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Tornare
a casa non le era pesato mai così tanto. Adesso c’era qualcuno, suo padre David,
che la stava spingendo in sedia a rotelle nella sua casa di Los Angeles.
Quando
al mattino aveva visto quel “mezzo” avrebbe voluto urlare, prendersela con quella
dannata pioggia, quella maledetta strada scoscesa e con quello stronzo che l’aveva
abbagliata. A cosa sarebbe servito? A nulla e lei lo sapeva bene, quindi si era
armata di santa pazienza e aveva ascoltato il terapeuta che le spiegava come
avrebbe dovuto gestire il tutto.
“Tesoro
sei sicura di non voler stare da noi, per i primi tempi?” – la donna alzò lo
sguardo verso il genitore e provò a muoversi per conto suo.
“Non
voglio essere un peso per nessuno” – rispose andando verso la cucina.
“Non
sarai mai un peso per noi” – lo sguardo della figlia non lo lasciò continuare.
“Lo
sono per me stessa figurarsi” – rispose – “Adesso lasciami sola papà va dalla
mamma” – avevano avuto una triste discussione.
“Se
ti serve qualcosa, non ti fare problemi a chiamarci” – la guardò.
“Me
la caverò” – rispose allontanandosi.
“Jen,
non allontanarci” – provò ancora il padre – “Per favore noi vogliamo solo il
tuo bene”
“Io
vorrei ancora camminare, allora sì che mi vorrei bene” – rispose restando di spalle
- “Non voglio litigare anche con te” – sospirò – “Spero abbiate detto a Jaime
di non divulgare nulla” – chiese.
“Certo
che no tesoro” – le accarezzò i capelli baciandola tra di essi – “Riposati”
Una
settimana dopo
“Non
capisco perché tu sia così masochista, Jen” – la guardò il fratello.
“Daniel
così non l’aiuti” – disse Julia la sorella.
“Se
avete finito, potete anche andare” – disse facendo slittare la sedia sul
pavimento.
“Jennifer,
avanti! Non puoi negare che potresti almeno provare con la fisioterapia” –
disse la donna – “Cosa ti costa?”
“Cosa
mi costa?” – sospirò – “Mi costa che se non dovessi tornare a camminare, mi
sarei solo illusa di averci provato” – rispose.
“Sis,
non puoi saperlo come andrà, provaci” – il fratello si beccò un’occhiataccia.
“Ormai
mi sto abituando a le cose messe ad una certa altezza, non me la faccio più
sotto, perché ho i muscoli per rimettermi sulla sedia velocemente, visto ci sto
provando” – disse e gli occhi della sorella si riempirono di lacrime. Sapeva
che non doveva essere facile per lei, dover sopportare tutto quel peso, e non
saper come gestirlo.
“Jennifer,
almeno parla con Jaime, con uno psicologo” - la guardò.
“Non
serve, mi sembra di aver già accettato la mia condizione” – sorrise.
“Stai
sfuggendo dal dolore” – disse il fratello.
“Oh
ti assicuro fratellino, che c’è molto dolore, a cui non sfuggo” – si allontanò,
il discorso era chiuso.
Altre
due settimane dopo
Erano
giorni che la donna non rispondeva al suo manager, alla cerchia dei suoi amici,
quei pochi che sapevano cosa le fosse successo. I fratelli si accertarono che
non le fosse successo niente di preoccupante.
Poi
quella mattina una chiamata, la donna rispose e si premunì di tenere un tono
basso di voce.
“Jennifer
siamo qui fuori, aprì! Ci sono anche Oliver e Hugo, vogliono vederti! E che vuoi
che ne dica non sono spaventati da te” – disse la donna all’altro capo. Così la
bionda percorse il tragitto in seria a rotelle e aprì la porta poco dopo.
“Zia”
– dissero i due bambini saettando verso di lei.
“Ragazzi
piano” – disse Josh, praticamente Hugo si era seduto sulle sue gambe e Oliver,
voleva spingerla.
“Gli
ometti” – Jennifer finalmente sorrise vedendo quelle due forze della natura.
“Hugo,
non fare male a Jen” – disse preoccupandosi la madre.
“Nessun
problema, non sento nulla” – trattenne un sorriso – “Accomodatevi”
Li
lasciò accomodarsi in salotto, e chiese loro se volessero qualcosa da bere, o
se potesse dare qualcosa per i bambini. Si mosse in sedia verso la cucina e i
due coniugi, notarono come la disposizione della casa fosse diversa, si
guardarono negli occhi e sorrisero.
“Dove
stai andando a fare la fisioterapia?” – chiese Josh aspettando che Jen
rispondesse. Non lo fece subito, si era allontanata di proposito, perché conoscendo
il suo manager, erano stati mandati proprio da lui. Ricordò tristemente quando
avevano lavorato insieme qualche anno prima, e scoppiò in un pianto silenzioso,
rimpiangendo quello che non avrebbe più avuto. Poi tirò un lungo sospiro, si
asciugò le lacrime, recuperò dei succhi di frutta in break e ritornò da loro.
“Ecco
qui, piccoli” – sorrise – “la cannuccia è fichissima” – ridacchiò.
“Jen?”
– Ginnifer la guardò con un mezzo sorriso.
“Non
ce la faccio Gin, non voglio farmi illusioni” – ammise – “Farebbe troppo male”
Un
mese dopo
Suonarono
alla porta, ma non lo sentì all’istante dato che si stava dilettando un po’ al
pianoforte. Quando sentì bussare, allora si decise a muoversi e percorse a
scorrimento veloce il corridoio, e aprì la porta. La persona davanti a lei era
ancora con un braccio alzato e la mano chiuse in un pugno, che colpiva il
legno.
“Che
cosa ci fai qui?” – era l’unica persona che davvero non si aspettava alla sua
porta.
“Ciao
Jennifer” – le sorrise con il suo modo genuino di farlo.
“Vieni
accomodati” – tirò indietro la sedia e la lasciò entrare. Si soffermò per
qualche minuto sulla su figura. Dio non era cambiata per niente, era bella come
sempre, forse anche di più.
“Ehi
i miei occhi sono qui” – disse per provare a richiamare l’attenzione sperando
di non essere stata inopportuna.
“È bello rivederti Lana” – sorrise incatenando gli occhi ai suoi, chiuse la porta di casa, l’altra sorrise di rimando.
Cosa
ne pensate di questo capitolo? La vostra curiosità è la
cosa che voglio più alimentare per la lettura di questa storia!
Fatemi sapere anche con una sola parola, la vostra opinione, anche le
critiche sono bene accette. Alla prossima xoxo Buonanotte Oncer