che uno si porta addosso, quando è diversa gli altri la fiutano e respingono, è normale, istinto di conservazione. Sono oggettivamente scollata da tutto ciò che è fuori da me, questo lo sai senza bisogno di dirlo, lo hai visto negli anni come per gli altri è difficile rapportarsi a me. La paura però che tu non potessi accettarmi, quella era troppo soverchiante: da ragazzini era tutto molto affascinante, ma era legato ad un’ingenuità puerile. Si cerca sempre ciò che si scosta dalla media, si pensa di volere essere diversi quando si è innocenti. È solo nel tempo che emerge il desiderio morboso di rientrare perfettamente in un parametro, per non sentirsi separati dal resto. Per cui, un futuro di qualunque tipo, come può comprendere una persona statica come me?
Gli anni possono essere lunghissimi mentre li si vive e si cerca in qualche modo di farsi strada a tentoni verso un futuro ignoto, ma quando ci si ripensa, tempo dopo, sembrano volati. Vivere proiettati nel futuro induce una certa irrisolutezza, un costante vagare con lo sguardo; ma se non si pensa al futuro, si rischia di perdere facilmente di vista le occasioni importanti e le possibilità. Perciò ci si guarda intorno, si vaga costretti a fare una scelta improvvisata dopo l’altra. Non è così con lo sguardo retrospettivo. Non si vaga con lo sguardo, quando ci si guarda indietro. I ricordi si limitano a muoversi lungo la linea della vita così come è stata”.
 
Ecco, è proprio lì che sono posati i miei occhi, seguono la linea di ciò che è accaduto, inseguono la luce delle stelle fino al brodo primordiale, rimangono incantati davanti ai Pilastri della Creazione. Ho avuto paura di quanto tu mi avessi idealizzata, lo ammetto.
Mi avevi scritto che ti affezionavi alle mie sciocchezze, ci ho visto una certa Sindrome di Stoccolma in tutto questo, però non ti ho detto che anch’io ero affezionata alle tue insicurezze. Adoravo, per esempio, quando ti offendevi e fingevi di opporti, mettevi una sorta di broncio risentito che crollava poco dopo o, più raramente, giorni dopo, se sentivi la tua virilità offesa e volevi farti valere. Lo adoravo perché alla fine mi stavi dietro e allora sentivo che mi volevi un po’ di bene. Non ho mai afferrato del tutto certe tue reazioni, spesso mi smarrivo nei tuoi repentini cambi d’umore da mestruato in astinenza da dolci, ma ehi, eri spassoso anche se mi facevi arrabbiare, era più il tempo che trascorrevo a ridacchiare tra me e me che non quello passato a fingere di starti punendo.
Davvero, perché perdessi tempo ad assecondarmi non l’ho mai capito. Ti ricordi quella volta a Milano, quando eravamo stati braccati da un venditore ambulante? Non ricordo di che libro stessimo parlando, ricordo però che eri confuso dalla reazione della donna del racconto e mi avevi chiesto un’opinione, come se la mia chiave di lettura potesse avere un senso universale per ogni figura femminile. Mentre ne discutevamo, si era avvicinato questo adorabile negretto con i suoi libri di ricette e ci siamo messi a conversare del più e del meno: di dove fosse, il suo nome, la sua storia. Mi spiace di averla scordata, sai? Mi succede troppo spesso, di fermarmi ad ascoltare storie casuali ed è un peccato che poi più frequentemente di quanto vorrei, io le dimentichi. Alla fine, comunque, ti avevamo convinto a prendere due libri di ricette che non avresti potuto fare nemmeno volendo, visto che alcuni ingredienti erano effettivamente irreperibili.
Mi avevi fulminato, quando l’avevo spalleggiato per farti comprare anche il secondo. Però poi l’avevi preso le stesso. Mi avevi detto che me le avresti fatte assaggiare, ma ne abbiamo dette tante di cose e quasi nessuna era vera, quindi non starò qui a recriminare nulla. Ho sempre usato queste promesse culinarie come pretesto per costringerti a non sparire, ma erano nodi troppo deboli per poterti frenare ed io non sono mai stata brava a intrecciare corde più spesse per trattenere le persone che amo. È sempre stato più facile lasciarle andare al largo che provare a farle restare. Non ci ho mai nemmeno provato, a trattenerti sul serio, per me è più facile quando fate un passo indietro, mi sollevate dal peso di dover fare qualcosa di diverso da ciò che la mia natura esige per allietare qualcun altro.
Mi avevi scritto che ero io ad avvitare la lampadina, ma la verità è un’altra: hai fatto più sforzi di quanto non ti sia reso conto. Sei sempre tornato, hai sempre fatto il primo passo e non te ne sei mai accorto, io però l’ho visto, l’ho apprezzato. La goffaggine con cui verificavi quanto potessi essere furiosa con te mi ha sciolto nella tenerezza troppe volte, c’era qualcosa di adorabile, un po’ infantile. L’ansia che si prova verso un adulto quando si è piccoli, non verso un’amica. A rivedere con lo spettro del presente tutto il passato lo capisco, sono stata terribile. Mi hai detto che ti ho aiutato, ma se l’ho fatto nemmeno ne sono stata consapevole, non sono capace di dirigere i miei sforzi verso una causa.
Ci hai tenuto in piedi per anni e siamo crollati quando non hai più avuto il coraggio di farlo. Perciò, come vedi, sei stato tu a tenere quella lampadina accesa per tanto tempo, per entrambi. Il mio amor proprio non mi ha mai permesso di scendere a compromessi con il senso di mancanza.
Mi hai detto tante cose, alcune mi sono rimaste impresse più di altre.
Mi hai detto che ti distruggevo, ed io pensavo esagerassi, che fosse il tuo melodramma interiore da adolescente inquieto a enfatizzare ben altri malesseri. Forse però, ti facevo del male davvero. Una delle prime cose che mi hai detto è che essere mio amico era troppo difficile.
Era la fine della quinta ginnasio, ti era uscito così, in un messaggio, un commento casuale probabilmente, perché nei giorni seguenti ti ho portato rancore e tu non ne capivi il motivo, come se quella frase non avesse realmente peso. Per te, probabilmente, non ne aveva, ma per me è diventato un mantra con cui ho convissuto tutti gli anni a seguire. Suppongo sia quello che succede quando le cose le dicono persone che hanno un qualche valore.
È strano però, che abbiano inciso di più le cose negative che positive. Il tuo Te adolescente mi ha dato molto da riflettere, mi ha detto le cose più belle che mi siano mai state dette ed anche le più orribili, e da brava accaparratrice ho sempre messo tutto nel sacco e non ho perso nemmeno una sillaba nel tempo.
In realtà è facile capirne la ragione, avevi sottolineato l’ovvio, avevi solo detto a voce quello che andavo ripetendomi da quando ero bambina, ma l’orgoglio ne era uscito un po’ ammaccato, perché ci piace troppo negarci le cose che non vogliamo, anche quando sono troppo evidenti ed ingombranti per poter fingere non siano nella stanza. Eppure tu non avevi cognizione delle parole che avevi usato, eri perplesso, me lo avevi confidato al compleanno di Chiara, sullo scivolo del suo garage, che non avevi assolutamente idea del perché me la fossi presa tanto. Stavo aspettando che ti tirassi indietro e speravo non lo facessi, avevi riconfermato semplicemente un disagio già presente, non era stata colpa tua.
Lo avevi detto con leggerezza, ma quanto è stato vero?
Con altrettanta leggerezza, sulle scale dell’albergo mi avevi detto che ero più importante dei tuoi migliori amici, ed ero stata felice, che angoscia sapere che anche quella felicità era insensata.
Eppure ti volevo bene, non è assurdo che l’affetto non abbia mai senso?
Sono sensibile ai cambi di equilibrio, proprio per quella staticità reiterata di cui sopra, quindi basta un niente per spaventarmi, a volte mi rendo conto che sono lontanissima dall’essere umana, sono più simile ad un animale scostante, forse è la sindrome d’abbandono con cui potrei riempire un’enciclopedia e far impazzire Freud, il banale nodo della questione. Alla luce di questa ansia costante che tengo a bada con la brachicardia indotta, posso affermare che di colpe non ne hai avute nemmeno tante, sicuramente la metà di quelle che ti ho imputato per odiarti. Perché odiarti è fondamentale nel mio processo di giardinaggio, ma credo di aver deciso di potarti troppo tardi, nel mentre avevi già piantato radici e debellarti è difficile. Per diserbarti devo scavare più a fondo, odiarti in maniera superficiale e improvvisata non basta.
Anche perché non so odiarti, paradossalmente.
Eccoci qui perciò, risolviamo la questione, buttiamo un po’ di diserbante. Il mio diserbante sarà il non detto.
 
Fa abbastanza freddo anche stasera, dalla finestra di camera mia si vede il tramonto, te ne eri accorto? Da sempre mi sono seduta su questo davanzale, non so come riesca a starci ancora, sebbene il mio culo sia tipo raddoppiato rispetto a quando ero bambina. Prima ci ascoltavo i Nirvana, e mi sentivo eccezionalmente trasgressiva, anche se poi tra le mani stringevo un libro che rovinava l’immagine da dura indipendente costruita con tanta fatica. A volte mi sdraiavo, è capitato che mi addormentassi in precario equilibrio qua sopra, adesso non potrei più. Mi ammazzerei sicuramente.
Però chiudo gli occhi lo stesso ed ora mi concedo del deprimente slow core o Colin Hay (e quando Maggie vince su Ramble On, qualcosa non sta funzionando), e il calore del sole mi brucia la pelle, nonostante sia primavera e sia debole riesce a darmi fastidio. Mi concentro, immagino l’anima come un pezzo di carta, penso a come sarebbe se prendesse fuoco e il giorno bruciasse l’orlo della mia anima.
Il vento che soffia fra i rami, se chiudi gli occhi, fa lo stesso rumore della risacca marina. Mi sembra quasi di trovarmi a plage du ***, se uso l’immaginazione posso rivedere le luci della baia di ***** riflettersi sulla battigia lustra d’acqua salmastra. Perdonami se glisso sui nomi, la verità è che questo posto è il mio rifugio dal mondo, e lì che vado a nascondermi a volte, tra manciate di case di un paesino del nord della Francia sconosciuto ai più, perciò non lo condivido volentieri. Se un giorno dovessi sparire, so che quasi sicuramente è lì che vorrei ritirarmi e in quel caso solo Gaia potrebbe ritrovarmi. Questo mi consola molto, mi fa sentire più sicura.
Lì, oppure a Budapest, ad ammirare il Danubio dalla cittadella. Non sai cosa sia la vera bellezza se non hai visto Pest di notte, se non hai mai visto il Parlamento screziare le acque del fiume dal bastione dei Pescatori, se non ti sei mai seduto sulla struttura del quarto Ponte, a contare i traghetti che passano sotto di te, a sentire quel vento.
Ricordi che sono una nostalgica?
Un’incarnazione del Le Mal du pays di Liszt, quel pungolante dolore del ritorno, del nostos. Puntuale come la nota malinconica del suo pianoforte cerco di tornare in luoghi che, paradossalmente, non sono veramente casa, ma nella cui bellezza ho trovato una rassicurante certezza.
In questo momento lo sono particolarmente, è là che vorrei essere, che avevo previsto di essere da qui ad un mese. È un grande dispiacere sapere che starò lontana da Budapest ancora molti mesi, è passato più di un anno dall’ultima volta e mi sento un po’ smarrita.
Ci eravamo lasciati al non detto, giusto?
Ci ho riflettuto, per qualcuno che vive il tempo a ere geologiche e non ha la percezione del suo scorrere, il tempo non è la soluzione per abituarsi. Ciò che non dirò rimarrà con me, e se poi mi opprimerà in futuro, non potrò dirlo a nessun altro, non sarà mai liberatorio, perché sono parole destinate a qualcuno che non c’è più. Avrò perso l’occasione.
Per orgoglio mi è successo spesso in passato, e succede che accidentalmente io inciampi in sciocchezze arretrate e mi chieda, quasi per caso: ma se lo avessi detto? Se fossi stata diversa? Se avessi parlato, che male ci sarebbe stato?
Il male è che sono un animale ferito per gran parte della mia esistenza, per questo mi proteggo. Ci sono colpi che non saprei incassare, sono una vigliacca e una debole. In questo caso specifico però, parlo in retrospezione. Cosa intendo?
Beh, semplice: anche dopo anni, non ho mai ammesso nulla nella mia vita, neanche per errore. Ho pensato di farlo, di confessare certe verità quasi per caso, gettate lì, solo per il gusto di tirarle fuori, di dirle ad alta voce. Perché diavolo, non avevano più valore, quindi perché no?
Alla fine non ci sono mai riuscita, l’umiliazione credo. E anche altro, qualcosa di primordiale e personale, troppo personale per trovare le parole anche tra me e me, su un foglio. Non voglio dirlo, non ne ho la forza. Questo, questo lo terrò per me.
Ti basti sapere che anche così, non ho mai ammesso nulla, perciò questa è una novità a cui mi sto spronando, voglio fare quello che hai fatto tu. Voglio scoprire se ammettere ciò che non ho mai ammesso, che mi sono negata fino allo sfinimento, sarà il diserbante di cui ho bisogno. Certamente, eliminerà tutti i dubbi, anche quelli immeritevoli che non hanno ragione di esistere, perché nulla li ha mai realmente motivati se non una fantasia galoppante.
Ti presento S*****, Ale. Non quella che hai conosciuto, l’altra: quella che tengo nello sgabuzzino e non conosce nessuno. Quella che difendo con una cattiveria mordace e meschina: non potrei fare altrimenti, lei è una massa informe e inorganica di dolore e traumi irrisolti, non le permetto mai di entrare in contatto con il mondo, io sono il suo tramite. Gestisco la sua emotività, la regolo perché lei non sopporta le emozioni forti, non teme la solitudine ma non regge i rifiuti, il dolore la rende instabile. È a lei che mi dedico, è per prendermi cura di lei che perdo tempo e occasione di concentrarmi sugli altri.
Non è stata molto amata, le ho promesso che l’avrei amata io, più di qualunque cosa, sempre. Ogni mio sforzo è volto a proteggerla, a compensare fallimenti e carenze. Sembro pazza, ma non so spiegarti altrimenti che vivo di antitesi, sono una cosa e il suo opposto, è questo che rende difficile interagire con me.
Non posso spiegarti cosa ha significato crescere come sono cresciuta io, è troppo personale e complicato, posso solo dirti che ci sono cose difficili da perdonare e ancora più difficili da minimizzare, e sebbene io riesca a comprenderle ora, questo non mi ha salvata. Il tempo logora tutto e crescere è solo sentire la solitudine pesare addosso, crescere è una fame d’amore costante e insoddisfatta, è un digiuno d’affetto che consuma fino alle ossa. Basta il pensiero di una debolezza che mi ha fatto soffrire per rigettarmi nel baratro del malessere, perché la mancanza di amore avvelena lentamente. Nessuno è realmente senza amore, ovvio, ma saperlo serve a poco, bisogna sentirlo, tatuarselo addosso, o è del tutto inutile, essere amati e sentirsi amati sono due cose diverse.
Ed ecco perché la amo più di tutto, perché ho visto che le mancanze altrui l’avrebbero annientata e non sarebbe stato giusto, che fosse amabile o meno non era una sua colpa, semmai una condizione senza scelta.
Tutto questo perché, ti domanderai.
È abbastanza ovvio, puoi arrivarci, probabilmente già lo sai, ma voglio permetterle di dirlo: la S***** informe era innamorata di te. Altrettanto ovviamente, non le avrei mai permesso di spingersi tanto in là e di farsi tanto male, è per proteggerla che ho sentito il bisogno di starti lontano, è per lei che ho provato immenso sollievo quando Giulia è entrata nella tua vita.
Ho potuto fermarla così, mettere un punto a fantasticherie che non solo non erano possibili, ma anche lo fossero state non sarebbero state permesse, non da me. È per darle una lezione anche, che sto scrivendo. L’ho zittita molte volte, ma questa volta le radici sono più profonde appunto, perciò forse ha ragione lei, devo gettare questo enorme macigno nel lago per vederlo affondare lontano da me. Allontanarsi dal processo d’identificazione, per liberarmi di te devo liberarmi delle parti di te che mi sono rimaste attaccate addosso, devo tirartele dietro, diciamo così. Devo fare in modo che tu te le riprenda.
L’idea me l’hai data tu, scrivermi ti ha liberato, giusto?
Io non rimetto a te la scelta, contrariamente a ciò che avevi fatto tu, io conosco già la risposta, l’ho sempre saputa: non solo la tua, ma soprattutto la mia. Voglio solo ammettere la verità, per renderla reale e andare oltre. Ho bisogno di andare oltre al fatto che per te ho provato un affetto che non mi aveva mai smosso per nessuno. Perché sai, è così raro per me, che attaccarmici con la memoria è consequenziale, ma attaccarmi a questa reminiscenza allontanerà la possibilità che possa ricapitarmi in futuro, con qualcuno di più idoneo magari.
Tutti aspettiamo il nostro Riccioli d’oro, no?
Credo di aver detto tutto. Ah, giusto, un’ultima puntualizzazione. Non leggere nulla di ciò che ho fatto in passato in relazione all’esistenza di questo stato emotivo, sarebbe un’interpretazione distorta. La mia rabbia nei tuoi confronti non è mai stata da amante, solo da amica tradita. Questo affetto non ha interferito mai nel nostro legame, il fatto che provassi per te un sentimento non ha mai significato che io volessi donartelo, non ho mai pensato di cederti nulla che fosse mio. Paradossalmente, ne ero gelosa, mi sembrava già così tanto essere capace di provare qualcosa di simile, mi ci sono crogiolata, non avrei messo quella ritrovata capacità nelle mani di qualcun altro, sarebbe stata ingestibile, mi si sarebbe ritorta contro. Proprio come da bambini, era una cosa solo mia e con il senno di poi, avevo ragione a viverlo come un evento raro e incredibile, visto che non è più ricapitato.
Non so se veramente troverò il coraggio di spedire questa lettera. Però, se ci riuscissi, quanto sarebbe bello: già solo a vederla nero su bianco, questa piccola umiliazione, questa debolezza, mi fa sentire un po’ più forte, mi dà l’impressione di poter passare sopra a questo fallimento personale, l’essermi infatuata del mio migliore amico. Che schifo di cliché.
Se riuscirò a spedirla, se la riceverai, significa che sono diventata abbastanza forte da riuscire a sopportare di poter ammettere qualcosa che mi ha ferito. Allora, forse, potrò pensare di essere finalmente una potenza anch’io, solo un po’ più lenta degli altri a manifestarsi in atto, e mi sarebbe di grande conforto.
Mi aprirebbe delle possibilità.
Il più bel ricordo che ho con te non puoi conoscerlo, in quel momento dormivi. Stavamo tornando da Pompei, l’andata era stata un incubo, avevo condiviso il sedile con il grande Tommy che mi aveva compressa in un angolino. Al ritorno però ti eri voluto sedere accanto a me. In quel periodo eri fissato con Mayer, era il tuo modello di vita in pratica ed io neanche lo conoscevo. Fatto sta che, prima di addormentarti, avevi diviso le cuffie con me: la cartella comprendeva pochi brani e Free Fallin’ era andata a ripetizione per qualcosa come tre ore, mentre tu sbavavi, leggermente chinato in avanti con la bocca socchiusa.
Io sono rimasta sveglia quasi tutto il tempo, ma non l’ho cambiata, ho appoggiato la testa sulla tua spalla e l’ho ascoltata fino alla nausea. Non sono mai stata brava ad entrare in contatto con gli altri, non sono mai nemmeno riuscita ad abbracciarti spontaneamente almeno che tu non me lo chiedessi. Però i tuoi abbracci mi sono sempre piaciuti, e così ho approfittato di un te dormiente senza sentirmi in difetto. All’epoca poi ero completamente innocente nei tuoi riguardi, per questo Free Fallin’ rimane per me particolarmente commovente, mi ricorda un momento intonso e tenero.
 
Eccoci qui, sono stata meno evocativa, poetica – e “americana” aggiungerei – di quanto a tuo tempo non lo sia stato tu. Forse però, sono riuscita ad essere più distorta e contorta di te.
Probabilmente avrò meno effetto, sono troppo scarna e allucinata per riuscire a scavare la realtà con l’immagine e le parole, come fai tu. Sono più brava a restare sulla spiaggia, a contemplare la vita da lontano, non riesco a invischiarmi mani e braccia in questo calderone disastroso e appiccicoso che è il mondo, come ti ho visto fare.
La vita è un anelito potente, lo percepisco, ma per me è troppo. Troppe strade, troppe scelte, troppe complicazioni. Non sono mai riuscita ad imitarti, anche se debole ti ho visto provare, gettarti in quel volo folle e radente che è la vita. Forse, ti ho visto schiantarti, sicuramente accadrà ancora e ancora. Prima di concludere e salutarti definitivamente ci tenevo a dirti questo: ti ho invidiato.
Io soffro di vertigini, quel salto non lo farò mai, e per questo credo di doverti anche delle scuse: dall’alto della mia perfetta morare ti ho fatto sentire in difetto, in passato, ti ho giudicato. Non te ne fregherà granché a questo punto, ma voglio ammettere anche questo. I miei paletti sono rigidi come me, ho dei punti fermi che non sono validi nel mondo vero, sono ideali, e io stessa posso aggrapparmici perché non attraverso la realtà, le cammino accanto, la osservo soltanto. Per questo giudicare per me è facile, sono un giudice imparziale, sembro giusta, sembro assoluta. Ho perso il conto delle volte che mi è stato detto, me lo dicono tutti, un confronto con me è quasi biblico, la mia è una verità incontestabile.
Ma non è una verità applicabile alla vita.
Ti ho invidiato davvero, sei imperfetto sotto ogni punto di vista, le due debolezze ti rendono meschino come pochi, ma forse ha ragione Gaia quando mi dice che l’umanità sta nella meschinità, non negli atti ideali. Che, paradossalmente, i miei ideali mi rendono poco umana.
Inizio a vederci un senso, tu sei una forma di umanità assoluta, pura, per come ti barcameni a fatica nella tua esistenza tentando sempre. Sì, ti invidio, io aspetto, non so neanche cosa. Ci sono persone che per la vita non sono tagliate, forse entrambi rientriamo in questa categoria, siamo inadeguati, per questo non ci siamo lasciati andare nel tempo, abbiamo riconosciuto nell’altro la medesima inettitudine.
Però ti sei tuffato, e questo cancella qualsiasi giudizio io possa aver emesso, qualsiasi peso possa averti scaricato addosso. Non è vero nulla Ale, sei orribile, sei meschino ed egoista e fragile di una fragilità che ti farà commettere le più grandi scemenze della tua vita, ti condannerà a vivere situazioni infelici probabilmente. Ma sei uno che tenta.
Quindi, sentiti libero da qualunque emozione negativa di cui io ti abbia investito, se ancora ti trascini qualche rimasuglio di colpa o di mancanza nei miei riguardi, per quanto ormai non credo sia così. Non ho più rancore per te, ed ogni racconto deve giungere alla sua conclusione. Abbiamo condiviso tanti anni, voglio una conclusione positiva, uno scioglimento che ci permetterà di salutarci serenamente per strada, semmai ci incontreremo.
 
“C'è qualcosa che odia i muri,
fa gonfiare il terreno gelato sotto di loro,
rovescia il masso portante sotto il sole;
rende perfino affannoso il respiro
se due passano fianco a fianco.
I cacciatori fan la loro parte passando
non avevano lasciato pietra su pietra
per stanare il coniglio dalla tana
e accontentare i loro cani uggiolosi.
Parlo piuttosto di respiri che nessuno
ha mai visto né sentito,
ma quando arriva il momento di costruire
noi li troviamo là.
Lascio che il mio vicino oltre la collina
se ne accorga, così noi due c'incontriamo
camminando lungo il confine
e lo rimettiamo in piedi di nuovo
e teniamo quel muro tra noi due
quando ce ne andiamo.
A ognuno i propri massi caduti prima.
Alcuni come pagnotte altri quasi palloni
c'inventiamo una magia per tenerli insieme:
“State lì finché non ci voltiamo!"
Usiamo le nostre dita rozze per sistemarli.
Oh! una vera partita all'aria aperta.
Uno per lato. Si gareggia per poco:
Dove ci troviamo non c'è bisogno di un muro:
lui è tutta una distesa di pini e io
un frutteto con alberi di mele.
I miei alberi non attraverseranno mai
per mangiare le sue pigne, gli dico.
Ma risponde "Un buon steccato fa buon vicinato"
Un salto sarebbe mio danno, e mi chiedo
se posso convincerlo: "perché fa buon vicinato?
Non serve forse per le mucche? Ma qui non ce ne sono.
Prima di costruire il muro avrei voluto sapere cosa
chiudevo dentro o lasciavo fuori,
e a chi recavo offesa.

Qualcosa odia il muro, lo vuole abbattere"
 
Ora posso davvero ritirarmi, scusa se questa volta sono stata io a spezzare il silenzio, sarà l’ultima, lo giuro.
A quarant’anni al traguardo, forse.
Grazie e stammi bene, ovviamente!
 
   
 
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