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Autore: BabaYagaIsBack    13/04/2020    1 recensioni
Félicienne ha perso qualcosa.
Qualcuno, in realtà.
Un giorno qualunque, di qualche tempo prima, si era decisa a confessare tutto ciò che aveva tenuto segreto per quasi dieci anni. Aveva trovato il coraggio per esporsi, per assumersi le proprie responsabilità, peccato che quello che avrebbe dovuto essere il suo confessore avesse scelto di abbandonarla per sempre. Così, costretta in una vita troppo stretta, in un quartiere di Marsiglia che è diventato ogni giorno più soffocante, Fèlì cresce, lottando contro sé stessa e ciò che non ha potuto dire. Il risentimento e la rabbia non l'abbandonano mai, esattamente come i ricordi e quello che ancora è suo - solo suo.
Il destino però non ama giocare leale e quindi, in qualche modo, ciò che le aveva portato via anni prima le rimette davanti agli occhi, aggredendola con sensazioni molto più vivide e profonde di quelle che lei abbia mai potuto conoscere, emozioni capaci di scavare sia nell'anima sia nella carne di una ragazza all'apparenza fin troppo fragile.
Genere: Erotico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Ce qui reste

In questo quartiere nulla sopravvive, nemmeno il canto degli usignoli o il tepore del sole. Il buonumore appassisce velocemente, soffocato forse dal troppo cemento.

Guardo l'orizzonte dalla cucina, aspettando un caffè che pare non voler salire e fingendo di ascoltare le chiacchiere di mia madre che, troppo presto, sono finite a reclamare argomenti di cui non mi frega nulla. Mentre recito la parte di interlocutrice mezza addormentata mi chiedo se dalla tua finestra si veda questo stesso cielo carico di pioggia. Grosse nuvole coprono l'azzurro, apparendo come una coperta lisa sotto la cui stoffa si nasconde un bambino chiamato Sole.

Non vorrei pensarti, anzi, non dovrei, eppure stamattina non riesco a fare a meno di ricordare la tua testa bagnata dal maltempo e i vestiti che ti si incollavano addosso, lasciando che i miei occhi da timida adolescente si riempissero di ogni linea del tuo corpo e facendo battere il cuore con così tanta forza da farmi credere potessi morirci. Negli anni ho cercato spesso quelle sensazioni, la fibrillazione che mi procuravi. Alle volte, soprattutto le prime, quando passavo le dita sulla carne altrui socchiudevo le palpebre provando a vedere se i ricordi si potessero sovrapporre a ciò che avevo in quel momento. Sono state esperienze di puro masochismo, atti di cocciuta ostinazione che, nel tempo, ho abbandonato per amore verso me stessa. 
Ti cercavo senza mai trovarti, facendomi male. Erano pugni nello stomaco che mi portavano alla nausea, così alla fine ho solo smesso di tenere la tua immagine stretta tra le dita.

La notte non riempi più i miei sogni, la tua voce non è un'onirica sirena che cerca di trasformarmi in Ulisse - anche perché dubito sia la stessa di allora. Ciò che ancora fai, in sporadiche circostante, è infestare i miei giorni - non tutti, grazie al cielo, solo quelli successivi all'incontro col tuo viso su qualche quotidiano. Di norma sono un paio, raramente capita che si protraggano per più tempo.

E per questa ragione mi ritrovo a odiarti ogni volta che permetti a un paparazzo di immortalare il tuo profilo tagliente, la linea dura delle tue labbra che mi riporta indietro fino ad allora, inabissandomi in un mare di ricordi e pensieri che non dovrebbero parlare di te, o di quel noi che non siamo mai stati. Odio ogni memoria fanciullesca che mi hai lasciato perché, senza di loro, non avrei nulla su cui rimuginare, alcun risentimento da portarmi ancora appresso - ma hai voluto entrare a far parte della mia vita per diciotto anni, mosso da una noia perenne e un sadismo latente. Dovevi trovare qualcuno da addomesticare e, quando finalmente sei stato certo d'esserci riuscito almeno con me, mi hai semplicemente abbandonata insieme a quel che resta della tua famiglia. Ero il tuo cucciolo, il capriccio natalizio di un bambino viziato, poi quando siamo cresciuti mi hai lasciata sul ciglio di una strada che non avrei mai voluto percorrere da sola - ma l'ho fatto. In quei primi giorni di solitudine, in quelle settimane e nei mesi ho temuto di non tornare più da me stessa, di essermi persa per sempre. Chi era Felì, senza di te? Chi ero senza colui che era diventato il mio tutto? 
Forse non sono arrivata lontano quanto te, anzi, nemmeno ho raggiunto la metà dei tuoi successi, eppure ho proseguito per riuscire a riscoprirmi un po', per ottenere qualcosa di più concreto del semplice rammarico.

Mi prendo il viso tra le mani, tiro la pelle e porto indietro i capelli liberando la vista che, finalmente, decido di allontanare dalla finestra. 
Quel grigio ha le tonalità dei tuoi occhi.

Mamma mi sorride in modo strano, fisso. Forse ha fatto una domanda che io nemmeno ho sentito.
«Che?» Le chiedo corrugando le sopracciglia. Dovrei prestare più attenzione alla realtà, me ne rendo conto, peccato che ogni cosa intorno a me sia vuota, vaga, soprattutto quando cammino a ritroso tra i ricordi legati a questo posto.
«Tutto bene, cara? Dicevo che papà ed io stasera usciamo, se vuoi ti preparo qualcosa per quando torni».

Sì, le valige e un elettroshock.

«No, tranquilla. Ordino una pizza».

Nemmeno dimenticando chirurgicamente quel giorno di sette anni fa riuscirei a liberarmi da questa sensazione di costante inadeguatezza, qualcosa in me resterebbe ancorato alla porta di casa tua chiedendosi cosa abbia fatto di male per non meritare neppure un saluto.

Meglio se la smetto di pensarti, nonostante la distanza resti tossico come sempre - e forse è questo il brutto dei primi amori non corrisposti: ti scavano dentro, lasciandoti rovinato.

Mi volto verso la tazza di caffè che ho appoggiato sul piano della cucina, osservandola con una pigrizia che sa di ore piccole e sogni movimentati. Non ricordo di averla riempita, men che meno di aver udito la moka ribollire - magari è stata mamma tra una chiacchiera e l'altra, chissà. Chiunque sia stato, comunque, si merita che io lo trangugi, in modo da impedire al sonno di avere la meglio su di me tra una lezione universitaria e quella successiva, eppure d'un tratto ho lo stomaco chiuso. Questa giornata è partita male, avrei dovuto sospettarlo ieri sera quando, cedendo e guardando la tua finestra, non ho visto altro che assenza.

Con un sospiro afferro la ceramica, me la porto alle labbra e trattengo il respiro: forse così andrà giù, come quelle medicine amare che ci costringono a prendere da bambini. 
Il caffè riempie la bocca, scivola lungo la gola e si deposita in uno stomaco vuoto, infastidendolo. Un gorgoglio sale in risposta alla mia sconsideratezza, avvertendomi che, se dovessi osare accendere una sigaretta nei prossimi minuti, me la farebbe pagare senza alcuna pietà. E non ho tempo, oggi, per giocare a chi è più testardo tra la mia volontà e il corpo, ho un appello a cui non posso mancare.

«Io vado, ci vediamo dopo».

Mamma scuote la testa: «Guarda che facciamo tardi!» mi avverte, credendo ancora che le dieci di sera siano un orario definibile come "tardi".

Annuisco, anche se in verità non m'interessa molto ciò che hanno in programma; dopotutto io sarò comunque qui, sola. Gli autobus verso quest'angolo di mondo smettono di circolare appena dopo l'orario di cena e, senza la mia Kadett o qualcuno a cui chiedere un passaggio, è impossibile far ritorno dal centro di Marsiglia - non ho via di fuga.

Scivolo lungo gli spazi di casa, infilando le scarpe giusto prima di uscire. Con la borsa a penzoloni su una spalla mi muovo svelta sui gradini che conducono all'uscita, sentendo l'oppressione di questo quartiere farsi sempre meno soffocante; solo l'idea di allontanarmi da qui mi fa stare bene, anche se si tratta solo di una decina di chilometri.
E mentre saltello da un gradino all'altro mi ritrovo a pensare ancora una volta se tutto questo avrà mai fine, se un giorno riuscirò a sentirmi diversa da come sono ora, magari piena, presente, concreta.

Ma sono vuota.
Triste.
Rotta da un passato che vorrei non ricordare e che invece mi tormenta, esattamente come una cosa incompleta.


 
   
 
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