Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    10/04/2020    3 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Go Ahead and Cry, Little boy
Capitolo 13

Eren

Ore 09:27, sabato. Mi sdraio a letto e fisso il soffitto finché l’odore di bacon non mi fa emettere un forte brontolio allo stomaco. Gemo sommessamente e lo accarezzo nell’inutile tentativo di farlo tacere.

Facendo ruotare le gambe oltre la sponda del letto, mi passo le dita tra i capelli e mi allungo sul comodino finché le mie dita non raggiungono il telefono. L’unica notifica che ho è un messaggio di Nick. Lo cancello senza preoccuparmi di leggerlo e faccio scivolare il telefono dov’era prima.

Mi cambio e faccio una doccia veloce prima di scendere al piano di sotto. L’odore di bacon si concentra sempre di più man mano che mi avvicino alla cucina. Infilo la testa dallo stipite della porta e sbircio nella stanza. Jean ha uno dei grembiuli della mamma legato intorno alla vita. Fischietta felice mentre gira un altro pancake.

“Sei il perfetto casalingo.”

Jean sussulta e si gira.

“Non ti ho sentito arrivare.”

Faccio spallucce e scivolo su una delle sedie della cucina. Guardo fuori dalla finestra e osservo il cielo.

“Pensi che nevicherà” Chiedo. “Voglio dire, è quasi dicembre.”

“Forse,” dice Jean, facendo scivolare un pancake fresco sulla pila già alta. “Ehi, mi aiuti con questo?”

Mi alzo e gli prendo il piatto di frittelle. Lui mette sul tavolo la bottiglia di sciroppo d’acero e il piatto di bacon.

“Vuoi uova?” Chiede. Scuoto la testa.

“Non mi piacciono le uova,” spiego. Comincio a servirmi e alzo un sopracciglio. “Oh, a proposito, come mai tutto questo? Pensavo avessi detto che odiavi cucinare.”

“Non c’è molto altro da fare,” borbotta.

Mi mordicchio l’interno della guancia.

“Il tuo capo non ti lascia ancora tornare al lavoro?”

“Ha detto che mi avrebbe chiamato,” borbotta Jean. Mastico lentamente un pezzo di pancake.

“Hai mai capito le cose che volevi fare?”

“Eh?” Jean chiede, confuso, e io faccio spallucce.

“Avevi detto che stavi da noi perché avevi bisogno di capire alcune cose.”

“Oh,” Jean fissa il suo piatto per un po’ prima di ricominciare a mangiare. Non dice altro e io torno al mio pancake. “Eren?”

“Che c’è?”

“Mi dispiace.”

“Per cosa?”

“Per quello che ho detto su Nick,” dice Jean. Sembra che stia soffrendo fisicamente, ma apprezzo il sentimento. “So che è tuo amico.”

“Lo era,” dico con amarezza e Jean inarca un sopracciglio. “È complicato.”

“In che senso?”

Decido sia meglio non dire a Jean che io e Nick scopiamo ogni volta che decido di dimenticare qualsiasi cosa di merda mi proponga la vita. Invece, faccio spallucce ed evito di rispondere alla sua domanda.

“Niente. Lascia perdere.”

Jean lascia perdere e gliene sono grato. Di solito non lo fa. Lasciare perdere, intendo. Dio solo sa se gli piace insistere.

Mi sgrido al pensiero e mi infilo in bocca un’altra fetta di pancake. Sono buoni. Ho mangiato la cucina di Jean solo una manciata di volte, ma è sempre stata migliore di quanto pensassi. Di solito, però, non critico il cibo. Il cibo è cibo, e finché sono sazio, non me ne può fregare di meno del suo sapore.

“Eren.”

“Cosa?”

“Puoi dirmelo,” si china leggermente sul tavolo e fingo di interessarmi alla tovaglia per non doverlo guardare. “Che cosa è successo tra te e Nick?”

“Niente,” dico con fermezza e spingo via il mio cibo mezzo mangiato. “Non ho fame. Vado a fare una passeggiata.”

Mi allontano dal tavolo e ignoro il sospiro stanco di Jean.

“Eren? Eren!”

Afferro la giacca e le chiavi di casa e sbatto la porta d’ingresso alle mie spalle. Sono irritato e vorrei solo prendere a pugni un muro. Non mi piace prendere a pugni le cose, soprattutto perché non fa altro che farmi male, ma a volte c’è qualcosa di appagante nel dolore. Sembra una cosa malata, ma non so come spiegarla.

Scuoto la testa e infilo le mani in tasca; la ghiaia del vialetto scricchiola sotto i miei piedi a ogni passo. Qualcosa di ruvido mi scava nelle dita e mi ci vuole qualche istante per capire che è il biglietto da visita di Mina. Credo di non averlo mai tirato fuori dalla tasca. Cerco di non pensarci e di concentrarmi su ciò che mi circonda. Fuori fa un po’ freddo, ma c’è il sole e la mia pelle è calda. Espiro dolcemente, solo per vedere il mio respiro annebbiarsi davanti a me.

Non ho in mente una meta precisa. Continuo a camminare e camminare finché non sento un dolore sordo ai polpacci e il respiro diventa un po’ difficile. Mi guardo intorno e mi accorgo di essere di fronte alla biblioteca.

Non è il mio posto preferito. Leggere mi annoia a morte, ma è tranquillo e credo di aver bisogno di sedermi e pensare a qualcosa. Salgo i gradini e spalanco la porta. Una ventata di aria calda mi colpisce in pieno viso.

Mi slaccio la giacca e sorrido alla bibliotecaria. Lei sorride a sua volta prima di tornare al suo libro. La ignoro e torno verso i computer. Scelgo una sedia a caso e mi ci siedo, inclinando la testa all’indietro e chiudendo gli occhi.

“Ehi, amico. Sei al mio posto.”

Gli occhi rimangono chiusi mentre rispondo.

“Oh, davvero? Immagino che dovrai scegliere un altro posto.”

“Io credo che tu debba spostarti".

I miei occhi si aprono di scatto. Ho già pronte alcune parole per chiunque abbia deciso di rovinare la mia pace e la mia tranquillità, quando i miei occhi incontrano quelli di Isabel Magnolia. Sembra incazzata, il che è piuttosto divertente se penso al motivo per cui è incazzata, e non posso fare a meno di pensare a quanto cazzo sia piccola questa città.

“Isabel, giusto?” Chiedo, alzandomi a sedere. Lei non risponde. “Ti chiami Isabel, giusto?”

“Sì. Mi aspettavo che lo conoscessi, visto che siamo in classe dalla terza elementare.”

Fischio a bassa voce.

“Accidenti, chi ha pisciato nei tuoi cereali?”

“Cosa?” Fa una smorfia e sospira. “Senti, ti vuoi muovere o no?”

“No.”

“Oddio, come vuoi,” tira indietro la sedia accanto e si siede pesantemente. La sento borbottare qualcosa sottovoce. Mi accorgo che ha un pacchetto spesso accanto a sé. Mi chino per guardarlo meglio.

“Porca puttana,” dico, afferrando il plico. “È il tuo saggio dell’ultimo anno?”

“Ehi, ridammelo!” Isabel si avvicina e me lo strappa di mano prima ancora che io possa leggere la prima riga.

“Scusa, accidenti,” scuoto la testa. “Devi essere davvero brava a dire stronzate.”

“Cosa?”

“Voglio dire, sono dieci fottute pagine,” scuoto la testa. “Chi, sano di mente, vorrebbe continuare a parlare della stessa cosa per dieci pagine?”

Isabel inarca un sopracciglio.

“I libri parlano della stessa cosa per circa trecento pagine.”

“È proprio per questo che non leggo,” dico con un brivido. Isabel inizia a ridere, ma poi si interrompe e trasforma la sua espressione in uno sguardo vuoto. Sorrido e le do una gomitata con il braccio. “Oh, andiamo. È stato divertente.”

Isabel apre un documento Word vuoto e comincia a scrivere. “Non sono brava a dire cazzate. Mi piace solo scrivere.”

“Buon per te,” dico. “Allora sei brava con le parole, vero?”

“Credo di sì.”

“Accidenti,” scuoto la testa. “Tutta quella roba mi sembra una schifezza. Riesco a malapena a scrivere un paragrafo senza volermi cavare gli occhi. E poi tutte quelle regole grammaticali? No grazie.”

“Non è poi così male,” dice Isabel, che sembra un po’ offesa; faccio spallucce.

“Per qualcuno a cui piace, certo. Ma per me è una tortura.”

Isabel alza le spalle.

“Allora cosa ci fai in una biblioteca?”

“Oh, è semplice,” faccio di nuovo spallucce. “È tranquillo. Mi sembra di poter pensare davvero.”

Isabel canticchia dolcemente, continuando a scrivere.

“Posso capirlo,” dice. “È bello.”

“Certo,” dico io, riportando la mia attenzione al soffitto. “Ehi, non credi che sia un po’ presto per lavorare al tuo saggio?”

“Forse. So solo cosa voglio scrivere. E al signor Smith è piaciuto il mio argomento, così ho avuto il via libera per scrivere una bozza.”

Canticchio senza dire nulla, tamburellando con le dita sullo stomaco. Isabel fa una pausa nella digitazione e io alzo la testa per guardarla.

“Che c’è?”

“Tu non lo fai?” Chiede.

“Pensavo di aver chiarito che non mi piace scrivere.”

“Ma è un requisito per il diploma.”

“Meno male che non mi diplomo, allora,” dico, e non posso fare a meno di trasalire quando sento quanto sembro amareggiato. “Merda. Mi dispiace.”

“No, va bene,” Isabel alza un sopracciglio. “Sei sicuro di non volerlo fare?”

“A che scopo?”

“Non lo so,” dice Isabel. “Ma forse facendolo... non lo so. Lascia perdere.”

“Perché ti interessa?”

“Non mi interessa,” Isabel aggrotta le sopracciglia e si volta di nuovo verso il computer. “Sto solo facendo conversazione.”

“Giusto,” dico. Mi spingo indietro dalla scrivania. “Grazie, credo. Ci penserò.”

Isabel mi rivolge un’espressione illeggibile. Mi alzo e sto per andarmene quando lei allunga la mano e mi afferra il braccio.

“Ehi,” dice, con voce sommessa, e io alzo un sopracciglio. “Buona fortuna.”

Sbatto le palpebre per qualche secondo prima di sorridere.

“Grazie. Davvero.”

Isabel sgrana gli occhi, ma sul suo volto c’è il fantasma di un sorriso.

Cammino lentamente verso l’uscita, le mani che scivolano naturalmente nelle tasche. Stringo forte il biglietto di Mina prima di tirarlo fuori. Ho una mezza idea di strapparlo e dimenticare di averlo avuto, ma non ci riesco.

Fisso il suo indirizzo per qualche secondo. Una strana sensazione mi attanaglia la bocca dello stomaco. Deglutisco a fatica e rimetto il biglietto in tasca prima di riprendere a camminare.
 
***

Ore 11:28, casa di Mina.

È piccola e carina, credo. Tutto è bianco, grigio o di un azzurro chiarissimo. È ordinata e non c’è nulla di personale in giro. Niente foto di famiglia o cose del genere. Le pareti sono spoglie, a parte qualche stronzata astratta che qualche stronzo pretenzioso ha deciso di etichettare come arte.

“Oh, ehi,” Mina appoggia una mano allo stipite della porta. “Eren, giusto? Entra, entra.”

Annuisco e passo il pollice sul suo biglietto da visita per quella che sembra la millesima volta.

“Non sapevo che questa fosse casa tua,” dico. Lei alza un sopracciglio e io sollevo il biglietto. “Mi aspettavo un vero ufficio o qualcosa del genere.”

“Essere in una casa piuttosto che in un ufficio fa sentire le persone più a loro agio,” spiega sorridendo. “Vuoi qualcosa da bere o da mangiare?”

“No.”

“Okay,” sorride ancora mentre mi guarda. “Allora, cosa ti porta qui?”

“Voglio restituire il tuo biglietto da visita,” dico, e solo dopo che le parole sono uscite dalle mie labbra mi rendo conto di quanto suoni assolutamente stupido. “Voglio dire, non ho intenzione di usufruire del tuo servizio. E poi, se qualcuno avesse davvero bisogno di aiuto e tu finissi i biglietti o qualcosa del genere? Sarebbe uno spreco lasciare questo a me e…”

Mi interrompo, rendendomi conto di sembrare sempre più stupido con il passare del tempo. Mastico l’interno della guancia finché un sapore metallico non mi inonda la bocca. Mina canticchia dolcemente e scuote la testa.

“Va bene, Eren,” dice. “Non c’è niente di male ad accettare un aiuto, sai. Non ti rende debole. Anzi, direi che ti rende incredibilmente forte.”

“Certo che lo pensi,” dico prima di riuscire a fermarmi. “Hai una laurea che ti permette di dire continuamente stronzate alla gente per soldi. Il tuo lavoro è far credere alle persone qualsiasi cosa tu dica loro.”

“Forse è così,” dice Mina a bassa voce. “Ma il mio lavoro è anche quello di aiutare le persone anche se pensano di non averne bisogno.”

“Non ho davvero bisogno del tuo aiuto,” dico, facendo qualche passo indietro. “È solo che... non lo so, okay? Non so perché sono qui. Mi dispiace di averle fatto perdere tempo o altro. Vado...”

“Eren.”

“Cosa?”

“Mi dispiace,” dice Mina e per un attimo quasi ci credo. “Non riesco nemmeno a immaginare il dolore che stai vivendo. Ma non puoi ignorarlo. Non guarirai se lo farai.”

Arrotolo le mani in pugni stretti. Mi fanno male le dita, ma è l’unica cosa che mi tiene unito.

“Va bene,” dico. “Sto bene.”

“Va bene,” dice Mina. Posa il biglietto sul tavolino. “Come vuoi tu, Eren.”

Non mi piace il modo in cui lo dice, ma non c’è nient’altro che voglia dire. La mia mente si svuota e inciampo all’indietro, sentendo tutto il corpo freddo. Mi sento rigido mentre esco dalla casa di Mina.

Ci vuole lo sbattere della porta d’ingresso per distogliermi dai miei pensieri. Mi fermo a metà dei gradini e cerco di ricordare come respirare normalmente. Una volta che mi sento in qualche modo normale, continuo a camminare.

Arrivo solo a metà dell’isolato prima di sentirmi male sul serio. Mi costringo a sedermi sul marciapiede e a poggiare la testa tra le mani. Mi fa male tutto e cerco di decidere se è più il mal di testa o il mal di cuore a farmi incazzare.

Il mio cervello mi fornisce un’immagine di Mikasa e decido che è il mio mal di cuore. Mi sento improvvisamente arrabbiato e mi ritrovo a sollevare la testa. Mia sorella è morta. È morta e non tornerà mai più. È morta e mi ha lasciato indietro.

Non sono pensieri confortanti, neanche lontanamente, e ancora una volta mi viene il pensiero fugace di desiderare di essere morto. Logicamente, so che la morte non è una soluzione. Certo, non sentirei nulla. Certo, tutta la merda che la vita decide di tirarmi addosso cesserebbe improvvisamente di avere importanza. Ma poi i miei genitori non avrebbero figli e Jean starebbe probabilmente peggio di adesso.

Ma io sono egoista e il mio cervello vuole ignorare tutto ciò che è logico solo per il mio bene. E se gli mancassi? Sarei morto. I morti non possono sentirsi in colpa. Non è che tutto questo abbia importanza.

Sento come se la gola fosse ostruita e la schiarisco un paio di volte per liberarmi della sensazione.

Per un attimo mi ritrovo a desiderare di parlare con Nick. Ma posso andare da lui. Non sono dell’umore giusto per fare sesso, e poi c’è tutta la storia dei suoi sentimenti per me.

Fletto le dita un paio di volte. Fa abbastanza freddo da renderle insensibili. Vorrei che rimanessero così a volte, ma non mi sento umano quando succede. Non mi sento me stesso. Mi fa paura, più di quanto vorrei ammettere, ma c’è un certo fascino che ne deriva.

Allora mi alzo, in parte perché mi fa male il sedere a forza di stare seduto sul marciapiede e in parte perché sono stufo di pensare. Pensare non mi ha mai portato a nulla di buono.

Infilo le mani in tasca e inizio a camminare verso casa, facendo del mio meglio per non pensare a nulla. Non funziona, però, e quando arrivo in camera mia la mia mente ha il pilota automatico. Nick, morte, Mikasa. Nick, morte, Mikasa. Ancora e ancora e ancora.

Mi tolgo la giacca e butto le scarpe in un angolo della stanza. Sto congelando anche se il termostato è alzato e sono completamente vestito. Sprofondo nel letto e mi lascio andare. Cerco di ripensare all’ultima volta che sono riuscito a fingere di stare bene. Erano i giorni migliori. Allora non provavo nulla perché ero troppo concentrato a essere Eren Jaeger, il ragazzo a cui non importava nulla.

Ma ora sono Eren Jaeger, il ragazzo che a cui importa troppo, e lo odio.

Mi raggomitolo e mi tiro le coperte sulla testa. Sento un movimento fuori dalla porta, probabilmente dei miei genitori. Mi viene quasi voglia di chiamare mia madre. Mi abbracciava sempre quando ero triste. Quando ero piccolo, intendo. Sarebbe strano se glielo chiedessi adesso, però. Non perché ho diciassette anni o altro, ma perché per metà del tempo mi comporto come se odiassi tutti.

Ma non è così. Non potrei nemmeno se volessi, ma è più facile arrabbiarsi che ammettere di aver fatto una cazzata. Ammettere che c’è qualcosa che non va in me significa doverne parlare, e parlarne significa che non posso continuare a fingere di non esserne influenzato.

I passi scendono al piano di sotto e io rilascio un respiro che non sapevo di aver trattenuto. Stringo gli occhi e mi costringo a dormire. Dormire è anche uno dei miei meccanismi di difesa. Non riesco mai a sentire nulla quando dormo.

Non sento niente.
 
***
 
Ore 20:49, una casa a caso.

Avevo sentito dire che un ragazzo della mia classe avrebbe dato una festa stasera. Prima degli eventi di oggi, non avevo intenzione di andarci. Di solito ci vado solo se conosco il padrone di casa o se ho almeno un’idea generale di chi ci sarà, ma mi presento a questa festa senza avere la minima idea di cosa aspettarmi.

Qualcosa nelle parole di Mina mi dà sui nervi, ma cerco di ignorarlo. Il modo in cui parlava faceva sembrare che si sentisse davvero in colpa o qualcosa del genere, ma non è possibile. Lei sente parlare di morte in continuazione. Non puoi sentirti in colpa per ogni singolo cliente che hai, giusto?

L’idea che mi compatisca mi fa star male. Ingoio il sapore amaro che ho in bocca ed entro in casa. La musica è così alta che la stanza sembra vibrare. Non c’è molta gente. Sembra piuttosto tranquillo. O forse non c’è nessuno perché Reiner non ha organizzato la festa.

Mi acciglio al pensiero e mi dirigo immediatamente verso la cucina, ignorando tutti quelli che mi circondano. Non importa se vedo un volto familiare o meno. Non è che vogliano parlarmi o altro. Nessuno lo fa mai. A meno che non si tratti di Levi, ma questo perché è fottutamente strano e siamo quasi amici. O qualcosa del genere.

Scuoto la testa e scruto la cucina. C’è solo una fila di bottiglie di birra.

“Poca roba, eh,” mormoro tra me e me, ma mi ritrovo ad afferrare una bottiglia.

Mi viene in mente che probabilmente il mio fegato sarà fottuto prima ancora di raggiungere i vent’anni, ma non riesco a trovare il coraggio di preoccuparmi davvero. L’alcol mi fa sentire insensibile. E a volte è l’unica cosa che voglio.

Tolgo il tappo e bevo un lento sorso. Ha un sapore di merda. Odio l’alcol, che ci crediate o meno. Ma come ho detto, dopo un po’ non mi fa sentire nulla. È l’unica cosa positiva. Bevo un altro sorso e mi appoggio al bancone, chiudendo gli occhi e soffocando la musica del salotto.

Non so quanto tempo passi, ma all’improvviso mi ritrovo seduto a terra. Non bevo più perché il mio corpo si sente tutto fiacco. Penso di essere ubriaco. Non era questa l’intenzione della serata. Non avevo nemmeno ballato, il che è strano, perché è un mio obiettivo personale strusciarmi contro almeno una persona.

Cerco di alzarmi, ma la testa mi gira violentemente e finisco di nuovo a terra. Mi accontento di rimanere seduta per un po’, ma poi qualcosa mi si rovescia in testa. Alzo la testa il più velocemente possibile e socchiudo gli occhi sulla figura che incombe su di me.

“Oh cavolo, scusa... aspetta, Eren?”

Sbatto le palpebre un paio di volte.

“Ciao.”

“Uh, ciao,” Marco posa la sua bottiglia d’acqua e mi scruta. “Stai bene?”

“Forse,” dico, e poi annuso. Da quando mi cola il naso? Non lo so.

“Hai un aspetto di merda.”

“È normale, ma grazie per avermelo fatto notare,” scherzo. Cerco di alzarmi di nuovo e ci riesco. “Comunque, cosa mi hai rovesciato addosso?”

Marco guarda la sua bottiglia d’acqua, poi la mia testa e poi di nuovo la bottiglia.

“Non è acqua, vero?”

“Ti ho già chiesto scusa!”

“Come vuoi,” scuoto la testa. “Comunque dovrei andare a casa...”

Cerco di fare un altro passo avanti, ma poi la testa mi gira di nuovo e finisco per inciampare. Riesco ad aggrapparmi al bordo del bancone per tenermi fermo. Le mani di Marco volano alla mia vita e io mi dimeno nella sua presa.

“Lasciami. Ce la faccio.”

“Riesci a malapena a camminare,” si acciglia Marco. “Lascia che ti aiuti. Non puoi tornare a casa con la vodka addosso. Almeno vai di sopra a lavarti.”

“Oh, ottima idea. Mi cambierò con i vestiti di ricambio che ho su per il culo!”

Marco si acciglia e mi dà un violento pizzicotto sul fianco.

“Ah! Per che cos’era?”

“Niente,” alza gli occhi al cielo. “Dai, Eren. Non intralciarmi con me, okay? Siamo amici, no? Gli amici si fidano l’uno dell’altro. Quindi ho bisogno che tu ti fidi di me e faccia quello che ti dico, va bene?”

“Noi non siamo amici,” dico. Cerco di essere deciso, ma le mie parole si confondono e si strascicano. Quasi trasalisco al suono della mia voce. Merda, quanto ho bevuto? “Io non ho amici. Non più. È perché sono uno stronzo. Ma... Levi non sembra farci caso. A volte è uno stronzo. Forse è per questo.”

Gli occhi di Marco si allargano un po’.

“Levi?” Ripete. “Tu e Levi siete amici?”

“È quello che ha detto,” dico. “Gliel’ho fatto dire io, ma...”

Mi interrompo e mi chino sul bancone, appoggiandovi le braccia. Marco mi lascia andare quando è sicuro che non sto per cadere.

“Resta qui, okay? Torno subito.”

“Ah-ah,” dico, soprattutto perché mi costa troppo sforzo dire qualcos’altro. Abbasso la testa e chiudo gli occhi, il mio corpo ondeggia leggermente. Il bancone è freddo contro le mie braccia e mi rendo conto che devo essermi tolto la giacca. Dio solo sa dove l’ho messa. Ma almeno le chiavi sono nella tasca dei pantaloni.

Marco non torna per un po’. Decido di tenere gli occhi chiusi finché non torna, e sono quasi pronto ad addormentarmi quando qualcuno mi afferra il braccio.

“Ehi, Eren. Alzati.”

“Marco?”

“No.”

A forza di aprire gli occhi, alzo lo sguardo. Levi ha le sopracciglia aggrottate.

“Dio, quanto puzzi.”

“Grazie,” dico. Mi alzo lentamente e sono sollevato quando la stanza non decide di girare su sé stessa. “Aspetta, perché sei qui?”

“Mi ha chiamato Marco,” dice. “A quanto pare stai facendo il difficile.”

“Non è vero,” brontolo. “Non sono nemmeno ubriaco.”

Levi scuote la testa e mi fa passare un braccio intorno alle spalle. “Andiamo.”

“Dove stiamo andando?”

“Di sopra.”

“Oh, wow,” dico io, allargando gli occhi. “Non mi porti neanche a cena prima?”

“Eh? Cosa stai... oh cazzo no,” Levi scuote velocemente la testa. “Non pensare a queste cose, Jaeger. Devi darti una ripulita e una regolata.”

“Oh,” dico e lascio che i miei piedi trascinino volutamente sul pavimento. “Così non è divertente.”

Levi non dice nulla e continua a salire le scale, il che è una vera avventura, ma in qualche modo finiamo in un bagno vuoto.

“Va bene, spogliati,” borbotta Levi.

“Eh?” Lo guardo, socchiudendo gli occhi. “Accidenti, vai dritto al sodo.”

“No, tu...” Levi si interrompe e si pizzica il ponte del naso. “Cazzo, mi devi un favore enorme per questo.”

Si allunga in avanti e mi spinge delicatamente a sedermi sul water chiuso.

“Alza le braccia.”

Faccio come dice, come un bambino compiacente, e lui mi toglie la maglia.

“Oh,” dico. Allungo la mano e cerco di sbottonare i jeans, ma le dita continuano a scivolare. “Un aiutino?”

Levi deglutisce pesantemente, guarda in basso e poi distoglie lo sguardo.

“Credo che tu ce l’abbia fatta.”

"Le mie mani continuano a sciupare. Cioè, scivolano. È troppo difficile,” lamento. Anche tenere gli occhi aperti è una vera fatica, e sono sicuro che questo non aiuta.

“Gesù Cristo,” mormora Levi, chiudendo gli occhi per qualche secondo. Quando li riapre, guarda i miei pantaloni, li sbottona e li apre rapidamente. Mi aiuta a toglierli. Quando mi avvicino per togliermi i boxer, mi schiaffeggia la mano. “No! Lasciali addosso.”

“Va bene,” dico, perché sono troppo stanco per dire altro.

“Resta lì,” dice Levi e si sposta verso la vasca per aprirla. Lascia la mano sotto l’acqua corrente per qualche istante, finché non la ritiene abbastanza calda. “Entra.”

“Adesso?”

“Sì, adesso.”

Ignoro il suo tono irritato e mi costringo ad alzarmi. Sbadiglio e infilo i piedi nella vasca. È piacevolmente calda e Levi mi aiuta a far passare l’altra gamba sul bordo. Mi siedo pesantemente e trasalisco per il dolore che mi sboccia nel sedere.

“Ahia.”

“Sì, ahia,” Levi scuote la testa. Si china a guardare alcune bottiglie sul davanzale prima di prenderne una e spremere una generosa quantità sulle sue mani. “Chiudi gli occhi.”

Chiudo gli occhi. Pochi secondi dopo, sento le dita che sfregano il mio cuoio capelluto. Arriccio il naso per la sensazione, ma non dico nulla. Sento l’acqua scorrere e poi stringo ancora di più gli occhi quando sento la schiuma del sapone scorrere sul mio viso.

Levi mi sciacqua i capelli e li pettina con le dita.

“Posso farlo da solo,” dico.

“Lasciami in pace. Sono abbastanza sicuro che in questo momento non sai distinguere la testa dal culo.”

“Levi?”

“Cosa?”

“Davvero non scopiamo?” Chiedo, aprendo gli occhi. Le mani di Levi restano ferme sulla mia testa.

“Perché sei così fissato con questa cosa?” Chiede con l’aria di chi sta soffrendo fisicamente.

“Mi piace il sesso,” dico. “Che c’è di male?”

“Niente,” Levi sgrana gli occhi e tira le dita in un nodo dei capelli.

“Ahia! Figlio di puttana.”

“Sei così fottutamente ubriaco,” Levi scuote la testa.

“Già,” dico, perché sono al punto in cui mi rendo conto che non c’è modo di negarlo. “E se non fossi ubriaco?”

“Di cosa stai parlando?” Chiede Levi, allungando la mano per prendere il balsamo.

“Voglio dire, scoperemmo se non fossi ubriaco?” Chiedo. “Onestamente, però, non dovrebbe essere importante. Essere ubriachi, intendo. Ho già fatto sesso da ubriaco.”

Le mani di Levi si fermano di nuovo.

“Cosa vuoi dire?” Chiede, con una voce che ha una strana sfumatura. Lo guardo.

“Ho già fatto sesso da ubriaco,” ripeto più lentamente, perché per qualche motivo mi sembra che non mi abbia sentito o qualcosa del genere.

Levi deglutisce bruscamente e aggrotta le sopracciglia. Si allontana da me, con le mani ancora coperte di balsamo, e si siede sui talloni. “È... che la gente si approfitta di te se fa così.”

“Non m’importa,” dico sinceramente. “Anch’io uso spesso le persone. Il sesso da ubriaco mi piace di più di quello da sobrio.”

Le orecchie di Levi diventano rosse.

“P-perché?”

Mi ci vuole qualche istante per capire che ha balbettato, ma per il momento lo ignoro. Speriamo che Eren sobrio se ne ricordi domattina. Mi piacerebbe prenderlo in giro.

“A volte mi viene da piangere,” dico. “Fa molto male, sai.”

“Il sesso?”

“Eh? No, quello no,” scuoto la testa. Allungo la mano e la appoggio sul petto, proprio sopra il cuore. “Fa molto male qui. Per questo faccio sesso. Così fa male anche in altri posti.”

“Perché... perché ti fa venire voglia di piangere?”

“Sono triste,” ammetto, la mia voce ora è morbida. “Sono sempre triste. E se piango da ubriaco, non importa a nessuno. La gente ubriaca piange sempre.”

“Eren...” C’è una strana qualità nella sua voce. Non ho mai sentito Levi pronunciare il mio nome in questo modo. Non riesco a capire, ma il cuore mi si stringe dolorosamente nel petto.

“Non hai mai risposto alla mia domanda,” gli ricordo.

Levi si mette nell’acqua per lavarsi via il balsamo dalle mani. Le mette a coppa, riempie lo spazio con l’acqua e poi la fa cadere sulla mia testa. Ripete l’operazione fino a quando il balsamo non è stato risciacquato del tutto.

“Quale domanda?”

“Scoperemmo se non fossi ubriaco?” Glielo chiedo di nuovo. Lui rimane in silenzio e inclino la testa di lato. “Voglio dire, non ti piaccio?”

Levi si alza e si passa le dita tra i capelli. Sembra a disagio e all’improvviso mi sento in colpa.

“Io... non mi approfitterò mai di te, Eren.”

“Lo so,” dico. “Sei una brava persona. Vorrei esserlo anch’io.”

“Lo sei,” dice Levi lentamente. Scuoto la testa.

“Non proprio,” dico. “Ehi, io ti piaccio, vero?”

“Certo,” dice Levi con voce roca. “Mi piaci, Eren.”

“Spero di non piacerti troppo,” dico. All’improvviso mi sento di nuovo assonnato. “Non mi piace quando le persone mi apprezzano troppo.”

Gli occhi di Levi si allargano.

“Okay, Eren,” dice semplicemente. Si alza in piedi. “Vado a cercare una maglietta.”

“Va bene,” dico, appoggiandomi alla vasca.

Levi torna dopo pochi istanti con una maglietta. Non so dove l’abbia presa e non mi interessa nemmeno. Mi aiuta a uscire dalla vasca e mi asciuga con cura.

“Non... non dovresti indossarli,” indica i boxer. “Ti bagneranno i pantaloni.”

“Non ho altra biancheria intima,” dico, fissando i boxer. “Mi stai dicendo di andare in mutande?”

“Ti porto a casa,” dice Levi. “È solo per un po’.”

“Va bene,” dico, e aggancio il pollice alla cintura.

Levi si gira dopo avermi dato la maglia. La indosso. È un po’ grande, ma niente di grave. Mi tolgo i boxer bagnati e prendo i pantaloni. In qualche modo riesco a infilarli, ma lotto di nuovo con il bottone.

“Il bottone,” dico.

Levi si gira di nuovo.

“Non puoi... oh, non importa,” scuote la testa e abbottona i pantaloni. Si allunga per prendere la maglietta sporca e ci fa cadere dentro la mia biancheria intima. Arrotola tutto in una palla e me la tira addosso.

Lo guardo mentre svuota la vasca e incrocio le braccia sul petto. All’improvviso ho freddo, ma almeno non mi sento così stanco. Faccio qualche passo sperimentale e scopro di essere in grado di camminare. Dovrò andarci piano, ma è meglio che cadere di nuovo a terra.

“Levi?"

“Cosa?” Levi mi guarda e mi rendo conto che sembra stanco. Sembra esausto e io mi sento di nuovo in colpa.

“Non lo so,” dico, e sinceramente non è una bugia.

Levi stringe forte le labbra e apre la porta del bagno. Lo seguo, ma mi accorgo che il mio calzino si bagna quando passo in una pozzanghera. Levi mi prende le scarpe e mi aiuta a rimetterle, allacciandole bene.

Scendiamo le scale in silenzio. Lo aspetto vicino alla porta mentre va a dire a Marco che se ne va.

“Non voglio guidare,” dico. “Non mi piace.”

“Lo so,” dice Levi. “Andiamo a piedi. Non preoccuparti.”

Annuisco e lo seguo lentamente. Tiene una mano intorno al mio braccio, stringendo leggermente la presa ogni volta che inciampo un po’. Si rilassa solo quando sono di nuovo in piedi.

Non so per quanto tempo abbiamo camminato, ma dopo un po’ vedo casa mia. Più ci avviciniamo e più mi lamento.

“Non voglio tornare a casa.”

“Cosa?” Levi sospira. “Eren, devi andare a casa. È tardi.”

“Non può essere così tardi.”

“È quasi mezzanotte.”

“La notte è giovane.”

“La notte non è giovane,” sbotta Levi. “Dai, sul serio.”

“No.”

Affondo i piedi nel marciapiede. Levi sospira.

“Eren, sul serio, mi stai facendo incazzare e io...”

“Mi dispiace,” dico.

“...Cosa?”

“Mi dispiace,” ripeto. “Non... non dovevi aiutarmi.”

“Volevo farlo,” dice Levi.

“Okay,” dico io, perché non so davvero cos’altro dire.

Levi mi fissa per qualche secondo prima di tirarmi delicatamente il braccio. Cammino senza lamentarmi e lascio che mi conduca su per i gradini del portico.

“Eccoci qui,” mormora Levi. “Casa dolce casa.”

Mi appoggio alla porta e lo guardo mentre mi lascia andare per infilarsi le mani nelle tasche della giacca.

“Vorrei poterlo ricordare,” dico.

“Cosa, di essere ubriaco?” Levi sbuffa. “Sono abbastanza sicuro che lo rifarai ogni volta che ne avrai voglia...”

“No,” scuoto la testa. “Tu.”

La bocca di Levi si apre un po’ mentre mi fissa. La chiude di scatto, si schiarisce la gola e non mi guarda.

“Io... dovrei andare, Eren,” dice.

“Non farlo.”

“Devo,” deglutisce bruscamente e si allontana da me. “Ci vediamo lunedì, okay? Non fare niente di stupido.”

“Non lo farò,” dico. “Buonanotte.”

Levi si ferma a metà del vialetto. È un po’ difficile vederlo perché il lampione di casa mia, per qualche motivo, non funziona. Ma poi lo vedo muovere i piedi e ricominciare a camminare.

“Buonanotte, Eren,” dice, quasi troppo piano perché io possa sentirlo, e una sensazione di calore mi investe mentre mi volto per entrare in casa mia.
   
 
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