4.
Settembre
2022
Il fuoco stava ancora
divorando diversi stabili nella parte più bassa di
Hiroshima, incuranti della
pioggia nera caduta sulla città, o del vento che era
imperversato per ore
intere, devastando il devastabile.
Astrea lo fissava con
occhi lividi, i piedi ridotti a ulcere vive e che le dolevano ogni
volta che
attraversava ciò che restava del fiume Ōta.
Quella volta, però, due
braccia robuste la sollevarono per impedirle di percepire altro dolore
e,
sconvolta, Astrea si volse a mezzo per conoscere chi l’avesse
strappata al suo
personale supplizio.
Quando vide il volto
sorridente di Alekos – quel giorno, aveva i capelli legati in
una coda di
cavallo – la dea si accigliò e disse:
«Non avevo bisogno di aiuto.»
«Mia madre mi ha
insegnato a essere galante. Non vorrai di certo che io la deluda,
vero?»
replicò lui, scortandola oltre le acque basse del fiume per
poi poggiarla
nuovamente a terra, sul selciato ricoperto di macerie.
Astrea sbuffò irritata,
passando nervosamente le mani sulle vesti lacere, dopodiché
infilò le dita tra
la massa informe di capelli bruciacchiati e borbottò:
«Non hai bisogno di
essere gentile con me. Non lo merito.»
«Se lo dici
tu… io,
comunque, farò in modo che mia madre non sia scontenta di
me. Tu, porta
pazienza» scrollò le spalle Alekos, offrendole il
braccio prima di aggiungere:
«Sai, mamma tende a essere un tantino dispotica, quando le
cose non vanno come
vuole lei.»
Astrea accennò un mezzo
sorriso – senza però accettare il braccio di
Alekos – e asserì: «Sì,
ricordo
qualcosina degli attacchi isterici di Athena.»
Scoppiando a ridere con
fare complice, Alekos ritirò il braccio con nonchalance e
mormorò con fare da
cospiratore: «Ecco, appunto… visto che lo sai, sii
buona con me e non mettermi
nei guai.»
Scuotendo il capo per
l’esasperazione, Astrea allora allungò la sua mano
dalla pelle riarsa e disse:
«E va bene! Offrimi pure il braccio. Ma tu guarda se doveva
capitarmi un
visitatore così compito ed educato.»
Alekos gli sorrise pieno
di soddisfazione, trattenendo per sé il dolore nel vedere
quelle tenere carni
straziate dalla fiamma nucleare.
Astrea viveva ogni
giorno la pena sofferta dagli abitanti delle due città
giapponesi abbattute
dalle atomiche e, ogni giorno, il suo corpo veniva riarso, scorticato e
abraso
dalla violenza di quegli eventi così terribili.
Non aveva la ben che
minima idea di cosa volesse dire tutto ciò – lui
aveva reagito nel modo
opposto, perciò il suo corpo era diventato più
potente che mai – ma era ben
deciso a strapparla a quel dramma quotidiano. Solo, gli sembrava di
stare
facendo ben pochi progressi.
Erano mesi che
continuava a fare visita ad Astrea e, se le prime volte aveva avuto non
poche
difficoltà a trattenerla accanto a sé per
più di qualche minuto, adesso le loro
chiacchierate duravano anche ore.
Solo, erano del tutto
infruttuose, ai suoi occhi. Astrea continuava ad apparire debole,
piagata e
stanca, niente affatto la potente dea che doveva essere stata in
passato.
Sua nonna, però, si era
raccomandata più volte di non forzare la mano e,
soprattutto, di non mostrare
il proprio dolore ad Astrea. Lei avrebbe potuto immaginarlo, ma non
doveva
assolutamente vederlo dipinto nei suoi occhi.
«Dimmi una
cosa… dove
vivi, esattamente, qui?» gli domandò Alekos,
mentre raggiungevano la loro
solita collina, poco sopra le rovine di Hiroshima.
Astrea scrollò una
spalla, replicando: «Non ho una casa. Dormo sul ciglio della
strada, quando
voglio riposare.»
Alekos fece per
ribattere alle sue parole disincantate, ma la percezione di
un’altrui presenza
lo spinse a dire in un sussurro: «Vieni con me!»
Lei lo fissò sorpresa
per un attimo prima avvertire l’energia della madre e,
annuendo, si trasmutò
con lui prima che la dea potesse vederli.
Trattandosi di un piano
astrale, Alekos poteva trasmutare i propri pensieri ovunque, quindi non
aveva
bisogno di alcuna divinità per fare ciò che, nel
mondo reale, non avrebbe
potuto fare.
Dopo aver studiato con
attenzione i dintorni di Hiroshima, aveva più volte pensato
di portare Astrea in
un luogo più appartato rispetto alla caotica
città in fiamme. Trattandosi di un
piano astrale altamente riprodotto, Alekos era più che certo
che avrebbe
trovato, nel mondo della dea, ciò che realmente si trovava
nella prefettura di
Hiroshima.
Cogliendo la palla al
balzo, quindi, la condusse nei pressi del fiume Yawata, a poca distanza
dalla
città, ma riparato da dolci colline verdeggianti e
sopravvissute al
bombardamento.
Lì, decise di riprendere
corporeità nei pressi di una sponda sabbiosa del fiume e,
ridendo
sommessamente, ammiccò all’indirizzo di Astrea e
disse: «Eos mi odierà a morte
per questo colpo basso, lo so già.»
Astrea annuì complice e,
non potendo evitarselo, si lasciò andare a una breve,
scoordinata risata che
riempì il cuore di Alekos di speranza e soddisfazione.
Era la prima volta, in
quei mesi, che il suo volto scarnificato veniva solcato da un sorriso
e, per
lui, fu come veder sorgere il sole.
Per un attimo, ciò che
ella era stata in passato gli si presentò dinanzi agli occhi
con immensa
chiarezza e, con tutte le sue forze, Alekos desiderò
strapparla a quel mondo
perché tornasse con lui.
L’attimo,
però, passò in
fretta e Astrea tornò a essere la solita donna debole e
scarmigliata che Alekos
aveva conosciuto.
«Sì, mia madre
ti
odierà, ma io ti ringrazio. Davvero non sopporto di vederla
venire qui, ogni giorno, per dirmi
costantemente che
sbaglio» sospirò la donna, scuotendo mesta il
capo. «So di farla soffrire, ma
lei non capisce.»
E
pensare
che le avevo chiesto di non fare
esattamente
questo, sospirò tra sé Alekos,
irritandosi non poco di fronte alla chiara
cecità di Eos.
Capiva quanto fosse
difficile, per lei, sopportare l’autoimposta prigionia della
figlia, ma
affrontarla a muso duro non era servito nei settantasette anni
precedenti.
Dubitava fortemente sarebbe servito ora.
Alekos annuì al suo
dire, dichiarandosi solidale con lei e, nel piegarsi per cercare alcuni
ciottoli arrotondati e piatti, mormorò pensieroso:
«I genitori fanno del loro
meglio, per noi, ma a volte ciò non basta o, altre volte,
non è ciò che
vogliamo noi.»
Risollevatosi, lanciò
poi alcuni ciottoli sulla superficie liscia del fiume, facendoli
rimbalzare più
e più volte e Astrea, osservandolo pensierosa, disse:
«Non ho mai imparato a
farlo, sai?»
Lui, allora, le offrì i
restanti ciottoli e replicò: «Non sarò
Achille, ma mi destreggio bene con i
giochi di mano.»
«Hai conosciuto il
Pelide? E’ dunque vivo, nella tua
realtà?» domandò lei mentre Alekos le
si
poneva alle spalle, posizionandola nel modo corretto per lanciare.
«Sì.
L’ho conosciuto. E’
stato lui a insegnarmi a guidare il mio primo kart. E’ una
piccola automobilina
che si una in circuiti chiusi, dove si svolgono delle gare»
le spiegò lui,
sfiorandole il gomito piagato perché sollevasse un poco il
braccio. «Oppure,
come in questo caso, mi ha insegnato a lanciare i sassi nel
fiume.»
Con delicatezza, le
sfiorò
una mano perché ruotasse un poco il polso e, dentro di
sé, sperò ardentemente
di non procurarle ulteriore dolore, pur se dubitava di riuscire in una
tale
evenienza. La sua pelle era troppo abrasa perché il minimo
tocco non producesse
scariche dolorose.
Ugualmente, cercò di non
pensarci e si concentrò sulla lezione che le stava
impartendo e Astrea, nel seguire
docilmente le manovre di Alekos, mormorò: «Non
è dunque un soldato, in questa
vita?»
«Tutt’altro. Fa
l’insegnante di atletica in una scuola italiana e, nel tempo
libero, corre con
sua moglie nelle gare di rally… sono corse con le auto, ma
non in piste
regolamentari. E’ abbastanza pericoloso ma molto, molto
elettrizzante» le
spiegò lui, portando indietro il braccio destro di Astrea
con grande lentezza.
«Ecco, ci siamo quasi… ora mi scosto,
così puoi lanciare.»
Lei annuì e, con una
mezza torsione del braccio, scagliò lontano il sassolino,
che rimbalzò un paio
di volte prima di colare a picco inesorabilmente.
Astrea sgranò gli occhi
per un istante a quella vista e, accigliandosi, borbottò:
«Ne ha fatti solo
due! Tu ne hai fatti di più!»
Alekos sorrise tra sé.
Quella che stava parlando era una dea, l’inconfondibile
spirito di una dea che
non voleva essere inferiore a un semidio. Non era la donna sconfitta
dagli
eventi che gli era parsa fino a quel momento.
«Beh, è solo
una
questione di pratica… e di capacità innate. Non
è detto che tu ne sia in grado»
sottolineò serafico Alekos, fissandola dall’alto
al basso con espressione
divertita.
Astrea lo fissò arcigna
per diversi secondi prima di borbottare: «Si sente che
condividi il filato con
Eris. La tua lingua è forcuta.»
Alekos scoppiò in
un’allegra risata, a quel commento e, scusandosi,
asserì: «Sì, forse in passato
non avrei risposto così, ma credo sia stata la cosa giusta
da dirti, ora come
ora.»
«Hai fatto tutto questo
per non farmi pensare a ciò che mi sono lasciata alle
spalle, vero?» replicò
lei, osservando le verdeggianti colline a cono che li circondavano e
l’acqua
verdastra del fiume. Tutto appariva puro, intonso e lindo, in
quell’angolo di
mondo, eppure lei non riusciva a dimenticare ciò che si
celava oltre quei
colli.
«So perfettamente che il
tuo pensiero è sempre lì, o non ci troveremmo
qui, ti pare?» ribatté Alekos,
scrollando le spalle. «Ma niente mi impedisce di divertirmi
con te, se me lo
permetti. Dopotutto, quando si va in visita da amici, si tenta anche di
passare
delle ore liete, no?»
«Non hai di meglio da
fare, nella vita reale?» lo irrise a quel punto lei.
«Non hai una ninfa, o una
mortale, che spasimano per te?»
«Sono un topo da
biblioteca, se sai cosa vuol dire… inoltre, la tua compagnia
mi piace, anche se
vorrei portarti a Disneyland, una di queste volte.
L’atmosfera sarebbe
migliore.»
«Che
cos’è?»
«Un parco dei
divertimenti dove poter ridere e scherzare senza alcun
freno…» cominciò col
dire lui, prima di interromperla e aggiungere:
«…e, prima che tu mi sbrani,
lasciami dire una cosa. So perfettamente
perché tu vuoi colpevolizzarti e rimanere qui, negandoti proprio la possibilità di
ridere e scherzare. L’ho provato sulla
mia pelle.»
Accigliandosi, Astrea
replicò incredula: «Dubito che un ragazzino della
tua età possa aver sopportato
una simile pena. A meno che, ovviamente, nel mondo non si sia abbattuta
una
catastrofe simile a questa.»
Nel dirlo, tornarono
automaticamente al colle sopra Hiroshima e Alekos, sfiancato ma non
vinto,
disse: «Stava per abbattersi una sciagura ben peggiore. E
sarei stato io a causare una simile,
immane distruzione.»
Astrea lo fissò senza
parole, non sapendo come interpretare il suo dire e Alekos, nel
prenderle le
mani scabre, aggiunse: «Tu ti sei imposta il dolore, come
risposta alla follia
del mondo. Io, risposi all’oscurità con
l’assolutismo. Per questo,
Eris fu costretta a scindere il suo filato e
sostituirsi a Érebos.»
«Cosa vuoi
dire?»
mormorò lei, tremante.
Stringendo maggiormente
le sue mani, Alekos deglutì a fatica e ammise:
«Ricordi che ti dissi che, per
salvarmi, Érebos spezzò il proprio filato in due
per sostituire il mio, che era
stato reciso da Atropo al momento della mia morte. Al tempo stesso,
mentre mi
conduceva da Ade, Thanatos mi tenne in vita legando la mia anima a
quella di
mia madre, in modo tale che io potessi resistere abbastanza a lungo
perché
Érebos terminasse ciò che stava
facendo.»
Astrea annuì cauta.
Rammentava ogni suo racconto, ogni suo commento come ogni sua battuta
e, pur se
all’inizio vi aveva dato poco peso, col passare delle
settimane aveva bramato
con sempre maggiore forza il suo ritorno. Le sue parole. I suoi
racconti.
La sua vita era
diventata, per lei, stimolo ad attendere ogni suo ritorno e, come un
assettato
alla fonte, si era abbeverata delle sue parole con sempre maggior
vigore.
Perciò sì,
rammentava
l’impresa epica di Érebos, e ancora non
comprendeva perché ora, Alekos, dovesse
condividere proprio con Eris il suo
filato. Cos’era dunque successo? E perché Alekos
si incolpava di colpe così
gravi?
«L’amore tra
mia madre e
mio padre Miguel, creò in me una luce mai vista prima.
Persino Chaos la
riconobbe come tale. Unica»
gli
spiegò lui, reclinando colpevole il capo. «Questa
luce, combinata coi poteri
immensi dell’oscurità primigenia di
Érebos, mi avrebbe fatto diventare un
essere dalle capacità inimmaginabili. La pura luce che avevo
in me, però,
divenne sempre più sfolgorante e, paradossalmente,
più assolutista che mai.»
«La quintessenza
dell’oscurità
produce la quintessenza della luce» mormorò
turbata Astrea, vedendolo annuire
in risposta.
«Più diventavo
grande,
più mi abbeveravo – non sapendolo – del
potere di Érebos, accrescendo così la
luce che mi aveva lasciato il mio primo padre. Così facendo,
però, persi di
vista la realtà delle cose, persi equilibrio e
stabilità e mi convinsi che,
annullando l’oscurità e asservendo a me qualsiasi
creatura, avrei portato pace
e luce nel mondo. Come sai, però, la luce abbisogna delle
tenebre, per
sopravvivere, ma io questo non volevo accettarlo. Volevo che le tenebre
sparissero dalla faccia della terra.»
«Ma
così…» tentennò
Astrea, non volendo terminare la frase.
«La mia
divinità prese
il sopravvento sulla parte umana, e si dichiarò disposta a
distruggere
qualsiasi forma di oscurità, pur di portare la luce ogni
dove, convinta… convinto
com’ero che fosse l’unica
soluzione per sconfiggere i mali del mondo» ammise Alekos,
scuotendo contrito
il capo. «Come semidio, non potevo gestire il filato
così potente di Érebos, e
questo mi fece impazzire, portandomi a un passo dal far esplodere il
mondo
intero con la mia visione folle della vita. Fu Eris a
impedirlo.»
«Ma Eris è
solo…»
«…Discordia?»
disse per
lei, sorridendole mesto. «No. Ho imparato a mie spese il
dualismo delle divinità.
Ognuno di voi ha due volti, e questo bilancia il vostro potere. Io,
avevo solo
la visione distorta della luce, a governarmi, ed Eris mi permise di
fare mia
l’oscurità che mi serviva per gestire
ciò che io sentivo dentro, togliendomi al
tempo stesso parte del potere che mi sbilanciava.»
Astrea fece per
strappare le mani da quelle di Alekos, già temendo le sue
prossime parole, ma
lui le trattenne e terminò di dire: «Ho peccato di
vanità, e il mio peccato ha
quasi ucciso mio padre, oltre che tutti coloro che volevo proteggere.
Ma ho
avuto fiducia in Eris e questo mi ha salvato, come ha salvato
l’umanità.»
Lappandosi nervosamente
le labbra, Astrea mormorò: «Perché dici
a me i tuoi peccati? A cosa pensi possa
servire?»
«Non credi che
anch’io,
ogni giorno, non pensi a quanto ho fatto soffrire coloro che amo? Lo
faccio
sempre, nonostante loro mi abbiano perdonato» le
spiegò lui con dolcezza. «Ma è
inutile rimuginare senza agire. Nessuno può cancellare
ciò che ho quasi fatto,
e io posso solo accettare di non aver avuto abbastanza coraggio da
chiedere
aiuto quando avrei potuto fermare il mio Io divino, senza mettere in
pericolo
tutto il Creato.»
«E’…
è diverso. Tu eri controllato dal
tuo alter ego. Io no!»
sbottò Astrea, strappando finalmente le sue mani da quelle
del giovane. «Io non
ho mosso un dito per salvare il mondo pur essendo pienamente cosciente
di me
stessa, e questi sono i risultati!»
A quelle parole, lo
scenario cambiò nuovamente e Alekos visse in prima persona
l’arrivo della bomba
e il suo scoppio in aria, con la conseguente ondata di fuoco e
radioattività
che ne conseguì.
Astrea attese l’onda a
testa alta, ineluttabile quanto la morte, ma lui non accettò
passivamente
quell’energia dilagante e mortifera.
Si gettò su di lei per
proteggerla e, mentre la dea gli urlava di andarsene, di non rimanere
vittima
di quel fuoco terribile, lui le sorrise mormorando: «Te
l’ho detto. E’ inutile
rimanere fermi senza agire. E io non permetterò che
quell’orrore ti colpisca per
l’ennesima volta.»
Astrea fece per
ribattere, ma l’onda di fuoco li avvolse e Alekos, colto in
pieno da quel
massiccio rigurgito di calore e radioattività,
gridò. Gridò fino a farsi dolere
la gola, mentre la pelle e gli abiti venivano divorati e i suoi muscoli
subivano danni terribili.
Astrea allora scatenò
tutta
la sua forza e, nello spingere via il giovane, urlò:
«Salvati almeno tu!»
Alekos non resistette a
un tale impeto e, non potendo impedirselo, venne scagliato nuovamente
nel suo
corpo, sotto gli occhi inorriditi di Psiche ed Eros, che lo avevano
vegliato
fino a quel momento.
Eros fu lesto a prendere
i medicamenti che Esculapio aveva lasciato per i casi di emergenza
mentre
Psiche, aiutando Alekos a mettersi seduto, gorgogliava terrorizzata:
«Tesoro,
ma cos’è successo?!»
Alekos tossì
copiosamente più e più volte, portandosi le mani
al volto e notando così la
pelle riarsa dal fuoco, screpolata e rossa, così come gli
abiti bruciati e
ritorti sulla sua carne. Sgranando gli occhi di fronte a quel disastro
– pur
non avvertendo ancora pienamente il dolore connesso a simili ferite
– guardò
turbato una preoccupata Psiche che, con le lacrime agli occhi, esalava:
«Agapí, ma che
hai fatto?»
Eros si affrettò a
togliere di dosso ad Alekos ciò che poteva eliminare senza
procurargli dolore
e, aggrottato in viso, iniziò a ricoprire la sua pelle coi
medicamenti di
Esculapio, borbottando nel frattempo: «Ha fatto il maledetto
eroe, ecco cosa!
Scommetto che le hai fatto da scudo o qualcosa di simile, eh?»
Alekos assentì
meccanicamente, per nulla turbato che Eros continuasse a spogliarlo
sotto gli
occhi di Psiche. In quel momento, la sua mente era blindata in un unico
istante
terribile, da cui non riusciva a sfuggire.
Gli occhi di Astrea,
fissi nei suoi, mentre il fuoco li avvolgeva.
«Miseriaccia
schifosa…»
brontolò Eros mentre terminava di spogliarlo,
così da avere sott’occhio
l’intero quadro della situazione.
«…sembri un arrosto cotto a puntino. Tua
madre mi farà a fettine, quando ti vedrà ridotto
così.»
«Lei… non
deve…» iniziò
col dire Alekos, quando una nube argentata si materializzò
nella stanza delle
preghiere di Anita, dove tutti loro erano raccolti.
Eros imprecò
vistosamente mentre Psiche, colpevole, reclinava il capo alla comparsa
di
Athena, torva in viso e chiaramente già al corrente delle
condizioni del
figlio. La gravidanza cominciava a risultare evidente e, se qualsiasi
altra
donna sarebbe apparsa più docile o fragile, così
non fu per Athena, non per la
dea della guerra.
«Non devo, cosa?
Sapere come stai?» replicò
caustica Athena, avanzando verso il figlio con occhi di ghiaccio.
«Pensi
davvero che, avendo l’anima in comune, io non percepisca il
tuo dolore?»
Alekos rammentò troppo
tardi quel particolare e, reclinando a sua volta il capo,
mormorò: «Scusa.»
Da quando il suo
equilibrio psichico era stato ristabilito, il legame tra lui e sua
madre era
tornato stabile, e questo implicava anche che lei fosse sempre in grado
di
stabilirne la buona salute o meno.
Nulla di più facile che,
con simili ferite, lei stessa avesse ricevuto un contraccolpo psichico
– se non
addirittura fisico – non indifferente. Il solo pensiero lo
fece star male,
soprattutto pensando alle particolari condizioni della madre.
Tutto avrebbe voluto,
tranne causarle un dolore proprio
durante la gravidanza, eppure era successo.
«Scusaci, Athena, non
abbiamo fatto buona guardia di lui, e ora…»
iniziò col dire Psiche, quando
Athena la interruppe con un sorriso.
«No, cara, voi non
c’entrate nulla. Eravate qui, mentre Alekos si trovava in un
piano psichico ben
lontano da voi, perciò non potevate che controllare i suoi
impulsi vitali»
replicò Athena, inginocchiandosi accanto al figlio mentre
Eros terminava di
ricoprire le piaghe visibili con l’unguento di Esculapio.
«Devo dedurre che le
protezioni della nonna non siano servite, stavolta.»
«Diciamo che, stavolta, la bomba mi è
esplosa proprio sopra
la testa» ammise Alekos, sorprendendo i presenti mentre
sollevava i dorsi delle
mani per mostrare i segni rossastri lasciati dalla radice di Henna.
«A ben
vedere, sono le parti più sane, ma anche loro poco hanno
potuto, contro
quell’energia terribile.»
Sospirando di fronte
all’espressione apparentemente imperturbabile della madre, il
giovane poi
aggiunse: «Abbiamo litigato, e il suo senso di colpa ha fatto
il resto. Pensavo
che, parlandole di ciò che avevo fatto, di quanto fossi
stato vicino a
danneggiare il mondo intero, Astrea avrebbe compreso come, in
realtà, il
confine tra luce e tenebra è assai labile, e non sempre
è la tenebra a essere
pericolosa. A quanto pare, però, non ha compreso –
o voluto comprendere – il
mio punto di vista… ed è successo
questo.»
Eros gli mosse
delicatamente la testa per controllare la condizione del suo cuoio
capelluto e,
sbuffando, borbottò: «Dovrai fare un taglio
radicale, ragazzo. I tuoi bei
riccioli sono bell’e che rovinati.»
«Merda» si
lasciò
sfuggire il giovane, portando istintivamente una mano alla testa, prima
di
lagnarsi per il gran male al braccio.
«Piano, campione! I tuoi
muscoli sono rinsecchiti dal caldo atomico e, prima che tu possa
muoverti come
si deve, dovrai aspettare diverse settimane» lo
rabberciò bonariamente Eros.
Athena sospirò dopo un
ultimo sguardo alle condizioni miserevoli del figlio e, nel guardare
per un
istante la porta della stanza, disse: «Nonna sarà
qui tra poco, visto l’orario
e, onestamente, non voglio che ti veda così conciato. Le
parlerò io e le dirò
che la tua uscita dal piano astrale non è andata per il
meglio.»
Annuendo, Alekos mormorò
spiacente: «Scusa, mamma.»
«Non hai niente di cui
scusarti» sospirò Athena, trattenendosi dal
carezzargli il viso per non
procurargli ulteriore dolore.
La vista del figlio così
malridotto le faceva male al cuore, ma sapeva di non potergli impedire
di fare
ciò che sentiva nel cuore. Era un adulto, e come tale
l’avrebbe trattato.
Inoltre, comprendeva bene cosa lo stesse spingendo, e non voleva
ostacolare in
nessun modo la sua ricerca di redenzione.
«Lo porteremo a casa
noi, e ci prenderemo cura di lui finché non sarai di
ritorno» le promise
Psiche.
Athena annuì e, dopo un
sorriso
al figlio, si diresse verso l’esterno della dependance a
piedi, così da non
mettere in allarme Anita con entrate in scena estemporanee.
Rimasti soli, i tre si
guardarono vicendevolmente finché Eros, ammiccando alla
compagna, non disse:
«Tesoro, prima che Alekos si ricordi che è nudo
come un verme, posso chiederti
di raggiungere Esculapio per recuperare altri medicamenti?»
Psiche sorrise divertita
mentre il ragazzo si ricopriva di un virgineo rossore –
visibile nonostante le
copiose scottature presenti anche sul suo volto – e,
ammiccando, svanì in una
nuvola d’argento profumata di rosa.
«Potevi anche evitare di
dirlo, sai?» sbuffò Alekos, guardandosi con aria
vergognosa.
«Noi divinità
ce ne
sbattiamo della nudità, cosa credi?» rise
sommessamente Eros, prima di tornare
serio e aggiungere: «Ora che non c’è
nessuna donna in ascolto, puoi dirmi cos’è
veramente successo?»
Alekos storse il naso,
di fronte a quella domanda diretta, e ammise: «L’ho
attaccata di petto, dicendo
che era inutile che lei continuasse a rimanere bloccata nel suo mondo,
senza
agire in alcun modo per scoprire ove potesse migliorare le cose. Credi
abbia
esagerato?»
«E’ difficile
dire come
una donna possa interpretare un attacco del
genere…» ammise Eros, pensieroso.
«… però, di sicuro, il tuo gesto di
proteggerla l’avrà sicuramente colpita. Tra
l’altro, perché l’hai fatto? Lei
è più potente di te, e poteva reggere molto
meglio gli influssi della bomba.»
Il giovane reclinò il
viso, di fronte a quell’affermazione e, dopo un lento e
pesante sospiro, mormorò:
«Non potevo sopportare che altro dolore la
colpisse.»
«Oh» disse
soltanto
Eros, senza esprimere alcun tipo di commento. «Beh,
sarà meglio che ti riporti
a casa per cominciare il secondo ciclo di cure. La tua pelle ha
già assorbito
tutta la crema di Esculapio, e credo che le tue chiappe abbiano bisogno
di una
razione doppia di unguento… cosa che non hanno potuto ancora
avere, visto che
te ne stai tutt’ora seduto sulle tue stesse piaghe.»
Alekos assentì senza
forze, non riuscendo neppure a replicare alle battute di spirito di
Eros. Grazie
al potere del cugino, quindi, raggiunsero la sua casa in un batter di
ciglia
dove trovarono ad attenderli la figura accigliata di Érebos.
Era chiaro che Athena
avesse già parlato col compagno in merito alla salute del
figlio, e che
quest’ultimo volesse sincerarsi sulle sue condizioni.
Mentre il dio dell’amore
sistemava lenzuola in più sul letto perché il
materasso non si inzuppasse di
unguenti, Alekos lanciò un’occhiata spiacente al
padre, che si limitò a
sorridergli comprensivo.
«Immagino facciano molto
male» chiosò il dio Ctonio, non arrischiandosi a
toccarlo.
«Per la
verità, comincio
a sentire qualcosa solo adesso… quindi, immagino che il
peggio debba ancora
arrivare» mormorò Alekos, scuotendo il capo per
poi guardarsi le mani, quelle
stesse mani che l’avevano sfiorata con delicatezza, quando si
erano trovati
lungo il fiume.
Pochi attimi dopo, le
sue mani l’avevano afferrata con decisione perché
non sfuggisse alle sue parole
e, da ultimo, l’avevano spinta a terra per permettergli di
proteggerla dal
fuoco atomico.
Ricordava ancora
chiaramente la sensazione di averla accanto, di sentire la scabra
consistenza
della sua pelle… di percepire il suo rifiuto a comprendere
le sue parole.
E poi, quella assurda
richiesta!
Salvati
almeno tu!
Come poteva avergli
chiesto proprio quello? Come poteva
pensare che lui potesse salvarsi da solo? Era mai possibile che non
comprendesse quanto fosse forte, in lui, il desiderio di salvarla?
Érebos lo
fissò
spiacente, asserendo: «Vado a chiedere ad Apollo dei calmanti
adatti ai casi di
ustione. Credo che, nelle prossime ore, ne avrai estremo
bisogno.»
Ciò detto,
pregò Eros di
prendersi cura di lui, dopodiché svanì in uno
scintillio dorato.
Rimasto solo con il
cugino, Alekos lo guardò con occhi vulnerabili e persi, e
mormorò: «Eros… temo
di essere nei guai.»
«Già, lo credo
anch’io»
ammise senza problemi il dio, mentre Psiche faceva ritorno con le creme
medicamentose per Alekos.
Nel vederli persi nei
rispettivi sguardi, la dea poggiò delicatamente i
contenitori sul comodino
appresso a lei e, turbata, domandò: «Va tutto
bene, ragazzi?»
Eros si limitò a
sorriderle e, con una punta di ironia, disse: «Aiutami a
stendere un nuovo
strato di crema. Ho idea che d’ora in poi Alekos non
farà più una piega, in tua
presenza.»
«In che senso,
scusa?»
domandò burbera Psiche. «Sono forse diventata meno
bella di prima?!»
Eros rise di fronte al
suo palese risentimento e, senza risponderle, iniziò a
spargere medicamento
sulla pelle già in via di guarigione del cugino. Certi
segreti tra uomini,
erano inviolabili. Anche se a chiederti lumi era il tuo amore
imperituro.
***
Rannicchiata sotto la
sua pianta preferita, mentre gli occhi sgranati erano fissi
sull’orizzonte
senza realmente vederlo, Astrea mormorava incessantemente il nome di
Alekos.
Fu così che la
trovò
Eos.
Per una volta, la figlia
non si diede alla fuga e le permise di avvicinarla. Quando
però le si
inginocchiò accanto, trovò solo una fragile
creatura ferita, non la combattiva
dea che l’aveva scacciata per decenni senza degnarla di
parola alcuna.
Un unico mormorio sembrava
ossessionarla, in quel momento e, ancora una volta, non era rivolto a
lei, ma
forse a nessuno in particolare. Non era però un insulto, una
richiesta o una
preghiera, a turbarla, ma un nome.
Il nome di Alekos venne
ripetuto infinite volte, nel tempo in cui Eos passò accanto
ad Astrea e, mai
una volta, la giovane dea della giustizia si risolse a spiegargliene i
motivi.
Il suo sguardo, perso in
un incubo senza fine, era immobile, vuoto, mentre le labbra, ricoperte
di
ragadi e sangue, continuavano incessanti a lasciar sgorgare dalla bocca
il nome
del giovane.
Non sapendo che altro
fare, Eos carezzò ciò che rimaneva dei bei
capelli biondi di un tempo di Astrea
e, dando finalmente ascolto alle parole del figlio di Athena,
mormorò: «Sono
qui con te, amore. Solo questo.»
N.d.A.: direi che l'ultima missione di Alekos non è andata per il meglio. O forse sì? Voi che ne pensate?