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Autore: alessandroago_94    31/05/2020    16 recensioni
Alex è un giovane uomo pieno di dubbi e di voglia di mettere in carreggiata la propria vita, che spesso gli appare senza senso. È infatti vittima di un’ossessione, quella riguardante una persona idealizzata, o forse un suo stesso personaggio inventato; il fantomatico G.
Alla ricerca costante di questa persona si aggiunge una ricerca interiore, quella riguardante sé stesso.
Nel frattempo, dall’altra parte del mondo, l’agente James Barley, prossimo al pensionamento, si ritrova immischiato in una vicenda quasi assurda. Immerso in una società dell’orrore dove regnano bugie e disonestà, e dove sono solo i soldi a fare la differenza tra gli esseri umani, indagherà a riguardo di una clinica privata in cui si effettuano strani e proibiti esperimenti.
Le due vicende si intrecciano, anche se non si incontrano mai definitivamente. Possibile che anche questo racconto sia tutta una grande bugia? Un Limbo, appunto. Un Limbo dei Bugiardi. Un luogo immaginario in cui regnano solo le maschere.
Genere: Azione, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lemon, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo sei

CAPITOLO SEI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Se dici sempre la verità,

non devi ricordare nulla”.

Mark Twain.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Decido di recarmi, per prima cosa, presso il Mary’s House. Forse sbagliando, poiché sarebbe stato meglio andare all’ospedale, però devo seguire le raccomandazioni dei miei superiori, che mi chiedono indagini rapide per archiviare il caso.

La signorina mi ha scosso, devo proprio dirlo. Tutto è contro di lei, ogni testimonianza e prova, eppure crede così fermamente in quello che dice… ma in fondo anche se mi duole pensarlo in tanti si comportano così. È il dolore che rende instabili e inaciditi, e che può spingere a cercare una causa precisa anche quando essa non esiste.

La clinica psichiatrica, a primo impatto, mi sembra un posto davvero accogliente, per lo meno se vista dall’esterno; è circondata da un ampio giardino e l’edificio è ben curato. I vetri sono oscurati e non si vede nulla di ciò che accade dentro, donando un discreto senso di riservatezza.

Suono al campanello e immediatamente un’infermiera accorre ad aprirmi.

“Buongiorno” sorride, ma poi nota la mia divisa e il distintivo che le mostro. “Come posso esserle d’aiuto?” mi chiede, diventando serissima.

“Sono qui per il caso riguardante il senatore Stradford”.

“Certo, capisco” annuisce con convinzione, non dev’essere la prima volta che fa entrare un agente per questo caso. Si affretta a controllare il tablet che stringe tra le mani.

“Chiedo ai medici che hanno seguito il signor Stradford e le faccio sapere appena possono riceverla. Intanto si accomodi pure”.

La donna mi fa cenno di seguirla all’interno.

Varcando l’ampia soglia, vengo avvolto dall’odore di disinfettante e di pulito. Nella clinica regna l’ordine più assoluto.

“Posso chiederle se lei ha mai conosciuto questo paziente?” domando all’infermiera, prima che possa sfuggirmi dalle mani.

“L’ho solo visto una volta, da lontano. Qui c’è stato per poco, purtroppo” risponde, molto evasiva, poi mi fa cenno di sedermi da qualche parte nell’ampio ingresso. “Si accomodi, tra poco psichiatri, medici e direttrice saranno a sua completa disposizione”. E così dicendo si allontana.

 

L’infermiera è stata di parola, poiché pochi minuti dopo un uomo di mezza età e in camice bianco mi viene incontro.

“Si accomodi pure, agente” mi dice, facendo di nuovo cenno verso le poltroncine che mi circondano, ma essendo interiormente agitato ho preferito non usufruirne. Tuttavia, per non mostrare le mie insicurezze, mi accomodo di fronte all’uomo.

Egli non mi toglie gli occhi di dosso per un istante, prima di iniziare a raccontare da solo.

“Abbiamo ricevuto molte visite da parte della polizia, di recente. Ahimè, non abbiamo molto da aggiungere alle precedenti deposizioni” afferma.

“Si presenti, per favore” lo invito.

“Dottor Jonathan Zayne, medico di medicina generale. Sono io che ho visto e visitato per prima l’onorevole senatore” si presenta, mentre a mia volta gli mostro il distintivo, per correttezza.

“Bene, dottore, mi parli di questo famoso paziente, allora…”.

Il medico inizia a raccontare con evidente noia tutta la manfrina che viene riportata anche nei fascicoli che ho letto, senza alcuna variazione. Ancora una volta narra del senatore confuso, giunto dall’ospedale dopo una scenata da brivido. L’anziano mostrava tremolii, salivazione accentuata, ragionamenti talmente gravi e aggressivi da richiedere subito un intervento specializzato.

“Perché non ne avete parlato alla figlia?” lo interrompo a un certo punto, iniziando ad annoiarmi a mia volta.

“L’avremmo fatto il prima possibile”.

“Non mi risulta. Erano trascorse diverse ore dal ricovero del paziente e ancora non era trapelato nulla…”.

A questo punto il medico inizia a dimostrarsi insofferente. Sul suo viso balenano in pochi attimi tutte le smorfie più innervosite che esistono.

“L’avremmo fatto il prima possibile” ripete e ribadisce con un moto di nervosismo. Sono convinto che il dottore stia iniziando a crollare; continuo a notare come stia perdendo gradualmente le staffe al cospetto delle mie insistenze e come forzandolo inizi anche a ripetere le stesse frasi e a fornire le stesse risposte. Non vuole parlare e a sua volta cerca di mantenersi sul terreno sicuro che ha battuto finora.

“Va bene, questo l’ho capito” insisto ancora, imperterrito, “però, ecco, questo lasso di tempo… ragguardevole” e calco sull’ultima parola, “non è normale. Come non è normale internare una persona in questo modo e vederla morire dopo poco”.

L’interrogatorio informale si sta protraendo con risultati non proprio ottimali da ambo le parti. Zayne resta zitto, si sfiora lentamente la fronte e sembra riflettere su cosa dire. Chissà cosa gli frulla per la mente, poiché è tornato a mostrarsi imperturbabile.

A frantumare il confronto verbale, tuttavia, è l’arrivo di un altro signore di mezza età in camice bianco.

“Agente, eccomi” saluta, sorridendo. Il suo arrivo è provvidenziale per l’altro medico, che sembra sciogliersi e si alza.

“Non ho altro da aggiungere, agente Barley; ho detto e ripetuto tutto quello che so e quello che c’è da dire. Devo tornare dai miei pazienti ora, il dovere chiama”.

Mi ritrovo a lasciarlo andare, mentre il secondo tizio occupa la sua postazione appena lasciata libera e inizia a parlare a ruota libera. Si presenta; dottor Jack Morrow, psicoanalista.

Pare un libro aperto e non mi lascia nemmeno il tempo per fare domande, poiché ripete a pappagallo ciò che ha ribadito nelle precedenti deposizioni. Nulla cambia, nemmeno di una virgola. Lui e il collega di medicina generale sembrano gemelli siamesi, persone che hanno vissuto le stesse esperienze e avuto le stesse impressioni a riguardo del paziente Stradford.

In ambito professionale, ripete continuamente che l’anziano si era mostrato subito molto turbato e più che mai deciso a farla finita. A nulla erano servite le precauzioni della struttura.

“Non ho voluto sottoporlo immediatamente a un trattamento che avrebbe potuto rivelarsi invalidante. Ho preferito ascoltarlo, ma non c’è stato appunto il tempo materiale per fare altro” continua a dirmi.

“Va bene, ho capito” annuisco infine, tra l’annoiato e lo spazientito, “quindi anche lei non ha altro da aggiungere alle precedenti deposizioni”.

“Spiacente. No”.

È il mio turno di passarmi la mano destra sulla fronte. Quasi quasi mi ritrovo a desiderare di tornare a visionare le scene del crimine dei piccoli furti di quartiere, consapevole che presto ci tornerò se andrà avanti così. È come avere a che fare con un muro altissimo.

Morrow mi lascia solo, e poco dopo una distinta signora avanza verso di me. E’ molto seria, e anche se non ha un’espressione apertamente ostile, la noto comunque un po’ scocciata.

“Agente, siamo stati tutti cordiali e a sua completa disposizione, ma deve anche concederci di fare il nostro lavoro, non crede?” poi mi porge la mano, presentandosi come la direttrice della clinica, e si siede.

“Ed io devo fare il mio, signora” le concedo.

Sorride.

Colei che si è presentata come la direttrice Ellie Watford è una signora sulla cinquantina, alta e dotata di un bel fisico. Elegante nei modi e nel vestire, ma allo stesso tempo molto seria nel parlare. A prima vista, tuttavia, non mi ispira fiducia; credo che l’antipatia, tuttavia, sia reciproca.

Sbuffa e si scosta i capelli ricci e tinti che le scendono sul viso solcato da leggere rughe.

“Il suo lavoro l’ha fatto, per questa mattina. Non abbiamo altro da dirle” replica a muso duro. Di pietra, penso.

“Non sta a lei dirmi cosa devo fare. Si ricordi che rappresento le Forze dell’Ordine”.

Ancora non fa una piega.

“Lo so bene. Ma poiché non siamo nell’epoca d’oro dell’inquisizione, le garantisco che non può estrapolare altro da questi colloqui, quindi lasci perdere, per favore. Da parte mia, quel paziente manco l’ho visto, dal tanto che è accaduto tutto in fretta”.

Chiara, di poche parole, cristallina nell’affrontare i concetti. Brutale, quasi, nella loro esposizione.

“Vorrà dire che per oggi la finiamo qui” sono costretto a cedere, alla fine, mentre mi sento sempre più a disagio, “ma c’è caso che mi rivedrete, prima o poi. Il mio lavoro è far chiarezza sui fatti accaduti, e nel caso di qualche lacuna, be’, non esiterò a tornare”.

“La porta è sempre aperta per lei e per i suoi colleghi, agente. Non abbiamo nulla da nascondere, torni quando vuole”.

Vittoriosa, la direttrice può permettersi di mostrarsi anche mediocre. Ho capito che vuole che levi le tende una volta per tutte.

Non ho il tempo per raccogliere le idee, poiché desidero solo uscire da quel posto e respirare un po’ d’aria fresca.

Le stringo di nuovo la mano e mi accomiato così tanto in fretta che mi ritrovo a urtare un uomo che cammina nella direzione contraria alla mia, verso la signora ancora che si è appena alzata per tornarsene probabilmente nel suo ufficio.

“Ops” borbotto, scusandomi con lo sconosciuto, un signore vestito in modo formale. Egli mi rivolge un rapido sorrisetto, prima di darmi le spalle e proseguire. Che gente strana in questo posto!

Abbandono la clinica con un po’ di imbarazzo sulle spalle, ma anche con la convinzione che presto tornerò, poiché sento che c’è qualcosa di ancora non detto nonostante le dichiarazioni concordanti, eppure allo stesso tempo così evasive.

 

La mia vita è una lunga attesa. Avete presente quando vi ho parlato della stazione, dove di tanto in tanto qualche razziatore si reca per prendere su qualcosa? Ebbene, io sono sempre seduto su quella panchina.

Anzi, mi correggo e mi scuso; su quella cazzo di panchina.

Mi piace sottolinearlo perché nella mia inutilità esistenziale sono rimasto immobile, sono una larva che non rompe la crisalide e se ne sta lì, a sfidare il tempo, ma con la consapevolezza di aver perso in partenza quella battaglia. In fondo è come combattere contro i mulini a vento, suvvia; tutti noi sappiamo che il tempo scorre comunque, e possiamo provare a prenderlo in giro, o anche a fargli sonore pernacchie, ma alla fine sarà lui ad averla vinta, dannato fiume implacabile.

So che mi ritroverò qui seduto ancora quando avrò i capelli bianchi, magari questa panchina sarà pure il mio letto di morte, poiché il mio treno, l’unico treno che desidero aspettare, da qui non passerà mai.

Mi hanno detto in tanti che sono troppo disilluso, e che un giorno io mi sbloccherò. Niente di più falso, mi conosco troppo bene. Morirò qui, crisalide che non ha mai rivelato ciò che si nasconde al di sotto della sua dura scorza protettiva.

Ora, nella mia disillusione, io ci sguazzo e poi ci muoio.

Oh, sì, mentecatto che non sono altro! Vittima dell’umanità, anche quando desidero non farne parte. Fosse per me, applicherei la pena di morte contro me stesso. Peccato che non ne ho la forza.

 

Da dove è nata l’idea di una sorta di scalinata della solitudine? Be’, di certo dal momento in cui mi sono accorto che la solitudine ha diversi stadi, diversi momenti e diverse situazioni.

Ha una sua precisa complessità, come ogni cosa. Perché la solitudine in effetti è una cosa, qualcosa di oggettivo; possiamo dire che ci sentiamo soli, e questo lo dicono davvero in tanti, ma in pochi lo sono veramente.

Io su questa merda di panchina ci sono stato seduto mentre tutti quanti attorno a me festeggiavano; ho passato ogni Natale qui, solo, consapevole di non essere necessario a nessuno per stare bene. Per donare un sorriso. Nessuno mi ha mai desiderato al suo desco, né altri hanno mai accettato di sedersi al mio.

Ecco, adesso non andate a pensare che io, l’umile Alex, stia esagerando; sia mai! Al massimo sto minimizzando. Non avete idea di che cosa ho dentro. Senza nessuno che mi cerca se non per bisogno, senza amore, senza nulla.

Mi crogiolo nella materia e per fortuna quella non manca, eppure mi servirebbe anche un toccasana per l’animo.

Certe ferite non le può curare il silenzio o la natura, ahimè siamo animali sociali. Allora aspetto da quando sono nato quel treno che mi porti almeno verso una sola persona, una sola, che sappia essere il mio pilastro. Al di là di tutto. Che mi ami semplicemente per come sono, andando oltre ogni barriera imposta dagli altri.

Sono un diverso, giusto? Non avere paura di me, dai. Siediti a mio fianco e chiacchieriamo un po’, vedrai che non sono poi così malvagio. Almeno spero.

 

La mia vita è un delirio. Una sensazione di vuota ubriachezza mi pervade, non importa con chi o dove sono, io sono malato di solitudine. Imbevuto.

Sono folle, forse. Fissato, mi direbbe la mamma.

L’unica volta in vita mia in cui mi sono innamorato, e cioè la faccenda riguardante G, mi aveva fatto sperare, credere che per me ci fosse qualcosa in più dell’inconsistenza. Invece anche per lui alla fine sono il niente.

È da qui che inizia la mia nuova storia, e cioè dal momento in cui ho deciso di dare un taglio alla mia vita di un tempo, quella in cui credevo di poter fare bene. Non posso fare bene.

La mia esistenza da condannato inizia qui. E’ la vita in cui sono un perdente e sono consapevole di ciò, e con questa macabra consapevolezza cercherò di ritagliarmi il mio spazio. Sì, uno spazio piccino, magari, ma pur sempre uno spazio per me.

Nella mia infinita nullità, eh. Senza credere o pretendere che tutto debba avere per forza un senso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Forse scrissi un inizio un po’ lento. Comunque il racconto è un flusso costante, introspettivo.

Non so ancora bene da che punto inizi l’Alex modificato, o quanto meno io sia riuscito a lavorare su questo personaggio. Rileggendo noto come alcuni aspetti della sua precedente personalità emergano con forza. Non è l’uomo che ha visto morire i suoi genitori, che ha ucciso quelli adottivi, che ha vissuto periodi di profonda solitudine e di distorsione mentale, che in carcere ha conosciuto la droga, che poi si è sposato con Marta, l’ha tradita più volte, poi alla fine gli stupefacenti hanno vinto su tutto. No, non è quell’uomo, ma non è tanto distante da esso. Non so.

Boh, ho tanti dubbi sul personaggio.

Man mano si chiariranno, spero.

Detto questo, ci stiamo addentrando verso il vivo del racconto. Piano piano, gradualmente. Spero non troppo.

Grazie a voi che siete giunti fin qui ^^

   
 
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