Nota:
siete timidamente aumentati, vi ringrazio.
Lascio qua la prima
parte, la seconda arriverà tra 7 giorni.
Fatemi sapere se risulta troppo lungo, fitto o impreciso.
Capitolo 40
Perché il loro affetto mi soffoca così dolcemente?
📍 Londra, 9 anni dopo
Continuo
ad osservare il pezzo di carta e mi alzo, litigando con le lenzuola
prima di avanzare verso la finestra, aprirla e appollaiarmi sul
davanzale, facendo ciondolare la gamba destra sul ballatoio esterno,
la schiena poggiata alla cornice. Quando accendo la sigaretta emetto
un rumoroso sospiro, chiudendo gli occhi mentre me la porto alla
bocca.
Neanche mi piace fumare, sono solo una sciocca che
reagisce male al nervosismo.
Sto per prendere il secondo tiro
quando il cellulare suona, poco lontano. Getto un’occhiata
veloce,
mentre la vecchia Wendy mi guarda dalla sua cuccia, probabilmente
impietosita dal mio stato psicofisico. Allungo il braccio, premendo
il tasto verde prima ancora di avere il cellulare vicino al viso,
prendendomi tutto il tempo necessario.
«No.»
dico lapidaria, dall’altra parte il silenzio regna assoluto
per una
manciata di secondi, poi viene rotto da un respiro che strozza una
risata.
«Perché
no?»
dice soltanto, la sua voce è sempre limpida e odio
ammetterlo ma mi
fa bene al cuore «Butta
quella sigaretta, Megan!»
Un
risolino sarcastico esce dalle mie labbra, ma eseguo spegnendo la
sigaretta contro l’infisso. «Non
sono mica tua figlia.»
sibilo, sputando l’ultima boccata di fumo, nel frattempo
fisso il
piccolo circolo nero lasciato dalla tizzone sul battente.
Me ne
pentirò, il proprietario me la farà pagare per
intero quella
merdosa finestra.
«Non
puoi non considerare la cosa, Meg.»
Soffia, «non
torni da quasi 10 anni.»
Quando quelle parole raggiungono
il mio orecchio
una ventata di rabbia mi investe e mi scopro sbalordita da quella
affermazione, perché non può farlo: non
può dirmi queste cose, non
ci credo neanche per un attimo che sia fin a tal punto insensibile,
è
inammissibile che non riesca a comprendere i miei sentimenti al
riguardo, proprio lui.
«Non
vedo quale sia il problema, tu e zio Billy venite a trovarmi, persino
Seth e Ronnie hanno in mente di passare quest’estate.»
preciso, tentando di pulire con il pollice l’alone nero sulla
finestra. Sento già gli occhi pizzicare e decido che in
fondo se lui
gira il coltello nella piaga posso farlo anch’io, «o
almeno, tu venivi a trovarmi. Hai smesso bruscamente dopo che noi...»
come immaginavo mi interrompe bruscamente, rimproverandomi per la
seconda volta nel giro di pochi minuti come farebbe un padre con una
ragazzina. Reagisco di nuovo con una risata a denti stretti, un misto
tra amarezza e rammarico.
«Scusa,
pensavo giocassimo a chi ferisce di più l’altro.»
lui risponde non rispondendo. So di averlo squarciato
scaraventandogli malamente addosso il fatto che – nonostante
la
deviazione vampiresca – anche lui si era comportato da umano
e, in
quanto tale, si era reso capace di orchestrare delle stronzate
colossali. Il succo della questione era che non avendo mai dubitato
di quanto fosse infinita la sua bontà e immenso il bene che
ci lega
ci avevo marciato sopra; in conclusione il suo traboccante affetto
misto alla mia depressione, bordata di peccaminoso pizzo nero, lo
avevano portato a compiere un errore di cui si sarebbe pentito per
tutta la vita. Io affronto più pacificamente con la cosa,
per me non
era stato un imperdonabile errore, so di essere stata una brutta
persona ma mi sentivo così sola, ferita, trascurabile agli
occhi
dell'intero mondo.
«Perché
tenti di respingermi?»
una parte di me vorrebbe dirgli che no, io non sto tentando di
respingere proprio nessuno, sto apertamente rivangando un passato
doloroso come ha fatto lui dicendomi di tornare in America. Chiudo
gli occhi e rifletto, ma alla fine non trovo nulla che valga la pena
dire.
«Senti,
io ho bisogno che tu venga, tuo zio ha bisogno che tu venga.
È
arrivato il momento di chiudere i conti con questa storia, di
affrontare i fantasmi del passato.»
butta fuori tutto con celerità, «ti
ho già mandato per email i biglietti aerei, ci vediamo in
aeroporto.»
e la linea cade lasciandomi a scuotere la testa, esterrefatta dalla
sua teatralità nel riattaccare senza darmi nessuna
possibilità di
oppormi. Prendo atto della cocciutaggine di quel maledetto e mi volto
verso le luci notturne di Canary wharf, con la testa in arresto e il
petto gravoso; il timore di non riuscire a liberarmi di quella parte
di me, radicata in ognuno di loro, mi accorcia il respiro, come se
queste mie radici più che l’origine di ogni linfa
vitale fossero
in realtà la catena che mi costringe al suolo.
A quanto pare
andrò al matrimonio di Jacob e Renesmee, non posso credere di aver
ceduto.
📍 Forks, 2 mesi dopo
Day
1
Arrivo al Quillayute Airport e appena fuori vedo zio Billy,
agita la mano con vigore mentre procedo verso di lui stringendomi
nella giacca a vento, la sua chioma argentata è mossa da
un lieve
vento che la rende luminosa. Tiene sul grembo un cartello con su
scritto “Bentornata Maggie” e
accanto a lui Edward,
poggiato alla sedia a rotelle, stringe un palloncino rosa con
un’espressione eloquente e un sorriso divertito. Vederli
insieme mi
fa uno strano effetto, ma suppongo ormai siano tutti una grande
famiglia felice. L’amara considerazione che l’unico
ingranaggio
arrugginito della loro vita sia io si fa strada dentro di me mentre
forzo il buonumore e bacio mio zio su tutto il viso, provocandogli
risate gioiose.
Tutto ciò che ho di più simile a un
padre -
è la frase che mi avvolge con calore quando lo sento
esclamare
«Figlia
mia, sei tornata a casa.»
è commosso e non posso far altro che pensare sia la sua
felicità il
lato positivo di questa imponente montagna di merda, in seguito mi
soffermo sulle sue parole, ancora una volta mi procurano dolore:
casa?
Guardo Ed, nella sua eterna giovinezza rinnegata
dall’abbigliamento maturo, mi porge il palloncino chiudendosi
nelle
spalle e si passa una mano tra i capelli. Sembra agitato. «Sei
invecchiata.»
sussurra, aprendosi in un mezzo sorriso sornione. Lo spintono e
sbotto divertita: «molto
spassoso!»,
successivamente ripongo la mia attenzione ancora su zio Billy, mentre
mi dice: «Adiamo
in macchina, Jacob ci aspetta.»
Colta dalla sensazione che mi si stesse congelando il sangue nelle
vene mi immobilizzo, tornando lucida solamente quando Edward mi
agguanta la spalla. Il freddo della sua mano mi fa comprendere che,
pur sentendomi un ghiacciolo, sto andando a fuoco.
«Non
ha voluto sapere ragioni, voleva venire.»
mi spiega lo zio, vedendo la mia reazione. Edward comincia a spingere
la carrozzella e io lo seguo attonita, quando riprendo
sorprendentemente a respirare dico : «per
questo sei qui»
non è una domanda, ma Edward annuisce lo stesso. Un paio di
minuti e
ci fermiamo davanti un’auto che non riconosco, dalla portiera
del
guidatore viene fuori un omone alto e asciutto. Blue jeans
dall’aria
costosa e un maglione da golf di ottima fattura, a stonare con il
tutto un berretto dei Seattle Marines calcato sulla testa,
metà viso
all’ombra. Mi stupisco nel vedere un uomo simile rispondere
all’immagine di Jacob. Mi chiedo quanto sia autentica quella
figura
che da di sé adesso e rispondo ai suoi saluti sussurrando un
“ciao”
tra lo scioccato e il turbato. Una gomitata glaciale mi ridesta anche
ora. «Hai
fatto buon viaggio?»
mi chiede, riesco a incontrare il suo viso e - per fortuna o
purtroppo - i suoi lineamenti e i suoi occhi scuri sono esattamente
quello che ricordavo di lui, senza la barba sarebbe lo stesso
ragazzone di sempre, ha però un’aria triste.
Pensando a quella
cupezza come ad una sua reazione nel constatare il modo in cui mi
sono ridotta in questi anni non posso fare a meno che essere
seccata.
Non voglio che provi pena per me, non è per questo
che sono tornata.
«Tutto
okay, grazie Jake.»
rispondo con garbo e provo un sorriso cordiale, oserei dire
britannico, per convincere lui e persino me stessa che va
bene.
«Faremo
meglio ad andare, gli altri si staranno chiedendo dove siamo
finiti.»
borbotta Edward, Billy annuisce con veemenza ed io non posso che
azzardare un sorriso compiaciuto nel vedere quanto vadano d'accordo,
la loro complicità è sbalorditiva. In un secondo
istante, quando
siamo tutti seduti in macchina e la strada ci scorre già ai
lati,
faccio mente locale sulle parentele che si andranno a cementificare
grazie al matrimonio: Billy ed Edward hanno il bene dei loro figli
come interesse comune, la mia salute mentale come obiettivo da
raggiungere nel corso di quella che si prospetta essere una lunga
settimana. Arrivati in casa si affronta un’altra sessione di
saluti
e presentazioni in cui Rachel non manca di farmi notare aspramente
quanto sia ingiusta la mia presenza allo sposalizio di Jake, vista
l’assenza al suo con Paul. La realtà è
molto diversa da quella
che superficialmente sembra essere un capriccio da ragazzina: avevo
cominciato a franare dopo aver scoperto il coinvolgimento di Artamon
nella morte dei miei, una cosa che dopotutto sarei riuscita a
superare, l'ennesimo trauma della mia vita che si accatastava sul
mucchio già abbondante di cose a cui non potevo dare un
senso fino
in fondo, ma poi è arrivata Renesmee, coronamento della
storia
d’amore di Bella ed Edward, il colpo di grazia al debole
imprinting
che legava me e Jacob.
Così la storia si era ripetuta, io ero
Amelia.
Tutti –
quando è successo – sapevano che sarei dovuta
andare via, gli
occhi lucidi di zio Billy brillavano di una consapevolezza dolorosa
mentre Embry caricava i miei bagagli sull’auto che mi avrebbe
condotto in aeroporto. Erano presenti nella loro totalità,
sembrava
quasi stessi presenziando alla mia stessa veglia funebre. Il mio
ultimo periodo a La Push aveva finito per farmi galleggiare in una
brodaglia insipida fatta di indolenza e accettazione delle cose;
avevo trovato una via di fuga spedendo richieste ai college
più
lontani e nell'attesa ero riuscita a sopravvivere, sguazzando in
quella disgustosa sensazione. Leah aveva giocato un ruolo
fondamentale, mi aveva convinto lei a cambiare aria, dicendomi quanto
fosse un dono poter estraniarsi dalla realtà malata di
Forks. In
principio mi sembrava un'idiozia quell’inneggiare ad una mia
ipotetica libertà: io
non la
volevo, non sapevo che farmene; ma adesso, a quasi dieci
anni
di distanza, appare limpida la verità di ogni singola parola
che
aveva pronunciato Leah in quei mesi, mentre mi sorprendo a
considerare la mia vita a Londra come l’unica che io abbia
mai
vissuto, fosse quasi una sorta di fuga dissociativa. Lei, Leah, non
poteva fuggire dalla sua natura, non poteva fingere di non essere
quello che era e le ferite che aveva dentro risultavano profonde ed
incurabili. Ad un certo punto, chissà di quale maledetta
giornata,
aveva deciso di non volere più sopportare dei fardelli
così
gravosi. Pensavano fosse scappata - anche io ne ero certa - fino a
quando, mesi dopo, non avevano rinvenuto il suo corpo vicino al
confine con il Canada. Sono certa che non fosse il matrimonio il
motivo scatenante di quel gesto, più probabilmente
però la goccia
che aveva fatto traboccare il suo enorme, gigantesco vaso di lacrime
e delusioni, perciò non avevo trovato la forza di salire su
un aereo
per guardare Rach e Paul sposarsi, non avevo neanche provato a
cercarla quella forza, non dopo essermi assentata al suo funerale.
Sarebbe stato un torto che non potevo farle. Non a lei.
Evitando
qualsiasi tipo di attrito, mi limito a sorridere delle scuse per
l'assenza e prendo subito le distanze da quella bolla
d'inconsapevolezza che circonda Rachel e il suo mondo arcobaleno per
rifugiarmi sotto l'ala di zia Sue, che mi sorride dolorosamente
capendo ogni cosa. Zia Sue sta con Charlie Swan adesso, la sua
esistenza dopo il rinvenimento di Leah era appesa ad un unico filo:
Seth. Con il tempo suo figlio è riuscito a farla pian piano
tornare
a vivere, grazie anche alla forza di Ronnie e all'infinita tenerezza
della piccola Hope, che ormai è nel bel mezzo
dell'adoloscenza. È
stato un corteggiamento spietato quello di Charlie, Sue un giorno si
è arresa al suo fascino, ritrovando un parte di quella
sensazione di
pienezza che le sembrava ormai lontana e irrecuperabile. Renesmee
–
Nessie, come la chiamano qui – sembra aver
deciso di
risparmiarmi da un crollo nervoso la prima sera, restando a casa sua.
Quando mi congedo per la notte il mezzo reggimento che invade la zona
giorno di casa Black sembra deluso, ma non me ne curo e chiudo il
più
in fretta possibile la porta di camera mia borbottando qualcosa sul
jetleg.
Day2
È
veramente insensato dover ancora star appresso a tutto ciò.
«Meg,
sei la solita guastafeste!»
indirizzo a Seth una delle occhiate più adirate che abbia
mai avuto
modo di vedere nella sua vita e alzo le braccia al cielo,
arresa.
«Sai
cosa? Fate ciò che volete, siete grandi abbastanza da
riuscire a
capire che non sarebbe il caso, ma evidentemente mi sbaglio di
grosso!»
borbotto, sedendomi sul consueto tronco cavo, che avevo da anni
amabilmente ribattezzato “della rassegnazione”.
Ricevo un
bacio sulla tempia e poi lo squadrone guizza verso il dirupo. Chiudo
gli occhi per non guardarli lanciarsi nel vuoto e li riapro
unicamente dopo aver sentito il goffo concento di schizzi, urla
liberatorie e risate. In fondo non sono così infastidita
dalla
situazione: un libro tra le mani, il loro fracasso, gli alti abeti e
pini marittimi, la lieve brezza che li scuote, il cielo e l'acqua che
si toccano per migliaia di miglia, tutto questo mi toglie il fiato e
mi procura un tuffo al cuore. Per un secondo, un solo secondo
meraviglioso, ho 17 anni e sono a casa mia.
«Qui
è sempre identico, vero?» dà suono ai
miei pensieri la sua voce,
visto il momento non so quanto e se mi stia facendo male, suppongo
che avrò modo di scoprirlo più tardi. Mi accorgo
di avere gli occhi
chiusi e quella che deve essere un'espressione beata solo quando
cambio posizione, voltandomi verso di lui per guardarlo. Mi sta
sorridendo, leggero e sincero.
«In modo
rassicurante ed inquietante al contempo.» rispondo,
fiocamente, la
mia voce tradisce un po' di emozione.
Annuisce, d'accordo con me e
dopo avermi chiesto il permesso prende posto sul tronco al mio
fianco. Vengo invasa da quello che suppongo sia il suo profumo, sa di
acqua di colonia, la cosa mi sorprende, ma meno del previsto. Di
nuovo oggi il suo abbigliamento casual-chic contrasta con il consueto
berretto da baseball calcato sulla testa. Mi rendo conto dopo un paio
di minuti che ci stiamo studiando spudoratamente a vicenda, quando
nel processo di scandaglio dell'altro ci ritroviamo occhi negli
occhi.
«Sai, è assurdo quanto tu sia cambiata rimanendo
sempre
la stessa.» dice infine, girandosi verso l'orizzonte e
affinando lo
sguardo per via della luce.
«È esattamente quello che ho pensato
anche io vedendoti ieri.» mi ritrovo a confessare, ma lui
scuote la
testa. Constatando il mio sguardo accigliato capisce di dover
motivare quel gesto, allora mi spiega: «per me non
è stato
immediato. Ieri ero sbalordito nel vederti così. Il modo in
cui
porti i capelli, il trucco, il tuo abbigliamento che non consiste
più
in felpe e jeans rattoppati. Insomma, sei una donna ora!», si
ferma,
ridendo di gusto, «ero sconvolto!» ridacchio
insieme a lui e
allungo il braccio per riporre il libro che ho tra le mani nella
borsa.
Lui
mi blocca per leggerne il titolo, il suo tocco caldo mi paralizza
mentre continua a parlare: «e poi ti ho vista seduta su
questo
tronco con un libro della collezione di Carlisle in mano. Sei la
solita Meg, non è cambiato niente.» Siamo
veramente vicini adesso e
mi manca quasi il fiato quando in nostri occhi si trovano. Provo una
sofferenza che avevo arginato per così tanto tempo da
metterne in
dubbio l'energia distruttiva e gli occhi mi pizzicano immediatamente
appena mi raddrizzo, ristabilendo una distanza adeguata tra noi. Il
mio io britannico
non
può far altro che constatare quanto sia
inopportuno
questo
suo atteggiamento nei miei riguardi a poco meno di cinque giorni dal
suo matrimonio, ma forse sono io a gonfiare la situazione, a notare
atteggiamenti inesistenti. Continuo a rimuginare, ma una sua frase mi
ridesta dal marasma: «Tu non senti niente, tra di
noi?»
Non
stavo immaginando proprio un cazzo.
Con tutta la forza che mi
rimane lo guardo dritto negli occhi, le nostre attuali e passate
sofferenze si incastrano come i pezzi di un puzzle mentre gli scavo
dentro e questo mi fa ancora più fottutamente male. Sono
alla
ricerca di un briciolo di misericordia in lui quando abbozzo
stravolta: «Perché mi stai facendo questo? Dopo
tutto quello che ho
passato.» E mi sento subdola a giocare la carta del mio
lontano
tormento così sfacciatamente, anche perché lui
prende un respiro
profondo e frana sulle ginocchia, nascondendo il viso tra le braccia.
Cade il silenzio e non riesco a trovare un modo per rendere meno
insensata la situazione, il cuore sta per uscirmi dal petto; ad un
certo punto capisco: la logica non va cercata da nessuna parte, la
logica sono io. Rincuorata da questa rivelazione, dico:
«Lasciami
fuori da qualsiasi cosa ti stia passando per la mente.» Sono
più
sicura dopo aver parlato, mi alzo e prendo la borsa, caricandola
sulle spalle.
È stato uno sbaglio tornare.
Me lo ripeto
ossessivamente mentre mi addentro nella foresta che riporta al
sentiero ghiaioso per la riserva. Lungo il tragitto incontro Seth, su
due piedi invento una giustificazione su una chiamata di Billy che mi
chiede aiuto per fare la spesa. Non è a casa che sono
diretta, c'è
solo un posto dove vorrei essere in questo momento.
È stato
uno stramaledettissimo sbaglio tornare.
«Hey-hey,
dove vai tanto di corsa?» mi chiede Ronnie, accostando al mio
fianco, la guardo e i miei occhi si riempiono di lacrime. Sto per
esplodere, non posso più farcela ad accampare scuse.
«M-mi
porti da Leah, p-per favore.» balbetto, strozzando le parole.
Il suo
sguardo si fa angosciato e senza aggiungere niente si allunga aprendo
la portiera della sua auto, facendomi segno di sedermi sul posto
passeggero.
Day3
«Io
non ci posso credere!» Mi tappo la bocca e soffoco un urlo
mentre
Alice mi punge con uno spillo, destinato allo scollo del mio abito e
non al mio petto. Forse.
«Alice,
non so neanche cosa intendesse sul serio, me ne sono andata
praticamente subito. Magari voleva soltanto sapere se provassi
qualcosa.» sussurro pianissimo, sperando nessuno mi senta,
che sia
una speranza vana?
Lei mi punta un dito contro e assottiglia lo
sguardo, «Se è una bugia e lo stai coprendo sappi
che Edward lo
scoprirà e farà di quel cane uno
scendiletto.» annuisco,
consapevole che sarebbe andata esattamente così.
«Questa
situazione ha un ché di paradossale.» dice in tono
disteso Amelia,
sfogliando annoiata una rivista di cartamodelli per abiti da
cerimonia,«insomma, al massimo avrebbe potuto provare un mal
di
pancia, per la miseria! È assoggettato da un
imprinting.» poi alza
gli occhi al cielo, «non che questo in passato l'abbia mai
fermato,
in effetti.» Ci scambiamo un'occhiata d'intensa, di quel tipo
che
può esistere tra chi come noi due c'è stata
dentro per davvero in
questa situazione irreale, mi sento rassicurata dal suo sguardo
ambrato. Un frastuono assordante ci costringe a girarci tutte verso
la porta della camera, in qualche secondo si materializzano ai nostri
occhi Esme e quella che suppongo essere Nessie.
La
creatura più bella che avessi mai visto,
non saprei come altro descrivere quei lunghi capelli ramati e setosi,
quelle labbra perfette, quell’incarnato etereo. Mando
giù il
boccone amaro e quando Esme chiude discretamente la porta, come se
quel atto bastasse a coprire il frastuono, tutti tornano alle loro
occupazioni e capisco che nessuno parlerà del rumore o ne
indagherà
le cause. Alice torna sulla mia scollatura e mi mima un “sono
Ed e
Bella”, intanto che penso se siano impegnati in una litigata
furiosa o in una seduta di sesso selvaggio vengo interrotta dalla
conseguenza incantevole e catastrofica della mia seconda ipotesi.
«Tu
devi essere Megan.» allunga la mano verso di me. Bellissima,
perfetta.
«Proprio
cosi»
sono imbarazzata, si respira un'aria tesa e perfino Esme si tortura
nervosamente le mani con un sorriso forzato sul volto dolce.
«Sono
contenta di conoscerti, Jacob non parla mai di te, Billy tiene
sottochiave tutto ciò che ti riguarda e qualsiasi traccia
della tua
presenza è stata accuratamente riposta in un cassetto per
non creare
malumori.»
Mio malgrado mi ritrovo a spalancare gli occhi, provo a dire qualcosa
ma la mia bocca si spalanca e basta, dandomi quasi certamente
l'espressione di una ottusa zucca di Halloween.
«Renesmee,
sei stata molto indelicata.»
La rimprovera Alice, con uno
sguardo incredulo.
Lei si chiude nelle spalle e mi riserva uno sguardo impenetrabile,
«scusa,
non mi piacciono i mezzi termini. Comunque sia bentornata! Ora
scusatemi ma devo andare a controllare che zio Emmett non abbia fatto
un disastro con la disposizione dei tavoli.»
Si lancia letteralmente dalla finestra e mi lascia lì,
disorientata.
«Perdonala
tesoro, è una sposina stressata»
la giustifica Esme.
«Oh-oh
no, oh-oh proprio no!»
ridacchia sadica Amelia, poi mi riserva una guardata eloquente.
«Lei
sa tutto»
diciamo all'unisono io, Alice e
lei. I toni
sorpresi, scocciati e angosciati delle nostre voci si fondono in una
polifonia discordante.
«Oh,
misericordia.»
erompe esasperata Esme e prende
posto con fare
scombussolato, socchiudendo gli occhi all'ennesimo tonfo sordo.
Non
so ben identificare la ragione per la quale non ritorno alla riserva
dopo il siparietto sconfortante condiviso
con Nessie, presumibilmente perché quello che
è uscito fuori
risulta alle mie orecchie la conferma definitiva ciò che
avevo
percepito, ovvero del mio essere fuori luogo e tempo limite in questi
luoghi e nei pensieri delle persone che li popolano; malgrado
ciò
nella piccola biblioteca di Carlisle respiro a pieno e mi concedo di
abbassare la guardia.
Mi avvicino agli scaffali pullulanti di tomi
e poso al suo posto il libro che tengo in borsa, lo avevo abbandonato
a casa Black per anni. Ne accarezzo il dorso, praticando una lieve
pressione per portarlo ad uniformarsi al fronte unico di cuoio verde
e sospiro appagata, accarezzando con le dita i caratteri dorati dei
titoli che incontro sulla strada che mi conduce alla poltroncina da
lettura vicino alla finestra. Mi lascio cadere su di essa e mi perdo
al di là degli scaffali, consapevole che questa sensazione
pacifica
e appagatrice sarà con ogni probabilità una delle
poche favorevoli
che mi ricorderò di questi giorni. Cerco di imprimere al
meglio il
modo in cui la luce colpisca le superfici, il profumo delle fresie
sul tavolino e il colore degli alberi subito fuori dalla finestra,
dello stesso verde intenso delle rilegature che mi circondano.
Qua
alla fine mi sento a casa.
«Non
mi stupisce trovarti qui.» sorrido
alla voce di
Edward mentre lo sento avvicinarsi piano, passo dopo passo.
«Avete
dato spettacolo questa mattina»
lo dico senza pensarci, rilassata e contenta di poter parlare con un
amico, ma alla vista del suo viso corrugato comprendo che avrei fatto
probabilmente meglio a star zitta. «È
tutto okay?»
azzardo, mettendomi seduta
composta e
puntandogli gli occhi in viso, incerta se andargli incontro per
offrirgli conforto.
«Diciamo
che io e Bella facciamo i conti
con l'eternità.»
L' atteggiamento che assume lascia intendere il suo rifiuto
categorico di continuare il discorso, quindi mi cucio la bocca e gli
tendo una mano, che prontamente lui afferra. Il suo viso si distende
e condividiamo un minuto di muta complicità, contemplo le
sue
piacevoli fattezze, penso al suo buon animo e mi lascio cullare da
pensieri dolciastri sul nostro passato, su noi due; quelle limitate
circostanze passate insieme mi scivolano addosso, semplici.
«Meg.»
mi rimprovera e io come scottata mollo la sua mano, che lui si porta
tra i capelli, per poi stringere tra le dita il setto nasale.
«Credimi,
non è il caso.»
Mi
scuso con un fil di voce, dandomi dell'imbecille, lui si avvicina e
mi tocca delicatamente la guancia, piegandosi sulle ginocchia. Mi
guarda dritto negli occhi e per la seconda volta in due giorni mi
sento avvolta in un tormento asfissiante.
Perché il loro
affetto mi soffoca così dolcemente?
«Ci
sarò sempre per te.»
adagia le labbra sottili sulla mia fronte e indugia lì,
mentre io
cerco di riemergere dalla burrasca in cui sto per annegare. «Non
sarei dovuta venire»
lo dico a me stessa per l'ennesima volta e lo chiarisco a lui, che
è
stato il primario fautore del mio ritorno.
«Sai
quanto ho bisogno di te ed egoisticamente oserei dire che me lo
devi.»
strabuzzo la vista e la punto su di lui, con un sorrisino confuso
sulla faccia.
«Ah,
sì?»
credo di comprendere a cosa si riferisca,ma preferisco chiederlo per
fugare ogni dubbio.
Lui si stringe nelle spalle, dicendomi «quella
volta a Candem in cui mi hai fatto buttare giù
immotivatamente tanti
di quegli shot di tequila da perderne il conto, ad esempio.»
«Hey!
Sarebbe stato triste ingurgitare da sola tutto quell'alcool!»
esplodiamo con un'ilarità liberatoria.
I nostri visi sono a tal
punto vicini, il suo alito così fresco, gli occhi incatenati
e per
un attimo penso che dopotutto sarebbe esclusivamente uno sfiorarsi di
labbra e neanche il primo, non ci sarebbe niente di negativo nel
cercare calore in Edward, di certo questo mio modo caino di
riflettere non è un avvenimento insolito. Dal canto suo
anche lui
presumibilmente necessita di qualche smanceria, di un fugace
sollievo. Il mio flusso di pensieri si interrompe bruscamente,
insieme ai lenti movimenti dell'uno verso l'altro, dall'istante in
cui qualcuno si schiarisce la voce pesantemente a limitata distanza
da noi, facendomi prendere uno spavento.
«Ragazzi,
per favore, un parossismo per volta»
mormora Derek, afferra le nostre fronti e le spinge lontane, in un
gesto non necessario, ma molto melodrammatico. Alla Derek.
Edward
respira profondamente e dopo avermi lanciato uno sguardo addolorato
esce dalla stanza in un soffio, seguito dal fratello ed io rimango da
sola, accaldata e arruffata, seduta scompostamente su quella dannata
poltroncina.