Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: NanaK    21/05/2020    1 recensioni
Non c'era nulla di molto valoroso in lei, ma la storia non viene sempre raccontata dagli eroi.
Genere: Avventura, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Armin Arlart, Eren Jaeger, Levi Ackerman, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo sesto
 
 
Le memorie ti scaldano da dentro.
Ma ti fanno anche a pezzi.
 
 
 
Tredici giorni prima della spedizione
 
«Mi ricordi mio fratello Malik, il problema è che lui ha otto anni».
La sua risata era di quelle che dovevi seguire, a prescindere da ciò che l’aveva causata. Tallulah addentò una delle mele che avevano appena rubato dalle cucine.
«Per il furto o perché odio le verdure?» le chiese, un sorriso ancora sulle labbra.
«No, perché sei una peste e una frignona, ma tutti ti amano» rispose Maria, picchiandole un dito sulla testa.
«Sei sicura di non star parlando di te?» ribatté Tallulah e la rossa rise ancora, piegando la testa all’indietro.
«Comunque...» aggiunse la riccia poggiando i gomiti sul tavolo. «Anche tu mi ricordi qualcuno.
 
Era quasi tutto pronto.
Tallulah era nervosa, ma tentava di camuffarlo: lo si notava da come continuasse a sistemarsi l’elastico tra i capelli e a chiedere ad Armin di ripeterle la loro formazione.
«Mi rifiuto di rispiegartelo» esclamò quest’ultimo, esasperato.
«Ti prego! Morirò di sicuro se non me lo dici» cantilenò, giocando con lui per l’ennesima volta da quando si erano svegliati.
Sasha, suo malgrado, rise «Ammetto che questi siparietti mi erano mancati. Finalmente siete tornati normali».
«Perché, prima come eravamo?» chiese Tallulah, incrociando le braccia.
«Io preferirei che chiudessi la bocca. Mi stoni il cervello da ore» borbottò Jean.
«Quale cervello?» gli chiese lei, ghignando e facendogli una smorfia.
Persino Mikasa sorrise a quel punto, ma si perse la controbattuta di Jean perché tornò a volgere lo sguardo verso Eren: le sembrava sereno nonostante l’espressione seria e si sentì rassicurata. Nessuna forza fisica si poteva paragonare alla sicurezza che la sola presenza del ragazzo le trasmetteva. Se lui era fiducioso, lei era fiduciosa; se lui era preoccupato, lei era preoccupata. Funzionava così da sempre e probabilmente così avrebbe continuato ad essere. Non si era accorta che Tallulah aveva spostato lo sguardo su di lei e aveva capito. Il suo sguardo si addolcì e pensò che la corvina avrebbe sicuramente voluto abbracciare Eren, ma non le passava neanche per la testa l’idea di farlo. Eppure, nessuno di loro aveva la certezza che sarebbe tornato e forse avrebbero fatto meglio a dirsi le cose importanti. Un lampo, e taglienti occhi azzurri le attraversarono la mente in un flash. No, non aveva più niente da dire a Levi, si era già messa in ridicolo abbastanza. Si soffermò sulla figura di Armin, indecisa se tacere o augurargli semplicemente un buona fortuna, quando un colpo di tosse la distolse dal suo trip mentale. Si voltò di scatto e rimase scioccata nel constatare che i suoi pensieri si erano materializzati: il Capitano Levi era proprio a due passi da lei.
Poco prima l’uomo aveva interrotto bruscamente la conversazione con Petra poiché aveva visto qualcosa che non andava nella sella della ragazzina. Nemmeno si domandò per quale motivo o quando i suoi occhi avevano cominciato a seguirla sempre più spesso. Conscia della situazione, Tallulah si raddrizzò e fece il saluto militare, seguita dai suoi compagni più vicini.
«Buongiorno Capitano» esclamò con voce innocente, tentando di non arrossire.
Levi soppresse la tentazione di sollevare le labbra in una smorfia soddisfatta.
«Vieni. Serve che tu faccia un lavoro prima di partire» ordinò, voltandosi subito dopo. Tallulah lanciò uno sguardo agli altri e con un’alzata di spalle si affrettò a seguirlo; camminarono a quel modo per qualche metro fino a girar l’angolo e procedere in direzione delle stalle. La ragazza era in conflitto: una parte di lei voleva fermarlo e chiedergli cosa volesse. L’altra parte non osava, conscia ora del suo rango superiore. Arrivarono fino al grande capannone, vuoto, dato che tutti i cavalli erano fuori con loro. Levi entrò e sempre senza una parola si avvicinò alla cassa in cui riponevano le loro strumentazioni, iniziando a rovistare lì dentro.
A quel punto non ce la fece più «Cosa stai facendo?»
«Tieni» disse lui nello stesso momento.
Tallulah prese le cinghie che le aveva porto e le fissò senza capire.
«Le tue sono rovinate e sicuramente si slacceranno. Sai cosa vuol dire? Farai un volo all’indietro di un bel po' di metri, probabilmente sbatterai violentemente la testa e se non morirai dissanguata, morirai qualche secondo dopo divorata da un fottuto gigante».
Il suo tono indifferente mentre le dipingeva quelle immagini fu come una lama ghiacciata che le entrò lentamente nelle viscere.
«Grazie» mormorò lei e Levi stava per sottolineare la sua incompetenza nel non accorgersi di un tale lampante problema quando la guardò e lesse paura nel suo sguardo; quella paura che lei stava tentando di soffocare fin dalla sera prima. Levi la stava costringendo a guardare in faccia la realtà, nuda e cruda, proprio come faceva lui, ma non ci era abituata. Per un secondo, solo per un secondo, mentre si specchiava negli occhi freddi di lui le tremò il labbro superiore.
La mano del caporale si sollevò impercettibilmente, come se volesse toccarla.
Rassicurarla.
Realizzando quel pensiero, strinse le dita in un pugno e si allontanò di un passo, quasi a volersi accertare di non fare azioni sconsiderate. Non sapeva perché continuasse ad osservarla da lontano, perché si sentisse preoccupato per lei, tuttavia ne iniziava a comprendere la pericolosità.
«Levi» lo chiamò, di nuovo con il suo nome, e questo lo irritò.
Doveva smetterla o le conseguenze sarebbero state disastrose.
«Capitano» la corresse duramente e lei si morse un labbro, mortificata.
«Capitano» ripeté allora, con voce sottile «Stia attento, per quanto possa suonare stupido detto da me».
Levi alzò gli occhi al cielo: le aveva appena fatto capire quanto fosse vicina alla morte e lei si preoccupava per lui.
«Torna dai tuoi amici, mocciosa» disse, uscendo dalle stalle. Si fermò un attimo e le rivolse un’ultima occhiata. «Resta viva».
Quella fu la goccia e il vaso traboccò. Rimase da sola e improvvisamente respirare divenne difficile: ciò nonostante corse fuori, ripercorrendo all’indietro la strada fatta poco prima. Le campane cominciarono a suonare in quel momento, segno che stavano per partire e doveva sbrigarsi. Continuò a correre fino a che non raggiunse gli altri e andò dritta da Armin, che stava per salire a cavallo.
«Lu, dov’eri finita?» le disse, sentendosi tirare all’indietro.
«Armin, ho paura. Ti prego, sta attento» gli disse d’impeto e poi lo strinse, nascondendo il viso nell’incavo del suo collo. «E scusami se faccio sempre la stupida».
La formazione li avrebbe separati e lei aveva troppa, troppa paura di morire o di perdere qualcuno. Far finta che non stavano per rischiare tutto non avrebbe cambiato nulla. Il biondo sospirò e la abbracciò di rimando, anche più forte di quanto volesse.
«Posso-» le sussurrò appena nel suo orecchio, ingoiando l’imbarazzo. «Posso darti...?».
Se dovevano morire non aveva niente da perdere.
A quelle parole lei si allontanò quel che bastava per guardarlo e quando capì cosa le stava chiedendo, non si soffermò a pensare. Si sporse e lo baciò leggermente, chiudendo gli occhi e inspirando il suo odore familiare e tranquillo. Quando si staccò, Armin sorrise appena, lievemente in imbarazzo, e sciolse l’abbraccio.
«IN POSIZIONE!».
 
Cavalcavano da circa quindici minuti e Tallulah scrutava attentamente l’orizzonte: per adesso non si vedeva nulla arrivare e tutto procedeva come previsto. I razzi verdi stavano indicando loro la direzione da intraprendere ed il suo cavallo, Sherold, pareva tranquillo. Con lei c’erano Maria, Lydia e due ragazzi, volti con cui aveva scambiato poche parole durante i pasti e le ore di allenamento.
«Ricordatemi perché siamo qui» borbottò Abel, continuando a guardare in ogni direzione con il volto contratto.
«Ma come, non lo vedi? Stiamo andando in vacanza» rispose Maria con un ghigno cinico.
«Sul serio? Fare dell’ironia in un momento del genere è troppo anche per te» la rimbeccò Narke.
«Lulitaa, avanti, difendimi!».
Tallulah sorrise, ma non disse nulla, fin troppo concentrata a ciò che era attorno a lei; a parte il vento che sferzava nelle orecchie e gli zoccoli che cavalcavano il terreno tutto era silenzioso. Sentiva quasi bruciare il fianco destro, là dove si trovava la pistola e le scorte di fumogeni.
Sperò con tutte le sue forze di non dover usare quelli peggiori.
«Ehi, sento qualcosa» mormorò Lydia e pochi secondi dopo videro un fumogeno sfrecciare verso l’alto, lasciando una scia nera.
Come non detto.
Erano una delle squadre più esterne sulla destra, subito dopo la squadra di localizzazione, e immediatamente tutti si zittirono e si misero all’erta.
«Non vedo un cazzo di niente» borbottò Abel, teso.
Maria caricò la sua pistola e segnalò il titano anomalo.
«Qualcosa deve essere sfuggito alle vedette»
«State pronti, ragazzi. Non possiamo sapere se riusciranno ad abbatterlo».
«In teoria dovremmo essere protetti. Ci sono due reclute con noi, non-»
Ancora una volta, fu Lydia ad indicare qualcosa alla loro sinistra, interrompendo Narke. Tallulah aguzzò la vista e scorse una grossa nube di polvere. Con il fiato sospeso, non poterono far altro che aspettare che si avvicinasse per capire come agire.
«Merda» le sfuggì a mezza voce non appena poté mettere a fuoco quella figura mostruosa e strinse maggiormente le redini, accelerando.
Era enorme, forse una quindicina di metri. Alto e veloce, aggiunse la sua mente, notando quanto in fretta si avvicinava. 
«Dobbiamo fermarlo, non possiamo lasciare che si avvicini alla formazione» esclamò Maria, senza più traccia di divertimento.
Tallulah la guardò e «Ma... Se è arrivato da noi vuol dire che...».
Stavolta fu lei a non rispondere, ma negli occhi aveva quella stessa consapevolezza mentre fissava quel gigante.
«Non avrei voluto chiedervi di combattere, non siete pronte. Ma devo». Tirò fuori la lama, seguita immediatamente dagli altri. «Facciamolo fuori questo bastardo».
Di solito scene come quella venivano dipinte come momenti eroici in cui il tempo rallentava e tutto aveva una sua forma chiara e definita. Lei però aveva già sperimentato la battaglia e sapeva che la realtà non era così, la realtà travolge senza dare nemmeno un secondo di tregua. Alla fine, venne colta impreparata lo stesso; in fondo, non si è mai pronti ad una carneficina. La terra tremò al passo di quella bestia che in un battito di ciglia era tra di loro; vide appena in tempo il piede che la sovrastava e con uno scatto cambiò direzione per schivarlo. Abel, dietro di lei, saltò, evitando zolle di terra sollevate dal gigante e si arpionò con i cavi al suo polpaccio impugnando le lame con forza. Gli ferì una gamba e senza perdere tempo, riposizionò l’arpione per risalire il corpo e mirare al collo. Non fece in tempo neanche ad arrivare all’altezza delle spalle, il gigante lo afferrò, dimostrando dei riflessi non comuni, e lo fissò con sguardo cupo. Tallulah gelò ed ebbe l’impressione che quell’anomalo stesse pensando: quelli non erano occhi vuoti e assenti, erano vivi.
Chiuse la mano che teneva Abel, stritolandolo come uno straccio bagnato, e poi lo lanciò via, davanti alle espressioni sconvolte dei suoi compagni. Narke urlò di rabbia e direzionò il cavallo, salendovi in piedi e lanciando immediatamente un arpione alla coscia enorme, ma venne intercettato a metà strada: il gigante sollevò l’altra gamba e lo calciò con una violenza inaudita.
Ma.. Ma che succede.. Non ci sta mangiando fu l’improvvisa realizzazione di Tallulah che la spinse a guardare Maria e leggere le sue stesse intenzioni.
«Lydia, insieme!» urlò e abbandonò il suo cavallo, volando verso il gigante nella direzione opposta delle altre, da dietro. L’anomalo sollevò una mano e andò a coprirsi la nuca, dando conferma alle sue supposizioni.
Aveva una coscienza.
Capì di dovergli ferire la mano e l’unica possibilità era approfittare di un attacco combinato. Le ragazze gli erano davanti e stavano per sferrare un fendente, quando il gigante si voltò fulmineo, troppo veloce per la sua stazza, e Tallulah vi si ritrovò faccia a faccia. Nemmeno in quel momento il tempo rallentò. Venne colpita senza che potesse vedere come e perché e l’impatto con la terra fu brutale: le tolse il fiato per parecchi secondi e un fischio potente le esplose nel timpano. Poteva ancora sentire vibrare sotto di sé e mosse appena le dita.
Alzati.
Sentì un urlo rabbioso e riconobbe a stento la voce senza parole di Maria, troppo sovrastata da quel fischio. Si forzò a percepire lentamente tutte le sue membra e il dolore arrivò, al petto e su un fianco.
Sei viva, alzati!
Piegò le braccia e fece leva su di esse, ignorando i muscoli tremanti. Le costò fatica sollevare la testa e forse rimpianse quella scelta. Forse, un giorno, avrebbe rimpianto di non essere morta lì, in quella distesa di campagne verdi, libera solo per qualche ora d’inferno. Maria si librava ancora in aria, preda da una furia cieca, senza dare il tempo a quel gigante di afferrarla. Era rimasta sola, ma non riuscì a capire dove fosse Lydia. Ingoiò il dolore familiare della perdita e si mise in piedi, tenendo gli occhi fissi sulla chioma rossa. Per un attimo, il dolore al petto si amplificò e vide un altro viso, un'altra chioma.
Le ricordava Sadie, Maria.
All’improvviso fu come se l’anomalo si fosse stancato di giocare e saettò verso di lei, mosca fastidiosa che continuava ostinata ad attaccarlo.
«NO!». La voce le scoppiò nei polmoni, la lucidità tornò e le sue gambe si mossero da sole con uno scatto, correndo verso di loro. Quella mano enorme afferrò il cavo di manovra di Maria e per un attimo gli occhi azzurri del gigante saettarono su Tallulah che sfrecciava verso di loro. Allungò il braccio all’indietro per prepararsi e fu come se prendesse la mira: lanciò il corpo dell’amica e non fece in tempo a spostarsi.
Nemmeno durante quel volo il tempo rallentò.
Venne travolta, per la seconda volta, e sbattè la testa con violenza.
Poi, il buio.
 
Cinque giorni prima della spedizione
 
Erano semisdraiate sul letto di Tallulah e parlavano a bassa voce da ore, per non svegliare le altre. Erano state gentili a far rimanere Maria e non volevano disturbarle, ma non riuscivano ad addormentarsi. Erano entrate in sintonia in un modo così naturale che in pochi giorni si erano entrambe aperte l’una all’altra quasi completamente. Le aveva persino raccontato ciò che era successo con Armin, provandole a spiegare il loro rapporto.
«Ma sei proprio tonta. Come hai fatto a non accorgertene?»
«Non ti ci mettere anche tu»
«L’ho capito subito, si vede lontano un miglio: se lui si muove, tu ti muovi. È bello, un po' ti invidio».
Tallulah si mise a riflettere su quelle parole e sentì che le piacevano. Sì, era bello il suo rapporto con Armin.
«Non lo so, è tutto confuso, non ne vengo fuori» sussurrò Tallulah dubbiosa.
«Beh, effettivamente è dura se di mezzo c’è il Caporale Levi. Lulita, le tue giornate sono molto eccitanti» ridacchiò Maria, poi fece il broncio «Io non ho ancora baciato nessuno».
Tallulah sollevò le sopracciglia, stupita.
«Credevo che tu e Dimitri...»
«Nah. Siamo solo amici» liquidò lei con un gesto della mano e Tallulah alzò gli occhi al cielo.
«E sarei io la tonta?!».
Maria fece finta di lanciarle un cuscino.
«Piantala! Dai, dimmi cosa si prova a baciare qualcuno».
 
Un soffio di vento spostò ciocche rosse dal suo viso.
Le palpebre tremarono, ma non si aprirono.
C’era silenzio dappertutto.
Di nuovo il vento arrivò, più intenso e qualcosa si mosse.
Aprì le labbra secche e gli occhi si schiusero.
La prima cosa che vide fu il cielo, limpido e tranquillo, come quello d’estate quando andava con i nonni in gita. La pervase una sensazione di felicità lancinante, gli incubi erano finiti.
Sono tornata.
Poi, la mente riemerse dall’oscurità e divenne consapevole del peso sul suo corpo. Tentò di muoversi, ma senza successo; spostò la testa a sinistra per capire in che condizioni fosse. Fu solo allora che il tempo si fermò, quando vide il corpo riverso su di lei in una posizione innaturale e rigida e la realtà si abbatté impietosa. Occhi bui e privi di vita furono unici testimoni del grido straziante che le proruppe dalla gola.
Con immensa fatica sgusciò appena, quel tanto che bastava a osservare meglio Maria.
Aveva il collo spezzato.
Le lacrime, stavolta, non riuscì ad ingoiarle e gridò ancora.
Perché Perché Perché Perché.
Non c’era spazio per pensare. Le prese il viso morto tra le mani sporche di terra e vi posò la sua fronte, singhiozzando convulsamente.
Perché mi devi lasciare anche tu? Perché non posso morire io al vostro posto?
Maria era forte, più forte di quanto Tallulah non sarebbe mai stata; quando parlava la gente che era vicino si fermava ad ascoltarla perché aveva un modo tutto suo di attrarre l’attenzione. Era come Sadie, coraggiosa Sadie, che illuminava la vita di tutti. Non sapeva quanto tempo avesse passato priva di sensi, né quanto ne passò prima che il respiro divenisse più regolare e gli spasmi si calmassero. Sapeva però che non poteva rimanere così scoperta un minuto di più; poteva quasi sentire la voce dell’amica che la sgridava per la sua debolezza.
«L-lo so, devo andare» le disse, come se la stesse ascoltando.
Si guardò attorno velocemente, ma solo il nulla la circondava. Nessuno era stato risparmiato, ma lei non riuscì a scorgere gli altri cadaveri.
Tornò a guardare l’amica con sguardo sofferente e tirò su con il naso. Si piegò su di lei e le accarezzò il volto.
«Vorrei portarti con me» sussurrò con voce spezzata.  «Ti lascio questo. Me l’ha dato Armin prima di partire».
Le baciò le labbra fredde e quello fu il suo addio. «Adesso sai cosa si prova».
Le chiuse gli occhi e le lasciò delicatamente il viso.
Poi si concentrò su come uscire da quella situazione orribile: gemette di dolore quando tentò di tirar fuori le gambe da sotto il corpo di Maria. Nessun cavallo, nessun segno di umanità all’orizzonte e sentiva di avere sicuramente qualcosa di rotto e acciacchi dappertutto. Le venne un’idea non appena vide poco distante il suo equipaggiamento danneggiato. Si trascinò sull’erba con i gomiti, cosa che le costò un notevole sforzo e le lacrime ricominciarono a scivolarle sulle guance. Ignorandole, allungò la mano verso la pistola e tastò le munizioni che erano sparse lì intorno. Caricò il razzo viola delle emergenze e sollevò il braccio per spararlo in aria. Era ben consapevole che fosse un rischio: poteva attirare altri giganti ed in quel caso sarebbe stata la sua fine definitiva, ma non aveva altra scelta.
Aspettò, seduta malamente e respirando piano.
I minuti scorrevano e quando non accadde nulla, tornò a risentire la disperazione. Avrebbe preferito morire con Maria che morire a quel modo.
All’improvviso vide un razzo verde attraversare il cielo, poi un altro e poi un altro ancora. La missione stava continuando senza di lei, nessuno sarebbe tornato indietro.
La disperazione si trasformò in paura e la paura in panico. Quel panico che azzera tutte le difese e pervade la mente annientando ogni lucidità, come una foschia viscida che si appiccica alle viscere. Si concentrò e tentò di pensare a qualche soluzione, ma continuava a fissare Maria e il dolore al costato era forte. Un rumore alle sue spalle la congelò ed ebbe paura persino a voltarsi: non voleva che l’ultima cosa che avrebbe visto fosse uno di quei faccioni deformi. Le tremarono le labbra quando sentì uno spostamento d’aria e subito dopo qualcosa che fece pressione sulla sua nuca, lasciandola paralizzata. Poi, uno sbuffo tra i suoi capelli le fece realizzare che non si trattava di un gigante. Si voltò e gli occhi le si riempirono nuovamente di lacrime.
«Sherold...» gemette con voce rauca. Accarezzò il muso del suo cavallo e con una risata stanca sfogò tutto il suo sollievo. L’animale pareva calmo e i suoi occhi caldi le diedero conforto, tanto da ritrovare la forza d’animo.
Alzati ancora!
Voleva ribellarsi a quella voce perentoria nella sua testa, distendersi e arrendersi.
Strinse i denti tenacemente e si mise carponi con una mano premuta sul fianco ed afferrare le redini con l’altra, aiutandosi a tirarsi su. Soppresse un grido di dolore, ma una volta in piedi salire in sella fu anche peggio. Cercò di ridurre al minimo i movimenti bruschi e quando fu a cavallo riuscì solo ad emettere un flebile vittorioso. Cavalcare sarebbe stato impossibile nel suo stato, era costretta ad andare al passo; guardò nella direzione lontana in cui aveva visto i fumogeni verdi e si decise a partire.
 
Mikasa guardò sotto di sé con ribrezzo quella folla di giganti che tentavano di arrampicarsi per raggiungerle. Chissà per quanto ancora avrebbero dovuto rimanere lassù senza sapere che cosa stesse accadendo nel fitto del bosco.
«Cosa saranno tutte quelle esplosioni di poco fa? Credi che ci siano dei nostri cannoni in questa foresta?» le chiese Sasha, accovacciata su un ramo accanto al suo. La corvina non le rispose e si focalizzò sull’orizzonte. Le sembrava che qualcuno stesse arrivando verso di loro e poco dopo distinse una figura a cavallo.
«C’è qualcuno dei nostri» mormorò e Sasha seguì il suo sguardo ed emise un’esclamazione di sorpresa.
«Sembra messo male. Ma se questi qui se ne accorgono...» disse inorridita.
Mikasa osservò attentamente la situazione attorno, cercando di calcolare i rischi e le possibilità di salvezza. I giganti non si erano ancora accorti di lui, ma era questione di minuti, forse di secondi.
«Oh mio dio» mormorò Sasha, interrompendo la sua analisi «È Tallulah!».
La mano della castana saettò sulle lame, ma Mikasa la precedette e si buttò giù, sfrecciando gas e uccidendo due giganti rimasti ai loro piedi. Sasha la raggiunse, tesa e concentrata, e una volta ripresi i cavalli, galopparono dietro gli altri giganti, ignorando le grida del loro superiore. Proprio in quel momento un urlo agonizzante lacerò il silenzio. Sasha si portò le mani alle orecchie, terrorizzata, mentre Mikasa si voltò indietro, verso la foresta, con un unico pensiero.
Eren.
All’improvviso le bestie fecero dietrofront, senza più alcun interesse verso di loro e iniziarono a correre verso il folto della boscaglia come se fossero posseduti. Dopo lo sconcerto iniziale, Mikasa alternò lo sguardo verso l’amica e la direzione opposta.
«Sasha, occupati di lei. Non so cosa li abbia scatenati, ma devo seguirli»
«Mikasa, aspetta!» la fermò Sasha, il viso terrorizzato «Ho già sentito quei versi da piccola. Sono quelli che emettono alcuni animali feroci quando erano presi in trappola: in questi momenti sono molto più pericolosi, devi fare più attenzione del solito. Molta più attenzione!».
«D’accordo > disse, dando fiducia all’istinto della ragazza. Lanciò un’ultima occhiata al volto stravolto di Tallulah che finalmente era vicina e infine fece un’inversione a U. Era in buone mani. Sasha continuò a galoppare ancora per un po'. L’amica era sconvolta e gravemente ferita; le colava sangue da una tempia e si reggeva un fianco, la carnagione grigia e i respiri veloci. Riuscì a prendere al volo le redini del suo cavallo e Tallulah la guardò, riconoscendola appena.
«Sono... felice di vederti» le sorrise, nonostante lo sforzo che le costasse.
«Sshh, non parlare. Sei al sicuro adesso».
 
Sei anni prima
 
«Vieni a cena da noi? Anny ha cucinato lo stufato di patate al vino»
«Adoro tua nonna» sospirò lei, con l’acquolina in bocca. Erano andate a fare una passeggiata per i campi e alcune commissioni e adesso era quasi il tramonto.
«Comunque ho deciso di fare i biscotti al cacao per la festa della quadriglia»
«Non vedo l’ora che arrivi. Se vuoi possiamo farli insieme»
«Non se ne parla, manderesti tutto a fuoco».
Sadie arricciò le labbra, imbronciata, e Tallulah pensò che fosse carina anche così.
Stava per dirglielo quando una sorta di esplosione fece tremare il mondo e cadde in avanti, rovesciando i sacchetti che teneva tra le braccia.
«Stai bene?» le chiese l’amica appena ripresasi dallo spavento.
«Sì... ma cosa è stato?»
«Non lo so, andiamo a vedere!».
Seguirono di corsa la colonna di fumo che si innalzava e raggiunsero un capannello di persone in piazza intente a guardare in alto: un viso orrendo si ergeva al di sopra delle loro mura. Tallulah trattenne il fiato ed un presentimento orribile si affacciò nella sua mente. Stava per lanciarsi in avanti e correre verso casa quando un’altra esplosione, più forte, la scaraventò all’indietro insieme all’amica e a molti altri lì vicino. Si guardò attorno con fatica e vide sangue, polvere e fumo che impregnava l’aria. Qualcuno la chiamò e vide Sadie poco distante da lei, che fissava inorridita il corpo di un uomo martoriato dalle macerie. Si rialzò a fatica e la raggiunse, tirandola via di lì.
«Non guardare» le disse con voce roca, tossendo subito dopo.
«...Ma...stanno entrando...».
Grida disperate si sollevarono da ogni punto della città e degli esseri enormi sbucarono da sopra i tetti. Fu allora che la realtà colpì Tallulah come uno schiaffo ed il suo mondo smise di essere la bolla di bambagia che era stato fino a quel momento.

«I-I nonni» balbettò e le crollarono le ginocchia. Casa sua era molto vicina alle mura: quelle macerie intorno a loro potevano appartenere proprio a lei.
«Lu, dobbiamo correre!» le gridò in un orecchio l’amica, terrorizzata, che fissava in alto.
«I nonni...loro...sicuramente...» continuava a mormorare, i rumori attorno a lei quasi lontani, gli occhi fissi sui resti degli edifici.
«Tallulah!!» strillò ancora Sadie, cercando di tirarla per un braccio. Lei la guardò, ma non la sentiva più. Aggrottò la fronte perché non capiva per quale motivo si stesse dimenando a quel modo e non afferrava le frasi che le stava urlando. Poi un tonfo tremendo le fece sobbalzare e cadere nuovamente. Alzò la testa e lo vide: un gigante, proprio lì di fronte a loro, intento a guardarle. Fu come se qualcuno le avesse dato una scossa e si tirò su, ricambiando finalmente la stretta dell’amica che aveva iniziato a piangere. Si mise a correre senza lasciarle la mano e continuando a lanciarsi sguardi alle spalle, sembrava che fosse lento e se fossero riuscite a nascondersi dietro qualche edificio l’avrebbero scampata. Dovettero saltare e scansare cadaveri e ogni tipo di ostacolo che ostruiva le vie della loro città. Lì dove ogni giorno avevano vissuto e passato momenti felici, dove tutto sembrava perfetto, ora era pieno di morte e orrore.
«Raggiungiamo il portone principale! È l’unico modo per salvarci».
Sadie annuì, asciugandosi le lacrime. Un’ombra coprì la luce del sole e sollevarono la testa nello stesso momento in cui quella mano si calò su di loro. Accadde tutto in una frazione di secondo: Sadie si voltò a guardarla angosciata e la spinse via con tutta la forza che aveva.
Fu lei ad essere afferrata. Sapeva di essere spacciata, Sadie, e lo accettò.
Eppure, cominciò a gridare a squarciagola.
«Alzati! Lu, alzati, scappa! Ti voglio bene, Lu, alzati, ti prego, vattene, non guardarmi, alzati!!».
«...No...».
Cominciò a vederci doppio, man mano che il corpo dell’amica si avvicinava ad una bocca enorme.
Non guardarmi.
Alzati.
E Tallulah scappò davvero, come una bambola senza fili, continuò a correre anche quando le grida di Sadie si persero nel trambusto o forse semplicemente si spensero come la sua vita; continuò a correre anche quando non sentì più le gambe e quando i polmoni bruciarono ad ogni respiro di fumo che inalava; continuò a correre anche quando non vedeva più nulla, solo contorni confusi annebbiati da un pianto che sapeva non si sarebbe fermato mai.
Riuscì a raggiungere quel portone e solo allora si fermò.
Glielo doveva.
Le doveva tutta la sua vita.
 
Levi stava ispezionando ogni volto del campo provvisorio che avevano organizzato per raccogliere i feriti ed i morti, le labbra tese in una linea ferma e gli occhi bui.
Aveva anche controllato i cadaveri, ma non aveva trovato il suo. Probabilmente era morta in quelle lande, sperduta chissà dove e aggiunse il suo nome alla lista mentale di coloro che si portava sempre dietro.
«Capitano, non dovrebbe muoversi. La sua gamba-» un soldato l’aveva raggiunto, probabilmente qualcuno che aveva conoscenze mediche.
«Continua a curare gli altri» lo liquidò indifferente.
Fu allora che la vide, su un carro, sorretta da una ragazza dai capelli castani.
Grossi lividi sulla mascella, sul collo, la testa fasciata e una mano su un fianco, ma viva. Sentì un sollievo pervasivo con cui avrebbe dovuto fare i conti nei giorni a venire. Si avvicinò tanto da attrarre la sua attenzione e per qualche secondo si fissarono, muti. Per la prima volta da quando l’aveva incontrata, gli occhi di lei erano vuoti.
   
 
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