CAPITOLO SEI
“Se dici sempre la
verità,
non devi ricordare
nulla”.
Mark Twain.
Decido di recarmi, per
prima cosa, presso il Mary’s House. Forse sbagliando, poiché sarebbe stato
meglio andare all’ospedale, però devo seguire le raccomandazioni dei miei
superiori, che mi chiedono indagini rapide per archiviare il caso.
La signorina mi ha
scosso, devo proprio dirlo. Tutto è contro di lei, ogni testimonianza e prova,
eppure crede così fermamente in quello che dice… ma in fondo anche se mi duole
pensarlo in tanti si comportano così. È il dolore che rende instabili e
inaciditi, e che può spingere a cercare una causa precisa anche quando essa non
esiste.
La clinica
psichiatrica, a primo impatto, mi sembra un posto davvero accogliente, per lo
meno se vista dall’esterno; è circondata da un ampio giardino e l’edificio è
ben curato. I vetri sono oscurati e non si vede nulla di ciò che accade dentro,
donando un discreto senso di riservatezza.
Suono al campanello e
immediatamente un’infermiera accorre ad aprirmi.
“Buongiorno” sorride,
ma poi nota la mia divisa e il distintivo che le mostro. “Come posso esserle
d’aiuto?” mi chiede, diventando serissima.
“Sono qui per il caso
riguardante il senatore Stradford”.
“Certo, capisco”
annuisce con convinzione, non dev’essere la prima volta che fa entrare un
agente per questo caso. Si affretta a controllare il tablet che stringe tra le
mani.
“Chiedo ai medici che
hanno seguito il signor Stradford e le faccio sapere appena possono riceverla.
Intanto si accomodi pure”.
La donna mi fa cenno di
seguirla all’interno.
Varcando l’ampia
soglia, vengo avvolto dall’odore di disinfettante e di pulito. Nella clinica
regna l’ordine più assoluto.
“Posso chiederle se lei
ha mai conosciuto questo paziente?” domando all’infermiera, prima che possa
sfuggirmi dalle mani.
“L’ho solo visto una
volta, da lontano. Qui c’è stato per poco, purtroppo” risponde, molto evasiva,
poi mi fa cenno di sedermi da qualche parte nell’ampio ingresso. “Si accomodi,
tra poco psichiatri, medici e direttrice saranno a sua completa disposizione”.
E così dicendo si allontana.
L’infermiera è stata di
parola, poiché pochi minuti dopo un uomo di mezza età e in camice bianco mi
viene incontro.
“Si accomodi pure,
agente” mi dice, facendo di nuovo cenno verso le poltroncine che mi circondano,
ma essendo interiormente agitato ho preferito non usufruirne. Tuttavia, per non
mostrare le mie insicurezze, mi accomodo di fronte all’uomo.
Egli non mi toglie gli
occhi di dosso per un istante, prima di iniziare a raccontare da solo.
“Abbiamo ricevuto molte
visite da parte della polizia, di recente. Ahimè, non abbiamo molto da
aggiungere alle precedenti deposizioni” afferma.
“Si presenti, per
favore” lo invito.
“Dottor Jonathan Zayne,
medico di medicina generale. Sono io che ho visto e visitato per prima
l’onorevole senatore” si presenta, mentre a mia volta gli mostro il distintivo,
per correttezza.
“Bene, dottore, mi
parli di questo famoso paziente, allora…”.
Il medico inizia a
raccontare con evidente noia tutta la manfrina che viene riportata anche nei
fascicoli che ho letto, senza alcuna variazione. Ancora una volta narra del
senatore confuso, giunto dall’ospedale dopo una scenata da brivido. L’anziano
mostrava tremolii, salivazione accentuata, ragionamenti talmente gravi e
aggressivi da richiedere subito un intervento specializzato.
“Perché non ne avete
parlato alla figlia?” lo interrompo a un certo punto, iniziando ad annoiarmi a
mia volta.
“L’avremmo fatto il
prima possibile”.
“Non mi risulta. Erano
trascorse diverse ore dal ricovero del paziente e ancora non era trapelato
nulla…”.
A questo punto il
medico inizia a dimostrarsi insofferente. Sul suo viso balenano in pochi attimi
tutte le smorfie più innervosite che esistono.
“L’avremmo fatto il
prima possibile” ripete e ribadisce con un moto di nervosismo. Sono convinto
che il dottore stia iniziando a crollare; continuo a notare come stia perdendo
gradualmente le staffe al cospetto delle mie insistenze e come forzandolo inizi
anche a ripetere le stesse frasi e a fornire le stesse risposte. Non vuole
parlare e a sua volta cerca di mantenersi sul terreno sicuro che ha battuto
finora.
“Va bene, questo l’ho
capito” insisto ancora, imperterrito, “però, ecco, questo lasso di tempo…
ragguardevole” e calco sull’ultima parola, “non è normale. Come non è normale
internare una persona in questo modo e vederla morire dopo poco”.
L’interrogatorio
informale si sta protraendo con risultati non proprio ottimali da ambo le
parti. Zayne resta zitto, si sfiora lentamente la fronte e sembra riflettere su
cosa dire. Chissà cosa gli frulla per la mente, poiché è tornato a mostrarsi
imperturbabile.
A frantumare il
confronto verbale, tuttavia, è l’arrivo di un altro signore di mezza età in
camice bianco.
“Agente, eccomi” saluta,
sorridendo. Il suo arrivo è provvidenziale per l’altro medico, che sembra
sciogliersi e si alza.
“Non ho altro da
aggiungere, agente Barley; ho detto e ripetuto tutto quello che so e quello che
c’è da dire. Devo tornare dai miei pazienti ora, il dovere chiama”.
Mi ritrovo a lasciarlo
andare, mentre il secondo tizio occupa la sua postazione appena lasciata libera
e inizia a parlare a ruota libera. Si presenta; dottor Jack Morrow,
psicoanalista.
Pare un libro aperto e
non mi lascia nemmeno il tempo per fare domande, poiché ripete a pappagallo ciò
che ha ribadito nelle precedenti deposizioni. Nulla cambia, nemmeno di una
virgola. Lui e il collega di medicina generale sembrano gemelli siamesi, persone
che hanno vissuto le stesse esperienze e avuto le stesse impressioni a riguardo
del paziente Stradford.
In ambito
professionale, ripete continuamente che l’anziano si era mostrato subito molto
turbato e più che mai deciso a farla finita. A nulla erano servite le
precauzioni della struttura.
“Non ho voluto
sottoporlo immediatamente a un trattamento che avrebbe potuto rivelarsi
invalidante. Ho preferito ascoltarlo, ma non c’è stato appunto il tempo
materiale per fare altro” continua a dirmi.
“Va bene, ho capito”
annuisco infine, tra l’annoiato e lo spazientito, “quindi anche lei non ha
altro da aggiungere alle precedenti deposizioni”.
“Spiacente. No”.
È il mio turno di
passarmi la mano destra sulla fronte. Quasi quasi mi ritrovo a desiderare di
tornare a visionare le scene del crimine dei piccoli furti di quartiere,
consapevole che presto ci tornerò se andrà avanti così. È come avere a che fare
con un muro altissimo.
Morrow mi lascia solo,
e poco dopo una distinta signora avanza verso di me. E’ molto seria, e anche se
non ha un’espressione apertamente ostile, la noto comunque un po’ scocciata.
“Agente, siamo stati
tutti cordiali e a sua completa disposizione, ma deve anche concederci di fare
il nostro lavoro, non crede?” poi mi porge la mano, presentandosi come la
direttrice della clinica, e si siede.
“Ed io devo fare il
mio, signora” le concedo.
Sorride.
Colei che si è
presentata come la direttrice Ellie Watford è una signora sulla cinquantina,
alta e dotata di un bel fisico. Elegante nei modi e nel vestire, ma allo stesso
tempo molto seria nel parlare. A prima vista, tuttavia, non mi ispira fiducia;
credo che l’antipatia, tuttavia, sia reciproca.
Sbuffa e si scosta i
capelli ricci e tinti che le scendono sul viso solcato da leggere rughe.
“Il suo lavoro l’ha
fatto, per questa mattina. Non abbiamo altro da dirle” replica a muso duro. Di
pietra, penso.
“Non sta a lei dirmi
cosa devo fare. Si ricordi che rappresento le Forze dell’Ordine”.
Ancora non fa una
piega.
“Lo so bene. Ma poiché
non siamo nell’epoca d’oro dell’inquisizione, le garantisco che non può
estrapolare altro da questi colloqui, quindi lasci perdere, per favore. Da
parte mia, quel paziente manco l’ho visto, dal tanto che è accaduto tutto in
fretta”.
Chiara, di poche
parole, cristallina nell’affrontare i concetti. Brutale, quasi, nella loro
esposizione.
“Vorrà dire che per
oggi la finiamo qui” sono costretto a cedere, alla fine, mentre mi sento sempre
più a disagio, “ma c’è caso che mi rivedrete, prima o poi. Il mio lavoro è far
chiarezza sui fatti accaduti, e nel caso di qualche lacuna, be’, non esiterò a
tornare”.
“La porta è sempre
aperta per lei e per i suoi colleghi, agente. Non abbiamo nulla da nascondere,
torni quando vuole”.
Vittoriosa, la
direttrice può permettersi di mostrarsi anche mediocre. Ho capito che vuole che
levi le tende una volta per tutte.
Non ho il tempo per
raccogliere le idee, poiché desidero solo uscire da quel posto e respirare un
po’ d’aria fresca.
Le stringo di nuovo la
mano e mi accomiato così tanto in fretta che mi ritrovo a urtare un uomo che
cammina nella direzione contraria alla mia, verso la signora ancora che si è
appena alzata per tornarsene probabilmente nel suo ufficio.
“Ops” borbotto,
scusandomi con lo sconosciuto, un signore vestito in modo formale. Egli mi
rivolge un rapido sorrisetto, prima di darmi le spalle e proseguire. Che gente
strana in questo posto!
Abbandono la clinica
con un po’ di imbarazzo sulle spalle, ma anche con la convinzione che presto
tornerò, poiché sento che c’è qualcosa di ancora non detto nonostante le
dichiarazioni concordanti, eppure allo stesso tempo così evasive.
La mia vita è una lunga attesa. Avete presente quando vi ho
parlato della stazione, dove di tanto in tanto qualche razziatore si reca per
prendere su qualcosa? Ebbene, io sono sempre seduto su quella panchina.
Anzi, mi correggo e mi scuso; su quella cazzo di panchina.
Mi piace sottolinearlo perché nella mia inutilità
esistenziale sono rimasto immobile, sono una larva che non rompe la crisalide e
se ne sta lì, a sfidare il tempo, ma con la consapevolezza di aver perso in
partenza quella battaglia. In fondo è come combattere contro i mulini a vento,
suvvia; tutti noi sappiamo che il tempo scorre comunque, e possiamo provare a
prenderlo in giro, o anche a fargli sonore pernacchie, ma alla fine sarà lui ad
averla vinta, dannato fiume implacabile.
So che mi ritroverò qui seduto ancora quando avrò i capelli
bianchi, magari questa panchina sarà pure il mio letto di morte, poiché il mio
treno, l’unico treno che desidero aspettare, da qui non passerà mai.
Mi hanno detto in tanti che sono troppo disilluso, e che un
giorno io mi sbloccherò. Niente di più falso, mi conosco troppo bene. Morirò
qui, crisalide che non ha mai rivelato ciò che si nasconde al di sotto della
sua dura scorza protettiva.
Ora, nella mia disillusione, io ci sguazzo e poi ci muoio.
Oh, sì, mentecatto che non sono altro! Vittima dell’umanità,
anche quando desidero non farne parte. Fosse per me, applicherei la pena di
morte contro me stesso. Peccato che non ne ho la forza.
Da dove è nata l’idea di una sorta di scalinata della
solitudine? Be’, di certo dal momento in cui mi sono accorto che la solitudine
ha diversi stadi, diversi momenti e diverse situazioni.
Ha una sua precisa complessità, come ogni cosa. Perché la
solitudine in effetti è una cosa, qualcosa di oggettivo; possiamo dire che ci
sentiamo soli, e questo lo dicono davvero in tanti, ma in pochi lo sono
veramente.
Io su questa merda di panchina ci sono stato seduto mentre
tutti quanti attorno a me festeggiavano; ho passato ogni Natale qui, solo,
consapevole di non essere necessario a nessuno per stare bene. Per donare un
sorriso. Nessuno mi ha mai desiderato al suo desco, né altri hanno mai accettato
di sedersi al mio.
Ecco, adesso non andate a pensare che io, l’umile Alex, stia
esagerando; sia mai! Al massimo sto minimizzando. Non avete idea di che cosa ho
dentro. Senza nessuno che mi cerca se non per bisogno, senza amore, senza
nulla.
Mi crogiolo nella materia e per fortuna quella non manca,
eppure mi servirebbe anche un toccasana per l’animo.
Certe ferite non le può curare il silenzio o la natura, ahimè
siamo animali sociali. Allora aspetto da quando sono nato quel treno che mi
porti almeno verso una sola persona, una sola, che sappia essere il mio
pilastro. Al di là di tutto. Che mi ami semplicemente per come sono, andando
oltre ogni barriera imposta dagli altri.
Sono un diverso,
giusto? Non avere paura di me, dai. Siediti a mio fianco e chiacchieriamo un
po’, vedrai che non sono poi così malvagio. Almeno spero.
La mia vita è un delirio. Una sensazione di vuota ubriachezza
mi pervade, non importa con chi o dove sono, io sono malato di solitudine.
Imbevuto.
Sono folle, forse. Fissato, mi direbbe la mamma.
L’unica volta in vita mia in cui mi sono innamorato, e cioè
la faccenda riguardante G, mi aveva fatto sperare, credere che per me ci fosse
qualcosa in più dell’inconsistenza. Invece anche per lui alla fine sono il
niente.
È da qui che inizia la mia nuova storia, e cioè dal momento
in cui ho deciso di dare un taglio alla mia vita di un tempo, quella in cui
credevo di poter fare bene. Non posso fare bene.
La mia esistenza da condannato inizia qui. E’ la vita in cui
sono un perdente e sono consapevole di ciò, e con questa macabra consapevolezza
cercherò di ritagliarmi il mio spazio. Sì, uno spazio piccino, magari, ma pur sempre
uno spazio per me.
Nella mia infinita nullità, eh. Senza credere o pretendere
che tutto debba avere per forza un senso.
NOTA DELL’AUTORE
Forse scrissi un inizio un po’ lento. Comunque il racconto è
un flusso costante, introspettivo.
Non so ancora bene da che punto inizi l’Alex modificato, o
quanto meno io sia riuscito a lavorare su questo personaggio. Rileggendo noto
come alcuni aspetti della sua precedente personalità emergano con forza. Non è
l’uomo che ha visto morire i suoi genitori, che ha ucciso quelli adottivi, che
ha vissuto periodi di profonda solitudine e di distorsione mentale, che in
carcere ha conosciuto la droga, che poi si è sposato con Marta, l’ha tradita
più volte, poi alla fine gli stupefacenti hanno vinto su tutto. No, non è
quell’uomo, ma non è tanto distante da esso. Non so.
Boh, ho tanti dubbi sul personaggio.
Man mano si chiariranno, spero.
Detto questo, ci stiamo addentrando verso il vivo del
racconto. Piano piano, gradualmente. Spero non troppo.
Grazie a voi che siete giunti fin qui ^^