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Autore: adamantina    11/05/2020    2 recensioni
Cominciò tutto una mattina qualunque, quando Sam, nel mezzo di una colazione come mille altre in un diner di Pine Grove, Louisiana, chiese:
«Allora, com’è andata con quella cameriera bionda? Sei rientrato tardi stanotte.»
Nella sua testa, aveva già in mente la risposta del fratello, qualcosa sulla falsariga di Mi ha fatto salire a casa sua e le ho fatto dimenticare persino come si chiamava, o in alternativa, Mi stai rinfacciando gli orari a cui torno la sera come se fossi mia moglie, Sam, fatti una vita.
«Non è successo niente. Mi ha proposto di farci una sveltina in bagno, ma non ne avevo voglia. Sono andato a fare un giro in macchina da solo per farti pensare che ero con lei.»
Sam sollevò gli occhi dal suo piatto di uova e fissò il fratello, apparentemente intento a dissezionare una fetta di bacon. Per diversi secondi regnò il silenzio. Poi Dean sembrò rendersi conto di quello che aveva appena detto e impallidì.
«Cazzo,» disse. «Fottutissime streghe.»
(Storia partecipante al Contest "Tarocchi Narranti" indetto da _Vintage_ sul forum di EFP)
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Dean Winchester, John Winchester, Sam Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest | Contesto: Prima stagione
Capitoli:
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CAPITOLO 2

 

Dodici giorni andati, sei rimasti, e Sam stava maledicendo mentalmente se stesso per aver insistito a investigare le persone scomparse a Watson, a poche miglia da Pine Grove. L’aveva proposto perché Dean aveva i nervi a fior di pelle da giorni, a malapena gli rivolgeva la parola, e anche lui stesso sentiva il bisogno di sfogare la tensione accumulata. Questo, però, forse non era il metodo più appropriato.

Il sensitivo diventato serial killer che li aveva imprigionati nella propria cantina aveva infatti capito immediatamente il loro piccolo problema.

«Hai un’aura lilla,» aveva annunciato allegramente, guardando Dean. «Hai fatto arrabbiare una strega, eh?»

Dopodiché, aveva cominciato a giocare con lui come un gatto con il topo, approfittando del fatto che sia lui che Sam fossero legati saldamente a due sedie e non potessero muovere un dito.

Chi siete? Cosa ci fate qui? Da dove venite? Come mi avete trovato? Avete armi nascoste? Come pensavate di uccidermi?

E Dean, naturalmente, aveva dovuto rispondere con dolorosa sincerità a ogni singola domanda, mentre Sam assisteva impotente allo spettacolo. Superate le formalità, lo psicopatico di turno aveva deciso di divertirsi un po’.

«Mm, vediamo… Dean, qual è stato il giorno peggiore della tua vita?» domandò, facendo roteare tra le dita un lungo coltello sporco di sangue.

Sam avrebbe voluto coprirsi le orecchie, ma non aveva potuto fare altro che evitare lo sguardo del fratello e fingere di non aver sentito la risposta:

«Il giorno in cui Sam è partito per Stanford.»

«Uh, interessante!»

Dean guardò Sam con aria implorante, come a chiedergli di trovare un modo per zittirlo. Sam si strinse nelle spalle, impossibilitato a fare qualunque cosa: essendo legato alla sedia, non poteva neanche dare un colpo in testa al fratello per metterlo KO ed evitargli perlomeno l’umiliazione. L’unica cosa positiva era che Dean non sapeva della lametta che Sam aveva nella manica della camicia, con la quale stava lentamente lavorando per liberarsi, e quindi non aveva potuto dire nulla al riguardo al loro carceriere. Però si trattava di un lavoro lungo e impegnativo, che avrebbe richiesto molti minuti per essere portato a termine, anche se l’attenzione dello psicopatico era concentrata su Dean.

«E com’era la vita dopo che Sammy è partito?»

Sam avrebbe voluto chiudere gli occhi e fingere che non stesse succedendo nulla, ma si limitò a continuare il lento lavoro di tagliare le corde e a fissare il rapitore per assicurarsi di non essere scoperto.

«Uno schifo. Io e papà non ci siamo praticamente rivolti la parola per sei mesi. Ho cacciato da solo per la prima volta e poi sono andato da Sam e non avrei dovuto, non me ne fregava nulla di fare attenzione e ho rischiato di essere ammazzato e papà mi ha urlato contro e se n’è andato per i fatti suoi e quando mi sono rimesso in piedi sono tornato di nuovo a Stanford e–» Dean si bloccò dopo aver parlato così velocemente da perdere il fiato e si morse il labbro con violenza.

«Sei tornato a Stanford, eh?» lo istigò il sensitivo, accovacciandosi davanti a lui e sfiorandogli il volto con il coltellaccio che teneva in mano. Dean si tirò indietro bruscamente per quanto gli era possibile, cercando di evitare il contatto. «Per fare visita al tuo fratellino?»

Sam si ostinò a non guardare il fratello, la gola chiusa dall’angoscia e un senso di colpa che gli vibrava nella mente, perché una parte di lui era morbosamente avida di informazioni e voleva sapere di cosa Dean stesse parlando. Lui ricordava con chiarezza solo un’occasione in cui Dean gli aveva fatto visita, e poi era sparito del tutto.

«Sono andato a trovarlo, ma non mi sono fatto vedere.»

«No no, Dean, questo non va bene. Stai tralasciando qualcosa di importante.» La lama del coltello stavolta penetrò la pelle, lasciando una sottile scia di sangue dalla tempia allo zigomo. Dean strinse i denti e cercò di allontanarsi, ma il sensitivo lo afferrò per i capelli e lo tenne fermo. «Dimmi perché non ti sei fatto vedere.»

Sam continuò a limare le corde laboriosamente, il cuore che batteva più rapido del normale, desiderando dire qualcosa – qualunque cosa – per distrarre l’attenzione da Dean e dalla lenta tortura che stava subendo, ma sapendo di essere l’unica possibilità di concluderla in tempi brevi.

«Era con una ragazza,» disse Dean, la voce strozzata per essere costretta a uscire contro la sua volontà. «Con Jess. Sembrava… felice, e non volevo intromettermi.»

«Perché mai pensavi che farti vedere avrebbe significato intromettersi, Dean?» cantilenò il cattivo, mentre la lama proseguiva il suo percorso, tagliando una linea continua dal lato del collo di Dean al suo petto, strappando la t-shirt al suo passaggio. Dean fece una smorfia di dolore.

«Perché ero il motivo per cui se n’era andato,» rispose.

Sam sussultò e rischiò di farsi scivolare la lametta dalle dita già intorpidite.

«Non è vero,» protestò senza poterselo impedire.

Lo psicopatico si voltò di scatto verso di lui, come se si fosse appena ricordato della sua presenza. Sam imprecò mentalmente e si affrettò a far risalire la lametta nella manica, lasciando il lavoro incompiuto.

«Non è vero,» ripeté comunque, cercando lo sguardo di Dean senza successo, mentre questi teneva la testa ostinatamente voltata dall’altra parte. «Non me ne sono andato per colpa tua.»

«Perché lo pensavi, Dean-o?»

Sentire quel pazzo usare un nomignolo affettuoso che gli ricordava papà provocò a Sam un’ondata di nausea.

Dean emise un suono spezzato e Sam vide distintamente una goccia di sangue scivolargli sul mento per la forza con la quale si era morso il labbro per non rispondere. Doveva essere la domanda giusta, quella a cui a tutti i costi non aveva voluto rispondere. Approfittando del fatto che il carceriere fosse nuovamente concentrato su Dean, Sam si prodigò per continuare a segare le corde, e con un fremito di sollievo si accorse che erano finalmente vicine a cedere.

«Perché… perché…» Dean stava annaspando, e Sam non aveva bisogno di guardarlo per sapere che il pazzo stava di nuovo usando il coltello su di lui, ma non poteva voltarsi, doveva finire il lavoro e doveva finirlo subito. «Perché quello che stavamo facendo non era normale e lui voleva scappare e aveva ragione, ed era tutta colpa mia.»

Sam sentì una violenta stretta allo stomaco, perché non era possibile che Dean avesse pronunciato quelle parole, e anche se lo aveva fatto non poteva pensarlo davvero. Non poteva veramente essere convinto di essere stato lui la ragione per cui…

«E cosa stavate facendo esattamente?»

Dean emise un singhiozzo strozzato che diede a Sam la spinta finale per riuscire finalmente a recidere gli ultimi filamenti della corda che gli stringeva i polsi. Con uno scatto si liberò e si mise in piedi, per poi gettarsi senza esitazione sul sensitivo, che si era voltato con gli occhi sgranati, coltello alla mano. Per quanto potesse essere esperto, però, non aveva alcuna possibilità contro un Winchester inferocito.

Sam lo disarmò in una sola mossa e non ebbe alcuna esitazione nell’atterrarlo e usare il suo stesso coltello per trafiggergli il petto, lasciandolo in pochi secondi a terra senza vita.

Si voltò subito dopo verso il fratello, che era rimasto immobile, gli occhi serrati e il respiro accelerato, il sangue che gocciolava dai numerosi tagli e il labbro gonfio per i troppi tentativi di impedirsi di parlare.

«Dean,» mormorò, e recuperò uno dei coltelli che gli erano stati sottratti per liberarlo. «Stai bene?»

Troppo tardi si rese conto di aver di nuovo posto una domanda che l’avrebbe costretto a rispondere sinceramente.

«No,» rispose Dean con la voce rotta. «Possiamo andarcene da qui?»

 

Un’ora dopo, erano tornati nella solita stanza del motel di Pine Grove, ormai familiare come una casa d’infanzia, e Dean si era chiuso in bagno con la scusa di una doccia, negando bruscamente di aver bisogno dell’aiuto di Sam per medicare le ferite.

Era stato un viaggio silenzioso in maniera imbarazzante, e Dean aveva messo a tacere il fratello con un’occhiataccia ogni volta che aveva provato ad aprire bocca. Sam aveva la mente in tumulto, ogni singola parola che Dean era stato costretto a pronunciare che gli risuonava in testa ripetutamente.

Quando Dean aprì la porta, Sam lo osservò in silenzio mentre si lasciava cadere sul letto libero, e non poté impedirsi di dire:

«Non sei tu il motivo per cui me ne sono andato.»

Dean chiuse gli occhi.

«Sam, non ne voglio parlare.»

«Io sì.»

«Vuoi costringermi anche tu a rivelarti cose che non voglio dire?»

«No, voglio solo mettere le cose in chiaro.»

«Le cose sono già abbastanza chiare così.»

«Non me ne sono andato per colpa tua, Dean.»

Dean si alzò di scatto e andò verso la porta, per poi rendersi probabilmente conto di essere svestito e che era notte fonda e limitarsi a spegnere con più forza del necessario la luce della stanza.

«Voglio andare a dormire.»

«Me ne sono andato perché avevo bisogno di cambiare aria, e perché il nostro stile di vita mi stava facendo impazzire.»

«E quindi? Che differenza fa?» ribatté Dean, la sua voce che giungeva bassa dalla penombra della stanza.

«Volevo allontanarmi da papà e della caccia, non da te.»

«Pensavo volessi una vita normale

«Infatti.»

«E nella tua concezione di normale è incluso scopare con tuo fratello, Sam?»

Le parole di Dean, così fredde e crude, riecheggiarono per un momento nel silenzio della stanza. Sam prese fiato, senza credere che Dean l’avesse detto davvero. Se c’era una cosa di cui non parlavano mai – specialmente da quando avevano ripreso a cacciare insieme – era proprio questa. Dean prese il suo silenzio come una risposta e rise amaramente.

«Come pensavo.»

«Dean…»

«Andiamo a dormire. Domani dobbiamo iniziare a preparare l’incantesimo.»

Sam, senza sapere come continuare la conversazione, annuì in silenzio.

 

Se avesse dovuto indicare il momento esatto in cui era iniziato tutto, Sam non ne sarebbe stato capace. Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordare un momento della sua prima adolescenza in cui il suo rapporto con Dean non fosse stato diverso.

E non sapeva neanche dire in quale momento l’affetto fraterno che provava per lui fosse diventato quella cosa strana, sbagliata, ingestibile che lo divorava costantemente ancora adesso, un decennio più tardi.

Non aveva potuto farci nulla: innumerevoli docce fredde, tentativi di concentrarsi sulle compagne di classe più carine, discorsi dispregiativi con se stesso erano stati inutili.

E Dean… beh, Dean sicuramente non l’aveva aiutato in quel senso. La prima volta in cui aveva baciato una ragazza, Dean – che aveva dodici anni – era rientrato nell’appartamento che li ospitava temporaneamente e si era lasciato cadere sulla sedia di fronte alla sua. Sam aveva sollevato lo sguardo dai compiti che stava facendo e l’aveva guardato con aria interrogativa.

«Sammy, non hai idea. Ho baciato Sarah Paulson.»

Sam aveva lasciato cadere la penna e aveva preteso il racconto dettagliato dell’impresa, che Dean non aveva mancato di descrivergli il più precisamente possibile, mentre lui ascoltava a metà tra l’ammirato e il disgustato.

Era stato l’inizio di una tradizione: tutte le prime volte (e spesso anche quelle successive) di Dean erano state accompagnate da racconti precisi dell’accaduto, spesso bisbigliati nel buio dopo che John era andato a dormire. Sam non sapeva esattamente in quale momento quei racconti erano passati da confidenza fraterna a motivo di gelosia, ma sapeva con certezza che quando Dean, poco più che sedicenne, gli aveva confidato di aver fatto per la prima volta l’amore con una ragazza (e quello non era affatto il termine che aveva usato), Sam aveva ascoltato tutto il resoconto con una strana sensazione che gli annodava lo stomaco, per poi chiudersi in bagno e scivolare con la schiena contro la porta, una frustrazione enorme che lo travolgeva, indeciso se piangere di gelosia o entrare nella doccia e farsi una doccia ghiacciata per scacciare il calore che lo aveva assalito.

E poi… poi era stato il suo turno, ed era cambiato tutto. Perché Sam sicuramente c’era arrivato più tardi rispetto al fratello, ma c’era arrivato con stile (e con una certa dose di disperazione, perché doveva dimostrare che poteva essere normale anche lui, grazie tante). Una sera, quando Sam aveva quattordici anni, era rientrato nella roulotte che era la loro casa in quel momento, si era lanciato sul divanetto accanto a Dean e aveva rivelato:

«Dean… sono appena tornato da casa di Cindy.»

Aveva iniziato a raccontargli del suo primo bacio, e di come al primo ne fosse seguito subito un secondo, e di come Cindy gli avesse spinto la mano sotto alla gonna e come fossero stati costretti a fare assolutamente silenzio perché i suoi genitori stavano guardando la televisione al piano di sotto e…

Sam aveva notato lo sguardo infuriato di Dean e la cascata di parole si era arrestata. Era sceso il silenzio, si erano guardati.

«Avete fatto sesso?» gli aveva chiesto Dean, la voce più roca del solito.

Sam aveva deglutito.

«Uhm. No.»

Le spalle di Dean si erano abbassate di un millimetro, forse per il sollievo, forse per qualche altro motivo incomprensibile.

«Bene,» aveva sentenziato, per poi alzarsi e andarsene dalla roulotte.

Sam era rimasto lì, immobile, senza riuscire a dare un senso a ciò che era appena successo. Ci aveva pensato e ripensato, cercando di intuire dove potesse aver sbagliato, cosa ci fosse di diverso tra il suo racconto e tutti quelli che Dean gli aveva sottoposto negli anni. Aveva continuato a pensarci anche dopo che Dean era tornato, quella notte, così ubriaco da non riuscire a infilare la chiave nella serratura, e anche quando Cindy gli aveva chiesto di nuovo di uscire, il giorno seguente, e lui le aveva detto di no senza neanche riflettere.

Ci aveva pensato così tanto che quando quella sera era arrivato a casa dopo la scuola e aveva visto Dean con solo un asciugamano in vita, i capelli bagnati, appena uscito dalla doccia, gli si era piazzato davanti, lo aveva guardato per un momento e poi lo aveva baciato.

Il resto era storia. Dean era impazzito, l’aveva cacciato via e gli aveva imposto di non farlo mai più, e i suoi buoni propositi erano durati fino all’appuntamento successivo di Sam, qualche settimana più tardi, dopo il quale Dean aveva forzatamente rimosso ogni residuo del sapore alla fragola del lucidalabbra della ragazza e lo aveva messo schiena al muro, una mano a tenergli fermi i polsi, per poi ricordargli esattamente a chi appartenesse.

La vita, da quel momento in poi, in realtà non era cambiata così tanto. Avevano continuato a comportarsi da fratelli, a spintonarsi e a battibeccare per delle sciocchezze, a guardare film horror commentando quanto i mostri fossero poco credibili, a discutere su chi fosse il personaggio migliore del Signore degli Anelli (per Sam era evidentemente Gandalf, per Dean era Aragorn). Ma oltre a questo, adesso c’erano sessioni improvvisate di baci durante un bagno estivo al lago; abbracci nascosti quando papà usciva, accompagnati dall’adrenalina e dal terrore di poter essere scoperti; c’erano le notti sotto alle coperte quando finalmente sapevano di essere soli per qualche settimana.

Il problema non era mai stato Dean. Il problema era tutto il resto: John e la sua testardaggine, il regime militare a cui li sottoponeva, la caccia, la vita in continuo movimento, il terrore quando Dean partiva con il padre per una caccia e tornava ferito e zoppicante. Sam si sentiva sempre più fuori luogo, guardava i suoi compagni di classe nelle varie scuole che attraversava pianificare il proprio futuro in maniera così naturale: il college, la specializzazione, un lavoro, una casa, una famiglia.

Sam era tormentato: da una parte la vita normale che aveva sempre desiderato; dall’altra Dean, che era tutto ciò che aveva e l’unica persona che contava davvero.

Quando aveva mandato la domanda di iscrizione a Stanford, Sam non credeva neanche che gli avrebbero risposto. Aveva sempre avuto ottimi voti, questo era vero; ma aveva cambiato decine di scuole e gli unici insegnanti che gli avevano scritto una lettera di raccomandazione lo conoscevano sì e no da sei settimane. Per questo non l’aveva detto a Dean – o almeno questo si era raccontato: inutile parlargliene quando con ogni probabilità non se ne sarebbe fatto nulla.

Tranne che poi era arrivata la risposta: ammissione con borsa di studio completa. Inizio della settimana di orientamento il primo lunedì di settembre.

Era giugno e Sam aveva in mano il suo biglietto per scappare. Peccato che Dean non ne avesse idea e continuasse a sorridergli come se niente fosse, a proporre piani per il futuro – appena avrai preso il diploma partiremo con l’Impala, Sammy, solo io e te, a cacciare e a fare tutto quello che vogliamo, insieme – senza sapere che avevano i giorni contati.

Perché Sam aveva pensato di non accettare, ma la furia gli cresceva dentro ogni volta che discuteva con papà e che Dean prendeva le parti di John; e lo stesso faceva il suo odio per tutto ciò che riguardava il sangue, la caccia, le armi, quella vita che non aveva scelto e che lo aveva marchiato per sempre. Non poteva restare.

Ricordava come se fosse ieri l’ultima notte che avevano passato insieme. Lui sapeva già che se ne sarebbe andato l’indomani, mentre Dean era ancora all’oscuro di tutto. Con la coscienza pesante, Sam aveva lasciato che il proprio egoismo prendesse il sopravvento e aveva trascinato Dean nel letto con sé per un’ultima volta. John era nella stanza accanto, quindi avevano fatto l’amore in assoluto silenzio, spegnendo ogni gemito sulle labbra dell’altro, e Dean aveva sorriso, guardandolo con una devozione totale, e Sam si era sentito la persona peggiore del mondo per non aver saputo essere una persona adulta, per non aver detto la verità a Dean fin da subito.

Quando Sam aveva finalmente trovato il coraggio di annunciare la propria imminente partenza, il giorno seguente, Dean era impallidito e aveva dovuto sedersi. Papà aveva protestato, aveva urlato, gli aveva intimato Se esci da quella porta non tornare mai più, e Sam aveva fatto esattamente quello, la furia che lo invadeva senza lasciare spazio ad alcun pensiero razionale.

Quando aveva afferrato il suo borsone per andarsene, Dean lo aveva fermato e gli aveva detto che lo avrebbe accompagnato almeno fino alla stazione degli autobus. Papà gli aveva urlato dietro qualcosa, ma Dean, per una volta, non l’aveva ascoltato. Il tragitto nell’Impala era stato mortalmente silenzioso, e quando Dean lo aveva lasciato alla fermata, gli aveva messo in mano una busta piena di soldi e aveva ignorato ogni suo tentativo di protestare.

Prenditi cura di te, Sammy.

 

Quelle parole gli erano risuonate nella mente per mesi, a Stanford. Ogni volta che faticava a prendere sonno nella stanza del dormitorio, con il suo coinquilino che russava e si rigirava e che non era Dean, Sam pensava al fratello e si chiedeva cosa stesse facendo. Lo immaginava insieme a papà, nel mezzo di una caccia, impavido e spensierato come sempre, oppure intento a conquistare la popolazione femminile di tutti i paesi che attraversava (e Sam ignorava sempre la fitta allo stomaco che gli provocava quel pensiero in particolare), o sereno alla guida dell’Impala, con i Led Zeppelin sparati al massimo e i finestrini abbassati.

Non aveva mai pensato che la situazione potesse essere diversa. Certo, supponeva che Dean sentisse la sua mancanza – e un po’ ci sperava – ma non credeva che la sentisse allo stesso modo in cui la percepiva lui: un vuoto costante e incolmabile, un pensiero fisso. Un continuo domandarsi se avesse fatto la scelta giusta a lasciarsi alle spalle l’unica persona che lo avesse mai capito.

Far coincidere quelle supposizioni con tutte le informazioni che Dean gli aveva fornito nelle ultime settimane, più o meno volontariamente, era difficile. Sam aveva a questo punto un’immagine abbastanza chiara dello stato di devastazione che il fratello doveva aver attraversato in quel periodo: Dean chiuso nel suo silenzio ostinato e John infuriato, il nome di Sam eliminato da qualunque conversazione.

In quei mesi, Sam aveva scritto dei messaggi al fratello più o meno regolarmente. Gli aveva fatto sapere il proprio indirizzo, in caso volessi passare da queste parti, com’era il suo coinquilino, come andavano le lezioni. Dean gli rispondeva raramente, ma quando lo faceva l’intera giornata di Sam sembrava illuminarsi.

Una volta, Sam gli aveva anche telefonato. Certo, era piena notte ed era completamente ubriaco dopo una festa, ma aveva preso in mano il telefono e lo aveva chiamato. Non ricordava molto di quella conversazione: era abbastanza certo di aver biascicato qualcosa di imbarazzante tipo Mi manchi e Non ce la faccio più e Ti prego, e Dean doveva averlo ascoltato in silenzio, per poi parlargli a bassa voce di cose stupide, come il fatto che si era rotta una delle sue musicassette dei Metallica, o che quel giorno aveva attraversato tre stati diversi, o che aveva acceso la TV e aveva trovato una replica di quel cartone animato con cui Sam era ossessionato quando aveva cinque anni, e Sam si era addormentato stringendo a sé il telefono.

Dopo quella chiamata, Sam era sparito per un po’, imbarazzato dalle rivelazioni che gli erano sfuggite. Poi, una sera, mentre era intento a studiare, qualcuno aveva bussato alla porta. Sam aveva aperto, pensando che fosse qualche compagno di corso passato per chiedergli gli appunti, ed era rimasto senza fiato quando si era trovato davanti il fratello, pallido come la morte e che a malapena si reggeva in piedi.

«Dean,» aveva mormorato, incredulo.

«Ciao, Sammy,» aveva risposto lui, per poi accasciarsi prontamente in ginocchio sull’uscio dell’appartamento.

«Dean!»

Sam si era affrettato a portare il fratello dentro casa fino al bagno, un po’ trascinandolo e un po’ convincendolo a collaborare. Improvvisamente si era sentito seriamente grato che il suo coinquilino non fosse a casa quella notte.

«Cos’è successo?» gli aveva chiesto, la voce piena di ansia.

«Un lum… un lu’cntropo,» aveva bofonchiato Dean.

«Un licantropo? Dimmi che non ti ha morso, ti prego.» Sam sfilò la camicia e la maglietta dal corpo quasi inerme del fratello.

«No, no, solo… solo ‘ffiato.»

«Non mi sembra proprio un graffio,» aveva mormorato Sam, ispezionando i quattro tagli paralleli che correvano lungo le costole di Dean e sanguinavano abbondantemente.

«Non… niente ‘spedale, S’mmy.»

«No, ok, Dean, tranquillo. Niente ospedale.»

Sam aveva medicato e ricucito tutte e quattro le ferite, mentre Dean scivolava nell’incoscienza e si risvegliava ripetutamente; gli aveva dato una dose potente di antidolorifico e l’aveva portato di peso sul proprio letto.

«Scusa, S’mmy. Non sapevo… andare,» bisbigliò Dean quando appoggiò la testa sul cuscino.

«Shh, non ti scusare. Dormi, vedrai che domani andrà meglio.»

Dean aveva ancora detto qualcosa di incomprensibile a mezza voce, per poi scivolare nel sonno. Sam era rimasto sveglio quasi tutta la notte, su una sedia accanto al letto, tormentandosi le mani e fissando il fratello come se fosse un fantasma. E in un certo senso lo era, un’impronta della sua vita passata che dopo quasi un anno di assenza era ricomparsa dal nulla. Tuttavia, rifletteva Sam mentre guardava la sua pelle bianca, le lentiggini che risaltavano su di essa più nettamente del solito, Dean non era affatto un fantasma. Era vivo e vegeto e sanguinante, e aveva deciso di venire da lui.

Alla fine Sam era crollato, ancora seduto ma con la testa appoggiata al letto, in una posizione scomodissima; e all’alba Dean aveva socchiuso gli occhi e lo aveva tirato con sé sotto le coperte. Sam non se n’era quasi accorto, rannicchiandosi d’istinto sul fianco sano del fratello, la testa sulla sua spalla, e aveva dormito bene come non faceva da mesi.

Al mattino, Sam si era svegliato e aveva trovato il letto vuoto e un bigliettino sulla propria scrivania. Grazie, Sammy. Ho una caccia da finire. Scusa per l’improvvisata. – D.

Sam lo aveva chiamato una volta, poi due; alla terza aveva permesso che le lacrime gli scorressero sul volto e che tutte le emozioni che aveva cercato di sopprimere uscissero allo scoperto.

Poi aveva rimesso insieme i cocci. Aveva smesso di scrivere a Dean, smesso di aspettare che si facesse vivo lui, smesso di pensarci (per quanto possibile) e si era concentrato sullo studio.

Un paio di mesi dopo aveva conosciuto Jess, e il vuoto che aveva dentro, se non si era colmato, era diventato più facile da dimenticare. Le vecchie abitudini erano state messe da parte, una nuova routine era entrata in gioco, la normalità a cui aveva tanto aspirato.

Dean, nel frattempo (lo sapeva adesso, ma allora non ne aveva idea) aveva rischiato di morire in una caccia comportandosi in maniera troppo avventata, per poi essere abbandonato da John in un paesino del Mississippi con l’avvertimento di darsi una regolata e mettere la testa a posto, o qualcosa del genere. E aveva conosciuto Dave.

Sam non avrebbe saputo dire perché, ma immaginare Dean con questo ragazzo a cui non poteva associare un volto era molto peggio di pensarlo con una sfilza di ragazze carine conosciute nei bar di mezza America. Dean aveva detto che erano usciti insieme, e quel termine faceva pensare Sam ad appuntamenti al ristorante, a serate passate sul divano con una pizza e un film, a mattine pigre in cui ci si svegliava insieme e si faceva l’amore dimenticandosi degli impegni della giornata. Cose che appartenevano a lui e a Jess; forse perfino a lui e a Dean, per certi versi, ma sicuramente non a Dean e allo stramaledetto Dave.

Poi John era tornato e Dean aveva dovuto salutare anche quello stralcio di normalità, e Sam non ne era affatto felice pensandoci adesso… no, neanche un po’.  Soprattutto perché Dean aveva ammesso che in quel periodo “pensava ancora a qualcun altro”.

Dean aveva ripreso a cacciare, e intanto Sam aveva cambiato vita, finalmente, e aveva capito di essere cresciuto, di essersi lasciato alle spalle la relazione che fino a quel momento era stata la più importante per lui, ma che sapeva, razionalmente e grazie al crescente distacco, essere sbagliata. Il cambiamento non porta sempre crescita, ma non c’è crescita senza cambiamento. La sua vita adesso era perfetta, almeno all’apparenza, e Sam non sentiva la mancanza di Dean, davvero, e se lo faceva non lo avrebbe mai ammesso perché adesso aveva Jess, adesso era felice…

Finché Dean non era ricomparso, facendo irruzione nel suo appartamento in piena notte, e aveva stravolto la vita che Sam aveva faticosamente costruito. Che era andata in fumo insieme alla sua casa, insieme a Jess, pochi giorni più tardi.

Insieme ad ogni speranza che Sam avesse mai avuto di poter veramente cambiare.

   
 
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